affinità bombarole

rinsaldato il patto atlantico

08 aprile, 2019

Xerxes a Modena


Al Pavarotti di Modena è andata in scena ieri la seconda recita del Serse di Händel, già collaudato a ReggioE. la scorsa settimana e in procinto di approdare a Piacenza la prossima e a Ravenna in futuro.

Queste 15 battute, che introducono l’arioso di Serse (Ombra mai fu...) sono con tutta probabilità - insieme alle 38 batture che seguono (appunto l’arioso) - fra le più conosciute di tutta la storia della musica. Ma la loro notorietà è pari soltanto alla totale ignoranza che il vasto pubblico ha dell’Opera in quanto tale, finita per due secoli nel dimenticatoio, dopo le rappresentazioni del 1738, ed ancor oggi di rara riproposizione.

Per di più, questo famoso ed orecchiabile brano viene suonato e cantato proprio all’inizio dell’Opera, col che fa l’effetto (scusate se scendo ai bassi livelli) di un’eiaculatio-precox (in latino suona meno volgare) dopo la quale seguono due ore e mezza di... noia.

No, effettivamente stavo un filino esagerando, e devo dire che i quasi 50 numeri che seguono (salvo tagli di prammatica) non sono certo da buttare alle ortiche: si tratta pur sempre di Händel, in fin dei conti! 

Il soggetto, tratto dal compositore da fonti non meglio precisate, anche se ipotizzabili, stanti alcuni precedenti lavori di compositori italiani del ‘6-‘700, è un risottone che non saprei se definire più ridicolo o deprimente. A leggere il titolo si sarebbe indotti a pensare ad un grande affresco storico, corredato da imprese guerresche, relazioni fra sovrani, atti di patriottismo (o di tradimento) e scenari consimili. E invece no, la trama tratta esclusivamente di complicati e contorti rapporti sentimentali fra due fratelli (Serse e Arsamene) e due sorelle (Romilda e Atalanta, figlie del comandante Ariodate) più una quinta incomoda (Amastre)... L’unico accenno a problematiche pubbliche riguarda un fantomatico ponte eretto a collegare Asia ed Europa, che però crolla miseramente sotto una tempesta (pare il Morandi, accidenti ai Benetton!) 

Lo schemino che segue sintetizza - semplificando al massimo - le relazioni sentimentali in essere; la tabella va letta entrando a sinistra sul personaggio e salendo in alto al personaggio relazionato: 


Serse
Arsamene
Romilda
Amastre
Atalanta
Serse


concupisce
promesso a

Arsamene


ama

concupito da
Romilda
concupita da
ama



Amastre
promessa a




Atalanta

concupisce




Le due coppie di celle colorate rappresentano la stabilizzazione finale dei rapporti interpersonali: come si nota, in questa particolare versione del gioco dei quattro-cantoni, è la povera Atalanta a restarci in mezzo, mentre quelle che si formano alla fine (Serse-Amastre e Arsamene-Romilda) sono le due coppie già di fatto destinate ad unirsi fin dall’inizio. In mezzo, la trama dell’opera presenta le azioni destabilizzanti di Serse e Atalanta e le mille peripezie - intrighi, falsi ideologici, calunnie, tentati suicidi e molte altre nefandezze, con qualche rara buona azione - che portano alla normalizzante conclusione. 
___ 
La struttura musicale completa comprende complessivamente 51 numeri (più l’Ouverture e due Sinfonie) così distribuiti nei tre atti ai sette personaggi e al coro:


aria
arietta
arioso
duetto
recitativo
coro
tot
tot
Serse
2-2-2
1-0-0
1-1-0
0-2-0
1-0-0

5-5-2
12
Romilda
1-3-1
2-0-0
1-0-0
0-1-1
0-1-0

4-5-2
11
Arsamene
2-2-1

0-1-0
0-0-1


2-3-2
7
Atalanta
2-3-0
0-0-1
0-1-0



2-4-1
7
Amastre
1-2-0
0-0-1
1-1-0
0-1-0


2-4-1
7
Elviro

1-2-0
0-1-0



1-3-0
4
Ariodate  
1-0-1





1-0-1
2
Coro





1-1-2
1-1-2
4
tot
9-12-5
4-2-2
3-5-0
0-2-1
1-1-0
1-1-2
18-23-10
51
tot
26
8
8
3
2
4
51


La colonna dal titolo recitativo riporta soltanto il numero di recitativi accompagnati. Ma l’opera include anche una gran massa di recitativi secchi: 14, 15 e 8 rispettivamente, nei tre atti.

Dalla tabella si deduce come Serse e Romilda siano i personaggi più ricchi complessivamente di numeri, mentre le singole arie sono più equamente distribuite anche ad Arsamene ed Atalanta (5, come Romilda, contro le 6 di Serse): quanto alla loro struttura, su 26 totali, in ben 21 (7-10-4) è presente il classico da-capo.

Le voci. In assenza dei castrati, che spopolavano ai tempi di Händel, già dall’800 (vedi le edizioni critiche di Friedrich Chrysander) i ruoli dei fratelli Serse e Arsamene furono assegnati a voci femminili (soprani e/o mezzosoprani) en-travesti. E così avviene anche in questa produzione.

Lo specialista Ottavio Dantone (che - more solito - ha anche smanettato al clavicembalo, dirigendo spesso con le... spalle) ha sforbiciato non poco, a cominciare da un certo numero di recitativi secchi; poi, non avendo in cast il coro, ha eliminato 3 dei 4 brani ad esso assegnati, per fortuna recuperando l’ultimo (e anche il più corposo, che oltretutto sigilla il lieto-fine) affidato assai intelligentemente alle 7 voci soliste. Quanto ad arie e consimili ha effettuato i seguenti sconti ai cantanti: nel primo atto la seconda strofa e la ripresa dell’aria di Serse Più che penso; nel secondo un breve arioso di Atalanta (A piangere ogn’ora); poi ha soppresso la seconda strofa e il conseguente da-capo dell’aria di Atalanta Dirà che non m’amò; quindi l’arioso di Arsamene (Per dar fine alla mia pena) e la successiva aria (con da-capo) Sì la voglio; infine l’aria con da-capo che chiude l’atto (Chi cede al furore, di Romilda); nel terz’atto la seconda strofa e il da-capo dell’aria di Serse (Per rendermi beato).

Ecco perchè le circa 2h50’ nette di un’esecuzione integrale qui si riducono a 2h40’ includendo anche i 20 minuti dell’intervallo, il che significa almeno mezz’ora di musica lasciata per strada. Ma tanto avevo cominciato col dire che, dopo l’Ombra era tutta una noia, giusto? Ovviamente no, scherzavo e devo dire che questi tagli sono sempre dolorosi, anche se (e proprio perchè) ciò che si è suonato, cantato e ascoltato merita largo apprezzamento e giustifica ampiamente (almeno per le mie tasche) il costo di ingresso e trasferta.

La durata ridotta dello spettacolo ha suggerito ovviamente di dividerlo in due anzichè in tre parti: così l’unico intervallo si ha a circa metà del second’atto, dopo l’aria di Romilda (É gelosia). Al termine del primo atto solo una breve sosta, più che altro per consentire ai bravissimi strumentisti dell’Accademia Bizantina di rimettere a punto l’accordatura degli archi (che su strumenti d’epoca è sempre problematica).

Fra le voci metto su tutti la bravissima Monica Piccinini, una convincente Romilda, e con lei l’autorevole Serse di Arianna Vendittelli e il fratellino Arsamene di Marina De Liso. Ma bene han fatto anche gli altri quattro: efficaci i due bassi Luigi De Donato (Ariodate) e Biagio Pizzuti (che come Elviro fa anche il buffo...); discrete l’Atalanta di Francesca Aspromonte e l’Amastre di Delphine Galou (cui alzerei il voto se lei alzasse di più la... voce!)
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Gabriele Vacis firma la regìa, coadiuvato da Roberto Tarasco per scene, costumi e luci, e dal suo aiuto Danilo Rubeca. Contrariamente ad altre opere di barocco-magico, qui nel Serse c’è poca o nulla azione e nessun mirabolante avvenimento, se si esclude il crollo del famigerato ponte, di cui si fatica a giustificare la presenza (e infatti in questa produzione è convenientemente cassato).

Per di più la ridotta presenza (qui poi annullata del tutto) di cori priva il regista del classico strumento utile a movimentare la scena. Così la regìa diventa un’impresa non da poco, e Vacis ricorre ad una soluzione di fatto semi-scenica: orchestra sollevata quasi al livello del proscenio, dove sono schierati i cantanti che - invece di entrare e uscire dalle quinte come si fa di solito in caso di rappresentazioni in forma concertante - restano lì in bella vista, ma accomodati quasi fossero nei loro camerini, davanti a toilettes e specchiere.

La mancanza di azione viene affrontata facendo intervenire, ad un livello assai più alto (almeno 2 metri) rispetto al palcoscenico, dei ragazzi figuranti che riempiono lo spazio con movimenti e spostamenti di oggetti più o meno (soprattutto meno, direi) relazionati con ciò che i protagonisti si stanno raccontando in musica. Di tanto in tanto lo schermo che separa i cantanti da ciò che li sovrasta serve a proiettarvi immagini suggestive, come quella del gigantesco platano che Vacis ha scovato a Torino e che pare abbia precisamente la stessa età del Serse! 

Insomma, trovate se non altro poco invasive e disturbanti per ravvivare la scena. I simpatici costumi e l’efficace l’impiego delle luci hanno contribuito a rendere più che godibile lo spettacolo, accolto alla fine dai convinti applausi del pubblico che affollava il Pavarotti in ogni ordine di posti.

06 aprile, 2019

laVerdi 18-19 - Concerto n°24


In sostituzione del programmato Oleg Caetani, il concerto di questa settimana è diretto dal redivivo John Axelrod. In locandina opere (relativamente) minori e di non frequentissima esecuzione, di Brahms e Shostakovich.

Due opere abbastanza (ma solo apparentemente) leggere, e non certo disimpegnate: per il 24enne Brahms si trattò - insieme con il coevo Concerto per pianoforte - del primo approccio con la grande orchestra e quindi con un mondo assai vicino a quello della sinfonia, cui approderà da ultra-quarantenne; per Shostakovich, di un delicato passaggio della sua vicenda artistica ed esistenziale, sempre in bilico fra altari e polvere.

Si apre quindi con la Serenata op.11 del 1857, arrivata alla piena orchestra dopo essere nata come musica da camera. È un Brahms ancora romantico, per quanto il suo romanticismo sia quasi esposto con pudore, senza slanci velleitari o languide sdolcinature: e già fa intravedere il futuro, fatto di rigore e razionalità, di musica che si alimenta soltanto di se stessa (non per nulla Brahms diventerà quasi un modello assoluto per l’esteta Eduard Hanslick...)

Sono tre quarti d’ora di musica gradevole, orecchiabile, che infonde sentimenti di pace e tranquillità, senza allo stesso tempo annoiare o... addormentare. L’Orchestra la affronta per la terza volta nella sua ormai lunga storia, e di certo questo Brahms giovanile dev’essere un ottimo trampolino di lancio per la prossima, più impegnativa avventura delle quattro sinfonie, che Robert Trevino dirigerà qui prossimamente in due serate che si prospettano del massimo interesse.

Auditorium piacevolmente affollato e pubblico assai caloroso nell’accoglienza a questo brano che meriterebbe più presenza nei palinsesti concertistici.
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Ed eccoci alla Sesta di Shostakovich, del 1939. Sinfonia dalle caratteristiche così eterodosse da lasciare tuttora perplessi i musicologi sulla sua intima natura e sul suo (criptico?) programma interno. Sinfonia acefala, si dice, comportando un ipertrofico Largo seguito da due brevi movimenti veloci, ergo mancante di un classico Allegro di apertura. O viceversa, secondo il modello dell’ultimo Mahler (del quale il Largo evoca l’Adagio-Andante della Decima) mancando di un nuovo Adagio finale, a chiudere il discorso.

Sinfonia che viene dopo la trionfale e trionfante Quinta (1937) un autentico autodafè del musicista, costrettovi per difendersi dalle accuse (1936) di tradimento degli ideali sovietici (con la sua Lady del 1934) e per evitare di finire all’altro mondo sotto i colpi di Zdanov&C.

Ma la Quinta, per quanto insincera (stando alle ammissioni fatte in privato dallo stesso compositore) è una grande sinfonia proprio sul piano della forma e dei contenuti, tutt’al più accusabile di anacronismo. Invece questa Sesta lascia interdetti sia per la forma che per i contenuti. Chi ne ha dato una spiegazione accattivante (più o meno condivisibile) è il grande Lenny Bernstein, che senza mezzi termini ne individuò come caratteristica fondamentale l’ipocrisia. Ipocrisia impiegata dall’Artista per sbugiardarne un’altra ben più grave e colpevole: quella di un regime dispotico e sanguinario che in nome del comunismo aveva appena stretto un patto scellerato con Hitler!

Sul fronte musicale, sempre secondo Bernstein, esiste un legame - nemmeno troppo criptico - fra il Largo della Sesta di Shostakovich e l’Adagio lamentoso che chiude un’altra e più famosa Sesta, la Patetica ciajkovskiana, entrambi incardinati nel cupo SI minore: si tratterebbe nei due casi di una dolorosa presa d’atto di condizioni di vita difficili, per non dire intollerabili. Ma a differenza di Ciajkovski, dove si distinguono e si alternano due temi, il primo lugubre e il secondo più elegiaco, che poi sfuma lentamente nelle tenebre, in Shostakovich abbiamo un continuo susseguirsi di spettrali melopee degli archi, interrotte sporadicamente, ora dall’ottavino nel registro acutissimo, ora dai clarinetti o dalle trombe con brevi segnali, ora dai due flauti soli e da un recitativo del clarinetto basso; tutto in un’atmosfera che evoca rassegnazione e totale assenza di prospettive.

Poi ecco che, come nulla fosse, si passa schizofrenicamente dal buio pesto dello sconforto ad una irresponsabile orgia sonora, uno Scherzo continuo (cioè senza Trio) che sembra evocare fallaci entusiasmi. E il Rondò finale rincara la dose, immergendoci in una specie di happening da discoteca, una vera ubriacatura di danze e ritmi, qualcosa che pare voler stordire l’ascoltatore, iniettandogli una droga che gli faccia dimenticare... ?             

E allora ascoltiamo la lettura che ne diede proprio Bernstein con i Wiener nel 1987. Per confronto ecco come l’interpretò nel 1965 Yevgeny Mravinski (grande amico del compositore, colui che aveva diretto la prima del ’39). E infine come l’ha interpretata di recente (2016) Paavo Järvi. La tabellina che segue riporta sinteticamente i tempi delle tre esecuzioni citate, insieme ad una teorica durata delle tre parti della sinfonia, dedotta dalle indicazioni metronomiche dell’Autore presenti in partitura: 

Shostakovich
movimento
Bernstein
Mravinsky
Järvi
17’ 10”
Largo
21’ 45”
15’ 00”
18’ 30”
7’ 40”
Allegro
8’ 00”
5’ 30”
6’ 05”
6’ 00”
Presto
7’ 30”
6’ 20”
6’ 30”
30’ 50”
sinfonia
37’ 15”
26’ 50”
31’ 05”
-
scostamento
+20,8%
-13,0%
+1,0%

Rispetto alle teoriche volontà dell’Autore: macroscopica la differenza di tempi (soprattutto nel Largo) di Bernstein; velocissimo (a parte il finale) Mravinsky e complessivamente in tempo Järvi. Qui in Auditorium a dirigere la Sinfonia è, guarda caso, un allievo del grande Lenny: Axelrod però ha (curiosamente) imitato il maestro nei due movimenti veloci (8’ e 7’) mentre è stato più rapido in quello lento (18’) totalizzando comunque 33’, quindi un approccio fra i più... tranquilli. (Chissà se invece Caetani avrebbe seguito le orme di Mravinsky... i ragazzi dell’Orchestra potrebbero saperne qualcosa, visto che con lui hanno inciso l’intero corpus sinfonico di Shostakovich.)

Va da sè che questi freddi numeri costituiscono poco più che curiosità, e non possono certo essere utilizzati per emettere condanne o innalzare monumenti. Rappresentando oltretutto solo uno (e magari non il più importante) elemento di valutazione di un’interpretazione, che va giudicata anche secondo le mille sfumature agogico/dinamiche che la caratterizzano: come sempre, sarà il gusto di ciascuno a decidere quale lettura privilegiare.  

E il folto pubblico di ieri sera pare proprio aver gradito, riservando a tutti un’accoglienza quasi trionfale, con ripetute chiamate e applausi, anche ritmati, per il Direttore.

01 aprile, 2019

La Manon italiana


Ieri sera al Piermarini è andata in scena la prima di Manon Lescaut, che Riccardo Chailly ci ha proposto nella stesura originale del 1893 (Torino). Fra altre di scarsa entità, le differenze principali rispetto alle versioni successive riguardano la chiusura dell’atto primo e - in misura minore - l’aria finale di Manon.

Sulla prima mi sono già dilungato nel precedente post e non posso che confermare - all’ascolto dal vivo - come Puccini (con Illica) avesse avuto mille buone ragioni per buttare nel cestino questo finale originario, rimpiazzandolo con quello che (attenzione!) mai più verrà rimesso in discussione. Ergo, si è proposta al pubblico una Skoda-ante-caduta-del-muro al posto di una venuta dopo. Evabbè, siamo in tempi di ristrettezze e austerità, che ci vogliamo fare...

La seconda novità riguarda Sola... perduta, abbandonata. L’aria fu da Puccini continuamente rimaneggiata, fin quasi sul letto di morte... (e nel 1909 addirittura cassata del tutto per essere subito ripristinata). Qui l’originale si differenzia dalla versione tradizionalmente eseguita per alcune ripetizioni di versi e battute al centro dell’aria e poi per un breve postludio strumentale, per dar tempo a Des Grieux di tornare da Manon dopo la sua infruttuosa esplorazione: credo che pochi riescano ad avvertire al volo queste differenze.

Insomma, tutta l’enfasi data a questa proposta filologica del Direttore mi pare un filino fuori luogo, e morta lì.
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A parte le sue discutibili iniziative, Chailly ha mostrato ancora una volta di padroneggiare come pochi questo Puccini sinfonico, che da buon seguace wagneriano impiega l’orchestra proprio come fosse un personaggio dell’opera. La sua è una direzione secca, nervosa, dove non si risparmiano esplosioni di fortissimo (come da partitura) affiancate da momenti (vedi ovviamente il second’atto) di raffinata e leziosa souplesse. E l’Orchestra ha risposto assai bene, impiegando al meglio la pucciniana tavolozza dei colori.

Sempre apprezzabile il Coro di Bruno Casoni, che ha una parte non proibitiva (ma in compenso si è dovuto studiare la caotica scena finale del primo atto).

Quanto alle voci, bene la Maria José Siri, voce corposa e dal timbro caldo e morbido anche negli acuti, cui fa difetto qualche decibel nei centri e gravi. Ma tutto sommato al soprano uruguagio va la palma del migliore-in-campo.  

Marcelo Álvarez è stato (per me) un più che discreto Des Grieux, salvo qualche incertezza iniziale, ma per il resto sfoggiando buona proiezione di voce e acuti squillanti. Fatico francamente a comprendere le contestazioni di cui è stato fatto segno alla fine.

Su livelli apprezzabili le prestazioni del Lescaut di Massimo Cavalletti e del Geronte di Carlo Lepore, che accomuno con il bravissimo Marco Ciaponi (Edmondo) in un elogio senza riserve.

Alla fine, tranne i buh un po’ troppo severi (secondo me) per Álvarez (e qualcuno isolato anche per il Direttore) applausi per tutti.
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Ma in fatto di buh, chi ne è stato subissato è David Pountney con il suo team di regìa (Leslie Travers alle scene, Marie-Jeanne Lecca ai costumi e Fabrice Kebour alle luci, più Denni Sayers per le coreografie, del second’atto, per lo più). Team già protagonista meno di un anno fa di una Francesca da Rimini non proprio esaltante.

Beh, devo dire che a me la messinscena non è per nulla dispiaciuta. Per spiegarci l’inafferrabile personalità di Manon il regista ce la mostra da subito (ben prima quindi del suo arrivo) abbigliata in modo pacchiano e sdraiata su un carretto americano (dove morirà quattro atti più tardi). Quindi impiega delle controfigure per evocare un’immagine di Manon tutta pudicizia e innocenza (abbigliamento da educanda): Des Grieux, al primo incontro, si rivolge ad una delle controfigure e lei sembra cantare (ma è la Siri ovviamente a farlo) Manon Lescaut mi chiamo... Insomma, da un lato la ragazzina innocente e timida, dall’altro una donna di (annacquo) non difficili costumi!

Ah, dimenticavo di premettere che l’ambientazione è nell’800 di Puccini (o pure prima) e quindi i mezzi di trasporto sono i treni, mica le carrozze: siamo alla stazione di Amiens e su uno di essi arrivano Lescaut, Geronte e la Manon-controfigura, e uno dei quali sequestrano per fuggire (!) i due amanti alla fine del primo atto.

Ma in un Orient-express è ambientato anche il second’atto, con un paio di vagoni adibiti a boudoir di Manon e a sala da ballo, dove la nostra eroina si mostra quasi nelle vesti di una maitresse di postriboli di lusso itineranti (ci sta?) Geronte da parte sua circola armato di macchina fotografica, forse per pubblicare le foto del suo locale su qualche sito... ehm, ci siamo capiti.

Treno abbinato (per far economie) a nave per il terz’atto: nei vagoncini Manon e prostitute assortite, che dopo l’appello salgono direttamente a bordo, dove saranno raggiunte dall’aspirante-popolatore-di-americhe Des Grieux.

La stazione ferroviaria di Amiens in fatiscente abbandono fa da sfondo nel quarto atto alla landa di New-Orleans (ma a quei tempi i Vanderbilt non stavano ricoprendo l’America di nuovissime tracks e stazioni?) Mentre Manon muore lentamente sul suo carretto (portato da Amiens!) ecco Edmondo aggirarsi con movenze irridenti e poi Geronte passarle accanto con l’inseparabile macchina fotografica. Non so se il pubblico abbia buato Pountney anche per questo, ma direi che il richiamo qui è pertinente, visto che nella sua aria Manon (magari un po’ cripticamente) accenna a qualche brutto affare in cui si deve essere cacciata anche oltreoceano...

Per farla breve, un’idea registica non peggiore di molte altre che si vedono in giro, Scala compresa. Ma al povero Pountney, oltre ai buh, è pure toccato - all’uscita da solo con il suo team - di finire, fino al collo, nella trappola della buca del suggeritore... così impara (!)

29 marzo, 2019

laVerdi 18-19 - Concerto n°23


Riecco sul podio il Direttore musicale per dirigere un concertone di quelli davvero tosti, con due opere che sono scolpite nella storia della musica dell’800. Di autori che, al di là della loro volontà, furono eletti a rappresentanti di avverse fazioni: pro e contro Wagner!

Dapprima ecco il Concerto per violino di Brahms, che ci viene proposto dalla bella Liza Ferschtman, presentatasi con un lungo nero imbrillantato e dotato di profonda scollatura sul... retro. Ottimamente supportata da Flor e dall’Orchestra, ha sciorinato una prestazione maiuscola, riuscendo a dar calore a questo Brahms fin troppo... nordico.

Da ricordare l’Adagio, dove l’oboe (ieri il bravissimo Luca Stocco) ruba per un po’ la scena al violino solista, quindi dialogando mirabilmente con lui (-lei).

Prestazione salutata da convinti applausi del non oceanico pubblico dell’Auditorium. Applausi ricambiati da questo bis di Ysaÿe.
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La seconda parte del programma è occupata dalla Romantica di Bruckner. Sinfonia, come parecchie altre della produzione dell’organista di SanktFlorian, dalla storia tormentata e costellata da continue, a volte pesanti revisioni e rielaborazioni che coprirono circa 15 anni, dal 1874 (nascita della prima versione) al 1889 quando Gutmann ne stampò l’ultima. In mezzo quella del 1878 (con il cosiddetto finale Volksfest) e quella del 1878-80, con i nuovi due movimenti rifatti (Scherzo e Finale). Ma altre revisioni sono state censite dai musicologi. Alcuni di questi (Wöss, Haas, Nowak e Redlich nel ‘900, e Korstved nei primi anni 2000) si sono cimentati nella produzione e pubblicazione di edizioni critiche della sinfonia. Da allora le versioni del 1878-80 e l’ultima si contendono il primato delle esecuzioni, con recente prevalenza della prima, adottata anche oggi da Flor. Per un commento un po’ più dettagliato rimando a questo post scritto in occasione di un’esecuzione (che non mi aveva impressionato, devo dire) de laVerdi del 2010. 

Per chi volesse dedicare tempo ad ascolti comparati segnalo le seguenti esecuzioni fra quelle disponibili su youtube
  

Nella seguente tabella ho riassunto, per ciascuna delle quattro, dati quantitativi di tempo di esecuzione (dei riferimenti proposti) e numero di battute dei singoli movimenti (per gli Scherzi sono le battute effettivamente eseguite, inclusi quindi i ritornelli):


Intanto si può superficialmente notare come, con il passare degli anni e delle revisioni, il numero di battute totale della sinfonia e, parallelamente, il tempo di esecuzione (pur tenendo conto dell’approccio interpretativo dei diversi Direttori) sia costantemente diminuito. Segno abbastanza evidente di un processo di sottrazione e di volontà di prosciugare l’opera da pleonasmi e inutili divagazioni. Ma mentre per i primi due tempi si è trattato di interventi (del 1878, confermati nell’ultima versione) che non hanno seriamente modificato la struttura tematica, lo Scherzo e il Finale sono stati abbastanza pesantemente rinnovati nel 1878-80 e poi semplicemente accorciati e/o leggermente riorchestrati nel 1888-89.

Lo Scherzo, al di là della drastica riduzione (fino al 40%!) delle battute, ha subito nel 1878 (con l’edizione denominata Jagd, caccia, ispirata al Tristan e con il leggiadro Trio) un drastico quanto benefico rifacimento. Francamente quel richiamo del corno ripetuto fino alla nausea, e il Trio piuttosto anonimo erano davvero poco edificanti. La versione ultima lo accorcia nella ripresa dello Scherzo.

Quanto al Finale, l’originaria ciclicità determinata dalla reiterata riproposizione del tema di apertura della sinfonia aveva un che di stucchevole. Già la Volksfest - dando più risalto al tema elegiaco - ha migliorato le cose, e poi la nuova stesura del 1880 ha dato il volto nuovo e nobilissimo alla chiusa dell’opera, relegando il ritorno del tema d’apertura solo a due fugaci comparse nel corpo del finale e poi (ma solo nell’edizione di Nowak) alla riproposta proprio nelle ultimissime battute.

Sappiamo che i detrattori di Bruckner (la cerchia di amici anti-wagneriani e simpatizzanti di Brahms, capeggiati da Eduard Hanslick) ascoltando la Terza Sinfonia vi trovarono ragioni per irriderla, nientemeno bollandola come ciarpame... Ecco, figuriamoci come avrebbero accolto la Quarta del 1874, invero macchinosa, prolissa e tematicamente povera (almeno nei due tempi finali) se mai fosse stata eseguita a quel tempo!
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Chi ha disertato ieri l’Auditorium si è davvero perso una cosa grande; chè tale è stata la prestazione di Flor: impeccabile e quasi maniacale la sua aderenza alla lettera e allo spirito dell’opera, sfrondata da ogni facile enfasi e retorica; e dell’intera orchestra (schierata con i violini secondi al proscenio) che ha sciorinato un’ammirevole compattezza e bellezza di suono in tutte le sezioni (alla fine Flor ha fatto alzare separatamente le viole, protagoniste dell’Andante e non solo, e i quattro moschettieri ai corni).

Chi invece era in sala ha accolto l’esecuzione con grande calore, dispensando applausi a tutti e a ciascuno. Queste sono serate che fanno bene alla salute!