Concerto di quelli davvero tosti questa settimana, diretto Antonello Allemandi. Auditorium però con parecchi vuoti: forse l'accoppiata Schumann-Bruckner incute più timore che interesse, chissà.
E purtroppo devo dire che stavolta gli assenti non hanno avuto del tutto torto. Forse Allemandi – direttore squisitamente operistico – non ha con queste partiture la necessaria dimestichezza e consuetudine, o ha avuto poco tempo per provare e metterle meglio a fuoco e a punto, fatto sta che la prestazione complessiva non mi è parsa delle migliori.
Si comincia con la Primavera di Schumann, una sinfonia francamente un po' sacrificata in questo ruolo di apripista; per di più, niente ritornelli, per non appesantire troppo la serata, come già Allemandi aveva anticipato in un'intervista al Corriere. Quindi – a maggior ragione – rischia di diventare un'opera di quelle che Bruckner (che sentiremo subito dopo) chiamava sinfoniette. In realtà a me è parsa diventare piuttosto una sinfoniotta, greve ed appesantita da sonorità bandistiche, con enfasi sparsa a dosi eccessive. Le sinfonie di Schumann, come quelle di Bruckner, hanno tratti di teatralità, verissimo, ma non sono il Trovatore, né Cavalleria rusticana!
Da Schumann a Bruckner si procede nel tempo di una trentina d'anni, ma si fa un gran salto all'indietro – fino a Beethoven, come minimo - quanto a rispetto e conservazione delle forme classiche. Per Bruckner – organista per anni e anni a Sankt Florian! - la Sinfonia è una cattedrale, con tanto di colonne e pilastri portanti (i diversi temi) che sostengono campate, navate, absidi e cupole. Naturalmente vi si trovano poi vetrate policrome, affreschi e miniature in quantità. Questa aderenza quasi patologica alle forme tradizionali (qualcuno la considera un effetto dei tanti complessi che affliggevano il nostro, come la comptomania) non servì peraltro a Bruckner per guadagnarsi la stima dell'esteta musicale Eduard Hanslick che, parafrasando le celestiali lungaggini con cui Schumann aveva glorificato la Grande di Schubert, gratificava le sinfonie di Bruckner dell'epiteto di interminabili lamentazioni. Incolpandone (tanto per prender comodamente due piccioni con una fava) quello che secondo lui era lo sbifido virus wagneriano, da cui Bruckner era stato (e questo è poco, ma sicuro) contagiato.
Una caratteristica curiosa della Quarta, dal punto di vista della sua concezione, è proprio di essere assolutamente ligia ai sacri canoni della forma sinfonica, essendo allo stesso tempo un'opera con una precisa ispirazione extramusicale (il medievale mondo cavalleresco, di cui il naïf Bruckner vorrebbe dipingerci qualche spaccato di vita). Tanto da recare il titolo, proprio appostovi dall'Autore, di romantica, dal che ci si sarebbe dovuti casomai aspettare una struttura assai libera e quindi vicina al poema sinfonico.
Ma la Quarta, oltre che la più famosa, è anche la sinfonia più controversa di Bruckner. Un Direttore che la voglia – o debba – presentare, ha già in partenza da risolvere un problemino da nulla: quale delle 7 (in lettere: sette, di cui 5 pubblicate) diverse versioni eseguire? O magari provare a inventarsene un'ottava, assemblando come si fa con un meccano i vari spezzoni esistenti? Neanche il Boris Godunov (smile!) è così complicato! Gli esperti e i critici nemmeno riescono a mettersi d'accordo fra loro su quali versioni (o singole parti) della sinfonia si debbano considerare autografe o quali apocrife, cioè farina originale del sacco di Bruckner, o frutto di interventi più o meno plausibili o strampalati, autorizzati o proditori, dei vari Löwe e Franz&Joseph Schalk. Non solo, ma non c'è nemmeno concordia sul come giudicare l'atteggiamento dell'Autore: chi dice fosse letteralmente alla mercè dei suoi allievi-sedicenti-servitori, e quindi si bevesse qualunque loro scempiaggine, e chi invece assicura che il nostro, un poveruomo ingenuo e credulone fino al ridicolo riguardo tutti gli aspetti dell'umana esistenza, fosse però testardo e irremovibile quando si trattava di approvare o meno degli interventi sulle sue partiture.
Il risultato è che uno stesso documento – manoscritto con correzioni, o partitura stampata e poi emendata – viene considerato da una corrente di pensiero come autentico, o approvato dall'Autore, dall'altra come indebita e truffaldina manipolazione perpetrata dalla solita cricca Löwe-Schalk. E questo spiega perché fra gli editori critici sono più le picche-e-ripicche che non le convergenze di vedute. Chi voglia addentrarsi in questo ginepraio può cominciare da wikipedia, che riporta un quadro sinottico delle varie versioni, e cita buona parte della prefazione di Hans-Ferdinand Redlich, penultimo editore critico della sinfonia, alla partitura Eulenburg del 1955. In quest'ultima versione (1887-1888) edita originariamente da Gutmann nel 1889 (poi da Redlich e ultimamente da Korstved nel 2004) la sinfonia è stata quasi esclusivamente eseguita fin verso la metà del secolo scorso. Poi le si affiancarono, prendendo il sopravvento, le edizioni di Robert Haas (epoca nazista, 1936-44) e Leopold Nowak (1953) basate sulla versione del 1878-1881, quella che Hans Richter diresse alla prima di Vienna, con i piccoli ritocchi apportativi subito dopo.
Ed è proprio la versione Nowak quella che viene eseguita qui (la locandina-manifesto e il sito dell'orchestra citano sbrigativamente solo l'anno 1878, il che potrebbe far pensare alla versione con il finale Volksfest e con lo scherzo del 1874, roba fuori dal mondo… per fortuna il programma di sala rimette le cose a posto). Questa versione differisce da quella di Gutmann-Redlich per molti ritocchi all'orchestrazione e per non presentare alcuni importanti tagli allo Scherzo e al Finale (quindi è la versione di durata più lunga).
Nel primo movimento (la cui dinamica è Ruhig bewegt, curiosa davvero, poiché sarebbe da tradurre tranquillamente mosso!) dopo il richiamo del corno solo sul tremolo degli archi (ripreso poi dagli strumentini) che dà la sveglia al borgo, arriva il tema principale, in MIb, che poi modula fino al FA, volendo rappresentarci i cavalieri medievali che escono pomposamente dal merlato castello per addentrarsi nei boschi circostanti:
Guarda caso, un tema ripreso anni fa nella colonna sonora di Guerre stellari. Vi si noterà il classico stilema 2+3 (a volte, specularmente, 3+2) che Bruckner usava come fanno i cani con le loro pisciatine, per delimitare il proprio territorio di influenza.
Siamo evidentemente in qualche bosco dell'Alta-Austria, poiché un nuovo tema è da Bruckner esplicitamente associato alla cinciallegra Zizi-Be, che sulle fronde di lassù simpaticamente cinguetta così:
Evidente qui il riferimento a personaggi ornitologici che popolano un movimento di una famosa Pastorale…
L'Andante è di carattere piuttosto dimesso, un misto di cantilena e di preghiera, con un ritmo da pellegrino sulla via francigena, scandito dal pizzicato degli archi; anche se – conformemente agli stilemi di Bruckner – non vi mancano un paio di squarci di quiete e anche di crescendo, l'ultimo dei quali poderoso, dove sembra persino far capolino il wagneriano, severo tema del Patto, proprio verso la conclusione del movimento.
Il tema dello scherzo (La caccia, riscritto completamente nel dicembre 1878) ricorda da vicino i corni che udiamo all'inizio del second'atto del Tristan:
Qui, oltre ai corni, anche gli altri ottoni sono sottoposti ad un forsennato tour-de-force, solo brevemente interrotto dal secondo soggetto esposto dagli archi. Il breve Trio rappresenterebbe, stando a Bruckner, la pausa-mensa dei cavalieri-cacciatori!
Il Finale – quello scritto da Bruckner al terzo tentativo – si apre con un altro richiamo di corno e clarinetto, poi tornano le terzine dello scherzo e il tema chiude con la possente riproposizione dell'intervallo di quinta (SIb-MIb) dei corni, dove compare anche un colpo di piatti (più un intervento dell'ottavino) che tutti gli editori critici considerano spurio (come quello dell'adagio della settima) ma che (quasi) tutti i direttori pervicacemente insistono ad eseguire. Segue una transizione in DO minore (ah, i sacri canoni!) che tosto lascia spazio al secondo corpo tematico che chiude l'esposizione. Si passa poi allo sviluppo (sempre tutto in forma sonata!) Arriva poi la lunga ricapitolazione (vittima di interventi e tagli nell'ultima versione del 1890) fino alla solenne chiusa col gigantesco crescendo cromatico di tromboni e tuba che sfocia nel MIb dell'intera orchestra.
Orbene, il fracasso non è certo mancato, ma da solo non basta; così come la pesantezza e l'enfasi (i 24 minuti di durata del Finale ne sono chiaro indizio). In compenso, la cinciallegra è parsa piuttosto una quaglia, e la caccia un colossale happening alla easy-rider. Qualche crepa anche nella coesione all'interno e fra le diverse sezioni dell'orchestra. Insomma, a me è rimasto un pochino di amaro in bocca.
Per il prossimo appuntamento si torna in Russia, con antipasto italiano.
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