affinità bombarole

rinsaldato il patto atlantico

06 agosto, 2017

ROF-XXXVIII. Torna Le Siège


Dopo 17 anni fa la sua ricomparsa al ROF una delle opere più interessanti di Rossini. Interessante soprattutto perchè è la prima vera opera (per carità, non intendo con ciò squalificare Il Viaggio a Reims...) predisposta dal Gioachino (1826) appositamente per il teatro francese, quindi con struttura (3 e non 2 atti) lingua (francese e non italiano) e contenuti (tenore al posto del contralto en-travesti, balletti, ambientazione geo-storica) confacenti a gusti, tradizione e attualità politica di quel mercato.

Dico predisposta, e non composta, dacchè sappiamo come essa fu in realtà un rimaneggiamento, peraltro sostanzioso, del Maometto II di origine napoletana (1820) poi già emigrato a Venezia (1822-23) previo opportunistico - e geopolitico! - travestimento, consistente nel disinvolto ribaltamento del finale tragico in uno strampalato lieto-fine (Tancredi a rovescio, per dire...) preso di peso a prestito dalla Donna del Lago

Il ritorno dell’opera in patria (L’assedio di Corinto) avvenne poi con la traduzione in italiano del libretto francese, opera del solito Calisto Bassi, preceduta però da un’altra (diversa, attribuita vuoi allo stesso Bassi o ad anonimo) impiegata per la prima esecuzione (in forma di concerto) in Italia, giovedi 27 dicembre del 1827 a Roma:


Fu un ritorno costellato da una lunga serie di manomissioni, prima fra tutte il ripristino sempre più frequente del contralto en-travesti per il ruolo di Neocle (che però nella citata prima esecuzione italiana del 1827 fu ancora interpretato da un tenore, Pietro Angelini, come pure alla Scala, da Gioachino Musatti nel 1828 e da Atanasio Pozzolini nel 1853...) Nella seconda metà del ‘900 la versione italiana fu poi inquinata, oltre che dalla standardizzazione del ruolo di Neocle al contralto, dal ripescaggio di parti del Maometto omesse da Rossini nel Siège. Tutto ciò finì per nuocere gravemente alla salute dell’opera. (Come scrisse il compianto Gossett, che su Rossini la sapeva lunga più di chiunque altro: a guadagnarci furono solo alcune cantanti che ci costruirono la carriera, a perderci fu... il povero Rossini). 
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Il Maometto si giovò del testo di un gran letterato (Cesare Della Valle, Duca di Ventignano) che vi condensò quello di una sua tragedia in 5 atti (Anna Erizo): siamo nel 1470 a Negroponte, nome dato dagli occupanti veneziani alla lunga isola, nota come Eubea, che corre da nord-ovest a sud-est, a nord di Atene, parallelamente al continente dal quale è separata da un istmo assai stretto (50m, località Calcide) dove Maometto II sta per piegare la resistenza dei difensori veneziani. È quindi uno sfondo storico, ma la tragedia del Della Valle (e quindi il libretto e quindi l’opera rossiniana) più che su di esso si focalizza sul dramma della vicenda personale (nulla di storico qui, ma un’invenzione bella e buona!) dei protagonisti: il condottiero musulmano e Anna, figlia del Provveditore (bailo) veneziano Paolo Erisso. Che si sarebbero incontrati tempo addietro a Corinto (dove storicamente mai risulta essersi trattenuto l’Erisso) e colà innamoratisi (lui spacciandosi per Uberto, plenipotenziario veneziano a Mitilene-Lesbo). Maometto per amore è disposto ad elevare Anna al ruolo di moglie e Regina. Ma lei, fedele agli ideali patriottici del padre e del suo innamorato veneziano (Alvise) Calbo, contralto en-travesti, piuttosto che cedere a colui che amava (ma si è poi rivelato come il nemico più pericoloso) si trafigge con un pugnale, per dare al tiranno musulmano un esempio del valore degli italiani (e di tutta la civiltà occidentale, aggiungo io) che gli renderanno la vita difficile quando cercherà di conquistarli all’Islam.

Su Anna Erizzo, la cui stessa esistenza mai è stata storicamente provata, si sono in compenso scritte tragedie a profusione; fra le quali una (farsesca, tipo... Aretino) davvero strepitosa, opera dell’abate (!?) Angelo Maria Barbaro (1773) in cui la bella Anna si trasforma in novella Giuditta ed eroicamente taglia di netto il capo pisello di Mehemed! (Poi i suoi cari vengono semplicemente segati e/o impalati e lei stessa, con annessa segretaria, arsa viva...)

È interessante qui notare qualche differenza non insignificante fra il contenuto della tragedia del Della Valle e quello del libretto (che peraltro da quella riprende proprio di peso interi passaggi). Differenza che riguarda in particolare alcuni dettagli relativi alle circostanze dell’incontro fra Maometto (sedicente Uberto) e Anna a Corinto. Nella tragedia vengono presentati alcuni dettagli che nel libretto furono invece cassati: Erisso, prevedendo l’attacco turco a Corinto, si reca a Venezia per chiedere oro e risorse per la difesa della città, in cui lascia la moglie inferma e la figlia Anna. La quale racconta poi tutti i particolari del suo incontro con il sedicente Uberto: un bel giorno la dimora sua e di sua madre venne avvolta dalle fiamme e le due donne furono miracolosamente salvate da due individui, uno dei quali (il sedicente Uberto) manifestò poi simpatia e amore per Anna; sentimenti che svanirono di colpo, insieme alla persona che li manifestava, nel momento stesso in cui lei gli comunicò l’imminente ritorno del padre (!) Anna confessa di aver pianto questa perdita per un lustro e mezzo mentre Maometto confesserà di aver rivisto Anna dopo quasi due lustri (10 anni).

Ciò ci porta a ipotizzare che – nella tragedia del Della Valle - l’episodio incriminato sia da collocare temporalmente proprio durante l’assedio (e l’incendio) di Corinto, quindi nel 1459. Qui peraltro nasce una chiara contraddizione, poichè Maometto ha confidato di aver visitato Corinto (e Argo e Negroponte) su ordine del padre, che però morì nel 1451 (anno del re-insediamento di Maometto a sultano): ergo Maometto doveva essere a Corinto in missione ben prima del 1451, e non già ai tempi dell’assedio, da lui stesso posto alla città nel 1459! Per di più, è davvero inverosimile che il sultano in persona fosse in giro per Corinto incendiata e per caso gli capitasse di salvare una donna cristiana!

Il libretto è invece assai più vago: Anna confessa il suo innamoramento ai tempi di Corinto, quando il padre la lasciò per recarsi a Venezia, ma nulla riconduce nel suo racconto all’imminenza dell’assedio; non solo, ma lei non rivela per nulla le circostanze precise dell’incontro (incendio e salvataggio da parte del finto Uberto) gettando quindi sul suo amante il sospetto di essere null'altro che un volgare millantatore ed approfittatore.

Va ora ricordato un piccolo ma significativo particolare: Rossini modificò d’autorità il testo del Della Valle, che chiudeva l’opera con un riferimento, per così dire, politico: alla concisa, poetica e patriottica esternazione di Anna sostituì una prosaica e privata rivelazione (di fatto più vicina al finale della tragedia d’origine) che Maometto e gli astanti commentano con melodrammatiche quanto banali esclamazioni di circostanza:

Maometto II
Cesare Della Valle

ANNA (appoggiandosi al sepolcro della madre)
E tu che Italia… conquistar… presumi…
impara or tu… da un’itala donzella
che ancora degli eroi la patria è quella.
(cade morta appiè del sepolcro.)

Rossini

ANNA
Sul cenere materno
io porsi a lui la mano,
il cenere materno
abbia il mio sangue ancor!

MAOMETTO e CORO
T’arresta, che istante orribile!
Oh giorno di dolor!
Già muore, oh Dio, la misera;
oh giorno di dolor!

Quando, nel 1826, Rossini si sentì praticamente obbligato a presentare al pubblico francese un’opera dai caratteri locali, era in pieno svolgimento la guerra di liberazione greca dai musulmani, che porterà - di lì a tre anni - al definitivo riconoscimento dell’indipendenza della Grecia dall’Impero ottomano, e a Parigi i progressisti e liberali, ma anche artisti di avanguardia, ne facevano una bandiera, strumentalizzandola contro le posizioni reazionarie del governo borbone, tanto che, pochi mesi prima della creazione del Siège, Rossini aveva diretto le prove di un concerto in appoggio ai ribelli greci, che aveva avuto enorme risonanza.

Quale che sia stato il peso della politica sulla scelta del titolo della prima opera autenticamente francese di Rossini, è innegabile che il soggetto del Maometto napoletano potesse essere sfruttato a fini, come dire, pubblicitari, e così ecco che con qualche ritocco di ambientazione, il Maometto, messo sotto i ferri dei librettisti Luigi Balocchi (quello del Viaggio) e Alexandre Soumet, si trasformò nel Siège. Qui, a fronteggiare gli sbifidi musulmani, al posto dei veneziani, sono i patrioti greci e il teatro dell’azione è Corinto (oggi nota per il famoso istmo) che si trova ad ovest di Atene; e il periodo è di 11 anni anticipato (1459) rispetto alla presa di Negroponte, teatro del Maometto napoletano.



Maometto II è sempre lui (in gallico: Mahomet), solo un po’ più giovane, e la co-protagonista prende il nome di Pamira, figlia del capo dei greci (Cléomène) di cui Mahomet si è invaghito tempo addietro incontrandola ad Atene, sotto le mentite spoglie di Almanzor. Il suo amante greco è Néoclès (il Calbo veneziano, ma ora tenore). Pamira, dopo aver ceduto, pur intimamente combattuta e maledetta dal padre, alle profferte del capo musulmano, si pente e alla fine si suicida, mentre i suoi compatrioti, fra l’esultanza barbara dei turchi, danno alle fiamme la cittadella pur di non cadere in schiavitù.

Un aspetto importante è che, anche qui nel Siége come nel Maometto, Rossini decide di alterare sensibilmente il testo del finale dell’opera. Che prevede la massima concisione della chiusa - un semplice quanto disperato O patria! dei greci, dove il suicidio di Pamira nemmeno è esplicitamente mostrato, per lasciare la scena all’evocazione dell’orrenda carneficina - a sostituire l‘esternazione della protagonista e delle sue donne, il suo suicidio e la disperazione di Mahomet, contrappuntata dall’esultanza dei musulmani:

Le Siège de Corinthe
Luigi Balocchi e Alexandre Soumet

MAHOMET
Que Pamira soit ma conquête!
Qu’on la saisisse! Allez!…

PAMIRA
Arrête,
Ou ce poignard perce mon sein.

MAHOMET (avec effroi)
Pamira!..
  







Ciel! quelle tempête,
Autour de nous, mugit soudain.
(On entend éclater l’incendie; le mur s’écroule.)






CHOEUR DE GRECS
O Patrie!

PAMIRA
(On voit Corinthe embrasée.)
Entends le chant de notre fête;
Vois le flambeaux de notre hymen.

Ensemble
ISMENE, CHOER de FEMMES
Chantons, chantons l’hymne au courage!
Un Dieu nous voit du haut des cieux;
Pour fuir les fers de l’esclavage,
Corinthe expire dans les feux.

PAMIRA
Chantons, chantons l’hymne au courage!
Un Dieu nous voit du haut des cieux;
Pour fuir les fers de l’esclavage,
Ce fer sacré reste à mes voeux.
(Elle se frappe.)

MAHOMET
Cruel délire! aveugle rage!
Nuit sanglante! dèsastre affreux!
Pour fuir les fers de l’esclavage,
Corinthe expire dans les feux.

CHOEUR DE MUSULMANS
Heureux délire! ô douce image!
Corinthe expire dans les feux.
Tous ces malheurs sont notre ouvrage,
le sort enfin comble nos voeux.
(La toile tombe.)
Rossini

MAHOMET
Que Pamira soit ma conquête!
Qu’on la saisisse! Allez!…

PAMIRA
Arrête,
Ou ce poignard perce mon sein.

MAHOMET
Pamira!..
(On entend un bruit sourd. Des flammes se font jour à travers les murs qui s’ébranlent et s’écroulent au fond. Les soldats dans le plus grand trouble gagnent la droite du public; et sur les mots:)

MAHOMET, CHOEUR DE TURCS
Ciel! quelle tempête,
Autour de nous, mugit soudain.
(Tout le fond s’écroule et laisse voir l’embrasement de Corinthe. A travers les flammes et les décombres on voit les musulmans poursuivre les Grecs et les égorger avec rage. Les femmes se jettent à genoux.)

CHOEUR DE GRECS (dans le lointain)
O Patrie!
(Tout le théâtre est en feu! Le rideau baisse sur cet horrible tableau.)

Ecco, mentre a Napoli Rossini spostava l’enfasi dal politico al privato, a Parigi fece praticamente il contrario, così accontentando il vasto pubblico impegnato della capitale francese.

Per la verità al patriottismo dei greci, assai enfatizzato rispetto all’opera napoletana (si pensi solo alla struggente benedizione dei vessilli da parte di Hiéros) si contrappone sì la barbarie musulmana (però... cosa non è quell’Hymne!) ma non quella del sultano, la cui figura viene ulteriormente nobilitata (per così dire) rispetto a quella del Maometto napoletano, che già aveva marcati tratti di magnanimità e sensibilità agli affetti e al sentimento. Qui il sultano addirittura ordina ai suoi rozzi e sanguinari soldati, che vorrebbero devastare ogni cosa (e che alla fine esulteranno per l’incendio appiccato dagli stessi greci alla cittadella) di risparmiare tutte le opere pubbliche e i monumenti d’arte di Corinto, perchè tramandino ai posteri la sua gloria e la sua grandezza!
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Il libretto francese dovette ovviamente passare al vaglio della censura: due revisioni letterarie e poi il nulla-osta del segretario del Ministro dell’Interno. I due revisori usarono frasi di questo genere:

- non si è mai visto un soggetto dalla concezione più falsa e dall’intrigo più miserabile;
- che l’uomo più celebre dell’universo abbia potuto intrattenere un legame amoroso sotto mentite spoglie, è cosa che più incredibile non si può;
- che possa essere sbocciato un amore fra un musulmano e una cristiana virtuosa è cosa spiegabile soltanto con l'eccessiva libertà che in Italia si concede a librettisti e drammaturghi;
- il matrimonio in-extremis fra Pamira e Néoclès (che lei non ama!) è una ridicola scimmiottatura di quello di Tancredi (che almeno era amato...)

Tuttavia i revisori si dichiararono onorati di suggerire l’autorizzazione alla messinscena. Quanto al segretario del Ministro, si limitò a citare quattro versi pericolosi: chiedendo, come condizione per l’OK, di eliminare i riferimenti alla LibertéPasseranno pochi anni prima che (nel Tell) la libertà venga tollerata. Nel 1875 Bizet potrà farla gridare a squarciagola ai suoi briganti spagnoli.
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A mo’ di cazzeggio, vediamo invece cosa comporta questo sdoppiamento rossiniano dell'esistenza maomettana: provando a correlare le vicende dei due libretti (esclusa quindi la tragedia Anna Erizo, di cui abbiamo già osservato alcune incongruenze); facendo attenzione alle date (anche quelle storicamente accertate della vita del sultano) e muovendoci in sequenza cronologica.

Nel Maometto napoletano il sultano confida di aver visitato – in veste di inviato-spia di suo padre nel campo nemico – Argo, Negroponte e Corinto. Essendo lui (nato nel 1432) divenuto definitivamente sultano alla morte del padre nel 1451 (quindi a 19 anni) ne consegue che al tempo di quelle missioni esplorative doveva avere al massimo 17-18 anni. Orbene, a Corinto lui incontra (presentandosi come Uberto) Anna e se ne innamora, ricambiato. Subito dopo, o subito prima (apprendiamo dal Siège parigino, dove si limita a dire di aver percorso la Grecia sotto il nome di Almanzor) Mahomet incontra ad Atene Pamira, di cui si innamora, ricambiato.

A questo punto (1451) lui (ri)diventa sultano e comincia la sua inarrestabile carriera di conquistatore (Fātih): nel 1453 espugna Costantinopoli, poi arriva a Corinto (1459, a 27 anni) e qui (Siége) ritrova Pamira, cui conferma il suo amore (scoppiato almeno 10 anni prima) ma ottenendone un rifiuto ed essendo testimone dell’eroica fine di lei, suicida.

11 anni dopo, nel 1470 (quindi a 38 anni) Maometto assedia Negroponte e (stando al testo del Maometto II) vi ritrova Anna (che non può certo essere una giovincella, a questo punto...) cui conferma il suo amore (scoppiato almeno 20 anni prima!) ma ottenendone un rifiuto ed essendo testimone dell’eroica fine di lei, suicida proprio come Pamira!

Insomma, nel microcosmo rossiniano il sultano fa proprio la figura del conquistatore... di femmine; anzi, in stretta osservanza della poligamia islamica, lui ne conquista un paio quasi contemporaneamente. Poi però, quando le ritrova a distanza di anni e anni e si rivela loro come il conquistatore del mondo intero, ecco che le due donne (pur verosimilmente... ehm... mature se non proprio appassite) lo respingono con disprezzo e, pur di non concedersi, si suicidano (!)

Che dire? Diamo ragione ai censori parigini? Potenza dei libretti d’opera!!!
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E la musica? Sempre per restare sul piano delle curiosità, parliamo di imprestiti e auto-imprestiti da opere sue o di altri, a cui Rossini non si sottrasse nemmeno per il Siège, dove ovviamente la parte del leone la fa Maometto II, per evidenti ragioni. Ma non mancano catene di imprestiti, come il tema che compare nell’Ouverture subito dopo le 28 battute introduttive (a loro volta mutuate da Bianca&Falliero): si tratta della Marche lugubre grecque, che Rossini fu accusato di aver copiato di peso dalla Marcia religiosa dall’oratorio scenico Atalia di Johann Simon Mayr, che lui conosceva bene per averlo diretto a Napoli nel 1822. In realtà quel tema non è nemmeno di Mayr, ma è preso quasi alla lettera (da Mayr prima e da Rossini poi) dall’aria Signor, non tardi dunque il tuo soccorso dal Salmo XXI di Benedetto Marcello (si ascolti qui da 21’55”) che a sua volta si ispirava a quelli ebraici del tedesco Heinrich Schütz:


Si noti in particolare la sestina evidenziata in rosso alla fine della frase: è uno sviluppo, piuttosto bizzarro e persino quasi sgrammaticato, della chiusa della prima frase (evidenziata in blu). Ebbene, si noterà come Rossini l’abbia copiata di sana pianta, ma lo stesso aveva fatto prima di lui il Mayr (si ascolti qui a 42”). L’unico dubbio che rimane è se Rossini abbia copiato Mayr o direttamente l’originale di Marcello...

Per restare all’Ouverture, in essa troviamo il tema del finale dell’Atto II (con relativo crescendo): esso viene dal Gloria della Messa di gloria, contemporanea del Maometto II. Qualcosa dell’ouverture del Viaggio a Reims fa capolino nel balletto del second’atto. Il quale si apre (quando non con l’aria di Pamira) con la ballata di Ismène e coro (L’hymen lui donne une couronne) presa pari-pari dal primo atto di Ermione (Dall’Oriente l’astro del giorno). E dalla stessa Ermione è mutuato il finale dell’atto primo (Pirro, deh serbami la fé giurata) che, dopo essere stato impiegato in Eduardo&Cristina (Signor, deh, moviti – Sgombrate o perfidi) migra con qualche variazione nel Siège (Jour dèplorable - Fille rebelle). 

Mettendo insieme citazioni di autori diversi si viene a conoscenza di un’altra complessa filiera di imprestiti, quella che produsse l’aria di Néoclès (C’est toi, c’est toi, grand Dieu) nel terz’atto del Siège: secondo Jean Cabourg (l’Avant-Scène-Opéra, 1985) essa proviene dalla Gazza ladra, ma da un’aria che non si ascolta mai, precisamente da Barbara sorte, aria alternativa per il primo atto composta appositamente a Napoli nel 1819 per il Fernando del tenore Andrea Nozzari (che nella circostanza si esibiva da... baritono); a sua volta Arrigo Quattrocchi segnalò (1997) come quest’ultima aria si basi sul tema dell’ostinato orchestrale del finale dell’atto I di Eduardo&Cristina!

Insomma, il grande Gioachino sapeva bene come e dove trovare ogni volta le tessere del nuovo mosaico che andava costruendo, e il mosaico riusciva sempre, miracolosamente, perfetto!

04 agosto, 2017

Bayreuth 2017: chiusa la prima tornata


Con la prima recita di Götterdämmerung del Ring oleoso di Castorf si è chiuso ieri il primo ciclo delle rappresentazioni del Festival di Bayreuth. Il secondo peraltro è già iniziato il 31/7 con i Cantori che insieme al Tristan del 2/8 hanno interrotto per due volte la Tetralogia.

Grazie ad emittenti (come Radio Clásica) che ancora seguono il gran circo barnum della collina verde si sono potute ascoltare le prime delle sette opere in cartellone. Che dire? Le solite banalità... orchestra e coro che stupiscono sempre per qualità e affiatamento, voci che mediamente rientrano in parametri di mera accettabilità (solo il Sachs di Volle ha superato questa media-mediocrità) e regìe che salvo i nuovi Cantori erano tutte conosciute (e per lo più denigrate) dalle stagioni precedenti.

Pare (uso ovviamente il condizionale avendo solo ascoltato commenti di altri) che i nuovi Meistersinger siano meno scandalosi del previsto. Sembrerebbe, quello di Kosky, un approccio sulla falsariga del penultimo Parsifal (di Herheim): rappresentare non il soggetto in sè, ma corredato delle cause (i caratteri della personalità di Wagner, antisemitismo in primis) e degli effetti che l’opera ha avuto sulla società e civiltà (o inciviltà) tedesca fino alla metà del secolo XX, processo di Norimberga incluso. Chissà se è questa una delle materializzazioni della pretesa volontà di trasparenza (rispetto ai risvolti nazi di Bayreuth) che da tempo la Kathi ha promesso di realizzare.

Di più, francamente, non mi sento di dire.

01 agosto, 2017

Sta arrivando il ROF-XXXVIII


Fra pochi giorni prenderà il via (nella... cozza dell’Adriatic Arena) il 38° ROF, per la prima volta orfano del suo padre spirituale, il grande Alberto Zedda e pure di uno degli artefici della Rossini-renaissance: Philip Gossett. Ecco allora qualche curiosità spicciola.

Si sa, ormai da marzo, del divorzio fra il ROF e l’Orchestra e coro del... figlio del Sovrintendente (!) con contemporaneo subentro/ritorno dei radiofonici nazionali ed esordio del coro ascolano del Ventidio Basso. È parimenti noto, ai quattro (...mila?) gatti che seguono il ROF con deferenza pari a quella con cui Orfini segue Renzi, che il Maometto del Siège non sarà il precedentemente annunciato Alex Esposito, bensì Luca Pisaroni, già collaudato Maometto... napoletano.

Ecco la statistica (in ordine di numero di presenze e aggiornata al 2017) delle rappresentazioni pesaresi, dal 1980 ad oggi. Si noterà come, esaurita in pratica la funzione del ROF di proporre nuovi titoli – mancherebbe solo Eduardo&Cristina – si passi ormai da anni alla riproposizione di opere già presentate in passate edizioni.


Quest’anno, curiosamente, le tre opere nel cartellone principale sono tutte alla loro seconda apparizione al ROF, dopo alcuni anni (2000-2002-2006). Le due più recenti vengono riproposte con ripresa della prima edizione (rispettivamente di Pizzi e Martone) mentre Le Siège è oggetto di nuovo allestimento affidato alla Fura di Carlus Padrissa.

Come ormai tradizione, la chiusura è affidata ad un concerto, diffuso anche in piazza: torna quest’anno lo Stabat Mater, interpretato da Rustioni (che dirige anche la Pietra). Al contorno, la solita miriade di appuntamenti, con il Reims accademico, concerti di canto, mostre e altro ancora. Radio3 sarà presente come sempre alle tre prime (10-11-12 agosto) alle ore 20 (salvo il 10, alle 19:00).

Insomma, l’abbinamento fra sole/mare/spiaggia e il grande Gioachino si preannuncia sempre interessante!    

21 luglio, 2017

Bayreuth 2017 è alle porte (per chi ci tiene...)


Martedi 25 luglio si apre per la 106esima volta il Festival wagneriano. Quest’anno la novità assoluta è una nuova produzione dei Meistersinger (affidata a Barrie Kosky) che fa seguito a quella (discussa e discutibile) della Kathi (2007-2011). Questa ha un punto di forza indiscutibile: il Sachs di Michael Volle! Tutto il resto sarà da giudicare a tempo debito. 

Ecco qui un prospetto storico (aggiornato al 2017) delle attività del Festival:  

titolo
stagioni
rappresentazioni
allestimenti
Parsifal
92
530
10
Ring (ciclo)
86
    919
14
    Rheingold

229

    Walküre

230

    Siegfried

229

    Götterdämmerung
  
231

Meistersinger
48
313
12
Tristan
47
238
11
Holländer
39
232
10
Lohengrin
37
230
9
Tannhäuser
35
220
8

Come si vede, è sempre Parsifal a guidare la classifica in termini di presenze, avendo mancato solo 14 stagioni su 106. Lo segue il Ring, con 20 assenze. Gli altri drammi sono comparsi in meno (o molto meno) del 50% delle stagioni. Con il nuovo allestimento i Meistersinger si installano da soli al secondo posto (dopo il Ring) per numero di produzioni. 
  
Sul fronte dei Direttori quest’anno non avremo alcuna new-entry (nel 2016 furono ben due, Janovski e Haenchen): dei quattro Kapellmeister dello scorso anno resta anche Thielemann, sparisce Kober e torna Jordan, proprio per i Cantori. A proposito del Musikdirektor, con le 6 direzioni di quest’anno del Tristan si avvicina ulteriormente al recordman Barenboim (del quale fu assistente proprio a Bayreuth nel... secolo scorso).

Ascolti? La nostra beneamata Radio3 quest’anno si limita alla prima dei Cantori (25 luglio ore 16:00) e ignora tutto il resto (merce scaduta e deperita...) Sempre sul pezzo gli iberici di Radio Clasica, con tutte le prime: oltre al 25, ecco Tristan (26), Parsifal (27), Rheingold (29, ore 18), Walküre (30), Siegfried (1/8) e Götterdämmerung (3/8). La Radio bavarese darà le prime di Meistersinger, Tristan e Rheingold, poi successive recite del resto del Ring e di Parsifal.

La TV bavarese promette lo streaming della prima: pare non ci siano restrizioni... geografiche, vedremo.

20 luglio, 2017

Le 9 di Beethoven secondo Flor e laVerdi. 5


Ieri sera, in un Auditorium letteralmente preso d'assalto, si è conclusa la maratona beethoveniana di Flor e de laVerdi. E la Nona è stata il degno suggello a questa coraggiosa proposta del nuovo Direttore Musicale.

Rispetto al periclitante cast di solisti dello scorso Capodanno, devo riconoscere che Flor ieri aveva a disposizione quattro voci di buon livello: il soprano fiammingo Ilse Eerens (che ha rimpiazzato l’inizialmente annunciata Gal James); l’affermato contralto Sonia Prina (spesso ospite in Auditorium, anche con laBarocca di Jais); il 28enne tenore tedesco Moritz Kallenberg, un’interessante promessa, già protagonista qui nella Matthäus-Passion di Pasqua (sempre con Jais); e infine il basso-baritono Daniele Caputo che, a dispetto della giovane età, è una vecchia conoscenza de laVerdi, avendo fin dal 2010 militato nel coro di Erina Gambarini, prima di spiccare il volo verso più ambiziosi traguardi.
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Sulla Nona si è scritto (e fatto!) molto, ed anch’io ho dato il mio microscopico contributo, in occasione di un Capodanno di qualche anno fa, alla lettura del quale rimando i più... masochisti (!)

Questa volta torno sul tema delle Edizioni Critiche, che riguarda ovviamente anche la Nona. Di essa esistono sia l’autografo originale che copie eseguite poco dopo la composizione, ma l’edizione che ha poi costituito il primo riferimento è quella del 1826 di Schott (al quale Beethoven aveva affidato la pubblicazione della partitura). A partire da questa nel 1863 Breitkopf produsse una prima edizione critica, che poi è diventata il riferimento quasi universale per tutto il ‘900.

A parte il Finale (rivoluzionario per via dell’ingresso delle voci) è lo Scherzo (non titolato così, ma semplicemente Molto vivace) a presentare curiosità di tipo editoriale, e in particolar modo (c’era da dubitarne?) a proposito delle ripetizioni (i da-capo o ritornelli che dir si voglia) che lo caratterizzano. Le quali hanno un’influenza sul piano estetico (possono essere ad esempio apprezzate dal punto di vista dell’equilibrio complessivo fra i pesi dei quattro movimenti, oppure denigrate come fastidiose e a lungo andare nocive al godimento della sinfonia) e nello stesso tempo su quello materiale (i tempi di esecuzione che possono variare anche di parecchi minuti, come si vedrà, a seconda delle decisioni che prende il Direttore).

Il problema è particolarmente sentito in questo caso, poichè lo Scherzo della Nona è uno fra i più ponderosi dell’intera produzione sinfonica, e forse solo Mahler arriverà ad essere altrettanto megalomane, quanto a dimensioni (penso ad esempio alla sua Quinta). Siamo a livello di cicra 560 battute nette di musica, che supererebbero addirittura le 1200 se si eseguissero tutti i da-capo e che, in un’esecuzione media, si avvicinano comunque alle 1000. Ma il caso è anche emblematico di quanto siano ancora (o spesso) aleatorie le conclusioni di studi e ricerche che pure hanno caratteri di alta professionalità.

La tabellina che segue presenta, su due colonne, la struttura dello Scherzo come si deduce dall’esame di due famiglie di partiture: quella originaria di Schott del 1826 (cui pare essersi richiamato anche Ricordi, nel 1983) e quella di Breitkopf del 1863, che per molti versi è stata recentemente presa a modello da Bärenreiter (edizione curata da Jonathan Del Mar). Vi sono sommariamente riportati, con i relativi intervalli in termini di battute, i principali elementi, contraddistinti da macro-titoli (come Scherzo, Trio, Sezione, etc.) che non trovano riscontro diretto sulle partiture, ma sono logicamente deducibili dal contesto; e dalle lettere (reharsal-letters) – anch’esse apocrife, ma ormai entrate nella tradizione editoriale – che individuano micro-sezioni dell’opera. Oltre alle (principali) tonalità toccate e alle dinamiche indicate da Beethoven, vi sono anche riportati i segni di inizio e fine dei cosiddetti ritornelli.


Come si può notare, la differenza fra le due colonne (e le relative edizioni) risiede fondamentalmente nella presenza (in Schott) di una semplice indicazione per la ripresa dello Scherzo, con passaggio poi alla Coda, mentre in Breitkopf la ripresa dello Scherzo viene esplicitamente ristampata in coda al Trio. Quest’ultimo accorgimento ha più che altro lo scopo, come dire, di agevolare la lettura da parte degli interpreti (direttore e strumentisti) che possono così evitare un fastidioso ritorno all’indietro e un altrettanto disagevole salto verso la Coda.

Ma c’è poi un particolare che riguarda i contenuti: oltre alla solita miriade di piccoli aggiustamenti che si ritrovano nell’edizione più nuova (Bärenreiter / Del Mar) rispetto alle precedenti, c’è un punto che mostra clamorosamente come anche ricerche recenti non sempre diano risultati affidabili. Il problema riguarda l’esecuzione della ripresa dello Scherzo. Nell’edizione Schott, essendoci solo l’indicazione di ripetizione (fra i due segni) non è precisato se i da-capo delle due sezioni dello Scherzo siano da rieseguire o meno. Per la verità Beethoven sul punto è stato abbastanza contraddittorio: in alcuni scritti ha ordinato di saltare i da-capo (cosa oggi del tutto normale, ma non scontata ai suoi tempi) ma in altri ha fornito un’indicazione sibillina: non eseguire ripetizioni nella seconda parte. Orbene, come si vede nella colonna di destra, a suo tempo Breitkopf interpretò questa indicazione nel senso di proporre la ripetizione della Sezione 1, e non della 2 (la seconda parte, appunto). Invece Jonathan Del Mar, nella sua prima edizione del 1999 (e ancora nella ristampa del 2007) interpreta come seconda parte l’intera ripresa dello Scherzo, e quindi esclude anche il da-capo della Sezione 1. Ma poi, guarda un po’, nel 2006 si convince che l’interpretazione giusta era proprio quella, ottocentesca, di Breitkopf e così, nella ristampa del suo Critical Commentary del 2012, chiede scusa e annuncia di aver fatto modificare la sua partitura (!)

E qui siamo alle solite: ogni Direttore in realtà decide (una volta per tutte, o a seconda delle circostanze) se e quali da-capo eseguire, compresi quelli dell’esposizione iniziale dello Scherzo! Ecco alcuni esempi di diverse... composizioni del meccano, in ordine decrescente nell’impiego di pezzi (tutti eseguono regolarmente i da-capo del Trio) e dei diversissimi tempi di esecuzione (che ovviamente dipendono anche dai diversi approcci all’agogica):

Esecuzione del da-capo della Sezione 1 nella ripresa dello Scherzo:

Camerata Cassovia, con Walter Attanasi: 15’20”;

Chailly (da 16’11”) con tempi più spediti: 14’10”;

Omissione del da-capo della Sezione 1 nella ripresa dello Scherzo:

Paavo Järvi (da 14’33”): 13’30”;

Toscanini (da 13’49”) con tempi più spediti: 13’05”;

Abbado con i Berliner (da 14’22”) con tempi ancor più solleciti: 12’50”;

Omissione anche del da-capo della Sezione 2 nell’esposizione dello Scherzo:

Lenny Bernstein: 12’16”;

Furtwängler (1954, da 18’05”) un po’ più spedito: 11’50”;

Jansons (da 16’19”) ancora più rapido: 11’30”;

Karajan, stessa scelta, ma con tempi forsennati: 10’55”;

Omissione anche di entrambi i da-capo nell’esposizione dello Scherzo:

Josef Krips, che in più corre come un frecciarossa: 9’40”.

Come si vede, ce n’è per tutti i gusti e per tutti i... cronometri, in barba a tutte le edizioni critiche!
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Va da sè che dopo tutto ‘sto tormentone, come minimo sono obbligato a riferire della scelta di Flor: che è poi quella sua solita, mutuata da Furtwängler (tanto per andare sul sicuro) applicata anche pochi mesi orsono (che include anche la disposizine dell’orchestra e la collocazione dei solisti fra strumenti e coro). Ma questo è solo un dettaglio tecnico, chè l’importante è la prestazione maiuscola dei complessi de laVerdi, che si confermano di altissima qualità e di massimo affidamento, garantendo sempre un livello di eccellenza in questo repertorio.

Come detto, più che discreta la prestazione dei quattro solisti (forse Caputo ha un po’ sofferto l’emozione di essere protagonista fuori dal suo coro, ma aprire con quel micidiale recitativo la parte cantata del finale è roba sufficiente a distruggere un elefante...) e come sempre sontuosa quella del popolo di Erina Gambarini

Alla fine interminabili applausi e ovazioni, contrappuntate da qualche ululato che voglio proprio sperare (per la salute mentale degli ululanti) non fosse di disapprovazione... La stagione estiva ora si concede al Jazz, mentre l’Orchestra dà appuntamento a tutti per il 10 settembre al Piermarini!  

17 luglio, 2017

Le 9 di Beethoven secondo Flor e laVerdi. 4


La penultima tappa di questo tour-de-force beethoveniano de laVerdi si presentava – ma solo in apparenza – come una presa di respiro dopo le fatiche delle prime tre giornate, in vista del supremo sforzo della nona, in programma il prossimo 19. La coppia di sinfoniette ed anche i riempitivi (le due Romanze per violino) devono avere tenuto lontano dall’Auditorium il grande pubblico (complice anche la splendida domenica di luglio...)

Ma in realtà la prima e l’ultima delle sinfonie pari, troppo spesso derubricate al ruolo di lavori piuttosto interlocutori, se non proprio disimpegnati, sono tutt’altro che da prendersi sottogamba. E massimamente la Seconda, che fu per Beethoven un impegno di tutto rispetto, come dimostrano le sue stesse proporzioni, durata inclusa, proprio da grande sinfonia; e poi è chiaro che senza di essa – che rappresentò una rottura quasi radicale con la tradizione settecentesca in cui la prima ancora affondava le radici (ne è testimonianza l’innovazione quasi rivoluzionaria dello Scherzo a sostituire il Menuetto) - non ci sarebbe stata subito dopo l’esplosione dell’Eroica. Quindi un’opera che va vista ed ascoltata come un enorme passo in avanti verso il pieno sviluppo della personalità dell’Autore: per questo è un peccato che non sia stata eseguita a ridosso della precedente, il che ne avrebbe esaltato le qualità; ascoltata invece dopo le 5 sinfonie (3-7) maggiori si finisce per ricavarne la fallace sensazione di un passo indietro.

È l’Ottava viceversa a presentare i caratteri, se non proprio di un arretramento, quanto meno di un passo laterale: qui Beethoven sembra volersi (finalmente) divertire componendo una specie di parodia delle precedenti sinfonie impegnate: si osservi l’incipit, che entra direttamente in-medias-res, ma con quale differenza rispetto all’Eroica e alla Quinta (ma tutto sommato anche alla Pastorale). Qui siamo più vicino all’umoresca che non alla proposizione di messaggi universali... come dimostra anche il ritorno del Menuetto, che proprio la Seconda aveva mandato in pensione. Pure si tratta di un’opera che, sotto le apparenze di disimpegno e bizzarro sperimentalismo, impegnò l’Autore in una lunga serie di ripensamenti, modifiche, revisioni piccole e grandi, a testimoniare dell’importanza che egli comunque vi annetteva. (Con un ardito paragone si potrebbe sostenere che l’Ottava stia a Beethoven come il Falstaff a Verdi...)

Flor ha per l’occasione confermato la disposizione degli strumenti (secondi violini al proscenio) e ha fatto uso di bacchetta e partiture sul leggìo... Mi sembra abbia dato il dovuto peso alla Seconda (già a partire dalla ponderosa Introduzione) e la dovuta leggerezza all’Ottava, uscita proprio fresca e frizzante, come si merita.

Il pubblico (dislocato quasi soltanto in platea) ha riservato un caloroso successo per tutti e naturalmente anche per Nicolai Freiherr von Dellingshausen, che ha – incastonate a mo’ di sandwich  fra le due sinfonie - presentato le Romanze op.40 e 50 (cosa da lui già fatta tempo fa). Mercoledi gran finale con la nona, che tenne a battesimo Flor con laVerdi nel lontano 1999 e che il nuovo Direttore Musicale ha recentemente diretto nel tradizionale appuntamento dello scorso Capodanno. 

14 luglio, 2017

Le 9 di Beethoven secondo Flor e laVerdi. 3


Terza stazione (siamo ormai oltre la metà del percorso) del ciclo delle 9 sinfonie di Beethoven interpretate dal nuovo Direttore Musicale de laVerdi: è stata ieri la volta della Pastorale e dell’Apoteosi della danza.
     
La disposizione degli strumenti alla tedesca è evidentemente una costante di questo ciclo di Flor, mentre c’è sempre qualche piccolo o grande (e naturale) avvicendamento fra i Musikanten. Il Maestro questa volta ri-sfodera la bacchetta, che aveva lasciato a casa per i due primi concerti; quanto a leggìo e partitura, sono presenti per la Sesta e poi spariscono per la Settima (quale che sia il significato di tutto ciò...)

Si comincia quindi con la Sinfonia in FA, a proposito della quale c’è qualche curiosità di natura filologica (musicale e extra-) da segnalare. Uno dei titoli dell’opera (il primo vergato dall’Autore su una copia del manoscritto originale e poi corretto da altri in Pastorale) era Pastorella (!) Per qualche tempo anche la numerazione è stata incerta: Beethoven aveva scritto 6a sinfonia, ma poi aveva cancellato il numero e l’opera era stata catalogata come quinta (e quella in DO minore come sesta). Sul fronte musicale, un’interessante scoperta fatta leggendo il manoscritto è la chiusa del secondo tempo: Beethoven l’aveva concepita nella forma divenuta poi definitiva, ma (temporaneamente) aveva poi sostituito le ultime tre battute con altre quattro, che ricordavano più da vicino la forma con cui quella sezione del tema compare già nell’iniziale esposizione (battuta 14). Nella figura seguente la parte bassa riporta la modifica, come presentata nel Critical Commentary dell’Edizione Bärenreiter (curata da Jonathan Del Mar, che l’ha... messa in bella copia dal manoscritto, di assai ardua lettura):


Altra stranezza (si fa per dire): nel manoscritto originale, conservato a Bonn, manca proprio l’ultima pagina, con l’ultima battuta (anzi, l’ultima semiminima, l’ultimo accordo di FA maggiore) della Sinfonia: fu un copista, tale Anton Gräffer, a re-inserircela (copiandola evidentemente da altre copie precedenti).

Quanto alle interpretazioni, anche qui spunta fuori (come i funghi!) l’immancabile  problema del da-capo dell’esposizione del movimento di apertura. Esso è chiaramente indicato nel manoscritto originale (pag 24) con i classici : (due punti) a ridosso di una grossa barra verticale. Curiosamente, Karajan lo ignora in tutte le sue innumerevoli interpretazioni, seguendo la scelta di Furtwängler: così non avvicina mai i 40’ complessivi. In pochi seguono l’esempio: Walter, come pure Böhm, ultimamente Barenboim e Perlman ma soprattutto la lumaca Celibidache, che nonostante ciò riesce a far durare la sinfonia un’eternità, più di 51 minuti (da giovane riusciva a stare nei 44’) contro i 41-47 degli interpreti che pure eseguono il da-capo (che pesa circa 2’30”): Toscanini (ma non sempre) e poi Klemperer (ma da giovane, poi ha cambiato idea...) Sawallisch, Bernstein, Harnoncourt, Haitink, Abbado, Muti, Gardiner, Thielemann, Jansons, Dudamel... insomma quasi tutti.  
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Flor rispetta la volontà di Beethoven ed esegue dunque (per me, meritoriamente) il ritornello. Se proprio devo fare un appunto alla sua lettura, mi è parsa a tratti (non sempre) creare un’atmosfera più da... officina che da scenario agreste, ecco: qualche eccesso di ruvidezza in alcuni impasti sonori si sarebbe potuto evitare.

Ma nel complesso si è trattato di un’esecuzione rimarchevole, accolta calorosamente da un pubblico ancora assai numeroso, il che è un gran bel segno.
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Anche per la Settima si pone – manco a dirlo! - il problema interpretativo legato all’esecuzione dei ritornelli nei due movimenti esterni: il che spiega in buona (non completa) misura le grandi differenze di minutaggio di diverse esecuzioni (si va facilmente da 35 a 47 minuti!) Naturalmente anche l’agogica fa la sua parte, e a questo proposito (tanto per cazzeggiare un po’) va ricordato come Beethoven rilasciò le sue prime otto sinfonie con le tradizionali indicazioni qualitative (Allegro, Adagio, Andante con moto, Presto... e via elencando) che per definizione lasciano all’interprete una forchetta abbastanza ampia all’interno della quale collocare la propria idea interpretativa. Però, dopo l’invenzione del metronomo (Mälzel, 1812-15) Beethoven si innamorò di quella diavoleria e nel 1817 operò quello che in inglese tecnico si chiama retrofit (sistemazione a posteriori) delle indicazioni metronomiche su opere composte da tempo (incluse le sinfonie).

Tutte le edizioni tradizionali riportano in bella mostra i metronomi (del 1817) mentre quella Bärenreiter (di Jonathan Del Mar) li indica (per le prime 6 sinfonie) semplicemente in note a fondo pagina (per la 7 e 8 si fa eccezione, sulla base di un... ragionamento discutibile). Le differenze di interpretazione dell’agogica sono talvolta addirittura abissali: prendo un esempio davvero clamoroso, il Vivace del movimento iniziale (6/8) che reca l’indicazione di semiminima puntata (3 ottavi) a 104 al minuto; in pratica, in 60” si dovrebbero coprire 52 battute (c’è di mezzo una corona puntata, ma possiamo tranquillamente trascurarla). Ecco come lo approccia Arturo Toscanini nel 1951 con la NBC (da 3’58”): praticamente un metronomo vivente, perfetto a 104! Ma non da meno gli è l’ottimo Ivan Fischer al Concertgebouw nel 2014 (da 3’50”). Invece il Karajan del 1951 (Philharmonia) si tiene sul sostenuto (da 4’09”): con un metronomo di 89 (diciamo un 15% più lento del normale). Ma addirittura letargico (francamente al limite dell’indisponenza!) è invece il Celibidache del 1981 a Stuttgart (da 4’26”): il suo metronomo equivale a 74, quasi il 30% più lento del normale!

Va da sè che non ha senso giudicare il livello qualitativo di un’interpretazione esclusivamente dal lato dell’agogica, caso mai si dovrà verificare se nel complesso i rapporti fra le varie sezioni del brano vengano mantenuti entro limiti ragionevoli o meno.
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E Flor, come ce l’ha propinata? Sul punto specifico di cui sopra, io, pur non avendo il cronometro alla mano, potrei giurare che lui abbia tenuto un metronomo assai vicino a quello di Beethoven. Ha anche eseguito tutti i ritornelli, escluso solo quello del Finale (che io non avrei affatto disprezzato, devo dire). Ma ciò che va sottolineato è la strepitosa prestazione di tutti: non esagero nel dire che si sia trattato di un’esecuzione da far invidia a parecchie delle orchestre (e dei Direttori) che vanno oggi per la maggiore!

E il pubblico deve averlo percepito, dedicando a tutti ovazioni e peana. Già a questo punto si può tranquillamente affermare che l’iniziativa di proporre questo ciclo beethoveniano stia dando risultati (artistici e di... cassetta) oltre le più rosee previsioni.

Domenica le sinfonie... cenerentole (ma sono autentici gioielli!)