affinità bombarole

rinsaldato il patto atlantico

15 ottobre, 2016

laVERDI 2016 – Concerto n°30


Tutta Spagna – in occasione della Festa Nazionale - nell’appuntamento settimanale in Auditorium. Iberici sono i due autori presentati (DeFalla e Albéniz) come pure (almeno di origine) i due... presentatori: il Direttore José Antonio Montaño e il pianista (nato a Cuba da genitori spagnoli) Jorge Luis Prats. I due – lo dico con la massima simpatia – visti insieme paiono proprio Don Quixote e Sancho Panza!

Si inizia con una composizione per pianoforte e orchestra di Manuel deFalla, che ebbe una lunga gestazione: dopo aver composto alcuni notturni per pianoforte durante il soggiorno  parigino (1909-14) nel 1915, trasferitosi presso Barcelona in una villa del pittore Santiago Rusiñol, deFalla fu colpito da alcuni quadri aventi per soggetto diversi famosi giardini spagnoli. Da qui l’idea di trasformare i notturni in una grande composizione per solista e orchestra. Ecco quindi nascere Noches en los jardines de España, la cui prima esecuzione ebbe luogo a Madrid poco più di un secolo fa, domenica 9 aprile 1916: sul podio l’amico Enrique Fernández  Arbós, che ritroveremo poi a fianco di Albéniz.

La struttura sembra, ma è solo apparenza, quella di un concerto, con i classici tre movimenti; si può in realtà apparentare - come contenuti extramusicali - ai poemi sinfonici romani di Respighi (pini, fontane, folklore): ciasuno dei tre brani si ispira infatti ad un diverso giardino e a danze popolari dell’Andalusia. Ma è soprattutto all’impressionismo francese (Debussy, Ravel, che deFalla ben conobbe e frequentò nei suoi soggiorni parigini) che si richiama invece scopertamente l’orchestrazione.

I. En el Generalife - Allegretto tranquillo e misterioso. Siamo all’Alhambra, Granada, precisamente nel giardino dell’architetto, fra cipressi, frutteti, fiori, fonti e specchi d’acqua pura. La tranquillità vi regna sovrana, rotta soltanto da improvvise irruzioni sonore, quasi fossero zampilli d’acqua che si aprono nelle fontane del giardino, o cascatelle che si animano improvvisamente.

II. Danza lejana – Allegretto giusto. A differenza di quanto fece per gli altri due, deFalla non lasciò mai indicazioni specifiche riguardo il luogo ispiratore di questo secondo brano, una tipica danza gitana. C’è chi ipotizza che l’aggettivo lejana (lontana) stia a significare musica che arrivava all’orecchio dell’autore da Albaicìn (che si trova a nord-ovest dell’Alhambra) poco distante dalla sua casa di Granada.

III. En los Jardines de la Sierra de Córdoba - Vivo. La scelta del riferimento geografico per questa danza a sfondo erotico-spirituale potrebbe essere dipesa dalla conoscenza che deFalla aveva della figura del filosofo arabo Ibn Masarra, che aveva stabilito la sua dimora, circondata da giardini, appunto nella foresta attorno a Córdoba.
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Seguiamo la musica facendoci guidare dalla venerabile Martha Argerich.

I. C’é praticamente un solo tema che spazia lungo l’arco del brano, in forma originale e variata o derivata, prima in modo minore, poi in maggiore, ed è un tema languido dove la melodia si muove per gradi congiunti e continui ondeggiamenti. Il pianoforte la ripete, aggiungendovi, con l’arpa, figurazioni liquide, proprio ad evocare – con taglio decisamente impressionista - l’ambiente naturale.

In tempo Allegretto tranquillo e misterioso il tema conduttore viene subito anticipato da viole ed arpa, punteggiato da accordi dell’orchestra. A 29” il corno, poi il corno inglese e infine i violoncelli lo sviluppano ulteriormente, preparando l’ingresso del solista (1’06”) che espone il tema, insieme al clarinetto e poi al corno, subito ripetendolo e arricchendolo. A 1’44” ancora corni, poi flauti e clarinetti reiterano il motivo, finchè (2’08”, Poco più animato) arriva la prima irruzione: è il pianoforte ad innescarla, trascinandovi l’intera orchestra, che sembra rispondere con scrosci d’acqua.

A 2’34” sono i fagotti, con i violoncelli in pizzicato, a proporre una variante del tema, presto raggiunti dal pianoforte che prosegue in crescendo fino a tacere (3’01”, Tempo giusto) lasciando all’orchestra il compito di presentare un’ennesima variante del tema che porta (3’18”) al ritorno del solista con un motivo cantabile, in modo maggiore, chiaramente derivato dal tema principale. A 3’51” è l’orchestra a rispondere con piglio nobile (si noti la perorazione dei corni) alla sollecitazione del solista, per poi spegnersi (4’20”, Tranquillo, ma non tanto) in corni, clarinetti e flauti e, dopo un cupo intervento degli archi bassi in tremolo, riprendere il tema principale (4’44”) con l’accompagnamento arpeggiato del pianoforte. Due stentorei interventi (5’11 e 5’20”) di trombe e corni portano (5’28”, Poco calmo) ad un intermezzo orchestrale che richiama un classico stilema andaluso.

Poi (5’59”) il solista si imbarca in una specie di cadenza arpeggiante, con clarinetto e archi a cantare sempre il motivo principale; al termine della quale (6’37”) l’orchestra ribadisce la cadenza andalusa. Il solista (6’54”) e poi corno inglese e fagotto (7’34”) ripropongono spezzoni del tema, con tempi allargati, quindi (7’57”) accompagnato con discrezione da pochi strumenti dell’orchestra, il pianoforte riespone, sviluppato al massimo grado, il motivo principale, conducendolo... in braccio all’orchestra (8’40”).

Qui abbiamo un colossale crescendo orchestrale, che sviluppa il tema in volute sempre più alte portando (9’07”, Largamente, ma non troppo) ad una grandiosa perorazione, sfociante (9’35”) nella dimessa coda conclusiva, con il tema che si spegne lentamente, nel corno, fino agli accordi in pianissimo di DO# maggiore.

II. A 10’55” in tempo Allegretto giusto sono le viole su un sottofondo del contrabbasso solo che richiama ancora il tema del primo movimento, ad introdurre questa danza gitana, il cui nucleo di base (3/4) è costituito da minima, doppia croma e minima, terza minore ascendente e poi discendente. È esposto inizialmente (11’03”) da corno inglese e flauti, che al motivo di base fanno seguire uno svolazzo per terze (qualcosa che ci ricorda... Carmen, guarda caso!)

A 11’18” tocca al clarinetto ribadire il motivo elementare e poi, dopo quattro piccoli schianti dei legni, entra il solista (11’29”) che espone il nucleo di base e poi lo sviluppa ampiamente con una seconda sezione più ricca, dal sapore intensamente andaluso, ben supportato a turno dai diversi strumenti dell’orchestra. Si arriva così a 12’21”, Poco animato, dove l’orchestra (si noti l’ingresso della celesta) ripresenta la seconda sezione del tema. Questa (12’32”, Tempo giusto, molto ritmico) viene ribadita con protervia dal pianoforte e da tutta l’orchestra.

Adesso il solista tace e Accelerando pochissimo, ma gradualmente (12’42”) sono i corni e poi le trombe con sordina a ribadire la seconda parte del tema, sopra un ribollire degli archi e i secchi accompagnmenti di arpa e legni. A 12’51”, Poco più vivo che prima, è ancora il solista a subentrare, rimbeccato poi (13’16”) dall’orchestra.

A 13’24” (Doppio meno vivo) tocca ai corni esporre la cellula di base, successivamente ripresa con il seguito (13’34”) arricchito ulteriormente dai legni sull’accompagnamento del pianoforte.

Si arriva così (14’34”, Stringendo sempre, ma gradualmente) ad un culmine (Tempo giusto, ma vivo, 14’45”) chiuso dal classico stilema andaluso in arpa e archi bassi. Adesso il tempo torna Tranquillo (14’59”) e sul tremolo dei violini è la celesta (con flauti e ottavino) a riproporre il motivo di base, con agogica dilatata, seguita e poi accompagnata da trombe, corno inglese e flauti.

A 15’40”, Poco animato, il pianoforte si imbarca in un crescendo che porta direttamente, senza alcuna soluzione di continuità al...

III. Tempo Vivo (15’53”, 3/4). L’Andalusia qui la fa davvero da padrona, fin dall’attacco di archi e legni che prefigurano il primo tema, esposto poi (16’15”) dal pianoforte che lo reitera e lo chiude con un classico stilema gitano.

Violini e strumentini (16’36”, Calmando appena e gradualmente) con una scala discendente portano verso un secondo tema (Allegro moderato) introdotto da corni, violini e viole (16’52”) con un motivo di chiara matrice andalusa. È il pianoforte (17’00”) ad esporre il nuovo tema, tipicamente fandango di Malaga, la cui prima sezione è seguita dal motivo introduttivo (corni, violini e viole) mentre poi la seconda (17’21”) si dispiega compiutamente, intercalata (17’33”, Tenuto e pesante) da accordi di archi, corni e fagotti prima di procedere (17’37”) ad una discesa plagale, autentico stilema flamenco. L’episodio si chiude su una specie di cadenza del pianoforte, caratterizzata da ubriacanti svolazzi, prima che torni (17’59”) il motivo che ha introdotto il secondo tema.

Ora (18’08”) gi archi ritornano al primo tema, assai variato e mosso da veloci figurazioni del pianoforte e dei legni, con i corni a contrappuntare con possenti figurazioni di sapore andaluso. Si arriva quindi ad un accordo generale (18’51”) che dà il via all’esposizione di un terzo tema (18’51”, Ben misurato) molto pesante, ripreso poi (19’14”) dal pianoforte in continuo dialogo con l’orchestra.

 A 19’52” (Più liberamente, con espressione) il tema viene reiterato dal solista, accompagnato da incisi dei fiati. A 21’10” ecco una transizione dove il tempo rallenta gradatamente, portando (21’12”) ad una stasi in cui il tema viene esposto con grande larghezza, finchè (22’05”) il pianoforte riprende il tema del fandango.

A 23’01” (Con ampiezza, ma non troppo) l’orchestra riprende il terzo tema, seguita dal solista, e il suono si perde in lontananza nei corni e in tre sommessi rintocchi di piano, timpani e pizzicato degli archi bassi. 
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Prats ci dà dentro come un forsennato, mettendo a dura prova le corde dello strumento, e garantendo così il posto di lavoro all’accordatore (!) Si tiene lo spartito sul leggìo, il che evidentemente significa che il pezzo non è proprio nel suo repertorio abituale, ma non significa che la sua interpretazione sia improvvisata o approssimativa, al contrario: per dire, la sua esposizione del tema di fandango del movimento conclusivo è stata davvero trascinante.

Grandi applausi per lui, che regala non uno, nè due, ma addirittura tre encore, a base di... cubalibre, con un’ammaliante malagueña e un pirotecnico glissando!
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Seguono le due Suite da El sombrero de tres picos, il balletto che deFalla aveva derivato (su richiesta di Diaghilev) da una sua precedente pantomima. L’esilarante storiella – vittima il Corregidor (Podestà lo chiameremmo noi...) - che fa da soggetto al balletto fu opera di Gregorio Martinez Sierra, che si ispirò ad un racconto di Pedro Antonio de Alarcòn. Per la prima londinese del 1919 venne ingaggiato anche Pablo Picasso, che disegnò i fondali e i costumi.

Gli 8 numeri delle due Suite (5 + 3) rispettano fedelmente la sequenza dei brani delle due parti del balletto, come riportato nel seguente schema:

balletto
suite
I-1
Introduzione
1-1
Allegro ma non  troppo

  voce



  Introduzione (ripetuta)


2
Meriggio



  Il mugnaio e il merlo



  La moglie del mugnaio



  La fonte



  Il bellimbusto



  La processione
2
Allegretto mosso (dal segno 11)
3
Danza della mugnaia
3
Allegro ma non troppo (Fandango)

  Il Podestà
4
Moderato

  I grappoli d’uva
5
Vivo

  Danza della mugnaia (ripresa)

Vivo
II-1
Danza dei vicini
II-1
Allegro ma non troppo (Seguidilla)
2
Danza del mugnaio
2
Poco vivo (Farruca, fino al segno 12)
  
  La guardia del corpo



  La  mugnaia



  voce



  Il Podestà


3
Danza del Podestà


  
  Il Podestà e la mugnaia



  Il mugnaio


4
Danza finale
3
Poco mosso (Jota)

  Il mugnaio braccato dalla guardia

Poco più mosso

  Il lancio in aria del Podestà

Più vivo ancora, ma non troppo

Complessivamente le due Suite incorporano circa i 2/3 (di durata) dell’intera musica del balletto, che contiene anche un paio di interventi cantati (per mezzosoprano).

Montaño guida con sicurezza un’Orchestra in gran forma, che non perde un colpo nell’affrontare una partitura davvero difficile come questa. La jota conclusiva in particolare trascina il pubblico all’entusiasmo.
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Di Isaac Manuel Francisco Albéniz ecco infine le Cinque impressioni da Iberia nell’arrangiamento per orchestra di Enrique Fernández Arbós. Composta fra il 1905 e il 1909, l’opera originale è costituita da 12 pezzi pianistici raggruppati in quattro quaderni. Dopo un abortito tentativo di orchestrarli, il compositore, ormai vicino alla morte prematura, chiese all’amico Arbós di farne una versione strumentale, e costui ne cavò una suite di 5 brani.

La tabella sottostante riporta la struttura dell’opera originale e la sequenza dei 5 brani orchestrati da Arbós:

quaderno
Albenìz
Arbós
tempo
I
1. Evocación 
1
Allegretto espressivo

2. El Puerto 
4
Allegro comodo

3. Fête-Dieu à Séville
2
Allegro gracioso
II
4. Rondeña 

Allegretto

5. Almería

Allegretto moderato

6. Triana 
3
Allegretto con anima
III
7. El Albaicín
5
Allegro assai, ma melancolico

8. El Polo 

Allegro melancolico

9. Lavapiés 

Allegretto bien rythmé mais sans presser
IV
10. Málaga

Allegro vivo

11. Jerez

Andantino

12. Eritaña 

Allegretto grazioso
  
Come per le Noches di deFalla, anche Albéniz si focalizza sull’Andalusia, che ispira la quasi totalità dell’opera (l’eccezione è Lavapiés, piazza di Madrid). L’orchestrazione di Arbós è forse troppo carica e spesso fa perdere leggerezza e freschezza ai quadretti di Albéniz che, come testimoniano le indicazioni agogiche, si muovono quasi sempre in punta di piedi e raramente lasciano spazio ad enfasi e affettazione. 

Il pubblico – non proprio oceanico, direi – riserva comunque a tutti applausi calorosi: fuori, dopo le note dell’assolata Andalusia, lo attende la fastidiosa pioggerella milanese di un inverno precoce.  

10 ottobre, 2016

Un “Donizettino” gemella Bergamo e Firenze. 2


Ieri pomeriggio l’OF (riempita più o meno al 60%: quindi bastava la Pergola, caso mai sistemando il coro in qualche palco, he he!) ha tenuto a battesimo un Donizetti piuttosto desueto, mettendo in scena (beh, non proprio in scena: in forma di concerto) la Rosmonda d’Inghilterra. L’esecuzione è presentata pomposamente come una prima mondiale, quella della nuova edizione di Alberto Sonzogni per la Fondazione Donizetti. Edizione che si baserebbe sul manoscritto riscoperto a Napoli 40 anni fa e che diverge in alcuni punti dal libretto originale di Romani stampato a Firenze nel 1834, in occasione della prima mondiale (quella autentica) alla Pergola (appunto!)

Da ciò che si legge sul programma di sala non è per nulla facile desumere (ammesso che interessino...) quali siano stati i criteri seguiti da Sonzogni per mettere a punto la sua edizione della partitura. La quale pare un ibrido fra il citato libretto e il citato manoscritto autografo.

Del primo è stato conservato l’esordio di Leonora (Fè mi serba, mi seconda) al posto della (di gran lunga migliore!) sostitutiva Ti vedrò, donzella audace. Ma non – chissà perchè - l’intervento (fuori scena, delizioso invero) di Arturo, mentre Rosmonda canta la sua aria di esordio.

Del manoscritto viene ignorata la parte preponderante del finale, cioè la splendida cabaletta con coro di Leonora Tu spergiuro. In compenso l’opera termina con Ella spira!... Duolo, amor, poche battute che compaiono nel manoscritto prima di detta cabaletta, laddove il libretto originale reca invece la drammatica esternazione di Leonora: Trema Enrico! Io regno ancor!

Ok, ok, uno dice: ma chi se ne frega di questi bizantinismi... Fatto sta che su di essi c’è gente che campa e lucra, accipicchia! Personalmente non ho dubbi che la versione (per così dire) messa a punto anni e anni fa da OperaRara (a partire dallo stesso manoscritto napoletano) sia assai più accattivante (nonostante i continui abbassamenti di uno o due semitoni nella registrazione in studio!) di quella ascoltata ieri.

E allora vengo a ciò che si è udito a Firenze.  

Protagonista la sempre più italiana (e fiorentina) Jessica Pratt, fresca reduce dagli... stravizi babilonesi. Al suo fianco altri rossiniani: Michael Spyres, insieme ad Eva Mei, Nicola Ulivieri e – en-travesti – Raffaella Lupinacci. Sullo sfondo, dietro l’Orchestra, il Coro di Lorenzo Fratini e sul podio, a dirigere tutti quanti, Sebastiano Rolli.

La Pratt si conferma nel bene e nel male: quando può (e/o decide arbitrariamente di) sbizzarrirsi su acuti e sovracuti (ieri è andata su, credo, fin oltre il FA di Astrifiammante) strappa applausi da stadio; ma nell’ottava bassa (che lei cerca in tutti i modi di evitare) mostra la corda. Solo così si spiega che, dopo l’aria del second’atto (Senza pace e senza speme) il pubblico le abbia tributato tre minuti di orologio di ovazioni, chiuse però da qualche sonoro buh, che ha gettato parecchio scompiglio in sala.

La sua regal rivale, Eva Mei, non mi ha del tutto convinto: avrebbe anche un timbro di voce (la parte è indicata in libretto per mezzosoprano) ed il physique du rôle adatti ad impersonare l’autoritaria, cinica e pure... attempata (11 anni più del marito) sovrana, ma gli acuti sono decisamente sfocati e vetrosi e l’emissione piuttosto periclitante. Molto meglio l’Arturo della Lupinacci, soprattutto nelle parti solistiche e nei duetti, ma purtroppo meno udibile negli insiemi.

Spyres è un Enrico sempre spavaldo e sicuro, anche se la parte forse non è fra le più adatte ai suoi mezzi: comunque non c’è una sua nota che non risuoni splendidamente anche nei grandi spazi dell’OF. Ulivieri senza infamia e senza lode: fa il suo compitino onestamente, ma non molto di più.

Ottimo il coro di Fratini e piacevolissima sorpresa (parlo per me, che lo vedevo all’opera per la prima volta) il 40enne (o poco più) Sebastiano Rolli: uno che penso farà ancora molta strada.

Credo che l’entusiasmo del pubblico si debba però a tale... Donizetti: è davvero incredibile come un’opera come questa, un autentico concentrato di splendida musica, sia rimasta per tanto tempo in cantina. C’è da augurarsi che non ci venga rimandata, sarebbe un vero peccato!
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Quattro dei cinque interpreti (Spyres è l’escluso) traslocheranno, insieme al Concertatore, a Bergamo - al Festival Donizetti - per le rappresentazioni in forma scenica di fine novembre.

(Quindi... continua.)

08 ottobre, 2016

laVERDI 2016 – Concerto n°29


Questa settimana si torna alla grande tradizione ottocentesca con due somme Terze: Beethoven e Schumann! Sul podio di un Auditorium assai affollato (ma chissà mai perchè...) Claus Peter Flor, che schiera l’orchestra in configurazione crucca, con i secondi violini al proscenio (così finalmente si possono ammirare anche loro, che solitamente stanno nascosti nel mezzo del plotone) i bassi a sinistra e i timpani giù al pianterreno, sulla destra.

Due sinfonie che hanno in comune poco più che la tonalità di impianto (MIb maggiore) essendo separate da... una vita, 47 anni! Da una parte il Beethoven severo illuminista e dall’altra lo Schumann romantico sognante.

Dunque, l’Eroica per eccellenza. Flor forse esagera un filino con i contrasti (di agogica e soprattutto dinamica) e così, invece del (del resto detronizzato) Bonaparte, pare far capolino... Don Chisciotte. Ma è una lettura stimolante, a dispetto di qualche simpatica sguaiatezza. La marcia funebre mi è parso il movimento più equilibrato e ispirato.

Da lodare tutti i ragazzi per la pulizia del suono e la precisione esecutiva (il Trio dei corni ne è stato chiaro esempio) il che gli ha garantito un’accoglienza trionfale.
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Ecco poi la Renana. È lo Schumann tornato a vivere (prima della fatale ricaduta) in quel di Düsseldorf, e nella sinfonia chi canta e sogna è proprio il suo lato intimistico (Eusebius) come dimostra lo Scherzo, trasformato in una specie di Lied...

Flor mette bene in risalto la struttura (per così dire) concava della sinfonia, con i due movimenti esterni che risaltano in piena luce, lasciando in una discreta e sognante penombra (che si fa davvero misteriosa nel chiesastico corale dei tromboni) i tre interni.

Grande successo per i ragazzi e ripetute chiamate per il Direttore: insomma, una serata di musica di quelle che ti fanno scordare le miserie che ci circondano.  

07 ottobre, 2016

Un “Donizettino” gemella Bergamo e Firenze. 1


Il Festival Internazionale Donizetti-Opera offre quest’anno due primizie: Olivo&Pasquale e Rosmonda d’Inghilterra.

Quest’ultima opera fu rappresentata in prima assoluta a Firenze (Teatro della Pergola) giovedi 27 febbraio 1834 e poi, dopo una fugace ripresa a Livorno 11 anni più tardi... scomparve dai radar per 130 anni! Rimessa recentemente a nuovo dalla Fondazione Donizetti (curatore Alberto Sonzogni) costituirà il primo passo del progetto Donizetti a Firenze, che intende appunto indagare e sviluppare gli aspetti del rapporto fra il compositore bergamasco e la città toscana. Ecco quindi che, in vista delle rappresentazioni di fine novembre a Bergamo (in forma scenica) l’opera viene data in una specie di anteprima (in forma di concerto) a Firenze, non nella natìa Pergola peraltro, ma nella monumentale OF (la terza ed ultima recita del 15 verrà trasmessa da Radio3). Sotto la guida del Direttore Sebastiano Rolli, quattro dei cinque interpreti canteranno sia a Firenze che a Bergamo, con due diverse orchestre e cori, fiorentini e bergamaschi.
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Il libretto di Felice Romani (che anni prima ne aveva prodotto uno di pari soggetto per Carlo Coccia a Venezia) narra di vicende piuttosto complicate (sennò che melodramma sarebbe?) accadute a Woodstock (no, gli hippy non c’entrano, qui siamo in Inghilterra, l’America era ancora di là da venire!) nel lontano secolo XII, in un maniero dell’allora Re Enrico II. Costui, uno sciupafemmine degno antesignano del più famoso ottavo della serie, se la fa, sotto il falso nome (e te pareva...) di Edegardo (che sarebbe poi Edgardo in romanesco) con la bella Rosmonda (che per parte sua si innamora perdutamente di lui, ignorandone la vera identità) cornificando alla grande la nobile Leonora di Guienna e meditando il divorzio da quest’ultima.

Come sempre (o spesso, nei melodrammi perlomeno) accade, c’è qualcosa che va storto ai Re fedifraghi: capita che il giovane (Arturo) cui il Re incautamente affida in custodia segreta Rosmonda, mentre lui è occupato in una delle solite e noiose guerre con l’Irlanda, abbia non uno, ma ben due buoni motivi per sputtanarlo di fonte alla moglie: il primo è che lui, povero orfanello, deve proprio a Leonora la sua sopravvivenza, ed è quindi in debito di riconoscenza verso la Regina, cui rivela la tresca; il secondo è che lui è a sua volta innamorato stracotto di Rosmonda!

Non bastasse, si scopre che il padre di Rosmonda è tale Clifford, il vecchio tutore del Re, che appena scopre la tresca non esita a rampognare il suo sovrano (ed ex-pupillo) ingiungendogli di lasciare l’amante (che ancora ignora essere la figlia, dalla quale si era dovuto separare perchè furbescamente spedito dal Re in una missione diplomatica) per tornare alla mogliettina fedele, e ottenendo il permesso di incontrare la donna oggetto di adulterio per indurla al pentimento. Quando poi scopre trattarsi della figlia abbiamo una prolungata scena madre: Clifford svela a Rosmonda, che se ne dispera, l’identità dell’amante, che puntualmente arriva e conferma le sue intenzioni di sposarla e di scacciare Leonora. La quale a sua volta sopraggiunge e così abbiamo un parapiglia perfettamente adatto a reggere il grandioso concertato del finale primo!

Enrico insiste nel suo disegno (sbarazzarsi della moglie e sposare Rosmonda) ma Leonora si mostra tutt’altro che arrendevole e pare ben decisa a non farsi divorziare dal marito, al quale – durante un epico scazzo – rammenta che lui, insignificante Duca di Normandia, deve proprio a lei e al suo prestigio internazionale la sua ascesa al trono. Per di più gli manifesta immutato amore (!?)

Leonora ha un piano, che Clifford approva ed espone alla figlia: verrà spedita in Aquitania, sposata ad Arturo (che esulta per l’insperato regalo!) Rosmonda preferirebbe il convento (dopo Edegardo-Enrico lei non può amare altri uomini) ma alla fine cede ed accetta. Però poi è talmente ingenua da tradirsi involontariamente proprio con Enrico, che le ha appena annunciato di volerla far Regina. 

La situazione precipita: mentre attende il momento della partenza, Rosmonda è raggiunta da Leonora, che la accusa di aver deliberatamente fatto fallire il suo piano (al fine di sostituirla sul trono) e, armata di pugnale, è decisa a liberarsi di lei. Ma poi, impietosita dalle attestazioni d’innocenza della rivale, pare quasi orientata a risparmiarla. Senonchè in quel preciso momento arrivano Enrico e i suoi per sventare il suo piano, così Leonora trafigge Rosmonda e può proclamare in faccia al marito: Trema, Enrico! Io regno ancor! (Qui chiude il libretto originale, ma... ci saranno delle sorprese.)
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Beh, insomma, non sarà un libretto all’altezza delle opere della trilogia Stuart, ma non è nemmeno da buttare. Va detto che quattro dei cinque personaggi hanno un’identità storica ben precisa: Henry II, Eleanor of Aquitaine, Rosamund Clifford e suo padre Walter (e anche Woodstock è un luogo ben preciso nell’Oxfordshire). Solo Arturo è un’invenzione del librettista, al quale serviva per romanzare la vicenda: storicamente non è per nulla accertato, tutt’altro, che Rosamund sia stata eliminata da Eleanor: lo tramandano soltanto alcune tradizioni popolari. E in realtà pare che il Re e l’amante abbiano convissuto addirittura per 10 anni, avendo forse pure un paio di figli, prima della morte di lei, appena 26enne.
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Quanto alla musica, il suo livello spiega a fatica la collocazione dell’opera fra le minori di Donizetti, e meno ancora giustifica il letargo secolare che l’ha colpita: la struttura drammaturgica è assai solida, pochi sono i cali di tensione e i diversi numeri (solistici o di gruppo) sono di ottima fattura. Come ad esempio l’aria d’esordio di Rosmonda Perchè non ho del vento l’infaticabil volo? seguita dalla cabaletta Torna, ah! Torna, o caro oggetto, che verranno da Donizetti riciclate (complice la Fanny Tacchinardi-Persiani, prima Rosmonda a Firenze) nientemeno che al posto di Regnava nel silenzio (!) dapprima nelle rappresentazioni veneziane della Lucia del 1837, poi nella versione francese della Lucie (Que n'avons-nous des ailes? e Toi par qui mon coeur rayonne).

Ci sono anche due numeri, per così dire, contestati, nel senso che non si trovano nel libretto uscito in occasione della prima dalla stamperia Fantosini di Firenze. Si tratta di una nuova cabaletta di Leonora (Ti vedrò, donzella audace, nella seconda scena - con Arturo - in sostituzione di Sì, ti leggo in cor) e del finale dell’opera (Tu! spergiuro, disumano) cantato da Leonora e coro. Queste varianti si trovano nella partitura manoscritta di pugno dell’Autore, scovata a San-Pietro-a-Majella nei primi anni ’70 dello scorso secolo da parte di Patric Schmid, co-fondatore di OperaRara, scomparso nel 2005, il quale le ha poi presentate in esecuzioni pubbliche e in registrazione (1975 e poi 1994). Va ricordato che l’opera avrebbe dovuto essere rappresentata (ma non è certo che lo fu) a Napoli nel 1837, con il titolo Eleonora di Gujenna, il che probabilmente spiega la presenza del manoscritto nel locale Conservatorio. In attesa di ascoltarla dal vivo, ci possiamo gustare la registrazione del 1994 di OperaRara con la Fleming.

(1. continua)

03 ottobre, 2016

La Semiramide al Maggio, ovvero la “tagliata alla fiorentina”


Ieri pomeriggio terza e penultima recita di Semiramide all’OF, per l’occasione piacevolmente presa d’assalto da un pubblico tanto folto quanto entusiasta (il che è già di per sè un bello spettacolo...)

Semiramide è opera di lunghezza... wagneriana (intonsa tocca come nulla le 3 ore e 3/4 nette) e per questo spaventa chi la deve allestire ancor più di chi la va ad ascoltare (personalmente vorrei che di ore ne durasse cinque o sei, tale è la grandezza della musica!) Così capita quasi sempre che venga fatta oggetto di tagli più o meno corposi e più o meno giustificati. Firenze non ha fatto eccezione con potature che saranno pure, come si usa dire, di tradizione, ma alcune purtroppo intaccano componenti non proprio marginali dell’opera e qualche piccolo o medio danno alla drammaturgia e all’equilibrio complessivo lo arrecano. Sarebbe come rimuovere dalla facciata del Duomo di Firenze le nicchie con relative statue e le raggiere dei rosoni e dal campanile le colonnine che impreziosiscono bifore e trifore: certo, il Duomo resterebbe lì in tutta la sua imponenza, ma insomma...

Tanto per essere esageratamente pignoli, ecco il menu completo (rilevazione – spartito Ricordi alla mano - dalla prima radiotrasmessa il 27) della tagliata fiorentina (stra-smile!) Nel primo atto abbiamo le seguenti cassazioni:
- N°1 (Coro di apertura): tutta la sezione Dal Gange aurato alla fine; poi (esordio Idreno): seconda delle tre ripetizioni del verso Un costante e vivo amor; poi (esordio Assur): seconda delle tre ripetizioni del verso La Regina sceglierà; poi (terzetto Assur-Idreno-Oroe, A quei detti): la prima parte di Oroe; poi (Coro Ah! Ti vediamo ancor): ripetizione di In lei, elementi dei; poi (insieme Ah già il sacro fuoco è spento): prima esposizione di Trema il Tempio, infausto evento;
- Tutto il recitativo dopo il N°1 (da Oh tu, de’ Magi fino all’ingresso di Arsace);
- N°2: brevissimo recitativo dopo la cabaletta di Arsace (Ministri, al gran Pontefice);
- N°4 (Aria di Idreno): dalla ripresa di Ah! Dov’è, dov’è il cimento fino alla cadenza conclusiva (che ognora Idreno adorerà);
- Breve recitativo di Azema dopo il N°4 (Se non avesse e meritasse Arsace);
- N°5: nell’Introduzione strumentale si salta il controsoggetto, da metà della battuta 7 a metà della battuta 23 (delle 31 totali);
- Recitativo dopo il N°5: tagliato dalla frase di Semiramide E voi dunque approvate, fino a Va’, Mitrane; poi da Oroe, co’ Magi fino all’entrata di Arsace; poi da Io ne conosco già la fè fino a inizio cantabile (Serbami ognor);
- Tutto il recitativo dopo il N°6 (Oroe dal tempio nella reggia?);
- N°7: soppresso il Coro di Magi (E dal ciel placati, o numi); poi (Coro finale Atto I): tagliata la ripetizione di Atro evento...

Nell’Atto II spariscono:
- Breve recitativo introduttivo di Mitrane (Alla reggia d’intorno cauto);
- Recitativo Semiramide-Assur: da A me restava allor un figlio, fino a inizio duetto;
- N°8 (Duetto Semiramide-Assur): ripetizione di Ah! Senti! Questa gioja! fino alla stretta conclusiva del duetto;
- N°9: dalla quinta battuta del Preludio, eliminato il Coro di Magi, fino all’ingresso di Arsace (Ebben, compiasi omai); poi la frase di Oroe Gli empi conosci omai... è il tuo dover e la risposta di Arsace (Ah tu gelar mi fai); poi (Arsace e Coro) l’interiezione fra le due ripetizioni di Al gran cimento;
- N°10 (Idreno-Coro): seconda delle tre ripetizioni del verso S’abbandoni il vostro cor;
- N°11 (Semiramide-Arsace): ponte e ripetizione di Tu serena intanto il ciglio;
- N°12 (Coro Oroe dal tempio uscì): soppressa la frase Sull’Assiria al nuovo dì fino a Non v’è soglio più per te;
- Recitativo dopo il N°12 (Mitrane);
- N°13: Coro di Magi (Un traditor con empio ardir) soppresso fino ad entrata di Arsace (Qual densa notte);
- N°13: soppresso il resto della scena da Il vostro Re mirate fino al Coro finale.  

Mi limito a commentare lapidariamente solo l’ultimo dei tagli: semplicemente da denuncia penale!

Domanda: ma ne vale davvero la pena? Per quale pro? Accorciare i tempi di circa 15 minuti su 225? (ma allora perchè non fare le cose in grande e, già che ci siamo, tagliarne 30 o 45 di minuti, tornando alla barbarie della pre-renaissance...?) Oppure risparmiare un po’ di fiato ai cantanti e fiato e fatica agli orchestrali? Mah...

Vengo ai protagonisti, cominciando ovviamente da madre e figlio. Che devo dire hanno cantato assai bene, corrette in tutti i passaggi, particolarmente nelle impervie fioriture (originali e/o predisposte all’uopo). Purtroppo sia Pratt che Santafé mi paiono, come dire, fuori-ruolo, avendo voci congenitamente assai più leggere di quanto non servirebbe per i due personaggi. Pratt trasporta spesso e volentieri dei passaggi (o singole note) all’ottava superiore; nel Bel Raggio si permette addirittura un paio di MI sovracuti, staccati perfettamente e che le procurano un diluvio di applausi, poi nel Giuri ognuno sale in agilità ad un MIb ghermito approssimativamente. Tutte note che Rossini si era ben guardato dallo scrivere, conoscendo alla perfezione i limiti della mogliettina, che mai e poi mai ci sarebbe potuta arrivare. La sua è quindi una Semiramide assai lirica ma assai meno drammatica, ecco. Idem per il contralto, che in effetti è un mezzo (adatto più per Azema che per Arsace?)  

L’Idreno di Gatell ha mostrato buone (e riconosciute) qualità, apparendo abbastanza omogeneo su tutta la gamma, con qualche affanno sugli acuti (il RE, scritto in partitura, questo, uscito un po’ sporco) nella sua prima aria. Inspiegabile pertanto (o sospetto) il taglio apportato al medesimo numero. Cionondimeno si è avuto un lungo applauso dopo l’aria con cui saluta tutti, dove tocca un bel SI (non scritto).

Palazzi è un più che discreto Assur, voce sempre ben impostata, con qualche affanno però sui diversi FA sopra il rigo, dove perde chiaramente potenza e si fa sommergere da coro e orchestra (vedi la chiusa della sua grande aria nel finale).

Gli altri (Tsybulko, Lee, Giovannini e Langella) su standard appena accettabili, così come il coro di Fratini (relegato in buca, faccia al palco e dietro al Direttore, per discutibili prescrizioni ronconiane) anch’esso gratificato di sconti da saldi di fine stagione...

Benino l’Orchestra, non indenne da svirgolamenti di corni e da qualche attacco approssimativo, e malino (malissimo per parte del pubblico) il Direttore Walker. Costui si è preso una serie di buh al rientro e poi è stato sommerso di improperi – unico dell’intera compagnia - all’uscita finale. Io sono di bocca buona e gli rimprovero una certa erraticità nello stacco dei tempi, spesso fin troppo compassati e talvolta eccessivamente stretti (il coro finale davvero incredibile: ci mancava solo che invece di Vieni Arsace cantassero Vecchio scarpone...) Anche le dinamiche non sempre erano a posto... però bisogna riconoscere che pilotare fino al porto un transatlantico (pur alleggerito) come questo non è comunque cosa da poco.
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Ronconi. Parlar male dei morti, lo so, non sta bene... ma quando ce vo’, ce vo’! poi era ancora vivo nel 2011 quando inventò questa genialata per il SanCarlo. Lui, come tutti i grandi, fa grandi anche le... cazzate, come questa messinscena davvero inaccettabile (per me, ovviamente).

Dico, va bene che Semiramide è un soggetto pieno zeppo di problematiche assai cupe: lei con i continui sensi di colpa, Assur frustrato per non riuscire a raggiungere il potere, Arsace disperato che vede sfumare sul più bello l’amore della sua vita, Oroe che sfoga le sue clericali inibizioni abbeverandosi di sangue... Però, accidenti, l’ambiente immaginato da Rossi-Rossini è quello della Babilonia fiorente, prospera, ricchissima e viziosa, proprio come la stessa Regina l’aveva modellata dopo aver fatto secco il marito che la stava ripudiando! E i numerosi cori che (se non vengono brutalmente tagliati) costellano l’intero svolgersi della vicenda sono proprio lì a mostrarcene la magnificenza e la gloria. Ed è precisamente il contrasto fra l’euforia dell’ambiente esterno e lo strazio che abita le anime dei protagonisti a rendere mirabile l’intero impianto estetico dell’opera, grazie ai suoni di cui Rossini l’ha rivestito.

Ronconi? Mentre il coro vero canta (per quel che gli lasciano cantare) la sua felicità restando invisibile, noi che vediamo sulla scena? Mura diroccate e catacombe dalle quali fuoriescono ospiti di un lebbrosario: mammamia!

Non aggiungo altro per non incappare nel reato di vilipendio di cadavere, ecco.
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Che dire, al tirar delle somme? Un’occasione sprecata.

01 ottobre, 2016

La Scala si fa un bel giro di vite

 

La Scala sta ospitando una delle opere più affascinanti di Benjamin Britten: The turn of the screw, arrivata ieri alla quinta delle sette rappresentazioni. Come personalmente io vedo i tratti fondamentali dell’opera, anche in relazione al racconto ispiratore di James, ho già avuto modo di esprimerlo anni fa, in occasione di un allestimento veneziano, e a quel commento rimando le falangi (?!) dei curiosi.

Parto dalla prima scena del second’atto (occupata dall’incontro fra i due fantasmi e chiusa dalla sconfortata confessione dell’Istitutrice) che ha il suo culmine nella famosa esternazione di Quint (poi di Jessel e quindi di entrambi): The ceremony of innocence is drowned:
   

Non viene per nulla da James, ma è un verso preso di peso da una poesia di William Butler Yeats del 1919 (The second coming, Il Secondo Avvento) scritta subito dopo la Grande Guerra e la Rivoluzione d’Ottobre, che erano stati eventi di inaudita ferocia (il primo) e di violenta sovversione (il secondo):

William Butler Yeats - 1919
Turning and turning in the widening gyre 
The falcon cannot hear the falconer;
Things fall apart; the centre cannot hold;
Mere anarchy is loosed upon the world,
The blood-dimmed tide is loosed, and everywhere
The ceremony of innocence is drowned;
The best lack all convictions, while the worst
Are full of passionate intensity.

Girando e girando nella spirale che si allarga
il falco non può udire il falconiere;
le cose cadono a pezzi; il centro non può reggere;
pura anarchia dilaga sul mondo,
l’onda intorbidata di sangue dilaga, e ovunque     
il rito dell’innocenza viene sommerso;
nei migliori manca ogni fede, mentre i peggiori
sono colmi di fervente ardore.

Yeats ci vedeva il prevalere dei peggiori istinti bestiali (oggi si incarnano nell’ISIS, per dire) sui sani principii (l’innocenza) che dovrebbero governare le civiltà umane. Nel libretto della Piper il concetto (evidentemente condiviso e magari suggerito da quell’anti-militarista-obiettore-di-coscienza che rispondeva al nome di Britten) viene trasportato a livello privato: i fantasmi Quint&Jessel sono i peggiori, ma dotati di spietata decisione, mentre i migliori (l’Istitutrice) hanno perso ogni fiducia nel bene (Persa nel mio labirinto, non vedo alcuna verità, su di me incombono solamente le pareti nebbiose del male, confessa la poveretta).  

Questo rapporto di sopraffazione dei cattivi sulla buona viene dal regista Kasper Holten proposto lungo l’intero corso della storia, ma smaccatamente mostrato all’inizio del second’atto, proprio nella scena in cui si proclama che il rito dell’innocenza viene sommerso. L’Istitutrice, che già di suo è preda di oniriche visioni da incubo, si ritrova ai suoi fianchi, nel letto, i due fantasmi che, appunto, la sommergono con le loro tentazioni.

È questo certamente il momento-clou della messinscena di Holten, tutta incentrata sulle turbe psichiche dell’Istitutrice, che diventa paradossalmente la cattiva della situazione, facendo prima ammattire Flora e spingendo poi Miles al suicidio: a proposito l’ultima scena mi è parsa davvero... spropositata, con il ragazzo che urla Peter Quint, you devil! proprio abbaiando contro l’Istitutrice, per poi correre a buttarsi dal secondo piano per sfracellarsi al suolo, dove verrà raccolto in una pozza di sangue dalla povera schizofrenica... Mah!

Avendo dato la priorità alla schizofrenia dell’Istitutrice, vengono fatalmente messi in secondo piano gli aspetti che verosimilmente stavano più a cuore a Britten: non è un mistero che il compositore fosse particolarmente e in primo luogo interessato a presentarci la problematica legata ai rapporti fra adulti e adolescenti (con annesse implicazioni omosessual-pedofile); problematica assai più scabrosa di quella legata alla labilità psichica di una donna chiaramente impreparata ad affrontare certi compiti e quindi facilmente suggestionabile. Insomma: nel soggetto di Piper-Britten il piccolo Miles deve essere stato vittima delle vessazioni materiali di un adulto maschio vivo (poco importa che poi torni o no da morto...) e non delle paranoie di una donnicciuola bigotta e inesperta di tutto (massimamente di sesso). Non altrimenti si spiega come Miles, assai prima dell’arrivo dell’Istitutrice, fosse stato cacciato dalla scuola a causa di suoi comportamenti irriferibili, ma chiaramente spiegabili soltanto con la frequentazione di cattive compagnie... E che il rapporto Flora-Jessel, pur esso preesistente all’arrivo dell’Istitutrice, fosse stato tutt’altro che limpido ce lo confermano le parole della governante quando narra dei vaneggiamenti onirici della piccola, e si convince a portarla via da quella casa.

E poi che i fantasmi (come minimo quello di Quint) non siano soltanto proiezioni della psiche alterata dell’Istitutrice ce lo conferma un indizio assai scoperto: dalla sommaria descrizione che l’Istitutrice medesima fa della persona comparsale davanti già due volte (e mai vista prima) Mrs.Grose decifra senza alcuna esitazione l’identità di Peter Quint! Dopodichè vuota il sacco su una serie di fatti e comportamenti riprovevoli di cui lei stessa era stata testimone, protagonisti Quint e Jessel.

Ecco quindi che un aspetto fondamentale del soggetto originale qui viene messo in secondo piano, poichè continuamente schermato dalla presenza ingombrante e soffocante dell’Istitutrice e della sua psiche malata: ne è chiaro esempio la scena finale del primo atto, al centro della quale vi è proprio l’Istitutrice, che pare quasi telecomandarla (o magari immaginarla in sogno) invece di sopraggiungere solo a cose fatte (gli abboccamenti fra i due fantasmi e i due fanciulli). 

Insomma, una lettura, quella del regista danese, a mio modo di vedere troppo sbilanciata sul versante freudiano, che rappresenta una parte, ma non il tutto del racconto di James e ancor meno centrale (per quanto rilevante) è nel libretto dell’opera.

Vanno apprezzate le scene, con la suddivisione dello spazio in celle di dimensioni diverse: due grandi, sovrapposte, che occupano il centro e il lato sinistro del palco, e traslano in verticale per scoprire o far scomparire un sotterraneo (ambientazione del lago) che comunica con il salone del maniero attraverso una scala a chiocciola; e tre piccole sovrapposte e fisse sul lato destro, che rappresentano le camere dei due piccoli e della governante. Così diventa efficace mostrare al pubblico anche quei personaggi (i fantasmi) che spesso devono essere invisibili agli altri protagonisti. Inoltre, la chiusura alla vista, ottenuta con pareti mobili, consente al regista di zoomare quando necessario su una sola (o alcune) delle celle.

Costumi e luci contribuiscono a creare efficacemente le ambientazioni delle diverse scene: certo, gli aspetti (pur non trascurabili, anche perchè magistralmente sottolineati dalla musica) legati alla natura (il tramonto, il lago...) vengono qui totalmente ignorati, in un bianco&nero permanente e soffocante. Qualche eccesso, come il già citato suicidio di Miles, e un manichino (? della governante?) che pende impiccato dal soffitto durante il Prologo si potevano evitare, credo.
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Ottime notizie sul fronte dei suoni, dove i magnifici 13 strumentisti della Scala, tutti di fatto dei solisti in questa partitura da camera, si meritano un encomio per l’accuratezza della loro esecuzione. Christoph Eschenbach li ha guidati con la sua proverbiale e maniacale attenzione ad ogni dettaglio: molto opportuna quindi la loro apparizione finale sul palcoscenico, a prendersi i meritati applausi insieme ai protagonisti vocali, tutti indistintamente da lodare, grandi e soprattutto piccoli!   
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Ultima nota (dolente): pubblico scarso e smagritosi ulteriormente all’intervallo; captati qua e là commenti irriferibili sull’inclusione di questo titolo nel programma in abbonamento. Che dire? In questi casi torna sempre e invariabilmente la nostalgia per la cara Piccola Scala (ambiente semplicemente perfetto per questo tipo di rappresentazioni) e la rabbia per la fine che le è toccata... amen.