affinità bombarole

rinsaldato il patto atlantico

23 aprile, 2016

laVERDI 2016 – Concerto n°15


L’appuntamento n°15 della stagione vede il ritorno sul podio di Roberto Polastri, che dirige un programma assai impegnativo.

Amleto è un soggetto che Shostakovich trattò più di una volta, a partire dal 1932, quando compose musiche di scena per una rappresentazione teatrale della tragedia shakespeare-iana. Un paio d’anni fa Polastri ha ricostruito lo spettacolo a Bologna (con l’Orchestra del Comunale dove lui è di casa) ed ha pure scritto un libricino dove spiega i problemi affrontati nel rimettere in relazione il testo, curato da Akimov, e la musica del giovane Dimitri (che nella fattispecie impiega un complesso cameristico).

Qui in Auditorium invece Polastri si cimenta con una un composizione della maturità del musicista, la Suite dal film Hamlet del 1964, una musica destinata a colonna sonora del film di Kozincev, musica che impiega un’orchestra di dimensioni tardo-romantiche. Gli 8 numeri che danno corpo alla Suite accompagnano le principali vicende del film, dal ballo al fantasma, dall’avvelenamento ad Ofelia, fino al duello e alla morte di Amleto. I temi che prevalgono nel lavoro sono quelli dei tre protagonisti del film: Amleto, il Fantasma del Re (che nel film non appare e quindi dev’essere solo la musica ad evocare) e Ofelia, ma altri lo arricchiscono (la Morte, il Dubbio, l’Avvelenamento) sempre sapientemente intrecciati. È questo un lavoro che meriterebbe di avere più spazio nei programmi concertistici, un pezzo davvero rimarchevole che laVERDI – alla sua prima esecuzione - ha reso con grande efficacia, nelle crude sonorità dell’intera orchestra, come negli squarci lirici e intimistici.      
___
Dopo la pausa ecco il celebre Don Quixote di Richard Strauss, che impegna nelle parti soliste di violoncello e viola due... prime parti de laVERDI: Tobia Scarpolini e Miho Yamagishi. A dir la verità i due ragazzi hanno fisicamente poco o nulla a che vedere con i fantastici personaggi di Cervantes: lui è un Don brevilineo e piuttosto in carne; e lei più che in quelli del Panza starebbe divinamente nei panni di... Dulcinea!

Strauss ideò il Don Quixote (op.35) praticamente in parallelo con l’autobiografico (pubblicato successivamente, come op.40) Ein Heldenleben e consigliava addirittura di eseguirli nella stessa serata: forse anche lui si sentiva un po’ come un combattente contro i mulini a vento...

___
Seguiamone le avventure aiutandoci con i 14 sottotitoli (la traduzione è mia, volutamente semiseria) predisposti da Strauss (ma non riportati in partitura, ad eccezione di quelli – 2 e 3 - riferiti ai temi del Don e di Panza) e con l’esecuzione ormai storica della premiata coppia Karajan-Rostropovich (più Ulrich Koch alla viola) con i Berliner (1975).

1. Introduzione: Tempo moderato (cavalleresco e galante). Don Chisciotte va fuori di melonera per overdose di letture di romanzi cavallereschi e decide di diventare un cavaliere errante.
(3”) Oboi e flauti introducono in RE maggiore un clima cavalleresco (un motivo che prefigura le letture che daranno alla testa al Don) dal quale emerge (14”) un tema galante, esposto da violini secondi e viole a canone, che si impenna per tre volte e poi scende modulando cacofonicamente (un tritono, che di per sè non annuncia nulla di buono) dal RE al LAb maggiore. Da qui (14”) viene ripreso dai primi violini e riportato al RE maggiore. A 44” i clarinetti chiudono la frase con due successive discese dal piglio alquanto vanesio. (Scopriremo più tardi che questi sono i tre motivi che caratterizzano il Don). Ora inizia la lettura che farà uscir di senno il nostro hidalgo: sono le viole (1’07”) a proporcene il motivo (derivato da quello dell’esordio) qui ancora in RE, che tornerà spesso e volentieri nel seguito, come un canovaccio che tiene insieme l’intera opera. Da esso emerge (1’28”) in SOL maggiore, nel primo oboe, il tema di Dulcinea del Toboso, che sarà al centro di tutta l’avventurosa e rocambolesca vicenda e che ora chiude mestamente (un presentimento?) in FA# minore. Subito (2’03”) la mente del Don è scossa da fortissimi fremiti e immagini di battaglie furibonde (evocati negli ottoni con sordina da un motivo derivato ancora da quello della lettura) che portano alla riproposizione (in FA# maggiore) del tema di Dulcinea (2’21”) ora contrappuntato da quello della lettura, fino a sfociare (2’41”) nel MIb maggiore con il quale i corni espongono il tema cosiddetto della devozione, che è una miscela di quello di Dulcinea e della chiusa della frase iniziale, seguito da un’eroica discesa dal MIb. Torna (3’25”) il tema delle letture, che prelude (3’41”) ad un surriscaldamento dell’atmosfera, con un motivo il cui incipit tornerà a partire dalla variazione IV e sempre con connotati negativi, mentre il tema della lettura fa da sfondo all’agitarsi di quello della devozione. Due schianti (4’16”) subito ripetuti segnalano il progressivo eccitarsi della mente del Don e si ode in trombe e tromboni (4’36”) una variante allargata e proterva del tema della lettura, che sta ormai travolgendo gli argini e (5’49”) con un ultimo poderoso assalto conduce il Don (5’57”) alla follia, testimoniata da due ricorrenze del bizzarro inciso discendente che aveva chiuso la prima esposizione del tema galante. Un LA fortissimo e dissonante (con MIb, DO# e SIb) dell’orchestra chiude l’introduzione (6’23”). 
 
2. Tema: Moderato. Don Chisciotte, il cavaliere dalla magra figura.
È il violoncello - che si incarica (d’ora in poi, principalmente) di interpretare la figura del Don - che ce ne espone i temi, già anticipati del resto nell’introduzione. Quello cavalleresco (6’25”) adesso è più sviluppato e principia in RE minore; poi ecco quello galante (6’40”) che ora è in DO maggiore, ripreso poi in FA; e infine (7’12”) quello che ho definito vanesio che modula verso il RE.  

3. Maggiore (tonalità, ndr): Sancio Panza.
Anche il rotondo scudiero viene dipinto in musica con tre temi: il primo (7’31”, clarinetto basso e tuba tenore) pare evocare l’incedere non proprio atletico del nostro; il secondo (7’42”, nella viola, strumento principalmente associato a Sancio) ricorda la sua parlantina impertinente; il terzo (8’00”, dopo una fugace ricomparsa del primo) ci presenta la bizzarra prosopopea che ne caratterizza l’interloquire (come si udrà nella terza variazione) con la pedante chiusa sugli arpeggi ascendente e discendente di FA maggiore. Il primo tema (8’30”) chiude, con una specie di sberleffo, la presentazione delle carte d’identità.

4. Variazione I: Comodo. Partenza della coppia per compiere imprese in nome di Dulcinea. Avventura con i mulini a vento. (Libro I, Capitoli VII-VIII).
Il Don (8’44”) è il primo a muoversi, accompagnato da una variazione dell’incipit del suo tema cavalleresco, nel violoncello. Subito lo segue Sancio, con il primo dei suoi temi (clarinetto basso). A 9’07” compare il tema galante del Don, e c’è un preciso motivo: un istante dopo ecco flauto ed oboe esporre in DO maggiore il tema di Dulcinea! La quale è con tutta evidenza la musa ispiratrice delle imprese che l’eroe si appresta a compiere. Il Don si riveste tosto del suo tema cavalleresco e, sempre seguito dal fido Sancio, si appresta ad affrontare i giganti (mulini a vento) che (9’43”) gli si parano davanti. Lui si scaglia contro uno di loro (9’56”) ma lo schianto gli è fatale (10’13”). Il poveretto è ridotto male, ha pure perso la lancia, frullata dalle pale del mulino, e il tema di Dulcinea (10’31”) sembra esalare dolorosamente e vergognosamente dalle sue ferite. Ma lui non molla e (10’55”) il suo tema galante torna a farsi udire in DO maggiore, poi in SI - mentre la tromba ci ricorda le sue letture - seguito da quello vanesio (11’17”) che ci assicura che il nostro è più che mai... in sella!

5. Variazione II: Battagliero. La lotta vittoriosa contro un gregge di pecore l’esercito del grande imperatore Alifanfaron e di Pentapolin, Re di Garamantas. (Libro I, Capitolo XVIII).
Per confermarci che il Don è al massimo della prestanza fisica, il suo tema cavalleresco, nello splendore del RE e opportunamente irrobustito, viene esposto (11’25”) da ben tre violoncelli solisti; e si arricchisce (11’32”) di una variante invero eroica! Ed ecco che (11’44”) il temibile nemico si presenta in tutta la sua... belante baldanza. Mentre le viole sembrano evocare il polverone sollevato dai quadrupedi, sono i fiati (gli ottoni tutti con sordina) a dipingere mirabilmente – attraverso l’emissione del suono mediante oscillazione della lingua - la scena del gregge di pecore belanti che si avanza verso i nostri eroi. Con una chiara allusione al Tell (12’03”) i legni espongono semiminime alternate a terzine con andamento fortemente ondeggiante: l’esercito è ormai a tiro e il tema cavalleresco del Don (12’31”) lo affronta in campo aperto. La battaglia è dura, dato l’impari rapporto di forze, il belare delle bestie diventa parossistico, ma alla fine (12’48”) l’eroe ottiene la prima delle due sue sole vittorie, suggellata dal suo terzo tema, chiuso poi da un’enfatica cadenza attorno alla tonica RE.    

6. Variazione III: Tempo moderato. Dialogo fra il cavaliere e il suo tirapiedi. Pretese di Sancio e promesse di Chisciotte. (Libro I, Capitoli X-XVIII-XIX).   
È la variazione più corposa dell’opera e si divide chiaramente in due parti: il dialogo fra i due protagonisti e poi la vision del Don scaturita dalle sue letture. È Sancio (13’03”, tuba e clarinetto basso, come subito dopo) che pare chiedere la parola, con il suo primo tema; il Don gli risponde (13’09”, flauti e oboi) con il tema cavalleresco. Ancora Sancio (13’17”) e nuovamente il Don (13’23”) questa volta con il tema galante. Adesso (13’30”) Sancio comincia ad agitarsi (è la viola che espone il suo secondo tema petulante) e il Don ribatte (13’35”) con il suo terzo tema. Il tutto si ripete ancora più volte, con una insistente accelerazione di Sancio, che culmina a 14’13”. Qui il Don interloquisce con il suo tema cavalleresco (variato in minore) e poi (14’32”) con quello galante, in DO. Ora Sancio si fa più impertinente e il Don fatica a tenergli testa (è il suo terzo tema che ci prova). Sancio si imbarca poi (15’21”) in un vero e proprio discorso che culmina (15’48”) nel pedante saliscendi sull’arpeggio di RE maggiore. E da qui il nostro si lancia in nuove disquisizioni (16’03”) e con altri importanti argomenti (16’21” e poi 16’34”) forse volti a dissuadere il Don dalle sue velleità, fino a saturare la pazienza del padrone, che reagisce (16’42”) in modo quasi violento, con il suo terzo tema, che ora si sfoga fino a chiamare in causa le sue dotte conoscenze (16’52”, tema enfatico delle letture). Ed ora Sancio stia un po’ zitto, poichè il padrone sta per impartirgli un’autentica lezione sulle imprese cavalleresche! Inizia qui (17’08”) la seconda parte della variazione, una terza piena (FA# maggiore) sopra la tonalità di base (poichè ci si sta elevando a nobilissime altezze). È occupata dalla visione di un fantastico viaggio verso la gloria, che il Don ci espone appoggiandosi al tema delle sue letture. Il quale si ripresenta, maestoso e solenne, per ben 7 volte toccando ogni volta note sempre più alte: (mediante, dominante, tonica, mediante abbassata, dominante, sopratonica, mediante). Infine, quasi inevitabilmente (18’42”) si trasfigura nel tema di Dulcinea, poichè è la nobile dama l’oggetto e il fine delle imprese sognate dal Don. Tema che ricompare fugacemente (19’09”) in SOL maggiore, per poi (tornando al FA#) lasciare spazio (19’32”) ad un ritorno davvero imponente del tema galante del Don, che si innalza sontuoso e poi insiste con una lunga cadenza a lunghezze sempre più strette sulla mediante LA#, chiusa (19’59”) con una coda che lascia spazio (20’12”) ad un ultimo ritorno nel violoncello solo del tema delle letture, seguito a ruota (20’19”, in SOL maggiore, nell’oboe) da quello di Dulcinea. Adesso persino Sancio (20’31”, tuba tenore e clarinetto basso) pare lasciarsi convincere dagli argomenti del padrone! È ancora il violoncello (20’45”) a riproporre il tema delle letture, ripreso nella forma variata da trombe e tromboni. La variazione sembra chiudersi su un dolce accordo di FA# maggiore (21’24”) senonchè gli segue un ultimo apprezzamento di Sancio (nel clarinetto basso) a cui il Don risponde indispettito con il suo terzo tema, che porta direttamente alla successiva variazione.

7. Variazione IV: Poco più largo. Incontro sfigato con una processione di pellegrini banda di sequestratori. (Libro I, Capitolo LXII).
Il Don (21’47”) parte alla ventura, con il suo tema cavalleresco, ora in RE minore. Su ogni battuta di 4/4 il primo è di pausa, seguito da tre con terzine proprio scalpitanti (è Ronzinante che ha un passo evidentemente sghembo...) In lontananza (22’23”) si intravede una processione che reca la statua della Madonna. Sono trombe, tromboni e fagotti (strumenti da chiesa) ad esporre un mesto corale, mentre il clarinetto basso e poi l’oboe ripetono l’inciso già apparso e come incipit in un motivo dell’introduzione (a 3’41”). Il Don si mette in testa che si tratti di una banda di sequestratori che si portano via una dama, così (22’51”) passa all’attacco, ma subito (22’56”) viene abbattuto e stramazza rovinosamente al suolo. La processione si allontana (22’56”) lasciando l’eroe privo di sensi. Sancio (23’15”) lo crede forse morto, ma uno spezzone del tema cavalleresco lo convince del contrario, così lui si prepara a fare una bella dormita, accompagnato da due sonori sbadigli (23’32”) di tuba e controfagotto.    

8. Variazione V: Assai lento. La veglia in armi, pensando a Dulcinea lontana. (Libro I, Capitolo III).
Il Don, evidentemente ancora intontito, adesso sogna (23’47”) una veglia in armi. È l’inciso non proprio consolante che accompagnava la processione che continua a occupare la sua mente, sviluppandosi in un lungo e struggente recitativo del violoncello, che all’inizio il corno contrappunta sommessamente con il tema della sua Dulcinea. Tema che poi ricompare (25’26”) ripetuto e poi letteralmente circonfuso (25’47”) di un’aureola celestiale. Il tema galante del Don (25’59”, molto appassionato) si ripresenta, sfumando (26’15”, in RE minore) ancora su Dulcinea; poi riprende il recitativo che culmina in una riapparizione (26’51”) del tema galante del Don seguito (27’29”) da quello, ora in SOL maggiore, di Dulcinea, dal quale si modula al RE maggiore per la sognante chiusura della variazione.      

9. Variazione VI: Veloce. Incontro con una bifolca che per Sancio sarebbe Dulcinea affatturata. (Libro II, Capitolo X).
Su un tempo di danza di 5/4 (2+3) i due erranti incontrano (27’55”) tre ragazzotte puzzolenti d’aglio a cavallo di asini e Sancio assicura il Don che una di loro è Dulcinea vittima di un malefico incantesimo. Il Don (28’05”) le porge omaggio, con ben tre esibizioni del suo tema galante, chiuse (28’18”) da altrettante perentorie scappellate. Adesso (28’22”) anche Sancio lo imita, apostrofando la bifolca (28’32”, nella viola) con il tema di Dulcinea. Lei però si spazientisce e se ne fila via lasciando i due con un palmo di naso, evocato (28’56”) da due ritorni del terzo tema (quello vanesio) del Don.

10. Variazione VII: Un poco più tranquillo di prima. La cavalcata fra le nuvole. (Libro II, Capitolo XLI).
Il Don e Sancio sono vittime di uno scherzo perpetrato da due nobili che li ospitano: per rendere giustizia ad una donna barbuta vengono bendati e messi su un finto cavallo alato sul quale dovranno percorrere 9681 leghe in aria. I due abboccano e qui (29’09”) inizia il finto volo, con impiego della macchina del vento. Sono 11 sole battute su un pedale fisso di RE di contrabbassi e timpani (come dire: il finto cavallo alato è ben fermo a terra!) sul quale i fiati gravi (corno inglese, fagotti, controfagotto, tromboni e tube) descrivono le ampie volute dell’immaginario ippogrifo, mentre gli altri strumenti espongono i temi della lettura, del Don e di Sancio che letteralmente volano nello spazio, in un’ubriacante passeggiata chiusa da un borbottio di fagotti e controfagotto.

11. Variazione VIII: Comodo. Viaggio sfigato sulla bagnarola incantata. (Libro II, Capitolo XXIX).
Il Don porta Sancio su una zattera che spinge nella corrente del fiume (30’25”) e il suo tema galante, in FA, continuamente ripetuto ad altezze diverse, lo segue nel suo viaggio verso immaginarie imprese, mentre archi e strumentini evocano il gorgoglio dell’acqua e i corni sostengono il ritmo di barcarola. Ma si arriva ad una diga che alimenta alcuni mulini (31’22”) e i nostri, per evitare di essere affettati dalle pale, si buttano in acqua, e vengono salvati da mugnai che il Don aveva scambiato per diavoli. Portati a terra (31’37”, la tonalità è passata a RE minore) li vediamo fradici e sgocciolanti (il pizzicato degli archi, dapprima sul tema delle letture e poi - 31’49” – dopo quello di Sancio). Un religioso corale in RE maggiore nei fiati (32’00”, sempre sul tema delle letture) evoca l’implorazione di Sancio a far finire questo supplizio.  

12. Variazione IX: Veloce e tempestoso. Lotta contro due supposti maghi monaci benedettini a cavallo di mule grosse come dromedari. (Libro I, Capitolo VIII).
Su un agitato RE minore, il tema cavalleresco del Don, divenuto quanto mai minaccioso (32’16”) si slancia per quattro volte verso due malcapitati monaci che cavalcano due grosse mule. Due fagotti (32’32”) evocano le giaculatorie dei religiosi, che il Don scambia per formule magiche e così si scaglia (33’20”) contro i due costringendoli ad una velocissima fuga, inseguiti dai suoi improperi (quattro schianti degli archi, 33’27”).

13. Variazione X: Molto più largo. Secondo combattimento contro il cavaliere della Bianca Luna. Chisciotte, sconfitto, si dà all’ippica alla pastorizia. (Libro II, Capitolo LXIV-LXVII-LXIX).
Dopo aver cercato senza successo (come Cavaliere degli Specchi) di convincere il Don ad abbandonare le sue fisime sui cavalieri erranti, il suo buon vicino Samson Carrasco torna alla carica (travestito da Cavaliere della Bianca Luna) e stavolta la spunta lui. La battaglia tra i due è evocata (33’29”) dal tema delle letture (tromboni e corni) cui seguono spezzoni dei tre temi del Don. Ancora le letture (33’39”) che introducono il tema brutale di Carrasco, mutuato da quello della processione (variazione IV) e della veglia (variazione V). Ed è questo tema ad imporsi selvaggiamente, sovrastando ciò che resta delle letture del Don e dello stesso eroe, con il violoncello ridotto a semplici balbettii. Così (34’14”) al Don non resta che la rinuncia e il ritiro in campagna. È una vera e propria (o... impropria) marcia funebre in RE minore quella che ascoltiamo, scandita dai secchi rintocchi in LA del timpano: vi distinguiamo ripetutamente il tema galante del Don, che però si affloscia sempre con mestizia, e l’immancabile motivo delle  letture. Poi ecco una prima apparizione di Sancio (34’46”, tuba tenore) e quindi una seconda (35’04”) finchè arriviamo al ritiro del Don a fare il pastore (35’29”, corni e poi corno inglese, sul già citato motivo rossiniano dal Tell). A quanto pare anche Sancio (35’40”) sembra gradire il ritorno alle... stalle, visto che le stelle son mancate! Ancora spezzoni dei temi del Don e delle letture, poi il timpano (36’32”) torna a martellare i suoi rintocchi a morto, mentre il secondo e terzo tema del mancato eroe sembrano proprio cadere sotto i colpi del destino. È proprio l’agonia di Chisciotte e l’atmosfera (37’00”) si fa sempre più rarefatta, il violoncello ancora esala stancamente poche note (LA-SIb, quasi un faticoso respiro) prima di chiudere la variazione, con violini e arpa, sull’accordo di dominante di RE. 

14. Finale: Assai tranquillo. Ritorno in sè. Vita contemplativa. Morte. (Libro II, Capitolo LXXIV).
Ma il nostro eroe non è ancora del tutto finito. Il suo violoncello (38’11”) sembra leggergli ancora le fantastiche avventure dei cavalieri erranti, ma adesso si tratta dell’avventura esistenziale del Don che arriva alla conclusione, mirabilmente espressa dalla lunga melodia in RE maggiore che sale progressivamente fino a toccare la dominante (LA acuto, a 39’11”, contrappuntato dalla tromba) da cui ripiega verso il basso, sfociando (40’06”) negli spasimi della morte, sottolineati dalle biscrome degli archi. Il motivo che per il Don rappresenta la sventura torna a farsi udire (40’21”) ma sfuma in quello cavalleresco, che subito dopo (40’57”) flauti ed oboi ripropongono ad accogliere (41’02”) il tema di Dulcinea. Ancora il tema galante (41’30”) in violini e viole torna ripetutamente, poi ecco di nuovo (42’26”) quell’inciso menagramo, quindi (42’37”) il terzo tema del Don, qui davvero nobilitato dal clarinetto. Torna il violoncello di Chisciotte a riproporre (42’49”) il tema ostile, ma infine (43’15”) il terzo tema del Don porta al celestiale RE maggiore conclusivo.
___
L’orchestra è schierata con le viole al proscenio, così da mettere in primo piano la Miho, mentre Scarpolini è sistemato proprio dietro il podio, avendo alle spalle a sinistra i colleghi. Il suo strumento ha un suono molto scuro nei gravi e squillante negli acuti, quindi mi pare perfetto per impersonare un tipo come Don Chisciotte (e come l’ha dipinto Strauss). La parte è assai impegnativa (si usa dire che si tratta quasi di un concerto per violoncello e orchestra) e ciò aumenta i meriti di Scarpolini, che ha mostrato di averla assimilata al meglio.

La partitura è così ricca che oggettivamente non è facile far emergere tutti i minimi dettagli (temi spesso solo accennati, magari in mezzo a pieni orchestrali) e da questo punto di vista qualcosa può essere migliorato, tuttavia mi è parsa nell’insieme un’esecuzione più che dignitosa.

Era lodevole l’idea di proiettare sugli schermi le didascalie delle diverse sezioni dell’opera: peccato però che dalla variazione 3 si sia saltati direttamente alla 8, e così qualcuno nel pubblico non si sarà raccapezzato nella trama del racconto di Cervantes-Strauss (speriamo che domenica le cose funzionino a dovere).

Alla fine gran successo per i solisti e per l’intera orchestra, la cui sezione dei celli ha voluto omaggiare il suo alfiere (più la... Dulcinea Miho) accompagnandoli in un pregevole bis

21 aprile, 2016

La cena degli obbrobri (di Martone)

 

Arrivato il mio turno in abbonamento (sennò, lo dico subito, al Piermarini stavolta non mi ci vedevano proprio, chè avrei dato il mio modesto contributo al computo degli innumerevoli posti vuoti in sala) eccomi a riferire della ripresa alla Scala, dopo nemmeno 92 anni (!) dell’ultima opera verista di Umberto Giordano: La cena delle beffe.  

Questa musica è di quelle che non ti fan venire la pelle d’oca, non ti sbudellano e non ti fanno piangere (nè ridere, per la verità). Insomma, entra dall’orecchio sinistro per uscire dal destro senza averti lasciato int-’a-capa tracce indelebili. Ma anche senza aver fatto danni cerebrali irreparabili, e di ciò va dato atto al compositore.

Carlo Rizzi per la verità non ci prova nemmeno ad aggiungere del sale, o pepe, o melassa agli ingredienti previsti dalla ricetta, e quindi raggiunge in pieno il risultato di cui sopra. Con l’aggravante di appiattire il tutto sul forte, salvo pochi squarci di... fortissimo.   

Il cast vocale è per definizione alle prime armi con quest’opera (gli specialisti di essa sono in pensione da tempo...) e quindi i cantanti fanno ciò che possono (e anche vogliono, a giudicare dai risultati) sicuri che nessuno potrà smentirli opponendo esempi di attualità. Anche loro sembrano seguire le orme del Direttore, e così di espressione, sensibilità e simili bazzecole non se ne parla proprio (salverei solo Alaimo, che peraltro non ha una voce proprio adattissima al ruolo di Neri e infatti mi dà l’impressione di scurirla artificiosamente). Insomma, tutti quanti concorrono a rendere abbastanza insopportabile una musica che è già di per sé indigeribile.
___
Ho intitolato la mia cronaca scrivendo di obbrobri del regista. E non a caso, poichè davvero Mario Martone (recidivo oltretutto, vedi lo sfigato Oberto di 3 anni fa) ha equivocato totalmente la natura del soggetto. Quindi: se lo ha fatto in buona fede, merita di tornare a studiare per bene il libretto di Sem Benelli e di restituirci il maltolto; in caso contrario, sarebbe passibile di denuncia per adulterazione e contraffazione di prodotti preziosi o artistici (o pseudo- nella fattispecie) come chi smercia Lacoste, o Rolex, o VanGogh, o financo Fiat farlocche, ecco.

Il problema non è – al solito – il diritto del regista alla trasposizione geo-temporale del soggetto. Il che è tollerabile e financo apprezzabile, a patto però che del soggetto vengano conservate le fondamentali caratteristiche, e non soltanto la sottile epidermide che lo ricopre.

E di che tratta il testo di Benelli? Di una storia maturata sullo sfondo della rivalità fra rampolli di famiglie-bene; che ha come moventi il tasso di virilità e il possesso esclusivo o condiviso di qualche femmina dai costumi più o meno facili; rivalità che degrada dal piano poco più che goliardico a quello cruento, provocando gelosie, picche e ripicche, scherzi-da-prete e sentimenti di vendetta sempre più parossistici, fino a degenerare nel delitto e nel sangue. Quindi, gli effetti possono anche essere drammaticamente estremi, ma la causa che li ha generati è semplicemente risibile, proprio come per futili motivi di campanilismo si ingenerano spesso faide sanguinose fra contrapposte tifoserie.

Orbene, cos’ha a che fare tutto ciò con la criminalità organizzata? I mafiosi (a Manhattan come a Corleone) si dividono forse in cosche per contendersi qualche zoccola? O per stabilire chi ce l’ha più lungo? Ecco la domanda capitale da porre al regista, che in linea di principio nessuno potrebbe censurare per aver spostato di 700 anni in avanti e di 6.500Km a occidente il teatro della vicenda. Solo che lui non l’ha fatto per mettervi al centro una faida fra bande di giovinastri del Bronx (col che ci si sarebbe limitati a compiangere l’insulsaggine della trovata, visto che The warriors l’hanno già inventato altri) ma per lucrare sulla presunta pregnanza dell’ambientazione nel mondo del padrino, cosa che farebbe per definizione di un regista un genio! Mamma mia... E pensare che allora la soluzione di più profonda attualità era qui, a portata di mano, e proprio a Firenze! Bastava guardare un pochino dentro e fuori il giglio magico o a casa di Denis (tera-smile!)

Naturalmente non mancano nello spettacolo arditissime trovate, perchè bisogna pur ricordare al gentile pubblico (bue) che questa è un’opera verista, e cosa c’è di più verista del porno? Così ci sorbiamo la Cintia che si fa un solitaire eccitata dagli amplessi di Ginevra con Giannetto e poi la medesima Ginevra che accenna un - siamo a Manhattan, eh! - blowjob (in slang: fellatio) per farsi perdonare da Neri il suo tradimento. Evabbè... 

Non parliamo poi del rispetto che Martone dimostra per la musica. Giudicandola (e qui non ha tutti i torti) insignificante, si permette però di irriderla, facendo fermare l’intera orchestra, prima del celestiale accordo di SIb maggiore che si ode al calar del sipario, per propinarci una ben assestata salva di colpi di mitraglietta esplosi dalla santarellina Lisabetta, trasformatasi nella circostanza in vendicatrice dei torti subiti da tutte le femmine dell’universo. Evvai! Così quando metterà in scena Parsifal (ma speriamo... mai) farà entrare Kundry nella sala del Gral, armata di kalashnikov, per compiervi una carneficina (o questo finale l’ha già inventato qualcun altro?)

20 aprile, 2016

laVERDI fa teatro con Michieletto

 

Ieri sera il Piccolo Teatro di Milano – a 60 anni di distanza dalle storiche rappresentazioni di Strehler – ha tenuto a battesimo la prima delle ben 44 recite di Die Dreigroschenoper (L’opera da tre soldi, presentata nella traduzione italiana di Roberto Menin) di Brecht-Weill e messa in scena da Damiano Michieletto. In buca elementi dell’Orchestraverdi e sul podio uno dei suoi Direttori quasi stabili, Giuseppe Grazioli.

Teatro affollatissimo (con balconata presa d’assalto da adolescenti, il che è un gran bel segno) e a lungo plaudente per l’intera compagnia, interpreti, musicisti e regia.

Sul piano musicale la dozzina di strumentisti (fiati, tastiere e percussioni) de laVERDI sotto la direzione di Grazioli ha svolto efficacemente il suo compito di supporto alle canzoni e ballate che costellano questo particolare Singspiel, dove le parti recitate hanno un peso preponderante su quelle musicate. E forse per questa ragione, dato che il corposo testo di Brecht è stato impiegato in larghissima misura (pochi i tagli o le variazioni) si è deciso di impiegare più attori-cantanti che cantanti-attori. Di conseguenza sarebbe ingeneroso mettersi a giudicare gli interpreti sotto il piano puramente musicale. L’importante è che tutti abbiano fatto del loro meglio per rendere godibilissimo lo spettacolo. Mi limito a citare un nome per tutti: l’impareggiabile Peachum di Peppe Servillo.

Michieletto – che viene dal teatro di prosa, conviene ricordarlo – ha impiegato la sua fantasia per dare all’opera un tocco di attualità, prendendosi quindi qualche libertà rispetto al testo originale.

Le scene di Paolo Fantin hanno come base costante l’aula-bunker di un tribunale (il processo a Mackie) dentro la quale vengono rivissute le vicende dell’opera come fossero deposizioni di testimoni: la cosa può forse rischiare di apparire monotona tanto che, per movimentare la scena, le varie suppellettili (scranno del giudice, tribunetta della giuria popolare e banchetti degli imputati) sono montate su rotelle per poter essere facilmente spostate quà e là. Efficaci i costumi di Carla Teti e le luci di Alessandro Carletti. Chiara Vecchi è responsabile delle coreografie che movimentano alcune scene dell’opera.

Dicevo delle libertà che si è preso Michieletto, intese a dare qualche tocco di contemporaneità alla storia, di per sé sempre attuale, di Brecht. Cito come esempio la scena - terzo atto, invero di grandissimo impatto - dei mendicanti di Peachum che vengono presentati come moderni migranti naufraghi a cui poi vengono a mancare anche i giubbetti arancione di galleggiamento, facendoli colare a picco. E soprattutto il finale, dove il regista è quasi più brechtiano di Brecht: presentandoci la mancata esecuzione capitale di Mackie come effetto della corruzione dei magistrati (con una gran nuvola di banconote sparate fuori dalla classica 24ore-da-mazzette) prima ancora che dall’insperata grazia concessa dalla corona britannica. Ma nel complesso mi sentirei di giudicare l’allestimento fra il buono e l’ottimo.

In conclusione, una proposta che fa onore al teatro che fu dei grandi Giorgio Strehler e Paolo Grassi.

18 aprile, 2016

Revival caselliano a Torino. 3

 

Ieri pomeriggio al Regio torinese seconda de La donna serpente di Alfredo Casella. Teatro piacevolmente affollato, con buona presenza di ragazzi, che già avevano mostrato interesse per l’altra favola in musica programmata a inizio anno, La piccola volpe astuta.    

La positiva impressione suscitata (per quanto mi riguarda, perlomeno) dalla visione in TV della prima di giovedi scorso è stata confermata in pieno. A partire dall’allestimento di Arturo Cirillo, che ha optato per scene (di Dario Gessati) assai stilizzate e minimaliste, quindi poco rispettose, se si vuole, delle favolistiche didascalie del librettista Lodovici, ma concentrando i caratteri fiabeschi del soggetto nei bellissimi costumi di Gianluca Falaschi e nelle luci assai efficaci di Giuseppe Calabrò.

A proposito di costumi, intelligente è aver rivestito le quattro maschere con quelli della tradizione veneziana (Pantalone, Brighella, Truffaldino e Tartaglia) anche se Lodovici, per accentuare l’ambientazione caucasica del racconto di Gozzi ne ha islamizzato i nomi in Pantul, Albrigor, Alditruf e Tartagil (i primi due in Gozzi parlano in dialetto veneto, oltretutto...)        

Cirillo opta per una totale glasnost (trasparenza) consistente nel mettere in mostra, davanti agli occhi dello spettatore, anche scene o personaggi che il libretto prescriverebbe di celare agli sguardi del pubblico. Ciò accade in special modo nell’atto conclusivo, a partire proprio dall’inizio, preludio strumentale e aria di Miranda (la leopardiana Vaghe stelle dell’Orsa): che si dovrebbero ascoltare a sipario chiuso e nella più totale oscurità, per evidenti ragioni di ambientazione (l’impenetrabile dimora di un rettile) e per non dover mostrare un serpente che canta! Invece Cirillo fa esibire durante il preludio la bravissima e sinuosa danzatrice Vilma Trevisan e poi ci mostra Carmela Remigio che canta la sua struggente aria mirabilmente abbigliata con uno dei costumi di Falaschi.

Più avanti, mentre si prepara la tenzone fra Re Altidor e i tre mostri, è previsto un breve siparietto di cui sono protagonisti il Re delle fate (Demogorgon, padre di Miranda) e il mago Geonca (protettore di Altidor). Il libretto prevede espressamente che i due non si vedano, ma cantino stando dietro le quinte; non solo, ma la loro voce dovrebbe arrivare in sala attraverso forti altoparlanti elettrodinamici (da qui l’indicazione: duetto degli altoparlanti!) È una più o meno voluta imitazione del vocione di Fafner che nel Siegfried si deve udire attraverso un megafono, per dare l’impressione di cavernosità e lontananza delle voci. Ecco, Cirillo fa invece entrare sul palco i due personaggi e li fa cantare al naturale, senza megafoni di sorta.

Infine, anche l’ingresso di Togrul con i due figlioletti di Altidor dovrebbe avvenire dopo che la voce del Visir si è udita da dietro le quinte: qui invece lui canta dopo essere ben entrato in scena. Beh, non mi sentirei francamente di censurare più di tanto queste scelte del regista (che ci ha anche risparmiato il passaggio della distruzione del sepolcro del serpente-Miranda e della sua riduzione in cenere).

Casella ha infarcito l’opera di passaggi puramente strumentali - formalmente motivati dalla necessità di coprire complicati cambi di scena - ma che a lui risultavano oltremodo congeniali, date le sue attitudini di musicista puro. Qualche esempio: il lungo interludio che separa il Prologo dall’inizio dell’Atto I (e che ha quasi una funzione di ouverture) dovrebbe permettere di sostituire la lussureggiante scenografia iniziale del mondo delle Fate con quella orrida e selvaggia del deserto in cui troveremo Albrigor e Alditruf. Oppure, nell’Atto I, la scena del sonno di Altidor, con la bellissima berceuse. O ancora, nell’Atto II, la transizione verso la scena IV (a Teflis) con la marcia delle amazzoni. Ecco, avendo Cirillo di fatto eliminato la necessità di complicati cambi di scena, ha avuto l’idea vincente di riempire gli spazi puramente sonori della partitura con le coreografie di Riccardo Olivier e i quattro danzatori della Fattoria Vittadini, più 10 mimi impiegati in funzione di... fate-maschio (= fati!) in ciò rifacendosi alla tradizione dell’opera barocca, tanto cara al compositore.

A proposito di mimi, Intelligente (e didascalico) anche l’impiego di due di loro in veste di marionette manovrate dalle due maschere per rappresentare i travestimenti Pantul-Checsaia e Togrul-Altamuc nella quarta scena dell’Atto I. Simpatica anche la resa dell’inizio della scena magica (terza dell’Atto I) dove Togrul e Tartagil invece che calare dall’alto in groppa a due grosse libellule arrivano su due trabiccoli multicolori spinti da due mimi.
___
Ma il tutto è assai funzionale alla narrazione musicale di Casella, della quale si fanno carico Gianandrea Noseda, gli orchestrali e le voci. Il Maestro sciorina la sua grande dimestichezza con la musica di Casella e non lascia mai cadere la tensione (perdonabile qualche eccesso di decibel) e mette benissimo in risalto tutte le scoppiettanti idee musicali che costellano la partitura, benissimo assecondato da un’Orchestra in stato di grazia.

Sul fronte voci, un encomio si merita subito il coro di Claudio Fenoglio, impegnato a pieno organico in passaggi di notevole difficoltà ed effetto (Atto III) ma anche a piccoli gruppi in scene di grande lirismo (ad esempio: le Nutrici...)

Tutto il cast mi è parso offrire una prestazione rimarchevole, a partire dalla protagonista Carmela Remigio, perfettamente calatasi nella parte di Miranda: prestazione che ha avuto ovviamente il suo apice nella difficile quanto commovente aria del serpente.

Accanto a lei, ottimo Piero Pretti, voce squillante e sempre ben intonata, capace di sovrastare anche i fracassi orchestrali, ma efficace anche nelle tante espressioni di puro lirismo che caratterizzano la parte.

Le due guerriere Armilla e Canzade sono splendidamente impersonate da Erika Grimaldi, che ha esibito una bellissima voce da soprano drammatico, e da Anna Maria Chiuri, autorevole in tutta la non facile tessitura. Metterei appena un filino sotto la prestazione di Francesca Sassu (la sbifida fata Farzana) che ha esibito qualche urlo di troppo sugli acuti.

Bravi tutti i quattro interpreti delle maschere, Francesco Marsiglia, Marco Filippo Romano, Fabrizio Paesano e Roberto de Candia. A quest’ultimo darei la palma di primus-inter-pares... Ottimo mi è parso Fabrizio Beggi, in specie nelle accorate esternazioni verso i due pargoletti di Miranda. Sebastian Catana ed Emilio Marcucci hanno avuto, come detto, il privilegio di cantare al naturale e senza amplificazione, il che gli ha consentito di esibire voci robuste e ben adatte ai ruoli (Demogorgon e Geonca).

Ma bene hanno operato anche tutti gli altri interpreti minori, dando il loro valido contributo alla notevole resa complessiva dello spettacolo.    
___
Interessante la mostra allestita nel foyer Toro del Teatro, che ripercorre la vita di Casella attraverso preziosi reperti fotografici e testuali che testimoniano dell’apprezzamento che l’intero mondo musicale della prima metà del ‘900 mostrò per questo musicista autenticamente europeo. Apprezzabile anche l’iniziativa del teatro di allegare (senza sovrapprezzo) al programma di sala un doppio CD con interpretazioni caselliane di Noseda (le 3 sinfonie e frammenti sinfonici da La donna serpente) con i suoi ex- della BBC Philharmonic. Insomma, direi che questo revival di Casella sia da applaudire – come ha fatto ieri il pubblico - senza condizioni.

(3. fine)

16 aprile, 2016

laVERDI 2016 – Concerto n°14, o della biodiversità


Italia, Francia, Argentina, tribunali, vini e... Mozart! Questo è il bizzarro melting-pot che ci riserva il programma di questa settimana (una ripresa della prima dello scorso giugno) di genere per così dire... operettistico.

Partiamo dall’alcol, visto che il titolo del pezzo in programma (Barbatelle) ci indirizza verso vigneti e relativi prodotti e derivati. E non a caso, datosi che l’autore del libretto – figlio di una precedente pièce teatrale - è Giancarlo Cignozzi, uno che di vino se ne intende assai, avendo curato e impiantato vigneti in quel di Montalcino da più di 40 anni, con la benedizione del grande Luigi Veronelli, alla cui memoria il lavoro è dedicato. Il soggetto dell’operetta è la guerra del vino, fra l’imperialista bordolese (cabernet-sauvignon) e gli altri vitigni che (in Francia come in Italia) rivendicano, appunto, la loro biodiversità. Guerra senza esclusione di colpi, con impiego di armi di distruzione di massa (Eskà, o mal dell’esca, un fungo che distrugge i vitigni, e che l’imperialismo bordolese minaccia di impiegare contro i ribelli) o un’autentica Mata Hari (Malvy, nella fattispecie una seducente malvasia nera di cui i ribelli si servono per destabilizzare dall’interno il potere imperialista).

Veniamo alla geografia: a musicare il testo dell’italianissimo Cignozzi è Luis Bacalov, argentino come il regista Carlos Branca e la responsabile artistica Marina Rivera. Quanto ai tribunali, sia Cignozzi che Branca sono avvocati con evidenti propensioni teatrali.

E Mozart, che c’entra? Beh, chi ascolta il Singspiel di Bacalov ne sente parecchio, suonato e pure cantato... ma il legame più incredibile con tutto il resto è che Mozart viene diffuso giorno e notte nei vigneti del Paradiso di Frassina di Cignozzi, come antidoto contro... le Eskà!

La storia che si rappresenta (10 cantanti, 6 attori, più 12 coristi della Gambarini) è ovviamente a lieto fine, conseguito dopo non poche peripezie e rischi di conflitto mondiale (!) É un divertissement e non può che concludersi in gloria per tutti. E a benedire interpreti e pubblico è il Teofilo in persona che arriva per attaccare la sua kleine Nachtmusik con cui lo spettacolo chiude in bellezza.

15 aprile, 2016

Revival caselliano a Torino. 2

 

Ieri sera chi non stava seduto su una poltrona del Regio torinese ha avuto la possibilità di vedere (o solo ascoltare) su RAI5 o Radio3 La donna serpente di Alfredo Casella (il cui spunto, come si sa, è il famoso testo gozziano che già aveva ispirato un giovane musicista poi diventato qualcuno: Richard Wagner, con le sue Feen). 

Un’opera il cui soggetto è per Casella poco più che il pretesto per scatenare fantasia e ispirazione musicali; una lunga serie di avvenimenti (naturalistici o magici), di situazioni sorprendenti e di stati d’animo i più diversi (di protagonisti principali e maschere) che il compositore sembra divertirsi ad evocare musicalmente con un approccio neoclassico, lontano dalle seriosità del melodramma tradizionale ottocentesco e lontanissimo dagli eccessi del verismo. Siamo insomma esteticamente più vicini a Händel (il barocco magico) e magari a Mozart (la Zauberflöte) che non a Verdi o a Mascagni.

I numerosi interludi e intermezzi strumentali disseminati nell’opera testimoniano ulteriormente dell’attitudine di Casella verso la musica pura, magari da associare alla danza, più che al canto. E proprio della danza Arturo Cirillo ha fatto ampio uso nel suo allestimento (coreografie di Riccardo Olivier e danzatori della Fattoria Vittadini) per arricchire di contenuti visivi (grazie anche ai colori dei costumi di Gianluca Falaschi e alle luci di Giuseppe Calabrò) la musica di Casella.

Il cast vocale mi è parso all’altezza e Noseda ha mostrato di padroneggiare benissimo questa difficile partitura, il cui oblio a me sembra francamente immeritato e che il Regio ha fatto bene a riproporre (dopodichè sarebbe comunque azzardato attribuirle lo status di capolavoro, che non è di sicuro). Rimando ovviamente una valutazione più approfondita a dopo l’ascolto-visione dal vivo.

(2. continua)

13 aprile, 2016

Revival caselliano a Torino. 1

 

Il Regio torinese ospiterà nei prossimi giorni (prima il 14/4 ore 20, diretta su Radio3 e RAI5) La donna serpente di Alfredo Casella. Dopo la Volpina di Janáček, questa è la seconda delle tre fiabe (seguirà Pollicino di Henze) che il Teatro ha messo nel cartellone 2015-2016. Si tratta di una coproduzione con Valle d’Itria, già presentata a Martinafranca nel 2014, con l’allestimento di Arturo Cirillo.  

Con comprensibile fierezza per aver dato i natali ad una delle principali figure della musica italiana del ‘900, Torino ha per l’occasione organizzato un Festival Casella, che contempla una lunga serie di manifestazioni ed eventi a contorno delle cinque recite dell’opera.

Opera venuta alla luce a cavallo degli anni ’20-’30 dello scorso secolo, quindi coeva – cito solo alcuni titoli - di Lulu (Berg), Da una casa di morti (Janáček), Il Re (Giordano), Arabella (Strauss) e della Lady di Shostakovich. Se si escludono Strauss (ostinatamente rivolto verso il glorioso ‘800) e Giordano (che proprio e solo con la sua ultima opera si distanziò dalla moda verista) gli altri autori erano, ciascuno a modo suo, alla ricerca di vie nuove da battere. Ecco, Casella, in questa che è di fatto la sua prima e principale opera, ha riversato il suo concetto di modernità basato sulla presa di distanza dagli eccessi drammatici che avevano caratterizzato il teatro musicale, a partire dal periodo romantico e giù giù fino al verismo. Così è solo la musica ad occupare tutto lo spazio, nelle sue manifestazioni più diverse e genuine: a ciò risponde perfettamente la scelta del soggetto, una fiaba allo stato puro, priva di qualunque morale, di significati più o meno sotterranei e di riferimenti espliciti o impliciti ai casi della vita.               

L’opera condivide con La cena delle beffe di Giordano, in programmazione in questi stessi giorni alla Scala e distante le mille miglia sul piano artistico, lo stesso destino: essere finita nel dimenticatoio. Come dimostra il fatto che (in attesa della pubblicazione di un CD-DVD da Martinafranca, o prossimamente dal Regio) l’unica incisione dell’opera apparentemente in circolazione sembrerebbe un riversamento di una rara esecuzione RAI del 1959. Il libretto di Lodovici è a sua volta di difficile reperimento, in rete se ne trova soltanto un esemplare in forma dattiloscritta, evidentemente ancora in abbozzo (il finale in particolare è assai diverso dalla versione definitiva) con correzioni di pugno di Casella! Ho cercato di renderlo passabilmente leggibile e l’ho caricato a questo indirizzo: la qualità è quella che è, di certo il programma di sala del Regio lo riporterà in forma ben migliore, ma per ora, in mancanza di meglio, il documento può servire a chi volesse... fare un po’ di compiti a casa, ecco.

(1. continua)

08 aprile, 2016

laVERDI 2016 – Concerto n°13


Stanislav Kochanovsky ricompare per la quarta volta sul podio de laVERDI, dopo le tre apprezzate presenze degli ultimi mesi del 2015. Anche questa volta ci presenta solo musiche di... casa propria: tre diverse suite da balletti.     

L’impaginazione originale prevedeva una specie di... crescendo di difficoltà: un leggero Ciajkovski, poi un semi-leggero Khachaturian e chiusura in bellezza con il difficile (non pesante, per carità) Stravinski.

Invece la locandina in loco e un foglietto volante nel programma di sala annunciavano che l’ordine era cambiato, portando in apertura il pezzo forte (un po’ come nel concerto precedente). Essendo una modifica dell’ultimo (o penultimo) momento, vien da pensare che sia stata originata non da ripensamenti estetici, ma magari da prosaiche circostanze, del tipo: uno strumentista insostituibile in Petrushka doveva inderogabilmente andarsene alle 21:15 (!?)

Insomma, quale ne sia stata la motivazione, si è partiti con il pezzo non solo più forte, ma anche più impegnativo del programma: Petrushka nulla ha infatti da invidiare - quanto a straordinaria barbarie musicale - al sovversivo Sacre, che sarebbe comparso di lì a poco, ma che era in gestazione proprio negli stessi mesi della marionetta. La versione 1947 cambia qualcosa di quella del 1911, differenziandosene per la più economica strumentazione (chissà, forse le ristrettezze post-belliche...) Ciò si evince dalla sottostante tabella:

1911
2 ottavini
(I anche flauto IV, II anche flauto III)
2 flauti
4 oboi
(IV anche corno inglese)
3 clarinetti in SIb (poi in LA)
clarinetto basso (anche clarinetto IV)
3 fagotti
controfagotto (anche fagotto IV)
4 corni in FA
2 cornette in SIb (poi in LA)
2 trombe in SIb (poi in LA)
(I anche tromba piccola in RE)
3 tromboni
tuba
timpani
cassa
piatti
tam-tam
triangolo
tamburo basco
tamburo militare
tamburino provenzale
campanelli
celesta (2 e 4 mani)
piano
2 arpe
xilofono
quintetto d’archi
1947
ottavino
(anche flauto III)
2 flauti
2 oboi
corno inglese
3 clarinetti in SIb
(III anche clarinetto basso)
2 fagotti
controfagotto
4 corni in FA
aaaaa
3 trombe in DO e SIb
aaaaa
3 tromboni
tuba
timpani
cassa
piatti
tam-tam
triangolo
tamburo basco
aaaaaa
aaaaaa
aaaaaa
celesta
piano
arpa
xilofono
quintetto d’archi

A dir la verità i ragazzi de laVERDI sono talmente gagliardi che l’orchestra sembra proprio quella del 1911, un fantastico insieme che – guidato con mano esperta da... Stanislao, uno del quale è facile predire che farà molta strada – sciorina un’esecuzione a dir poco entusiasmante. I ragazzi sarebbero tutti da elencare per nome e cognome, così scelgo io il loro alfiere nell’esile Carlotta Lusa, che ha splendidamente suonato l’impegnativa parte del pianoforte.
___ 
Dopo la pausa, ecco quindi la Bella addormentata, i 5 brani che compongono la Suite dai 3 atti del balletto. Musica che non si smetterebbe mai di ascoltare, tanto ti droga con la sua impareggiabile vena melodica. Era uno dei pezzi prediletti del venerabile Vladimir, fondatore dell’Orchestra, e ascoltandolo non si può non tornare a ricordarne la straordinaria figura.
___
Si chiude con il compatriota di Stalin (un onore! ehm...) Aram Khachaturian e la suite di Masquerade, della quale ho scritto qualche nota a margine di un’esecuzione con Grazioli in Auditorium circa tre anni fa.

Il successo qui lo si ottiene a buon mercato, ecco, e così ci sta pure un bis con la riproposizione dell’indiavolato galop finale, per un pubblico (non da record...) osannante.   
___
Ora il bravo Stanislav si prepara per una prova impegnativa in quel di Firenze... ma ci sarà occasione per tornare sull’argomento.

05 aprile, 2016

Chi non beve con me... serpente diventi

 

C’è una specie di (casuale o concordato, non saprei dire) filo rosso che collega di questi tempi Scala e Regio di Torino. Si tratta della riproposta di due titoli piuttosto desueti del novecento (‘20-‘30) italiano: La cena delle beffe di Giordano alla Scala e La donna serpente di Casella a Torino. In entrambi i casi le rappresentazioni in teatro vengono affiancate da iniziative diverse, volte a promuovere vuoi il titolo in programma (Milano, dove è stato proiettato nel Piermarini il film di Blasetti del 1942) o la figura del compositore (Torino, con il Festival-Casella). Ecco, questa necessità di attirare in tutti i modi l’interesse del pubblico rappresenta di per sè un’implicita ammissione del valore non proprio eccelso di quei titoli.

Però con alcune differenze: nel caso di Giordano – operista che deve la sua fama a Chénier e Fedora, venute alla luce quando ancora si era nell’800 -  si tratta di una delle opere decisamente minori, abbarbicata ad un verismo ormai decrepito ed oltretutto zavorrata da un libretto che magari 90 anni fa poteva ancora suscitare entusiasmi, ma che oggi fa francamente ridere...

Invece per Casella le cose stanno in modo un filino diverso: intanto lui non era propriamente un operista, e quindi concepiva la musica come arte pura, e non come supporto sonoro a drammi, men che meno a storie veriste. E il soggetto della sua prima e quasi unica opera fu volutamente individuato in una fiaba, quindi un soggetto fantastico che desse modo al compositore di liberare la sua ispirazione senza condizionamenti di sorta.

Insomma, si tratta di due riproposte che hanno in comune nulla più della data di nascita delle opere: delle quali la prima sostanzialmente guarda all’indietro, laddove la seconda perlomeno cerca di dire qualcosa di nuovo.  
___
Domenica 3 aprile la Scala ha quindi ospitato la prima della Cena, ben 92 anni (!) dopo averla tenuta a battesimo con Toscanini. Con una battuta di bassa lega si potrebbe dire che adesso lasciamo volentieri ai nostri pronipoti il piacere di risentirla nel 2108 (stra-smile!) Però è certo che siamo di fronte a qualcosa che è ben lungi dall’essere un capolavoro, e forse non è solo un caso se l’opera è praticamente caduta nell’oblio e se ne esistono soltanto tre edizioni in commercio (DeFabritiis-1955, Bonavolontà-1972 e Sanzogno-1988).

In attesa di assistere dal vivo, così da poter anche apprezzare (o criticare...) la messinscena di Martone, dirò che l’ascolto radiofonico non mi ha propriamente entusiasmato: discreta la prestazione dell’orchestra e la direzione di Rizzi, mentre gli interpreti principali mi son parsi un po’ a disagio, e non è una buona scusante il fatto che tutti fossero inevitabilmente alle prime armi con quest’opera: Marco Berti ha mostrato qualche problema di intonazione ed a volte è parso in difficoltà a sostenere la parte di Giannetto, oggettivamente dura, tutta incardinata sul famigerato passaggio. Non molto meglio si è portato Nicola Alaimo, che ha una voce chiara, adusa a Rossini ma che poco si attaglia ad un personaggio squisitamente verista come Neri. Passabile e non più la Ginevra di Kirstin Lewis, onesti gli altri comprimari.

Insomma, mi pare una proposta francamente discutibile, nulla a che vedere con le due opere del Verdi da galera che l’hanno preceduta nella stagione, meritandosi apprezzamenti quasi unanimi. Quanto alla prestazione complessiva, speriamo che le cose migliorino con qualche replica in più di rodaggio.  

02 aprile, 2016

laVERDI 2016 – Concerto n°12


Zhang Xian torna a guidare laVERDI in un concerto di impaginazione piuttosto insolita: si parte dal romantico Schumann di metà ‘800, poi si sfiora il tardo-romantico Goldmark di fine secolo per chiudere in pieno ‘900 con Malipiero. Credo che chiunque avrebbe precisamente invertito l’ordine dei brani, lasciando per ultimo il cosiddetto piatto forte: così invece si è quasi voluta far toccare con... orecchio l’idea (magari sbagliata, ma diffusa) che la qualità della musica, dopo i fasti ottocenteschi, sia andata progressivamente degradando. Sia detto ciò con tutto il rispetto per Malipiero, sulle cui capacità e sul cui entusiasmo non v‘è da dubitare, ma insomma: al cospetto del grande Robert, ehm. Chissà poi se c’è un nesso causa-effetto fra il programma, diciamo, bizzarro e l’affluenza del pubblico, che non ha riempito per più del 60% le poltrone dell’Auditorium...

C’è anche un labile filo, come dire, stagionale a legare le tre composizioni: le prime due ispirate più o meno precisamente alla primavera e la terza alle quattro stagioni.

Si comincia quindi con la Prima di Schumann, che la Xian, forse per allinearla in durata alle altre due composizioni, comprime al massimo, evitando i ritornelli principali (dei due movimenti esterni, in forma-sonata). In più, mette a fondo scala la manopola del volume e così ne esce una cosa di grande effetto sì, pari però alla grossolanità, il che non rende un buon servigio a Schumann. L’unica nota positiva sono, al solito, i bravissimi ragazzi che non sbagliano un passaggio che è uno. Ma (per me, almeno) non basta.
___
Ecco poi Im Frühling di Karl Goldmark, già presentato qui da Bignamini poco più di un anno fa. Con una battuta di bassa lega si potrebbe dire che, volendo proprio proporre un brano primaverile, assai meglio avrebbe figurato, per dire, Frühlingstimmen, che almeno è un gran bel walzer del sommo Johann Strauss. Insomma, qui mi pare che siamo al velleitarismo allo stato puro: una mappazza dolciastra che (almeno a me personalmente) non desta alcun particolare moto dell’animo, ecco.
___
Gian Francesco Malipiero era dichiaratamente avverso alle forme classiche, così compose... sinfonie e concerti a profusione! Ma si tratta di veri e propri equivoci programmatici, essendo quasi sempre opere costruite con il metodo del Durchkomponieren, dove in sostanza una nota tira l’altra quasi senza alcun rimando tematico o strutturale, ma giustificata solo dall’ispirazione del momento. Quindi soltanto dei titoli appiccicati dall’esterno ci guidano a cercare riferimenti concreti nella narrativa. Che i quattro movimenti di questa sedicente sinfonia rappresentino le stagioni ce lo dice il sottotitolo dell’opera, altrimenti ciascuno di noi potrebbe pensare a qualunque altro soggetto, o semplicemente... a nulla!

Dopodichè ammettiamo trattarsi di musica che si lascia ascoltare piacevolmente, per carità, solo che alla fine uno si chiede inevitabilmente: ma il concerto finisce così? Insomma, è come se ad un pranzo ti servissero come primo una faraona arrosto e poi, dopo un sorbettino, un’acciuga di falstaffiana memoria, e chiusa lì (!?)