affinità bombarole

rinsaldato il patto atlantico

03 febbraio, 2016

Haitink alla Scala: ich will euch wieder sehen...

 

Fra gli eventi concertistici del 15-16 alla Scala spicca la presenza di tre mostri sacri della direzione: dopo aver ammirato ed applaudito l’88enne Herbert Blomstedt in novembre, ed in attesa di ritrovare (22 febbraio) il quasi 92enne Georges Prêtre, in questi giorni ci si può godere il venerabile Bernard Haitink (87 primavere fra un mesetto, e ben portate se è vero che il vegliardo si è ben guardato dall’usare la sedia che gli era stata sistemata sul podio...) che ci dà la sua lettura di uno dei più preziosi monumenti della musica di tutti i tempi: Ein deutsches Requiem. Opera con la quale il Maestro fiammingo si è ovviamente cimentato in più occasioni, una delle quali è questa con i Wiener.


Ma con il Requiem si sono ovviamente cimentati tutti i Direttori, ed ognuno ne ha dato la sua personale interpretazione. A puro titolo di curiosità (e considerando solo 10 delle più di 20 edizioni integrali rintracciabili solo su youtube) ho messo a confronto i tempi di esecuzione di diversi interpreti, elencandoli in ordine di durata complessiva netta crescente (per semplicità ho indicato soltanto i minuti, arrotondando per eccesso o difetto): 


interprete
tot
I
II
III
IV
V
VI
VII
59
9
12
8
4
6
10
10
63
9
13
10
5
7
10
9
69
10
14
9
5
7
12
12
72
10
15
10
6
7
12
12
73
11
16
10
5
8
11
12
75
11
15
11
6
8
12
12
75
12
16
10
5
9
11
12
77
12
16
11
7
7
11
13
80
13
16
11
6
9
12
13
86
14
16
12
6
9
14
15

Come si può notare, la durata delle esecuzioni si dispone ai lati opposti della media ponderata (73 minuti, Gergiev). Ai due estremi si trovano il rapido Masur, che non arriva all’ora (19% sotto la media), e il sostenutissimo Celibidache, che la tira in lungo per quasi un’ora e mezza (+18% sopra la media!) Walter e Gatti sono fra i veloci, Sinopoli e Furtwängler fra i lenti.

Va da sè che queste considerazioni sulla durata lasciano sempre il tempo che trovano, dato che ciascun interprete ha il diritto-dovere di... interpretare per l’appunto la volontà espressa dal compositore con simboli e note sulla partitura (però interpretare non significa... inventare). Nel caso specifico manca anche ogni indicazione di metronomo (che Brahms ha sempre omesso nei lavori sinfonici, suggerendolo per lo più nei concerti solistici) e a maggior ragione perciò si possono dare differenze così profonde nell’approccio dei vari Direttori all’agogica dell’opera.

Per fare un esempio estremo, evidentemente l’indicazione Ziemlich langsam und mit Ausdruck (Piuttosto adagio e con espressione) che Brahms ha vergato in testa al numero di apertura (Selig sind, 158 battute in 4/4 senza alcun cambio di tempo) è stata interpretata in modo diametralmente opposto da Masur (8’55”, equivalenti ad un metronomo di 71 semiminime, quasi più spedito di un Andante) e da Celibidache (13’35”, equivalenti ad un metronomo di 47 semiminime, un Adagio molto, il che rende il brano – per me – addirittura insostenibile!) La conclusione che si può trarre è che ci troviamo di fronte a quelli che in politica si chiamerebbero opposti estremismi, due quasi antipodiche visioni del mondo: la prima che guarda alla vita e alla morte quasi con baldanza, con accenti eroici; l’altra che si adagia in una mistica contemplazione e anticipazione dell’eternità. Potremmo dire che la prima presenti un approccio occidentale, razionalista-illuministico (tipico di un individuo con la biografia di Masur); e che la seconda si richiami a filosofie orientali (e non a caso, date le personali attitudini di Celibidache).

Il nostro Haitink – come molti altri Direttori del resto - sta quasi al centro, ed anche ieri sera non si è smentito, registrando precisamente un totale netto di 75 minuti (12+15+10+6+7+13+12, tempi rilevati sommariamente). A parte però la durata, che è una componente importante, ma non certo l’unica di una interpretazione, il vegliardo tulipano ha saputo cavar fuori dai filarmonici scaligeri e dal coro di Casoni un Requiem memorabile, sotto tutti gli aspetti (positivi e non): dal misterioso attacco del Selig sind (il pedale introduttivo dei corni in pianissimo ha avuto un che di... tombale) al pesante strascicarsi di Denn alles Fleisch, per il quale non per nulla Brahms dà l’indicazione di Marschmässig (letteralmente: moderatamente marciando) fino alla colossale fuga che chiude il sesto numero (Herr, du bist würdig) che Haitink ha fatto declamare con una prosopopea, un’enfasi e una proterva retorica spinte al limite della sopportazione.      

Il coro si è superato (Haitink gli deve aver cavato anche l’ultimo fil di fiato!) mentre note poco esaltanti vengono dai due solisti (meno male che hanno parti quantitativamente circoscritte): appena passabile la Camilla Tilling, ma direi deludente la prova di Hanno Müller-Brachmann, che mi è parso proprio fuori ruolo, come dire, rispetto ai due interventi che lo riguardano (e anche l’intonazione mi ha lasciato perplesso).

Ad ogni buon conto il successo è stato pieno e costellato da parecchi bravo! (epiteti che il Maestro peraltro disdegna forse più dei buh!) Ma in fin dei conti è stata una specie di meneghino oscar alla carriera, che il successore di Mengelberg (hai detto nulla!) e VanBeinum sul podio del glorioso Concertgebouw si merita ampiamente. E non solo per le sue imprese musicali, ma per la sua straordinaria umanità e semplicità; che già mostrava quando - lo ricordo come fosse ieri, allora 50enne, in un concerto con la prima di Brahms nella londinese RFH – lo vidi ed ascoltai per la prima volta dal vivo. E per questo gli dico: grazie, Bernard!

31 gennaio, 2016

laVERDI 2016 – Concerto n°5


Programmazione insolita (niente giovedi e/o venerdi, ma sabato e domenica, e vedremo perchè...) per il quinto concerto stagionale de laVERDI, che ha proposto opere di Ciajkovski, Respighi e Schumann, brani tra loro lontani nel tempo e nei contenuti.

Di Ciajkovski è stata eseguita un’opera giovanile (in origine un esercizio di Conservatorio): trattasi dell’Ouverture in Fa maggiore nella seconda stesura del 1866. Della prima, di un anno più vecchia, eseguita in origine da studenti del Conservatorio di SanPietroburgo (quello di Rubinstein Anton, dove Ciajkovski studiava) erano andate perse - anzi, pare proprio date alle fiamme dall’Autore medesimo - le tracce, ma poi si è riusciti a ricostruirne la partitura e a renderne possibile l’esecuzione. Qui un esempio con una vecchia conoscenza de laVERDI alla guida dei radiofonici moscoviti. Come si noterà, sono poco più di sei minuti di musica, piuttosto acerba, ma che lascia intravedere stilemi che caratterizzeranno la produzione matura di Ciajkovski.

La seconda versione, predisposta su invito di colui (Rubinstein Nikolay) che stava per fondare il Conservatorio rivale (quello moscovita, dove Ciajkovski insegnò) e ascoltata qui, oltre ad irrobustirsi nella quantità (quasi raddoppiando la durata e impiegando un organico assai rinforzato, soprattutto negli ottoni) si distingue per un maggiore respiro sinfonico ed anche per una certa enfasi (vedi la coda) che ritroveremo in più di una delle sei sinfonie che Ciajkovski snocciolerà nel seguito della sua carriera. Eccone un’eccellente interpretazione di Mikhail Pletnev con i suoi nazionali russi.

Nulla da dire sull’esecuzione dei ragazzi, che è servita a... scaldare i motori.
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Ecco poi un Respighi poco eseguito, quello del Concerto gregoriano per violino e orchestra, qui interpretato dal Konzertmeister titolare de laVERDI, Luca Santaniello.

Opera del 1921, non è parente nemmeno lontano dei concerti classici o romantici: il titolo tradisce chiaramente l’approccio di Respighi, che intende rifarsi alle più profonde radici della musica occidentale. La citazione letterale – nel centrale Andante - della sequenza Victimae Paschali laudes ne è una testimonianza incontrovertibile:

  
In quest’opera il solista, più che un eroe che sfida torme di agguerriti nemici, è un salmodiante che unisce la sua voce a quella di un coro di salmodianti: il che comporta una quasi totale mancanza di contrasti e invece una continua simbiosi dell’individuo con la comunità. Eccone una preziosa esecuzione storica (1991) di Uto Ughi.

Bene, Santaniello non sfigura affatto al confronto con il gigante veneziano, meritandosi applausi ed ovazioni. E così ringrazia tutti con uno dei fantastici tangacci di Piazzolla.
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Ha chiuso il programma la Seconda di Schumann, di cui avevo scritto qualcosa più di 5 anni fa, quando era risuonata in Auditorium sotto la bacchetta di sir Neville Marriner. È la più complessa (e sofferta, forse) delle sinfonie schumanniane, come testimonia il movimento iniziale, dove l’esposizione dei due temi (55 battute, più il da-capo) fa la figura di una fugacissima apparizione fra l’introduzione e lo sviluppo, che occupano (con la coda) le restanti 336 battute!  

Trascinante davvero la prestazione dei ragazzi, che cavano fuori tutta la luminosità di quest’opera, che è in contrasto stridente con le depressioni psichiche di cui l’Autore soffriva (e che si sarebbero presto aggravate). Successo pieno e meritato.
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Adesso Caetani, Santaniello e l’Orchestra si preparano ad una trasferta sicuramente eccitante: poichè nei prossimi giorni riproporranno (con piccole varianti) questo stesso programma nientemeno che... a casa di Mozart!

Il sommo Händel trionfa alla Scala

 

Ieri sera la Scala ha ospitato la seconda recita de Il trionfo del tempo e del disinganno, l’oratorio di Händel rappresentato in forma scenica da Jürgen Flimm. Teatro abbastanza gremito e pochissimi (ad occhio) abbandoni nell’intervallo, segno che lo spettacolo ha tenuto alta l’attenzione fino all’ultimo.

Ovviamente il merito maggiore va alla musica dell’imparruccato sassone e a chi l’ha mirabilmente diretta, suonata e cantata. Ma devo dire che anche l’allestimento ha dato il suo bel contributo al successo dello spettacolo.

Diego Fasolis è uno dei maggiori interpreti (ma anche promotori) del barocco e lo conferma, guidando (e cooperandoci lui stesso ad uno dei tre clavicembali) una compagine di professori scaligeri che hanno accolto con favore l’idea di cimentarsi con questo repertorio, impiegando strumenti d’epoca (quasi...) e con accordatura a 415. Pur nell’immenso spazio del Piermarini, l’ensemble che è di soli 28 esecutori, di cui 20 dell’orchestra di casa (tutti archi meno una tastiera) rinforzati da 8 barocchisti della Radio Svizzera Italiana (fra cui Gianluca Capuano, ben noto ai seguaci de laVERDI BAROCCA, protagonista all’organo) ha saputo farci sentire ed apprezzare ogni minima sfumatura del suono che esce da quel gioiello che è la partitura di Händel. Un suono (corde di budello e poco vibrato) mai stridulo o vetroso, al contrario sempre leggero ed etereo, come si conviene a rendere al meglio simili capolavori.

Lodevoli tutte le quattro voci, a partire dal Disinganno di Sara Mingardo, davvero impeccabile nel sostenere la parte – come dire – più filosofica dell’Oratorio: portamento severo e autorevolezza assoluta. 
 
Martina Janková è una protagonista ideale, per sensibilità, accenti e capacità di rendere la lenta ma progressiva maturazione del personaggio: dall’edonismo fine a se stesso alla contemplazione di un piacere che non è di questa terra...  

Piacere che è impersonato da una solida Lucia Cirillo, sempre brava nelle ammiccanti adulazioni alla Bellezza come nelle fiere contestazioni ai due pipistrelli che la vogliono... convertire. Si può opinare la scelta di affidare la parte ad un mezzo invece che a un soprano, ma i risultati hanno giustificato in pieno tale scelta, che si è accompagnata anche ad un accredito di un’aria (Un pensiero nemico di pace) che spetterebbe alla sua sodale.

Oltre che dal Disinganno-Mingardo, le severe forze della ragione-religione sono rappresentate da Leonardo Cortellazzi che veste efficacemente i panni del Tempo.

In poche parole, un’esecuzione di prim’ordine che fa onore al Teatro e che il pubblico ha mostrato di apprezzare riservando calorosi applausi a tutti i protagonisti. L’avventura della creazione di un ensemble barocco alla Scala mi pare iniziata sotto i migliori auspici.
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Ispirandosi probabilmente al platonico Simposio, dove un gruppo di amiconi, dopo abbondanti mangiate e libagioni, si imbarca in alate discussioni filosofiche (sull’amore) ecco che Jürgen Flimm e lo scenografo Erich Wonder hanno pensato bene di ambientare l’incontro dei quattro personaggi-concetto dell’austero Oratorio del Cardinal Pamphilj in un moderno ristorante (che richiama programmaticamente, ma solo nell’idea, la famosa Cupole parigina anni ’30) con annessa passerella per esibizioni di un particolare tipo di... Bellezza, impegnata in attività di Disinganno del Tempo per il Piacere dei convenuti (!) Certo, il porporato avrebbe forse qualcosina da obiettare, ma se lo facesse si prenderebbe come minimo dell’ipocrita! Quindi: va bene così, ecco.

Mettere in scena un Oratorio che ha come unico sviluppo narrativo la conversione di un... approccio esistenziale dal terreno al contemplativo non dev’essere semplice nè facile, ma Flimm e compagnia hanno trovato un plausibile equilibrio limitando per quanto possibile eccessi che avrebbero avuto l’unico risultato di distrarre l’ascoltatore dalla meravigliosa musica che sgorgava da buca e palco.

Un simpatico riferimento a quanto narrano le cronache della prima (1707) è stata la comparsa sulla scena di... Händel in persona a strimpellare sull’organo (i cui suoni però eseguiva Capuano in buca) la Sonata che precede l’aria Un leggiadro giovinetto, accompagnato però da un violinista, abbigliato alla ‘700, staccatosi all’uopo dall’ensemble.

Alcune trovate (lo smembramento di una bambola come biglietto da visita del Tempo, l’esplosione di un avventore ubriaco, le ragazze che sfilano sulla passerella, alcuni andirivieni di bizzarri avventori, che sicuramente nasconderanno qualche simbologia nota solo al regista...) possono sembrare gratuite, ma per fortuna non guastano più di tanto. La metamorfosi finale della Bellezza, che sveste i panni mondani per indossare il classico abito da monaca e si toglie la vistosa parrucca bionda per restare con i capelli rasati da penitente è forse eccessivamente didascalica e troppo... curiale, ecco: ad evocare assai bene la presa di coscienza della caducità di ciò che è puro edonismo terreno bastava il progressivo impoverimento (e oscuramento) della scena, che ha caratterizzato la parte finale dell’Oratorio.

Ma insomma, uno spettacolo godibilissimo, dove le tre ore filano via quasi senza che uno se ne accorga.

28 gennaio, 2016

Un baldanzoso Attila invade Bologna

 

Ieri al Comunale di Bologna quarta rappresentazione di Attila. Si ratta di un nuovo allestimento di Daniele Abbado, che verrà successivamente riproposto a Palermo e Venezia (co-sponsor della produzione). Insieme al sottoscritto, i più (cioè il solito 1,2-1,6% dell’italica popolazione) avranno già sentito/visto (in diretta o differita, su Radio3 e RAI5) la prima del 24.

Ciò che penso dell’opera lo avevo già esternato quasi 5 anni orsono, in occasione d una recita alla Scala. Ieri era la seconda con il cosiddetto secondo cast. Devo dire subito che non mi ha fatto rimpiangere il primo: forse l’unico interprete di cui ho sentito la mancanza è stato Simone Piazzola, il cui vice, Gezim Myshketa (Ezio) mi è parso impiegare poco proficuamente il suo pur naturalmente dotato strumento: voce artatamente scurita soprattutto nelle note alte, dove invece andrebbe esibito uno squillo penetrante, e non cavernosi schiamazzi.

Tutti gli alti interpreti non hanno affatto demeritato. A partire dal protagonista, un solidissimo Riccardo Zanellato, che ha esibito grande sicurezza e profondità di accenti, oltre che autorità e portamento scenico.

Bene anche Stefanna Kybalova, cui potrei rimproverare qualche acuto troppo tirato-via (ma non il DO di ingresso, più che dignitoso). Giuseppe Gipali ha pure ben meritato come Foresto, mostrando acuti squillanti ma anche buona espressività nei passaggi più introspettivi.

Gianluca Floris e Antonio Di Matteo come da minimo sindacale. Il coro di Andrea Faidutti ha ben sopportato le asprezze imposte da Verdi, sia nelle scene più cupe e opprimenti che in quelle dove si sprecano i fortissimo.

Da ultimo lascio Michele Mariotti per tributargli un doveroso omaggio: non aver avuto tema nell’impiegare in modo persino protervo quella tanto famigerata vanga che molti schizzinosi da sempre rimproverano a questo Verdi. Dico, Attila, se suonato così, ti porta semplicemente all’entusiasmo, ecco. E comunque, come dimenticare l’alba su RioAlto, evocata con pochi tratti, ma con grandissima efficacia... Quanto alle troppe cabalette, chiunque (credo) ne vorrebbe ancora di più...

Poche note sull’allestimento della coppia Daniele Abbado – Gianni Carluccio. Eccessiva insistenza su ambienti cupi ed opprimenti, quando invece ci dovrebbero essere anche squarci di luminosità e di sereno. Suppellettili in scena piuttosto insignificanti, o forse dal significato troppo criptico, non saprei; personaggi simbolici (un cristo seminudo e un rabdomante o domatore di serpenti) che potevano esserci risparmiati.

Costumi più o meno appropriati al fine di farci ben distinguere tra gli straccioni e malnutriti invasori e le truppe scelte di Roma (rancio ottimo e abbondante, divise appena uscite dalla stireria e stivali lucidati a specchio).

La regìa dei personaggi: l’impressione che si sia lasciato a ciascun interprete di recitare a soggetto, secondo la propria personale ispirazione. Insomma, nulla di indimenticabile. 

Ma, ripeto, ciò che conta è, nella fattispecie, l’accoppiata Verdi-Mariotti: e questa ha risposto davvero alla grande!

27 gennaio, 2016

La Scala attende il primo Trionfo

 

Dal 28/1 la Scala ospiterà otto recite de Il Trionfo del Tempo e del Disinganno, l’oratorio di Händel che viene rappresentato in forma scenica, per la regìa di Jürgen Flimm, spettacolo originariamente allestito nel 2003 a Zurigo (Pereira imperante!) e in seguito ripreso (dal 2012, Flimm imperante!) alla Staatsoper di Berlino.

Si tratta del primo dei tre Trionfi, quello composto a Roma nel 1707 dal 22enne di Halle. Il soggetto dell’Oratorio (basti dire che è farina del sacco della porpora di un cardinale, tale Benedetto Pamphilj) è un’amabile discussione filosofica (tipo il platoniano Simposio, ecco) fra quattro voci, che prendono le parti concettuali di Bellezza, Piacere, Tempo e, appunto, Disinganno. Che la Bellezza sia la protagonista assoluta lo conferma, oltre al contenuto del testo e al numero preponderante di arie musicali che la vedono protagonista, anche il titolo completo originale dell’Oratorio: La Bellezza raveduta nel trionfo del Tempo e del Disinganno. In effetti, dopo aver cercato di resistere alle severe argomentazioni di Tempo e Disinganno, lasciandosi tentare dalle lusinghe del Piacere, la Bellezza conclude l’Oratorio precisamente con un ravvedimento (à la Maddalena): getta lo specchio nel quale usava narcisisticamente rimirarsi, scioglie le chiome privandole di orpelli e lustrini e allontana da sè il Piacere, rimettendosi alla misericordia del Cielo.

Händel compose la musica dell’Oratorio qualche mese dopo il suo trasferimento a Roma da Amburgo, dove aveva fatto i suoi primi passi da compositore. Da un’opera scritta lassù (Almira) recuperò il tema di una sarabanda del primo atto e lo riciclò (impreziosito) in una delle arie più famose dell’Oratorio (Lascia la spina); più avanti riutilizzò lo stesso motivo nel suo Rinaldo (Almirena: Lascia ch’io pianga):



E a proposito di auto-imprestiti (come si vede, Rossini non inventò proprio nulla!) il nostro riprese l’accompagnamento dei flauti all’aria del Disinganno (Crede l’uom ch’egli riposi) nella sua opera d’addio all’Italia, rappresentata a Venezia nel 1709, Agrippina (aria di Ottone Vaghe fonti):


L’Oratorio è diviso in due parti di durata (circa 75’) e contenuti (numeri musicali) confrontabili. La prima comprende 12 arie, un duetto e il quartetto finale, più la Sonata introduttiva ed una seconda Sonata, assai virtuosistica ed appariscente, con Organo obbligato, collocata proprio fra il recitativo (Questa è la reggia mia) e l’aria del Piacere, Un leggiadro giovinetto. Guarda caso il giovinetto era proprio Händel in persona, seduto all’organo! Sicuramente un omaggio del cardinale al caro sassone, ed anche un vezzo auto-celebrativo del giovane compositore. Sonata e... suonatore scompariranno, come vedremo, in versioni posteriori. La seconda parte comprende 11 arie, un arioso, un quartetto e un duetto. La conclusione, dopo la conversione della Bellezza, è un mirabile Adagio in MI maggiore, che si spegne - pianissimo - sulla celestiale melodia dei violini. Non così si chiuderanno le due successive versioni albioniche (1737 e 1757) dell’Oratorio.

Durante la sua lunga residenza oltre-Manica, come ripiego per far fronte al declino londinese dell’opera italiana, Händel decide di riproporre, a 30 anni esatti di distanza, il suo oratorio giovanile romano, e per l’occasione ne appronta una nuova versione ristrutturata, modificata ed arricchita (ma sempre in lingua italica). La differenza più macroscopica, più che nel titolo (Verità rimpiazza Disinganno) risiede nella struttura dell’opera, che viene suddivisa in tre parti data la sua nuova, ipertrofica estensione (si passa da meno di 2 ore e mezza a tre!) Vengono introdotti qui i cori (assenti nella versione romana) ed apportate svariate modifiche, alcune di portata limitata, altre veramente pesanti, come la riscrittura completa di arie e/o il trasporto di tonalità (in funzione delle diverse voci disponibili).

Poi, a 50 anni dalla sua composizione originale, un Händel ormai malconcio si convince a riproporre una nuova versione dell’Oratorio, questa volta tradotta in lingua inglese dal suo più fido librettista, Thomas Morell. L’oratorio è soggetto a nuove modifiche, ritocchi e imprestiti da altre opere, interventi probabilmente fatti da mani diverse (John Christopher Smith Jr.) da quelle dell’Autore: la durata totale torna più o meno quella della versione originale romana (2 ore e 35’).

Quanto alle voci, sappiamo come la scelta fosse condizionata anche dalle disponibilità occasionali. La versione originale prevede un soprano (B), un soprano (P), un tenore (T) e un contralto (D) mentre non prevede cori. Quella del 1737 (vedi sotto le note relative all’edizione Naxos, l’unica oggi disponibile) prevede un soprano (B), un soprano (P), un contralto-controtenore (T) e un contralto-controtenore (D) più i cori. Quella del 1757 prevede un soprano (B), un tenore (P), un basso (T), un soprano (D), i cori e in più un contralto per la nuova parte di Verità (o Saggezza, Counsel) che nelle versioni precedenti veniva semplicemente citata da altri personaggi, senza mai intervenire in prima persona, mentre qui prende una parte del ruolo del Disinganno.

A suo tempo (metà ‘800) Friedrich Chrysander, che pubblicò in Germania tutte le principali opere di Händel, predispose l’edizione delle due versioni estreme dell’Oratorio (1707, in italiano e 1757, in inglese-tedesco) basandosi su materiali di seconda mano, quindi non certo a prova di bomba. Non solo, ma gli mancarono totalmente reperti relativi alla versione del 1737, che lui arbitrariamente e sommariamente pensò potesse ricostruirsi appiccicando a quella del 1707 le parti diverse del 1757.

Solo (relativamente) di recente è stato possibile ricostruire la versione 1737 in modo plausibile (anche se manca tuttora quella che si chiama un’edizione critica). Tuttavia il risultato di questo lavoro (dovuto a Joachim Carlos Martini) mi pare assolutamente apprezzabile, pur se presenta alcune scelte forzatamente arbitrarie, date le circostanze. Martini ha inciso questa versione per l’etichetta Naxos, con complessi di Francoforte.

Per avere una visione sintetica delle differenze fra le tre versioni ho predisposto una scheda, ritrovabile qui: essa presenta nelle tre macro-colonne le tre versioni, e nelle righe i dati salienti dei diversi numeri. In particolare il contenuto della sotto-colonna titolata ton indica la tonalità principale del brano (di norma le modulazioni interne virano classicamente alla dominante o alla relativa) e la colonna titolata n/m contiene l’attributo n ad indicare un numero non presente nella versione precedente, e m ad indicare un numero modificato rispetto ad essa. Lo sfondo arancione sul titolo sta ad indicare una modifica sostanziale (per i recitativi ho trascurato di indicare differenze marginali). Quindi la colonna 2 (1737) si confronta con la 1 (1707) e la colonna 3 (1757) si confronta con la 2 (1737). I contenuti delle versioni 1707 e 1757 sono ricavati dalle partiture di Crhysander, mentre quello della versione 1737 è stato desunto dalla citata edizione di Martini per la Naxos che, come detto, ha comportato scelte magari anche opinabili (si veda qui la scheda informativa di Martini sui criteri da lui seguiti per la ricostruzione della partitura). 

I libretti delle tre versioni sono reperibili (non esclusivamente) ai seguenti indirizzi: Versione 1707 (Scala-2016); Versione 1737 (Martini, documento citato più sopra); Versione 1757 (Stanford).
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Il Trionfo del Tempo e della Verità (Londra, 1737)

Sulla base dell’edizione di Martini si possono rilevare le seguenti principali novità:   

Alla Sonata del Overtura viene aggiunta una Sinfonia, il cui Allegro riprende il tema dell’Overtura e lo arricchisce soprattutto di corposità strumentali (trombe e timpani).

L’apertura è affidata al Contralto solo e al Coro (Solo al goder) ed è stata composta espressamente, così come il successivo recitativo di Bellezza (Qual veggio il mio sembiante). 

L’aria (B) Fido specchio subisce alcune variazioni soprattutto nell’accompagnamento.

L’aria (P) Fosco genio è riscritta totalmente: passa da MI minore a LA maggiore, da 3/4 (giga, Allegro) a 4/4 (Andante) cambiando completamente faccia.

L’aria (D) Se la bellezza passa da DO a RE minore, con tempo accelerato e l’aggiunta di un’introduzione diversa.

L’aria (B) Una schiera di piaceri passa da LA a FA maggiore, con melodia totalmente rinnovata, struttura assai ampliata, ma con meno virtuosismi.

Anche l’aria (T) Urne voi è totalmente rinnovata: da 4/4 passa a 3/4 e assume ritmo di marcia funebre. Un Coro è aggiunto in coda, che ripete gli ultimi due versi dell’aria.

L’aria (B) Un pensiero nemico è totalmente riscritta: da 4/4 con grandi virtuosismi passa a 12/8 in un clima languido.  

L’aria (T) Nasce l’uomo è trasportata da SOL a RE maggiore. La seconda parte dell’aria (L’uomo sempre se stesso distrugge) passa dal Disinganno al Coro, per chiudere solennemente la nuova prima parte dell’oratorio.

La seconda parte è preceduta da un nuovo Interludio tripartito (Concerto con organo, soli-coro e Sinfonia).

La Sonata per Organo e orchestra (quella che a Roma suonò Händel in persona) viene espunta e sostituita da due Sonatine, per violino e carillon.

La prima aria (Piacere: Un leggiadro giovinetto) è praticamente riscritta: cambiano il tempo (da 3/8 a 4/4) e la tonalità (da SOL a LA maggiore) e aumentano i virtuosismi.

L’aria (B) Venga il Tempo viene completata con un Coro (O tempo, padre del dolor) e ritornello orchestrale.

L’aria (T) Folle dunque, tu sola presumi è pesantemente rivista, con maggiori virtuosismi assegnati alla voce.

Anche il quartetto Se non sei più ministro (che chiude la prima parte della versione originale) è pesantemente rimaneggiato, nella tonalità (DO e non RE minore) e nel tempo (2/4 al posto di 4/4) e quindi nel ritmo.
  
L’aria (B) Io sperai trovar nel vero è pesantemente rivista: da Adagio in SI minore si trasforma in un Larghetto in SOL maggiore, dal ritmo più mosso.

L’aria (B) Io vorrei due cori in seno viene trasposta da DO a SI minore ed accorciata, mantenendo soltanto il primo intervento di Bellezza ed espungendo quelli successivi di Disinganno e di Bellezza.

L’aria (D) Più non cura viene trasposta da SIb a DO maggiore.

L’aria (T) É ben folle quel nocchier viene completamente rimaneggiata: trasposta da 4/4 in SIb maggiore a 6/8 in MIb maggiore, e dotata di un ritmo più blando. 

Il Quartetto Voglio tempo per risolvere, dovendosi ora chiudere la seconda parte, viene completamente ristrutturato. La parte che rimane del quartetto (la prima) assume un tono e ritmo mesto (3/4) invece di quello agitatissimo (3/8) dell’originale, e si chiude sul verso ...ma il Consiglio è il tuo dolor. La restante parte (Pria che sii converta in Polve) viene rimpiazzata da un Coro, in FA maggiore.

La terza parte si apre con una Sinfonia e subito dopo il primo recitativo presenta una grande novità; una nuova versione dell’aria (P) Lascia la spina, veramente irriconoscibile rispetto all’originale. Il quale è basato sulla lenta sarabanda dell’Almira, mentre qui abbiamo una veloce giga (Allegro, 6/8).

Nella citata ricostruzione di Martini viene di seguito proposta una trascrizione per due clavicembali della sarabanda dell’Almira, seguita dalla versione originaria di Lascia la spina.

L’aria (B) Voglio cambiar desio viene significativamente modificata nella melodia principale. 

L’aria (D) Che già fu del biondo crine viene trasposta da SOL a LA minore, con minime modifiche alla fine delle strofe. 

Completamente rivista Il bel pianto dell’aurora: originariamente un duetto (D-T) in LA minore, diventa un’aria per il solo Tempo, in SI minore.

L’aria (P) Come nembo che fugge viene profondamente modificata. Tempo (da 3/4 a 6/8) e ritmo cambiano completamente: da forsennati si addolciscono parecchio.

L’accompagnato (B) Pure del cielo viene assai modificato e ridotto ai soli tre versi finali (Or se la Verità).

L’aria (B) Tu del ciel ministro che chiude l’Oratorio nella versione originale, viene modificata assai, e non solo nel testo del primo verso (Quel del ciel ministro) ma anche nella melodia.

Ma una novità eclatante della versione 1737 riguarda proprio la conclusione dell’Oratorio: adesso non è più un progressivo spegnersi della musica a supportare, per così dire, l’ascensione di Bellezza nell’empireo; qui viene aggiunto un finale preso di peso dalla precedente (1733) Athalia – ah, gli imprestiti! - e costituito da un coro esultante (Alleluja!) Come si vede, una chiusura retorica e bombastica, che contraddice palesemente l’approccio originale... Per di più Martini, nella sua edizione, lo fa precedere – proprio come in Athalia – anche da un Concerto per organo (mutuato a sua volta dall’opus 292).

Dal punto di vista delle durate, sono le due parti estreme a dare il maggior contributo: sommariamente ciascuna di esse incrementa i tempi di circa 15’ rispetto a quelli della versione 1707. Si passa quindi da circa 150 a circa 180 minuti (va ribadito però che la versione 1737 è quella di Martini, che ha operato inserimenti magari opinabili).  
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The Triumph of Time and Truth (Londra, 1757)

É ragionevole pensare che la versione del 1757 abbia avuto come base quella del 1737, perchè più recente e già rappresentata in Inghilterra. Lo testimoniano fra l’altro la struttura in tre (e non due) parti e le tonalità di molte arie. Come detto, Händel era ormai in condizioni precarie e non potè dedicare a questa versione tutta l’attenzione che si meritava, lasciando molto del lavoro di preparazione a diversi collaboratori. Tuttavia è innegabile che anche questa versione abbia un grande fascino e contenga nuove pagine indimenticabili. Qualche sommario cenno sulle principali novità introdotte:

Viene impiegata una nuova Ouverture bipartita.

Dopo l’aria (P) Pensive sorrow il soprano canta una nuova aria (Sorrow darkens) e subito dopo, insieme ad un coro di voci bianche canta Come, Come, ripetuto infine dal Coro.

Il nuovo personaggio della Verità (Counsel) prende il posto del Disinganno, a partire dal recitativo Turn, look on me, poi nell’aria The beauty smiling, quindi ancora nel recitativo Our diff’rent pow’rs.

Dopo l’aria (T) Loathsome urns abbiamo un nuovo coro (Strenghten us, o Time) che sostituisce quello del 1737. Il successivo recitativo (Too rigid the reproof) non è più affidato al Piacere, ma al Disinganno, che subito dopo intona una nuova aria (Happy beauty) completata da soprano e coro (Happy, if still they reign).

Vengono quindi cassati il duetto Bellezza-Piacere (Il voler nel fior degl'anni) il successivo recitativo (Della vita mortale) e l’aria (B) Un pensiero nemico. Il successivo recitativo (Folle, tu nieghi il tempo) cambia testo (Youth is not rich in Time) e voci: non più Disinganno-Piacere-Bellezza, ma Verità-Tempo-Piacere. Il coro finale (Like the shadow) è accorciato rispetto alla versione 1737: non si esegue la seconda strofa.

Assente qui l’interludio fra prima e seconda parte, per cui quest’ultima attacca subito con un coro nuovo di zecca (Pleasure submits to pain). Niente sonatine e invece un recitativo (Hark! What sounds are these) che include in apertura una fanfara di corni, che anticipa una nuova intera sezione (che rimpiazza l’aria del Piacere Un leggiadro giovinetto): si tratta di un sontuoso coro (Oh, how great the glory) seguito da ben tre arie consecutive di Piacere e Disinganno che precedono a loro volta un’altra aria della Bellezza (Come, O Time) che viene direttamente da... Roma.

Escluso il coro del 1737 (O tempo, padre del dolor) dopo l’aria originale del Disinganno (Mortals think) ecco un nuovo recitativo del Tempo, seguito da una nuova aria (False destructive ways).

Cassati l’aria del Tempo (Folle, dunque tu sola presumi) e il quartetto (Se non sei più ministro) abbiamo uno spostamento significativo: l’aria del Disinganno (Melancholy is a folly) viene inserita qui (variata) trasferendo dalla parte terza la famosa Ricco pino.

Cassate poi le arie di Bellezza, Piacere e Tempo, si passa alla chiusura della seconda parte con il coro (Ere to dust is chang'd) già introdotto nel 1737.

La terza parte vede leggere variazioni alla Sinfonia introduttiva e l'aggiunta di un’aria del Disinganno (Charming Beauty). L’aria Lascia la spina resta nella versione 1737 col titolo Sharp thorns despising, mentre non si ripropone l’originale romano.

Dopo l’aria della bellezza (Pleasure! My former) abbiamo l’inserimento di un coro, il famosissimo Comfort them, che in realtà è un imprestito bello e buono dalla HWV268, un Inno composto da Händel nel 1749.

Ricco Pino, come detto, è stato spostato con diverso testo nella parte seconda. La chiusura è – come nel 1737 - sull’Alleluja!

Quanto alla durate, rispetto alla versione 1737 tutte e tre le parti vengono sfrondate di alcuni (7-10) minuti, per un totale di circa 25. Si passa quindi da circa 180 a circa 155 minuti complessivi, pochi più rispetto all’originale del 1707.

Una recente apprezzata edizione della versione 1757 è quella degli scozzesi della Ludus baroque.
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Questa edizione scaligera si avvale della Direzione di Diego Fasolis, che sta collaborando con il Teatro per creare all’interno dell’Orchestra un ensemble orientato alla musica del ‘700, con uso anche di strumenti d’epoca. In questa occasione si potranno constatare i primi risultati dell’operazione.