affinità bombarole

rinsaldato il patto atlantico

02 maggio, 2015

Orchestraverdi 14-15 – Concerto n° 32


John Axelrod rimane ancorato al podio de laVERDI anche per la quarta delle sinfonie dispari di Mahler: l’ombrosa settima.

Sinfonia composta fra il 1904 e il 1905 quando Mahler era l’uomo più felice del mondo… ma eseguita per la prima volta a Praga nel 1908, dopo che tre disgrazie si erano abbattute sulla sua testa (Alma, peraltro… col senno di poi, le associò ai tre colpi di martellone che abbattono l’eroe-Mahler nel finale della coeva sesta): il licenziamento da Generalmusikdirektor della Hofoper, la morte da scarlattina della piccola Putzi e la diagnosi della sua (pur blanda) disfunzione cardiaca. Sostenere che questi accadimenti abbiano in qualche modo determinato significativi interventi sulla sinfonia già ultimata sarebbe fuori luogo, certo è che Mahler (come del resto faceva abitualmente) apportò all’opera diversi ritocchi in vista della prima, e altri ancora dopo le successive esecuzioni del 1909.

È la sinfonia ancor oggi meno compresa (e quindi anche poco eseguita) di Mahler: forse perché, dopo le notevoli innovazioni portate (in senso positivo) dalla quinta e (in senso involutivo) dalla sesta, qui sembra che il compositore senta quasi il bisogno di ritornare indietro, magari proprio alla quinta, ma in realtà anche alla sua terza e addirittura alla seconda. Di quest’ultima (come della quinta) mantiene quasi identica la macro-struttura: due movimenti estremi, fra loro labilmente collegati dal ritorno del tema principale, e tre movimenti intermedi (due andanti e uno scherzo) che paiono quasi fuori dal contesto (ed infatti le due Nachtmusik furono composte per prime nel 1904, assieme al completamento della sesta, un anno prima dei restanti tre movimenti).

Qui non ci sono voci umane, ma il programma interno richiama assai (oltre che la quinta) proprio la Auferstehung, magari vestendo l’abito borghese e tenendo un approccio laico: fatto sta che veniamo condotti su un percorso che potremmo chiamare dalle stalle alle stelle. In effetti si inizia quasi con un calvario (anche se non è proprio il mortorio della Totenfeier, nè lo spettrale richiamo della trombetta della quinta, ma poco ci manca): tutto il primo movimento lascia trasparire uno sforzo continuo per scalare impervie asperità, in cerca di qualche provvisorio altopiano dove respirare aria pulita. Il MI maggiore che lo chiude sembra un anticipo della serenità che verrà progressivamente avvicinata dalla seconda Nachtmusik e raggiunta nello smagliante DO del Rondo conclusivo.

Ecco poi la prima Nachtmusik, costellata da marce ora faticose, ora più scorrevoli, sempre oscillante fra maggiore e minore (come si sente la vicinanza di composizione con la sesta…) È un ambiente che richiama vagamente quello dei Berlioz-iani pellegrini dell’Harold, qui in più ci sono anche dei campanacci (come nella precedente sinfonia) pur se limitati a pochissime battute.

Segue il cupo scherzo, una specie di sgangherato walzerone da halloween, che rivaleggia in bizzarria con la predica di SantAntonio ai pesci della seconda (quello della quinta, diciamolo pure, è al confronto di livello nobile).

Una nuova Nachtmusik comincia ad introdurre un po’ di pace e serenità, anche se siamo più al Prater che al Musikverein, con tanto di chitarra e mandolino (meno pacchiani, peraltro, del martellone della sesta, trattandosi pur sempre di strumenti a corda).

Da ultimo arriva il Rondo, che contiene dentro di sè molto teatro (e non parlo dei Meistersinger, né della Vedova Allegra, che pure vi aleggiano chiaramente) e chiude la sinfonia, dopo un preoccupante ritorno del primo tema del movimento iniziale, in modo quasi esilarante, come a voler esorcizzare (proprio mentre quelli materiali si eran già fatti vivi) i fantasmi – tutti di natura estetica! - che Mahler si era inventato nella sesta.

Lascio infine alle parole di Ugo Duse il giudizio su quest’opera:  

È una grande sinfonia che vuoI essere sentita al di fuori completamente della linea di evoluzione delle altre. In tal senso essa è il punto di approdo della Sesta e nello stesso tempo ne è la critica più verosimile e spietata.

Non si rinnega il proprio mondo impunemente; chi è stato mandato sulla terra non tanto per comporre, ma per essere composto dalle voci di natura, perché in lui siano indimenticabili segnali di un'acustica rifiutatasi alla manipolazione musicale ma che, purificata, in essa s'inserisce come fondamento ontologico inalienabile; chi è stato mandato sulla terra per copiare la natura e ha preteso poi di soggettivare la musica sino a farla aderire al proprio corpo, al proprio esistenziale problema, in un gesto che sa di rivolta biblica; costui deve conoscere le vie dell'espiazione.

E l'espiazione deve assumere i caratteri altrettanto irrazionali della colpa. La Settima infatti non è una riconciliazione di Mahler col mondo del primigenio, col bosco sotto le stelle, coi fruscii della notte; è il bagno nella proiezione popolaresca della natura, la preghiera per rientrare in contatto diretto, immediato con essa. La Settima è un grande grido di dolore scaturito dalla necessaria illusione di riconquistare la perduta innocenza attraverso il ludibrio della più profonda depravazione.

Chi ha potuto lasciarsi deviare tra le luminose costellazioni della semplicità apollinea, fatte d'intricate, complesse, difficili virtù, per battere le vie del proprio dolore, della propria ira, del proprio sentimento assolutizzato, deve ora andare sino in fondo senza infingimenti, senza veli, senza mendicare scuse.

Questa è la Settima Sinfonia e sotto il profilo morale è opera d'arte quanto lo sono le Confessioni agostiniane. Sfugge al giudizio estetico perché grande è la sua moralità ma non avvertibile, o per lo meno difficile a provarsi. Bella e ripugnante a uno stesso tempo partecipa in qualche modo dell'estetismo morale, non moraleggiante, del Dorian Gray.
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Com’è andata ieri sera? Beh, la congiunzione astrale che ha condensato in una giornata come questo 1° maggio a Milano tanti accadimenti (economici, politici, di costume e di… scostume) forse non ha giovato alla miglior resa del concerto.

Axelrod, che mi era assai piaciuto nella Quinta, ieri mi è parso poco a suo agio con questa Settima che è obiettivamente difficile da rendere al meglio: temo che l’eccesso di decibel che ha dispensato (soprattutto nei movimenti esterni) abbia mascherato una certa insicurezza da parte sua; discreta peraltro la resa delle due musiche notturne. I ragazzi al solito hanno cercato di dare il meglio, in specie gli ottoni, impegnati allo stremo da Mahler. Purtroppo però proprio fra gli ottoni si è registrata una défaillance non da poco: il corno tenore, che ha un ruolo di grandissimo rilievo nel primo movimento, proprio scandendo la frase iniziale ha prodotto un suono piuttosto rauco e sgradevole, e poi alla battuta 33 ha chiaramente mancato la terzina di biscrome (arpeggio ascendente di RE maggiore) che è forse il passaggio più impegnativo per l’esecutore (in questo caso… esecutrice): si perdona ovviamente tutto, ma al momento il disappunto è stato grande.

Il pubblico (abbastanza scarso rispetto alla media, forse proprio causa ponte-expo-blackbloc) ha comunque apprezzato assai distribuendo applausi a tutti. Personalmente mi è rimasto un po’ di amaro in bocca: sono certo che domenica (un 3 maggio qualunque…) le cose andranno decisamente meglio.
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Proviamo a seguire la Sinfonia facendoci guidare da Claudio Abbado (a Lucerna, 2005).

Il primo movimento (Langsam, 4/4, SI e MI minore) è in forma sonata, come sempre piuttosto liberamente interpretata. Vi riconosciamo un’introduzione, con almeno tre motivi diversi, l’esposizione di tre temi, un grande sviluppo, la ripresa e la coda.

46” L’Introduzione è aperta sommessamente da archi e legni con figurazioni marziali in metro dattilo… esasperato (croma puntata + 2 biscrome) sulla triade di SI minore (SI-RE-FA#) arricchita però della sesta SOL#. Il primo motivo dell’Introduzione è costituito da diverse sezioni, esposte da diversi strumenti. A 55” Il corno tenore espone la prima:

A 1’06” oboi e clarinetti rispondono con la seconda, cui ancora fa seguito (1’19”) una terza nelle trombe e (1’30”) una quarta negli strumentini e poi (1’44”) una quinta, assai corposa, col corno tenore a contrappuntare l’intervento dei primi violini. È lo stesso corno tenore a chiudere questo primo disegno con l’incipit del tema.

Ora (2’20”) i legni presentano un secondo motivo dell’Introduzione:


Esso, rinforzato poi dagli archi, è importante da ricordare, poiché anticipa il terzo tema dell’Esposizione. Si arriva così ad un terzo motivo dell’Introduzione (2’41”) che è pure anticipatore del primo tema dell’Esposizione, che udremo tra breve. A 3’00” torna il corno tenore per esporre una variante in RE maggiore del primo motivo, completata (3’16”) dalle trombe. A 3’27” sono gli archi, poi i fiati, a riprendere la transizione che porta ad un crescendo (3’41”) che chiude l’Introduzione e senza soluzione di continuità porta alla successiva…

Esposizione, in Allegro risoluto, aperta (3’51”) da corni e violoncelli, con il primo tema, in MI minore:
Tema subito ripetuto (4’07”) e chiuso (4’14”) da un’impertinente irruzione della trombetta. A 4’21” compare una variante in SI maggiore del primo tema, esposta dai violini, seguita da un’altra (4’48”) in MI in fiati, viole e celli. Tutto ciò porta ad una cadenza che sposta la tonalità a DO maggiore, sulla quale viene esposto (5’14”) il secondo tema:
È una lunga melodia nei violini, che sale (6’02”) fino all’acutissimo FA#6, prima di essere bruscamente interrotta dall’incipit del primo tema (trombe, a 6’05”). Il terzo tema, come detto, è figlio del secondo dell’Introduzione, e lo si ode da 6’08”, con il compito di condurci rapidamente alla chiusura dell’Esposizione. 

A 6’26” ha infatti inizio il lungo e complesso Sviluppo, che si può suddividere in tre sezioni (o in due, a seconda di dove si posiziona l’inizio della Ripresa…) La prima sezione è occupata da una variante (inversione) del primo tema che poi ricompare (6’43”) nella sua originaria forma. A 6’53” ritroviamo la variante del primo tema che ne accompagna una del primo dell’Introduzione, chiuso dal corno tenore. Il secondo motivo dell’Esposizione si contrappunta poi (7’31”) rallentando i tempi (Moderato) ad una variante del primo, quindi ancora (7’54”) tornando al tempo Allegro, spezzoni del primo tema e del secondo dell’Introduzione portano a chiudere la prima sezione dello Sviluppo.

La cui seconda sezione, che si apre a 8’10”, è costituita da frammenti dei primi due temi dell’Introduzione e dell’Esposizione. A 8’45” ancora questi temi subiscono nuove trasformazioni, finchè (9’09”) non subentra improvvisamente una gran calma, con la tromba che ripete pianissimo, in SIb, il ritmo marziale dell’esordio e introduce una prima oasi di pace, dove (9’29”) si distingue un inciso nei flauti che tornerà successivamente:
Dopo due irruzioni dell’oboe, su frammenti del primo tema, la quiete viene rotta (9’51”) dal ritorno del primo tema nel corno inglese, contrappuntato da una sua variante nei violino solo. Ma gli oboi (10’21”) ci portano verso un’altra oasi di calma, introdotta (10’28”) da un’irruzione del clarinetto, poi da arpeggi delle trombe, e  quindi da apparizioni dell’inciso nei flauti, mentre i violini accompagnano in sordina e gli altri archi irrompono due volte con spezzoni del primo tema.

Si arriva quindi a 11’23”, dove ottoni e violoncelli con 4 battute di corale modulano a SI maggiore per introdurre un’incantevole visione (11’38”): sugli arabeschi delle due arpe e sul contrappunto dell’inciso dei flauti, ora esposto anche da oboi e corni, i violini con l’ottavino sviluppano ampiamente il secondo tema, contrappuntati dal primo e da quelli dell’Introduzione.

La progressione è davvero emozionante e culmina (12’51”) su un DO acuto nei violini, da cui si ricade per tre ottave e si arriva (13’04”) alla terza sezione dello Sviluppo (o ad una falsa-partenza della Ricapitolazione!): qui aizzati dai violoncelli (13’12”) il primo tema dell’Introduzione e i primi due dell’Esposizione vengono plasmati in una stupefacente sequenza, protagonisti tromboni e corno tenore:


La quale sfocia (14’13”) in una lancinante perorazione di violini e strumentini, basata sul secondo tema e poi sul primo dell’Introduzione:

A 14’27” ancora il corno tenore riprende spezzoni del primo tema dell’Introduzione, quindi i violini il secondo dell’Esposizione, portando in crescendo ad una cadenza che chiude definitivamente lo Sviluppo.

A 15’16” ecco la Ripresa, con il primo tema attaccato a lunghezza doppia (Maestoso) da corni e tromboni ma poi tornato a lunghezza normale, che porta prima ad una progressione (15’27”) con interventi di legni e archi bassi e infine sfocia (15’40”) in un Grandioso in Mi maggiore che tornerà (in DO) nel Finale della Sinfonia. Il tempo torna Allegro (16’01”) e torna anche il primo tema nella forma quasi originale, seguito (16’15”) dalla sua variante in SI maggiore. Poco dopo (16’49”) ancora il primo tema, ora in SOL minore, conduce alla riesposizione (17’06”) del secondo tema, in SOL maggiore, reiterato ancora (17’46”) e portato, con le ardite scalate, alla sua completezza fino a sfociare (18’14”) nel terzo tema, che conduce alla chiusura della Ripresa.

A 18’27” ha inizio la Coda, in tempo 3/2, dove il primo tema viene sbozzato da trombe e tromboni in un’orgia di suoni di archi e strumentini, dove appaiono anche frammenti del primo tema dell’Introduzione. A 19’00” si presenta nei violini la variante del primo tema, il quale (19’15”) torna in MI minore nei violini e poi nei tromboni.

A 19’50” si torna in tempo Allegro e 4/4 tagliato, con il primo tema in MI minore e la sua variante; un ultimo rallentamento (20’06”) fa prender fiato per il rush finale (20’12”) e la secca chiusura con la variante del primo tema, in MI maggiore. 
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La prima delle due Nachtmusiken si presenta come un Rondo, con la seguente macro-struttura: Introduzione-A-B-A-C-A-B-A-Coda, dove la sezione A è in forma marziale, B e C sono dei Trii (nel dettaglio vedremo come la struttura sia assai più articolata). La tonalità principale è DO, con continui passaggi da maggiore a minore (eredità chiara della Sesta, completata insieme ai due notturni della Settima) mentre i trii sono rispettivamente in LAb maggiore e nella relativa FA minore.

20’36” Il corno (di Alessio Allegrini) attacca il motivo dell’Introduzione, che anticipa il tema principale della sezione A. Gli risponde, con la sordina, come un eco lontano, il terzo corno e fra i due udiamo ancora un botta-e-risposta, chiuso dal primo sulla sopratonica RE; poi (21’06”) oboe e clarinetto entrano con melismi, sui quali il corno inglese ripete la frase iniziale; si uniscono altri due clarinetti e poi la frase introduttiva passa al fagotto; qui (21’31”) si aggiungono i flauti con trilli sulla dominante SOL, mentre è la tuba a reiterare due volte il motivo iniziale. L’atmosfera si fa sempre più incandescente e il tempo serrato, fino all’esplodere (21’47”) di due battute (dove il DO maggiore trascolora in minore) caratterizzate da velocissime discese dei fiati e poi degli archi bassi.

Ecco ora (21’51”) il primo corno (imitato dai violoncelli a distanza di una battuta) esporre il tema principale della sezione A, che ripercorre il motivo dell’Introduzione ma, invece di salire all’ottava, passa cromaticamente dalla dominante alla sesta per poi ricadere sulla tonica, dalla quale riparte per completare un lungo percorso melodico:

A 22’14” i primi violini rispondono con un controsoggetto che chiude la frase. A 22’42” ecco in contrabbassi e controfagotto-fagotti un nuovo e cupo motivo marziale, che Mahler si premura di segnare Non strascicando, ma che in effetti appare come un procedere faticoso e pesante; il timpano (22’57”) sembra voler richiamare all’ordine, ma ancora senza risultato, finchè un suo nuovo intervento (23’15”) porta alla riesposizione del tema principale, questa volta negli archi imitati dai legni bassi. Tema e controsoggetto vengono a completare la sezione A.

A 24’11” ecco il primo Trio (sezione B del Rondo) con il tema affidato ai violoncelli, che partendo dal precedente DO, preso come mediante, portano la tonalità a LAb maggiore:
Il tema è preso poi in carico dai violini e infine chiuso dagli strumentini. A 24’44” ne udiamo una variante che modula alla dominante MIb. A 25’09” in oboi e flauti abbiamo una transizione che rimodula a LAb e qui (25’19”) abbiamo un nuovo motivo, che si chiude a 25’50” sulla ricomparsa del corno che intona quello dell’Introduzione. Ora abbiamo una transizione, protagonisti corni, poi violoncelli, quindi i legni, che porta alla seconda ricorrenza della sezione A del Rondo (26’48”) protagonisti i corni e, nella seconda parte, i violini.

Si arriva poi al secondo Trio (sezione C del Rondo): siamo in FA minore e la sezione è costituita da due parti inframmezzate dal tronco finale dell’Introduzione. A 27’41” sono principalmente flauti e oboi ad esporne il motivo assai dimesso e piangente:

che sfocia (28’28”) nei trilli dei flauti già uditi nell’Introduzione e poi nella caduta DO maggiore-minore, qui solo negli archi, con il resto dell’orchestra a far riempitivo. Torna il motivo del trio (28’52”) che poi va progressivamente a spegnersi, frantumandosi in una serie di interventi isolati di diversi strumenti, fino (30’07”) agli squilli della tromba, dell’oboe e del clarinetto che i flauti riprendono per riportarci alla terza apparizione della sezione A del Rondo (30’21”). Ora però c’è una sorpresa: dopo l’esposizione della prima sezione del tema, eccone una del tutto nuova, in MIb maggiore (30’43”):

che si inserisce prima della seconda sezione, ripresa a 31’03” e riesposta completa in tutte le sue componenti.

A 31’59” ecco la seconda apparizione della sezione B del Rondo, sempre in LAb maggiore, sfociante (32’33”) sulla dominante MIb per poi tornare a LAb fino a spegnersi sulla mediante DO negli oboi. A 33’20” il corno torna a far sentire il suo richiamo iniziale: gli rispondono clarinetto e oboe, che aprono l’ultima apparizione della sezione A del Rondo (33’31”) non in DO ma in LAb, che però qui è incompleta, partendo dalla sezione mediana introdotta nella precedente apparizione.

A  34’24” riecco il richiamo del corno, che apre la conclusiva Coda, che mutua la prima parte dall’Introduzione, con i clarinetti in bella vista, per poi spegnersi con una discesa di terzine in pizzicato nei violini, due sordi colpi di piatti e tamtam e il SOL in armonici dei violoncelli.
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Lo Scherzo (3/4, RE minore) reca l’agogica Schattenhaft, letteralmente ombroso, ma anche, volendo, fantomatico. Ha una struttura apparentemente semplice (Scherzo-Scherzo-Trio-Scherzo-Scherzo) ma in realtà è (come tutto in Mahler) assai articolato.

La prima ricorrenza dello Scherzo presenta (35’57”) l’Introduzione, dove timpani e archi bassi in pizzicato, poi corni, clarinetti e flauti smozzicano i frammenti del ritmo di walzer. Il primo motivo (36’12”) è esposto dai primi violini:

 
Motivo che viene sviluppato ulteriormente (36’12”) da archi e legni, fino a sfociare – a 36’35”, contrappuntandolo – in un secondo tema, una specie di accorato lamento (non per nulla notato come klagend) del flauto:


Ecco poi (36’50”) un repentino passaggio a RE maggiore, dove udiamo un nuovo motivo, di una gaiezza un po’ equivoca, che chiude la prima esposizione:


Subito lo Scherzo viene riproposto (37’08”) a partire dall’Introduzione, seguita dal primo tema (37’22”) e dal suo sviluppo, quindi (37’42”) dal secondo in forma ridotta e poi (37’50”) dal terzo, che insieme al secondo viene sviluppato assai, portando (38’33”) ad una Coda-transizione verso il Trio.

Il quale è in RE maggiore e presenta (38’51”) negli oboi un primo tema:

seguito (39’01”) da un controsoggetto e ancora (39’24”) da un nuovo motivo che è parente di quello dell’Introduzione della Sinfonia.

Dopo che (39’50”) gli archi hanno esposto un lungo ostinato, culminato (39’57”) in un’enfatica perorazione, il Trio si chiude (40’01”) con un ultimo motivo, strettamente derivato dal primo:
Abbiamo ora (40’33”) una transizione in MIb minore, in cui udiamo diversi spezzoni di motivi già presentati, che ci porta con un secco colpo di timpano (40’49”) alla prima ripresa dello Scherzo, con Introduzione, primo tema nella viola solista (41’08”) e suo sviluppo, secondo tema (41’41”) e poi terzo (41’55”) che si contrappuntano.

L’ultima ripresa dello scherzo (42’35”) ha una struttura abbastanza anomala, comprendendo motivi provenienti dal Trio. Ha un’introduzione brevissima, seguita (42’40”) dal primo tema, poi da una variante del secondo che si accompagna all’ultimo tema del trio. Poi (43’01”) del Trio udiamo la seconda sezione del primo tema e quindi (43’20”) anche il secondo nel corno inglese. 

Una nuova comparsa (43’40”) nei violoncelli del terzo tema del Trio porta direttamente alla Coda, che chiude in modo davvero spettrale (colpo di timpano seguito da triade di RE maggiore in pizzicato nelle viole) questo grottesco movimento di sinfonia.
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La seconda Nachtmusik è una serenata (2/4, FA maggiore, Andante amoroso). Ha una struttura definibile come pseudo-forma-sonata: esposizione, sviluppo e ricapitolazione. Ma come ogni serenata che si rispetti ha un suo ritornello che ricompare di continuo a separare i diversi motivi che la compongono. Esso viene subito (44’39”) esposto dal violino solista ed è seguito da un motivo di accompagnamento nel clarinetto, che assumerà anche un ruolo tematico, e dagli accordi della chitarra:

Il corno espone (44’54”) il primo dei quattro temi principali della serenata; gli risponde (45’02”) l’oboe con un controsoggetto derivato dal motivo di accompagnamento:

 
Il primo tema viene subito (45’10”) reiterato dal corno e il ritornello (45’21”) del violino lo separa dal secondo tema, esposto (45’30”) dai violini:

e chiuso dall’oboe, col ritornello (45’44”) ora esposto dal violoncello solo. Altro ritorno nel corno (45’49”) del tema principale, ora arricchito nella parte conclusiva, con il ritornello (46’13”) che lo separa dall’esposizione, nei violini (46’22”) del terzo tema:


Un crescendo sonoro ci porta (46’56”) ad una nuova esposizione, questa volta nell’oboe, del primo tema, contrappuntato nei violini dal terzo. Segue una lunga transizione caratterizzata dal primo tema arricchito e variato.

A 47’35” possiamo collocare la chiusura dell’Esposizione e l’inizio dello Sviluppo, dove il primo tema viene, per così dire, sviscerato nei suoi dettagli, in un’atmosfera davvero rarefatta, dove chitarra e mandolino fanno sentire la loro presenza. Dopo una transizione a LA maggiore, si modula a LAb e a 48’40” ricompare il terzo tema nei violini, che lo sviluppano fino a 48’59” dove una sospensione della melodia prepara il ritorno del primo e poi del terzo tema che conducono ad un crescendo (49’10”) dove spezzoni dei due temi si contrappuntano energicamente (si noti l’intervento del corno) per poi tornare lentamente ad acquietarsi con una lunga cadenza in cui chitarra e mandolino ancora si distinguono. 

Si arriva quindi a 49’56”, dove possiamo identificare una specie di Trio, basato su un quarto tema, in SIb maggiore, inizialmente presentato dal violoncello solo:
Tema che viene arricchito nella melodia dal corno (50’09”) in contrappunto con i violoncelli. Un ulteriore sviluppo del tema è introdotto (50’38”) dagli archi, in MIb minore, con interventi del mandolino, poi (51’07”) torna, adesso in FA maggiore, il tema del Trio, che viene sviluppato in modo quasi eroico, con un culmine a 51’35” da cui si degrada verso un alleggerimento del suono, con l’intervento dell’arpa che porta a modulare prima a RE e poi (nell’oboe) a LA maggiore.

Con un brusco ritorno al FA (52’15”) i violini ripropongono il ritornello, ora in dimensioni allargate, segnalando l’inizio della Ricapitolazione. Ricompare quindi (52’25”) il tema principale nel corno, cui subentra il violino, poi ancora il corno il cui tema sfocia nel ritornello (variato). A 53’00” ecco il secondo tema, negli archi, quindi ancora (53’14”) il ritornello, nel violoncello. Torna il corno (53’19”) con il primo tema chiuso da un’ennesima ricomparsa, sotto mentite spoglie… del ritornello (53’43”).

A 53’51” riecco il terzo tema, che adesso viene sviluppato in modo drammatico, con un poderoso crescendo che ha culmine a 54’15”. Subito dopo (54’19”) ecco l’oboe esporre il tema principale, spalleggiato poi dal clarinetto e quindi dall’accompagnamento di flauto e violini. A 54’35” l’ultima comparsa del primo e del terzo tema, che si trasferiscono dai legni agli archi, poi ancora ai legni, con i corni a tenere bordone e la chitarra a ribadire i suoi accordi. 

A 55’12”, introdotta dal corno inglese, ecco la stupefacente Coda, con il clarinetto che chiude in modo davvero mirabile la serenata.  
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Il Rondo finale è un autentico rompicapo, tanto inafferrabile ne è la struttura: dove si può vedere un simulacro di forma-sonata, con una doppia esposizione, lo sviluppo e la ripresa; oppure una bizzarra forma di rondo (A-B-A’-A-C-A”-A-D-A’”-A””-A). Gli studiosi preferiscono quindi parlare di Durchführung (sviluppo) permanente o di applicazione del principio di variazione perpetua. I denigratori di Mahler vi trovano pretesti a josa per irridere al suo velleitarismo da strapazzo…

Un assolo di timpani, sulla triade di MI minore, lo apre (56’16”) subito imitato nel suo gesto – trilli compresi - dal pacchetto dei corni:


Ecco ora (56’27”) il tema principale, esposto dagli ottoni, in un’atmosfera da Meistersinger, con la trombetta in evidenza:

Subito dopo (56’42”) archi e ottoni espongono - accompagnati da velocissime volate di semicrome negli strumentini - altre varianti del tema, fino a quando, su un tempo Pesante,  non compare in orchestra (56’58”) un secondo motivo:

che poi viene sviluppato ulteriormente fino a culminare (57’40”) in un’esilarante cadenza, la stessa che chiuderà poi la Sinfonia, ma che adesso, dopo l’accordo di DO maggiore porta repentinamente, tramite sesta napoletana, a LAb.

Qui (57’55”) inizia la sezione B del Rondo e vi fa subito capolino negli oboi una simpatica conoscenza degli amanti dell’operetta: la Vedova allegra!

Sono i violoncelli (58’01”) a sviluppare poi il tema, seguiti (58’28”) dagli strumentini, che portano alla conclusione della sezione e alla tonalità di DO. Gli ottoni (58’44”) ripropongono una variante del tema principale, aprendo la sezione A’ del Rondo dove troviamo, anticipato dagli strumentini, un nuovo motivetto (59’23”) che conduce ad una transizione verso l’autentica sezione A, attaccata dagli ottoni (59’57”) che ripropongono il tema principale, seguito poi dalle altre sue varianti.

La sezione C del Rondo  ripropone in viole e celli (1h00’50”) il tema di… Lehar assai variato ed elaborato insieme ad altri motivi, fino all’approdo ad una nuova sezione A” (1h01’57”) che si presenta assai complessa ed articolata, con numerosi cambi di agogica e tonalità (LA maggiore) e richiami di diversi motivi già ascoltati.

Torna (1h04’17”) in DO maggiore la sezione A del Rondo che presenta varianti dei temi principali. Una modulazione a LA maggiore porta al completamento di questa sezione, che cede il passo, su un’ardita modulazione a SOLb maggiore (1h05’22”) alla sezione D del Rondo nella quale torna a farsi subito sentire la… Vedova, che si vede poi ripresa in tutte le… pose musicali.

Si arriva così (1h06’46”) ad una nuova sezione A”’ del Rondo, che inizia col tema principale in SIb maggiore per poi divagare assai, manipolando i diversi motivi e mutando spesso il tempo e la tonalità, infine riportata a DO.

Un’altra sezione (A””) del Rondo è aperta (1h08’58”) dal tema principale negli ottoni, in RE maggiore, ma poi ecco un’inaspettata irruzione (1h09’08”): ritorna infatti minaccioso, in RE minore nei corni, il primo tema del movimento iniziale, subito dopo ripreso in DO# minore e successivamente ancora (1h09’29”) in DO minore dai violini. Segue una transizione vin tempo scorrevole che porta ad un momento solenne (1h10’09”) con il tema del movimento iniziale suonato in REb maggiore dalle trombe, lieto presagio di ciò che avverrà fra poco.

Una transizione in cui spezzoni dei vari motivi vengono a contatto e spesso a scontro fra loro porta verso l’ultima sezione A del Rondo (1h11’12”) che vede ancora protagonista le trombe nell’apertura, poi tutta l’orchestra espone il tema principale con grande energia. Torna in tutta l’orchestra (Pesante) anche il secondo tema (1h11’41”) prima che i corni (1h11’52”) con campana in alto ripropongano una variante del tema principale, in contrappunto con le trombe. Ancora archi e legni accompagnano la tuba che dà il suo contributo al tema, prima dell’apoteosi conclusiva.

Che si raggiunge con la trasfigurazione, principalmente nei corni, del cupo tema iniziale della sinfonia da minore a maggiore (1h12’38”) che porta rapidamente alla chiusura – quasi uno sberleffo – di questa nobile mappazza.
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PS: chi vuole gustarla… con comodo, può chiedere aiuto a tale Otto Klemperer! 

27 aprile, 2015

Teste rotonde a Torino


Ieri pomeriggio, tornato l’inverno (!) il Regio torinese ha ospitato l’ultima recita (di 8) de I Puritani.



Lo spettacolo riprendeva il recente allestimento fiorentino di Fabio Ceresa (quello della… relatività allargata) sul quale avevo già a suo tempo riversato sufficienti improperi, e quindi non vi infierisco oltre.

Qui invece abbiamo avuto un apparato musicale completamente diverso (salvo il… Bruno): infatti la sezione suoni torinese era imperniata su una famigliola marchigiana (lui di Pesaro, lei immigrata russa, smile!) che di tanto in tanto riesce a ricongiungersi in qualche teatro d’opera:  


Ieri pomeriggio addirittura la famiglia si è allargata anche a mamma-e-papà-Mariotti, seduti al centro della fila 11 dell’anfiteatro torinese. 

Quanto ai contenuti… materiali dell’ultima opera di Bellini, ne esiste(va) una sola versione pubblicata, quella di Parigi (dove fu data la prima nel 1835) già fatta oggetto da Bellini in persona di tre corposi tagli rispetto al manoscritto originale. Che riguardano il Cantabile nel terzetto del primo atto (Se il destino a te m’invola); il Largo di mezzo, sezione centrale del duetto Elvira-Arturo (Mi credevi di spergiuro?) a metà del terz’atto; e infine il duetto Elvira-Arturo (Ah sento, o mio bell’angelo) che chiude l’Opera.

Sappiamo poi che Bellini lavorò ad una successiva versione (pro-Malibran) prevista per Napoli, ma mai pubblicata e mai andata in scena prima del 1985, che cambia assai le carte in tavola, e fra altre corpose innovazioni (tipo il Riccardo promosso a tenore e la cassazione della Tromba) riserva alla protagonista Elvira la cabaletta finale (Ah sento, o mio bell’angelo) invece del duetto con Arturo.

Ne consegue che in ogni allestimento o incisione dell’Opera il Direttore si diverta come un bambino con il meccano (smile!) tagliando o riaprendo tagli, e persino mescolando Parigi e Napoli, con motivazioni che vengono spacciate per artistico-estetiche, ma che in realtà spesso e volentieri nascondono semplicemente interessi di bassa lega (o di… famiglia!)

Ad esempio possiamo ascoltare una versione ibrida dell’Opera in versione Parigi col solo taglio del Cantabile nel terzetto, ma con il ripristino del Largo di mezzo e con il finale-Malibran: è quella del 1975 di un’altra famosa coppia del melodramma: Sutherland-Bonynge. Risposta alla domanda degli ingenui (perché non ripristinare anche il Cantabile?): ma perché lì non vi avrebbe comunque cantato la Joan!

All’estremo opposto (more Serafin-ico) si comportò Beltrami a Firenze (nell’allestimento trasferito qui a Torino) mantenendo tutti i tre tagli d’autore e in più accorciando qua e là…

Michele Mariotti qualche anno fa a Bologna aveva riaperto due dei tre tagli di Bellini, il primo e il terzo. Perché? Perchè lì vi cantava un tenore, che a Bologna era tale J.D.Florez! Qui a Torino ha invece riproposto dei tre tagli soltanto il duettino finale: anzi no, ha riproposto la cabaletta in versione Malibran! Perché?: ma perché la cantava sua moglie!

A parte questi aspetti piuttosto prosaici e francamente miserelli, devo dire che la direzione di Mariotti mi è parsa di livello dignitoso: qualche eccesso di decibel avrebbe potuto essere evitato, ma in complesso i suoni usciti dalla buca erano più che godibili.

Dmitry Korchak non se l’è cavata male come Arturo: devo dire che mi sembra stia continuamente migliorando, il che testimonia di serietà professionale e di duro lavoro di studio. Oltre alla voce che ha per dono di natura (senza bisogno di toccare quel FA da baraccone messo lì dal compositore per Giovanni Battista Rubini) il tenore russo ha acquisito anche una notevole sensibilità interpretativa: per me, il migliore del cast.  

Olga Mariotti (nata Peretyatko) ha mostrato alti e bassi: la voce, si sa, non è da soprano drammatico, ma per questo personaggio ci può anche stare. Però il timbro vetroso e gli acuti (e sovra-) sparati alla sperindio non le fanno onore. Poi, nella ripresa della cabaletta (Vien diletto) ha presentato degli abbellimenti (???) da obbrobrio e pure mal cantati: se glieli ha messi su il marito, peggio per lui…

Nicola Ulivieri (Valton, Sir) ai miei orecchi ha meritato assai: voce non propriamente da basso grave, come forse richiederebbe la parte, ha però mostrato grande portamento e sensibilità.

Nicola Alaimo era Riccardo: alti e bassi, con prevalenza per i… bassi (ahilui). A cui non basta un velleitario SOL acuto (sul tenero amor) per alzare la media.

Fabrizio Beggi (Valton, Lord) senza infamia e senza lode, il che significa la sufficienza.

Samantha Korbey è stata un’Enrichetta ridicola, oltre che inudibile. Per di più Mariotti ha infierito su di lei, coprendola implacabilmente (o forse l’ha fatto apposta per risparmiarcela?)

Saverio Fiore, unico superstite di Firenze, ha continuato a navigare in acque mediocri, qui sul Po come là sull’Arno…

Sempre apprezzabile il Coro di Claudio Fenoglio. 

Pubblico assai folto e ben predisposto, a giudicare dalla positiva accoglienza per tutti (leggo che quello dello stadio era invece un filino meno… accomodante).

24 aprile, 2015

Orchestraverdi 14-15 – Concerto n° 31


Continua la sequenza dispari delle sinfonie mahleriane. Di scena questa settimana la Quinta, e sul podio torna per l’occasione John Axelrod.   

Come aperitivo il programma prevede la Suite dalla Mahagonny (vicissitudini di una città… dagli altari alla polvere) di Kurt Weill. Si tratta di sette brevi estratti dall’opera (circa 20’) approntati 30 anni dopo la composizione originale (che è del 29-30) da Wilhelm Brückner-Rüggeberg, direttore d’orchestra abbastanza noto a metà del ‘900 anche per avere diretto e inciso le opere della coppia Brecht-Weill con Lotte Lenya. Nel 1998 Mariss Jansons ha inciso la suite con i Berliner.

La Suite apre con l’Allegro giusto che introduce l’irresistibile ascesa della città; ci sentiamo anche la famosa Alabama song (nel Moderato assai, N°2) che poi torna anche nel finale, il Largo (senza voci, ovviamente) che certifica, a mo’ di marcia funebre, il fallimento di questa specie di LasVegas del malaffare.

Insomma, un bel bigino dell’opera e una interessante novità proposta da laVERDI, che Axelrod ha diretto in modo teso e vibrante e che il pubblico ha accolto con calore.
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La Quinta è ormai un altro dei cavalli di battaglia de laVERDI, che l’ha eseguita fin dai tempi di Delman, per passare poi a Chailly e infine alla Xian e a Caetani. Axelrod si trova quindi a beneficiare di una ricca dote di esperienza, alla quale lui aggiunge la sua personale sensibilità, che gli viene anche dall’esempio di uno dei suoi maestri, Leonard Bernstein.

Peraltro il Maestro texano si guarda bene dal prendersi tutte quelle (eccessive, francamente) libertà che il grande Lenny si poteva permettere! La sua è una direzione rigorosissima sul piano di agogica e dinamica, proprio nello spirito mahleriano: da incorniciare la prima parte, con i due movimenti funebri, ma tutta l’esecuzione è stata davvero rimarchevole e i ragazzi si sono superati (l’attacco in unisono dei 4 corni dello Scherzo ha mostrato l’unica pecca tecnica dell’intera esecuzione) meritandosi alla fine grandi ovazioni da un pubblico entusiasta.

23 aprile, 2015

Famigliastre a Bologna

 

In questi giorni è di scena a Bologna la Jenůfa di Leóš Janáček, che ieri pomeriggio è arrivata alla penultima delle sei rappresentazioni, che si concluderanno questa sera.

Opera dal soggetto cosiddetto verista, presentando uno spaccato di vita rurale di remote periferie della Moravia e trattando di vicende abbondantemente legate alla cronaca nera. Ma dove non manca il richiamo alla genuinità della vita della gente comune, capace anche di esprimere le più elevate qualità etiche.

L’intreccio del dramma (tutto sommato… a lieto fine) coinvolge prevalentemente persone appartenenti ad una stessa famiglia allargata, quella che fa capo alla vecchia, vedova ormai da tempo, nonna Buryjovka; ma dalla lettura del libretto di Janáček si fatica a comprendere l’intricata matassa dei rapporti di parentela intercorrenti fra i 5 protagonisti principali: la nonna appunto, i tre suoi nipoti (Laca, Števa e Jenůfa) e la nuora Kostelnička. Per dipanare la complicata matassa ci si deve quindi far aiutare dal testo del dramma teatrale - 1890, cui seguirà molti anni dopo un più dettagliato racconto di pari soggetto - di Gabriela Preissová, dal quale il compositore trasse ispirazione per il suo libretto; dramma dal titolo Její pastorkyna (La sua figliastra); titolo che Janáček mantenne per l’opera, anche se poi per vari motivi a quello subentrò il nome della protagonista.

Nell’albero genealogico che segue sono rappresentati appunto i 5 principali personaggi dell’opera, indicati in rosso (gli altri sono tutti ormai… defunti):


Come si deduce, siamo di fronte ad uno scenario a dir poco… incasinato: dico, di gradi di parentela diretti non ce n’è uno che è uno: fra fratellastri, figliastri e matrigne, il rapporto più diretto è quello della protagonista con il suo primo amore, cugini di primo grado.

Tanto per chiarire: i due uomini (Laca e Števa) che si contendono (almeno per un po’) l’amore di Jenůfa sono figli della stessa madre, ma di padri diversi: il primo, di tale Klemen, il secondo del primogenito di nonna Buryjovka. Laca quindi è più anziano, ma tutta l’eredità dei Buryja (il mulino e proprietà connesse) va al fratellastro, per ragioni di… sangue (residui di maggiorascato!) così a Laca viene semplicemente concesso di lavorare al mulino, come qualunque altro estraneo. Da parte sua Jenůfa è figlia del secondogenito (Tomas) di nonna Buryjovka e di una donna (Jenůfa-sr, figlia di un albergatore) morta poco dopo averla data alla luce (per questo la bimba ne prende pari-pari il nome). Tale Petrona Slomkova, che invano aveva puntato Tomas da scapolo, lo ha poi sposato da vedovo, e alla morte di costui ha trovato impiego come sacrestana (Kostelnička) presso la locale cappella: Jenůfa-jr (la sua figliastra, appunto, come dice il titolo) viene da lei allevata come una figlia.
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Ora qualche nota sulle personalità dei protagonisti, come emergono dal testo della Preissová, e poi dal libretto e dalla musica di Janáček. La figura centrale è fuor di dubbio quella della Kostelnička, poiché è lei che determina, nel bene e nel male, ogni singolo sviluppo del dramma che si consuma nella sperduta Veborany. Lo stesso titolo della fonte di Janáček (che il compositore originariamente trasferì anche all’opera) lo testimonia senza ombra di dubbio: Jenůfa vi compare implicitamente, indicata come la sua (della Kostelnička, appunto) figliastra, quindi l’enfasi è sulla titolare di quel sua!

I cui comportamenti evidenziano una chiara instabilità psichica, che un suo conterraneo e contemporaneo avrebbe potuto analizzare e magari curare applicando le sue recenti scoperte in tema di psicanalisi: peccato che Petrona Slomkova non abbia avuto la ventura di passare a Příbor per farsi visitare da tale Sigismund Shlomo Freud!

Certo, il suo equilibrio psichico doveva essere stato turbato da tutta una serie di circostanze esistenziali particolarmente avverse. Dunque, vediamo: Petrona riceve un’educazione assai severa dal padre (para-medico molto rispettato in paese) e alla morte di lui deve accudire la madre (donna pia e in perenne ansia che qualche uomo le porti via la figlia). A 27 anni – quindi non più una ragazzina – conosce Toma Buryja (bello e pure ricco!) e se ne innamora. Ma lui sposa un’altra (Jenůfa-sr) che muore partorendo una bimba (Jenůfa-jr).

Allora è Toma a cercare Petrona, la quale decide di sposarlo, attirandosi così mille maledizioni dalla madre, che non può vedere quel poco di buono (la suocera Buryjovka invece è ben felice che una donna proba tenga a bada il figlio scapestrato). La stessa Petrona deve presto pentirsi del matrimonio, viste le abitudini del marito, che beve e perde tutte le sue sostanze al gioco e a lei riserva solo maltrattamenti. Per di più lei ha scoperto di non poter avere figli, e da questa frustrazione nasce un amore possessivo per la piccola Jenůfa, che è l’unica cosa che le rimane alla morte del marito, ucciso accidentalmente dalla fucilata di un cacciatore.

La sua rettitudine e moralità le fanno ottenere il posto di sacrestana (Kostelnička). Quando i due fratellastri Števa e Laca cominciano a frequentare Jenůfa, ormai adolescente, le simpatie di Petrona vanno istintivamente a Laca: primo perché lui è (precisamente come lei stessa) estraneo alla famiglia Buryja e quindi penalizzato (tutta l’eredità va a Števa) e secondo perché è un ragazzo con la testa a posto, al contrario del fratellastro che assomiglia – quanto a cattive abitudini – allo zio Toma.  

Naturale quindi che lei sia contraria alla relazione della figliastra con Števa, ma quando fra i due sopravviene il fatto compiuto tutta la sua esistenza è volta al perseguimento del bene (o del… minor male) di Jenůfa: così la nasconde fino al parto e contemporaneamente comincia a sperare che il bimbo (del peccato, quindi sbagliato) non veda la luce; e quando la vede, dice direttamente in faccia alla figliastra di augurarsi che Dio le tolga quel figlio dalle mani. Per rispetto delle convenzioni di cui è impregnata, cerca comunque di convincere il padre ad addivenire alle classiche nozze riparatrici. Mancato questo obiettivo, la sua decisione è ormai presa: sopprimere il bimbo (qui non è da escludere un inconscio senso di invidia per la figliastra, che un figlio lo ha avuto, mentre a lei era stato negato…)

Ma arriva inaspettatamente Laca, nonostante tutto ancora e sempre innamorato di Jenůfa, e la donna è costretta a rivelargli il segreto. Però prima che lui possa pensare a mente fredda all’eventualità di prendersi la figliastra sua con annesso pargolo del fratellastro suo (al quale l'infante già somiglia come una goccia d’acqua!) lei lo previene con la menzogna della morte del piccolo, tanto è convinta dell’assurdità di una simile soluzione: ma come, Laca dovrebbe sposare Jenůfa e riconoscere come suo il figlio del fratellastro che gli ha violato anche la moglie, dopo essersi preso tutta l’eredità della famiglia? No, l’unica soluzione buona (o meritata) per tutti - e persino benedetta dal suo Dio - è la soppressione del neonato: ciò farà il bene della figliastra e di Laca (che infatti, alla fine, vivranno felici e contenti!); risparmierà al piccolo innocente una vita di umiliazioni, facendogli raggiungere immediatamente il Paradiso; e infine caricherà sulle spalle del fedifrago Števa un meritato, pesante ed eterno rimorso.

Accipicchia, il Dottor Freud avrebbe avuto materia per scriverci più di un tomo di psicanalisi!

Quanto alla povera protagonista, lei è una donna sfortunata fin dalla nascita, per la perdita della madre e più tardi del padre: rimane quindi alla mercè di una matrigna tanto possessiva quanto amorevole, che di fatto cerca di sequestrarle ogni libertà di pensiero e di movimento, e successivamente di indirizzare a modo suo la spinosa gestione della nascita e del futuro del nipotino. La stessa conclusione della vicenda ce ne mostra l’intrinseca debolezza di carattere e la subalternità di fronte ad eventi che appaiono decisamente più grandi di lei.

Il personaggio di Laca, come detto, ha qualche punto di contatto con quello della Kostelnička: è figlio della stessa madre di Števa, del quale però non condivide la fortuna, né quella economica, né quella sentimentale, sempre preceduto sul traguardo dal più giovane e privilegiato fratellastro. Naturale che provi risentimento verso quest’ultimo, ma anche verso Jenůfa, rea di preferire il bello e ricco (ma anche vuoto e inaffidabile) Števa a lui che è buono e fedele, ma povero. E così la sua frustrazione sfocia nell’atto violento di sfregiare una guancia della ragazza che gli si nega. Da notare al proposito che sono proprio lui e la matrigna di Jenůfa a rendersi responsabili dei due crimini che caratterizzano la vicenda.

Števa è il classico figlio-di-papà, già nato con la camicia e al quale vanno (fino a un certo punto!) tutte bene: si prende l’eredità, è il prediletto della cugina, ha fortuna con le donne, antepone la bella vita ai doveri familiari, riesce ad evitare il servizio militare e infine può scegliersi in moglie la figlia della massima autorità locale! La fine ingloriosa che gli viene riservata sembra quasi una giusta punizione divina per il suo comportamento irresponsabile.

Per ultima, nonna Buryjovka: è un personaggio opaco, privo ormai di qualunque iniziativa; una vecchia che non riesce a comprendere che il mondo sta cambiando e che subisce passivamente gli avvenimenti che accadono attorno a lei; non a caso è l’unica persona della famiglia ad essere assente dal secondo atto, dove si sviluppa tutto il dramma dei Buryja. Fuori dalla cui cerchia si muove il microcosmo della gente di Veborany, tipica comunità rurale arretrata e un po’ bigotta, ma proprio per questo anche naïf e perfettamente strumentale all’obiettivo di Janáček di circondare il cuore del dramma con squarci di musica che raccontano l’innocente ingenuità della sua gente.
   
I tre atti dell’opera (come del dramma originario) coprono un arco di tempo di alcuni mesi: un’estate (o inizio autunno) dove scopriamo il segreto legame fra Števa e Jenůfa, già incinta; l’inverno che fa da sfondo alla nascita – e alla tragica morte prematura! – del piccolo Števa-jr; e la successiva primavera – a un anno di distanza dal concepimento del figlio di Jenůfa - dove assistiamo al ritrovamento del cadaverino, al dramma della Kostelnička, alla punizione morale di Števa e al lieto fine fra Laca e Jenůfa.

Conseguentemente i tre atti si configurano come un’alternanza di due scenari caldi e sereni (ma all’interno dei quali si materializzano colpi di scena drammatici) e di uno cupo, tragico e gelido, proprio come l’inverno.
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La musica di Janáček ha qualcosa di inafferrabile, ne veniamo colpiti per la sua indifferenza a canoni o stereotipi consolidati (a fine ‘800): non ci sono ovviamente arie o romanze in senso tradizionale, ma nemmeno un organico intreccio di motivi conduttori sul modello wagneriano, se si esclude l’insistente ritornare del martellante inciso dello xilofono, che pare segnare l’implacabile scorrere del tempo, precisamente come l’incessante ruotare delle pale del mulino dei Buryja.

La strettissima aderenza, scientificamente studiata e perseguita in tutte le opere di Janáček, ai fonemi della sua lingua, anzi del dialetto moravo-slovacco, ci rendono questa musica – anche a causa dell’estraneità di quegli idiomi rispetto alle nostre consuetudini - piuttosto bizzarra, pur se istintivamente accattivante. Ci sentiamo qua e là echi mahleriani, ma anche pucciniani e una continua mutevolezza di tonalità e modalità; il tutto intrecciato a motivi di (apparente) origine folklorica, che il compositore raccoglieva meticolosamente dalle strade e poi ricostruiva secondo la propria sensibilità.

L’opera ebbe un’esistenza piuttosto travagliata, fin dalle prime apparizioni ad inizio ‘900, e solo negli ultimi decenni ha ritrovato uno spazio relativamente stabile nei repertori dei teatri, soprattutto grazie alla dedizione del compianto Charles Mackerras, che oltre a dirigerla più volte ed inciderla su CD ne ha avviato la ricostruzione della versione originale (portata a termine anni fa dal musicologo inglese Mark Audus).

Non esiste – e difficilmente potrà mai esistere – una versione critica ed autorevole della partitura, a causa dei mille interventi operati su di essa, a partire dalla prima esecuzione a Brno del 1904, dallo stesso Autore (che ne distrusse ogni schizzo o manoscritto) e da altri, primo dei quali il direttore Karel Kovařovic, che dopo un iniziale categorico rifiuto a prendere in considerazione l’opera si convertì ad una profonda stima per essa e per il fino allora disprezzato Janáček, insieme al quale curò una profonda revisione e riorchestrazione della partitura in vista della prima a Praga nel 1916.
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Questa produzione di Bologna viene dalla Monnaie di Bruxelles dove è già stata collaudata lo scorso anno. La messinscena è firmata da Alvis Hermanis (già visto all’opera pochi mesi orsono con la scaligera Die Soldaten) che ha creato uno spettacolo di indubbio fascino, pur con alcuni aspetti decisamente opinabili.

A cominciare dalla radicale differenziazione fra gli ambienti solari e quasi operettistici degli atti esterni e quello iper-verista dell’atto secondo: tutti rigonfi di colore e di arte floreale i primi, con bellissimi costumi (Anna Watkins) esageratamente modellati sul folklore moravo; calato in una realtà da comunismo reale il secondo, in una lurida stamberga immersa nel disordine più totale. Contrasto – per me – eccessivo, poiché distorce, ingigantendone arbitrariamente le distanze, le reali proporzioni fra le tre sezioni del dramma. Che anche nel primo atto ha la sua bella componente cruda e verista, con la sfregiante coltellata di Laca, che qui proprio non si vede, o quasi.

In compenso nel secondo atto tutto viene caricato di eccessiva crudezza, e persino si falsificano particolari importanti. Ne cito uno abbastanza macroscopico: nell’originale, Števa, pur invitato più volte dalla Kostelnička, non ha il coraggio di entrare nella camera dove dormono Jenůfa e suo figlio, e se ne va senza vederli. La matrigna subito dopo esterna il desiderio di gettare il piccolo ai piedi del padre, per convincerlo ad accettarlo. Bene, Hermanis ci mostra invece proprio il desiderio irrealizzato della matrigna, che prende il neonato e lo scaraventa in braccio al padre, che a sua volta si commuove cullandolo e sembrerebbe sul punto di tenerlo con sé… Guarda caso, nel finale dell’opera, il corpo del piccolo (contrariamente al testo originale) ricomparirà in braccio a Jenůfa che lo consegnerà alla matrigna nel momento in cui questa viene arrestata: cosa magari di grande effetto, ma credo proprio estranea allo scenario psicologico della conclusione della vicenda. Non parliamo poi della brutale crudezza della chiusura dell’atto secondo, dove vediamo la Kostelnička, in preda ad un’autentica crisi epilettica, stipare nel freezer i panni del piccolo che lei ha appena sepolto nel ghiaccio vicino alla roggia. Insomma, per me troppi contrasti: eccessivamente zuccherosi e stereotipati il primo e il terzo atto, truce assai più del dovuto il secondo.

Aggiungo infine di aver poco digerito la presenza delle 16 (pur bravissime!) danzatrici che accompagnano tutta l’azione nei due atti esterni (ma con una fugace apparizione anche nel secondo): sono a mio avviso elementi che finiscono col togliere, invece che aggiungere, valore alla messinscena. Che ha ovviamente tanti lati interessanti ed intelligenti: cito fra tutti la suddivisione orizzontale della scena, nella cui parte superiore prendono posto i cori del primo e terzo atto.
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Benissimo sono andate le cose sul piano musicale: Juraj Valčuha ha diretto con grande cura del dettaglio e sobrietà di gesto, valorizzando in pieno le doti dell’orchestra (lo xilofono era intelligentemente posto nel palco di barcaccia di sinistra) e soprattutto concertando alla perfezione le voci.

Fra le quali è emersa, per imponenza, piglio da grande soprano drammatico e impeccabile tecnica, quella di Angeles Blancas Gulìn, una stupefacente Kostelnička!

Alla sua altezza il Laca di Jan Vacik (tenore di stampo eroico) e la protagonista Ira Bertman, a suo agio in questa parte che ha caratteri solo apparentemente dimessi, ma comporta anche squarci di canto drammatico.

Ma tutti hanno contribuito al successo dello spettacolo, incluso ovviamente il coro di Andrea Faidutti, e così tutti alla fine hanno meritato lunghi applausi dal pubblico felsineo, accorso al Bibbiena in falangi non proprio foltissime ma evidentemente soddisfatte.

20 aprile, 2015

Un Billy per pochi intimi

 

Ieri pomeriggio una Genova non propriamente primaverile ha accolto la terza recita di Billy Budd, in un Carlo Felice evidentemente disertato da molti genovesi e ulteriormente svuotatosi nell’intervallo. Della serie: a dare perle ai porci succede che questi o non si avvicinino nemmeno alla mangiatoia, o l’abbandonino dopo un’annusatina, andandosene schifati a ingollare qualche lavatura di piatti. Eccola là.

Comunque, peggio per gli assenti, dico subito, chè lo spettacolo, pur con qualche veniale ombra che descriverò, è di alto livello e valorizza pienamente (tanto in scena quanto in buca) tutti i pregi di questo splendido prodotto del teatro musicale di lingua inglese del ‘900.

La regìa di questa edizione, ripresa dall’allestimento torinese del 2004, è di Davide Livermore, che oggi è particolarmente di casa al Carlo Felice, essendone regista residente.

Costretto a suo tempo (Torino) dalle circostanze (si dice) a fare praticamente a meno delle scene, Livermore, con il fido Tiziano Santi, ha deciso di mettere a dura prova i martinetti che sollevano ed abbassano le sezioni del pavimento del palco, divenute così altrettanti ponti dell’Indomitable che accolgono di volta in volta le masse dei marinai o gli ambienti chiusi della cabina del capitano o delle stive. Per la scena finale del primo atto addirittura si è simulato il rollìo del vascello! Costumi moderni: cappottoni e berretti DDR al posto di settecentesche palandrane e cappelli a tre punte, tanto fanno sorridere entrambi; jeans e magliette per i vessati marinai. Mentre tutti sono vestiti di roba scurissima, arriva Billy tutto in bianco accecante: la didascalia (libera traduzione italiana) mette in bocca a Claggart l’espressione mosca bianca… ecco, abbiamo capito!

Finisco con gli aspetti più goliardici o grossolani della messinscena ricordando la fila di riflettori che sparano luce accecante negli occhi del pubblico in contemporanea alla salva di cannonate a vuoto comandata da Vere e i cannocchiali e binocoli degli ufficiali che, dovendo esplorare il mare immerso nella nebbia, si trasformano in potenti torce elettriche.

Ma tutto il resto - che è la parte più importante – è davvero da incorniciare. Intanto Livermore non ci fa perdere nessuno degli aspetti peculiari del soggetto: la violenza e i ricatti del potere sugli indifesi e diseredati, l’ottusità dell’autorità costituita, il fanatismo militarista degli ufficiali che si trasmette anche alla ciurma, e soprattutto i malsani rapporti di natura omosessuale tra le due autorità (quella maligna di Claggart e quella benigna di Vere) con l’innocente e ingenuo Billy. Ma anche i sani rapporti (pure chiaramente omosessuali) fra il Novizio e il suo inseparabile Amico. Citerò solo due momenti al riguardo: il primo è il ritorno in scena del Novizio dopo le frustate ricevute (per una colpa veniale): ciò che ci appare improvvisamente è un’immagine che richiama alla mente certi dipinti della deposizione del Cristo, con l’Amico inginocchiato che sorregge il corpo nudo del Novizio, immagine di grandissima poesia che mirabilmente asseconda la musica di Britten (col sax contralto in evidenza). Sull’altro versante, straordinaria la scena del diabolico credo di Claggart, che canta tutto il male che alberga nella sua anima e il suo odio (da frustrazione sessuale) per Billy stringendo nervosamente tra le mani il fazzoletto rosso strappato al ragazzo poco prima, e con la sua vittima dichiarata che dorme sul ponte inferiore, proprio sotto di lui.

Di grande impatto anche la scena dell’impiccagione, che vediamo in diretta (il libretto ce la lascia solo immaginare) ma che mette in grande risalto il mugugnar cantando della ciurma. A proposito di questa scena, Livermore fa eseguire la musica che accompagna l’arrivo dell’equipaggio sul ponte a sipario abbassato (come gli altri interludi): scelta arbitraria ma non del tutto censurabile, dato che queste entrate successive dei vari corpi di marinai e ufficiali scimmiottano un po’ troppo quelle delle quattro bande nel finale del Lohengrin…

Chiudo lasciando in sospeso il giudizio sulle modalità con cui ci viene presentato il Capitano Vere in Prologo ed Epilogo: lui si erge su un obelisco tipo Trafalgar Square, nemmeno fosse Nelson. La cosa non è del tutto campata in aria, dato che nella novella di Melville (non nel libretto) c’è un accenno a Vere come potenziale Nelson, se non fosse… morto anzitempo; però questa presentazione rischia di apparire come parodistica, e non sono certo che Vere se la meriti.

Tirate le somme, ripeto che giudico questa di Livermore come una proposta assolutamente di eccellenza.
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E di ottima fattura è stata anche la parte musicale, a cominciare dalle prove dei tre interpreti principali (Philip Addis, Billy – Graeme Broadbent, Claggart – Alan Oke, Vere) seguite da quelle degli altri comprimari: i tre ufficiali Christopher Robertson, Mansoo Kim e Simon Lim; poi John Paul Huckle, un ottimo Dansker e il Novizio Alessandro Fantoni. Ma tutti ii singoli hanno contribuito egregiamente al livello della recita. Con loro i due cori adulti: quello di casa di Pablo Assante e quello del Teatro Nacional São Carlos di Lisbona di  Giovanni Andreoli (che guidò anni fa proprio il coro genovese) tornato ancora come nel 2005; e i piccoli/e di Gino Tanasini.

Una bella conferma è venuta da Andrea Battistoni (che finalmente ho visto sorridere alle uscite!) a cui imputerò soltanto un paio di eccessi di volume nelle scene più movimentate, ma che ha guidato con autorevolezza un’orchestra a sua volta in gran spolvero.

Alla fine i pochi fortunati rimasti in sala hanno applaudito e gridato anche per gli assenti, tributando a tutti un meritatissimo trionfo. Domani e mercoledì gli scettici hanno ancora due prove d’appello per ricredersi.

18 aprile, 2015

Orchestraverdi 14-15 – Concerto n° 30


Seconda puntata del ciclo dispari delle sinfonie di Mahler: tocca a Claus Peter Flor dirigere l’ipertrofica Terza del boemo.

Che il direttore tedesco, reduce dalla… vacanza in Malesia, rende ancor più iper di quanto già non sia, tanto da decidere – cosa assai rara – di introdurre un regolare intervallo di 25 minuti dopo il movimento iniziale (vien persino da pensare che Flor abbia preso una stecca dal gestore del bar, giga-smile!) Che una pausa fosse necessaria lo si era intuito già prima dell’inizio, dall’assenza del coro in scena (il contralto di norma entra in tempo per il suo intervento, o se ne sta seduta buona buona ad aspettare). Però un intervallo in piena regola avrebbe dovuto essere annunciato in locandina, o sul programma di sala (come avvenne anni fa per un Requiem verdiano che Ceccato spezzò in due, ma giustificato dallo stesso… Verdi).

Invece la cosa ieri sera ha assunto aspetti tragicomici: dopo lo schianto di FA maggiore che chiude lo sterminato movimento iniziale, qualcuno del pubblico ha applaudito (capita spesso anche questo) ma Flor se n’è rimasto lì, senza girarsi né far alzare l’orchestra; così si è rifatto silenzio in sala e a questo punto il direttore… se n’è andato via, col broncio, girandosi poi per chiamare con sé un impacciato Santaniello, mentre gli orchestrali si alzavano a loro volta per andarsene. Insomma, una scenetta piuttosto indecorosa!       
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Ciò che avevo da segnalare in merito a questa adorabile mappazza lo avevo scritto un paio d’anni fa, in occasione dell’ultima (ora penultima) esecuzione de laVERDI, con la cinesina sul podio.

Quanto a ieri sera, se si escludono alcune perdonabili e isolate pecche (inevitabili, in un’opera di tal fatta!) i ragazzi, così come le signore di Erina Gambarini e i ragazzini/e di Maria Teresa Tramontin si sono ben distinti e portare in porto una fatica simile è già un grande risultato. Maria José Montiel si è fatta apprezzare nel notturno nietzschiano.

Ecco, a parte le modalità piuttosto bizzarre impiegate per introdurre l’intervallo, devo dire che Flor non mi è poi dispiaciuto, avendoci accompagnato in questo lungo viaggio - che parte dal prosaico per raggiungere… l’eternità – con appropriatezza di accenti, fino al mirabile Adagio conclusivo.

Ovazioni per tutti, con il pacchetto dei corni di Giuseppe Amatulli e quello dei tromboni di Rizzotto in testa, e passerella anche per il remoto Caruana che ci ha incantato da dietro le quinte con la sua cornetta (non proprio da postiglione…)

Insomma, laVERDI ha dato un’altra bella dimostrazione di forza e di maturità.