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17 aprile, 2015

L'Indomitable fa scalo a Genova


Questa sera al Carlo Felice va in scena la prima rappresentazione di Billy Budd, in un allestimento del Regio di Torino del 2004, firmato da Davide Livermore. Sarà meritoriamente diffusa in streaming dall’apposito sito del Teatro.


L’opera, il cui libretto Edward Morgan Forster ed Eric Crozier trassero dalla novella di Herman Melville (quello di Moby Dick) andò per la prima volta in scena, diretta dall’Autore, alla Royal Opera House – Covent Garden sabato 1° dicembre del 1951, suddivisa in quattro atti (più Prologo ed Epilogo).


Nel 1960 venne eseguita per la prima volta la nuova versione in 2 atti (qui la registrazione, commentata, della BBC) che fece il suo debutto teatrale giovedi 9 gennaio del 1964, sempre al Covent Garden e venne poi registrata in video nel 1966, ancora dalla BBC. Oggi questa è la versione quasi universalmente rappresentata e di scena a Genova, anche se proprio il Carlo Felice 10 anni fa ospitò quella originale (ne è rimasta traccia in un… refuso sulla pagina di presentazione dello streaming). Le differenze fra la versione del 1960 e quella del 1951 non si limitano alla semplice ristrutturazione (per accorpamento di scene) da 4 a 2 atti, ma constano anche di novità di contenuto, riguardanti in particolare, ma non solo, il primo atto.

Cominciamo con l’osservare che in origine ciascun atto era suddiviso in 2 scene, per un totale di 8, quindi con un perfetto equilibrio strutturale. In particolare, la seconda scena del primo atto conteneva il saluto del Capitano Edward Fairfax Vere all’equipaggio del veliero (Officers and men of the Indomitable, I greet you!) e l’atto si chiudeva enfaticamente con le acclamazioni della ciurma al Capitano, dopodiché il successivo era aperto ancora dal Capitano, ma nel chiuso della sua cabina. Orbene, quella scena è stata quasi del tutto soppressa nella versione definitiva, e in particolare è stato fatto sparire proprio l’indirizzo del Capitano, e ciò che rimane (accorpato alla prima scena) sono semplicemente gli apprezzamenti (Starry Vere!) a lui diretti da Billy e dalla ciurma, che poi viene fatta rientrare sottocoperta dal Nostromo, con l’orchestra che sfuma i suoni e mentre il sipario cala per un breve momento, per alzarsi poi su Vere nella sua cabina.

Il risultato è che l’Atto I della versione definitiva comprende soltanto 3 scene invece di 4, accorpando alla prima scena le due dell’Atto II originale. Il nuovo Atto II accorpa le 4 scene degli atti III e IV originali, ma anche qui con qualche modifica, come il taglio - nella prima scena, dopo la mancata battaglia con la fregata francese - della prima parte del colloquio Vere-Claggart e quello delle ultime battute orchestrali della seconda scena, dove gli archi chiudevano – dopo i famosi 34 accordi consecutivi dell’orchestra (Vere che comunica a Billy il verdetto di condanna) - l’atto III originale; battute che poi venivano riprese all’inizio del successivo atto, ma che diventavano adesso superflue, in assenza dell’intervallo.

Domanda: cosa convinse Britten ad espungere la scena con l’aria di Vere dalla versione definitiva dell’opera? Pare che due siano state le ragioni principali: la prima fu il disagio manifestato dall’interprete (Peter Pears, che evidentemente aveva una certa… influenza su Britten) di fronte al carattere eroico (e anche… imperialista, pur nell’austero patriottismo) di quell’aria, che mal si addiceva alle sue caratteristiche vocali; la seconda fu un’acuta quanto perfida osservazione del famoso critico musicale Ernest Newman, che senza mezzi termini accusò quella scena di essere una scopiazzatura (sia pure in chiave nobile e seriosa) di quella parodistica e da avanspettacolo del primo atto dell’operetta HMS (Her Majesty’s Ship) Pinafore (1878) della premiata coppia Gilbert&Sullivan, dove il Capitano Corcoran canta My gallant crew, good morning!, contrappuntato dagli sculettamenti della ciurma (qui da 15’36”).
___
Anche la definizione dei ruoli e l’assegnazione delle tessiture delle voci degli interpreti ai personaggi fu quasi certamente influenzata dai particolari rapporti che intercorrevano tra il compositore e Peter Pears: non altrimenti si spiegano un paio di circostanze assai sospette, fra loro probabilmente legate da uno stretto nesso causa-effetto.

La prima è rappresentata dalla centralità assunta nell’opera dal personaggio del Capitano Vere, che nel racconto di Melville ha sì un ruolo importante, ma non quanto quelli di Billy e del cattivone Claggart; e poi là muore in battaglia, mentre qui nell’opera lo ritroviamo, vecchio ma vivo e vegeto, in Prologo ed Epilogo, quindi a dare un’impronta di sé all’intera vicenda, che ci viene di fatto presentata dal suo personale punto di osservazione.

La seconda è rappresentata dalla (solo apparentemente?) strampalata assegnazione della voce acuta di tenore ad un uomo maturo (Vere, appunto, ben sopra i 40) e di quella più grave di baritono al personaggio del titolo, un giovane poco più che ragazzo (avrà sì e no 20 anni) che potrebbe benissimo essere figlio del Capitano.

Ecco quindi la più verosimile catena causa-effetto: Vere è il personaggio che (assai più di Billy) si attaglia alle caratteristiche di Pears, e allora a) deve assumere un ruolo centrale nell’opera, e b) deve essere un tenore! (Tutto il resto consegue…)
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Il soggetto del Billy è immancabilmente di quelli prediletti da Britten: la violenza delle Istituzioni della Società sugli individui più deboli e indifesi, oltre che innocenti. E uno dei tanti risvolti di questa violenza ha – altro Leit-motif squisitamente britteniano, ma pienamente supportato e condiviso dal librettista Forster e in qualche modo rintracciabile anche nella novella di Melville - i connotati della repressione dell’omosessualità: non tanto quella materiale e plebea, fatalmente indotta dalla mancanza di gentil sesso a bordo di una nave da guerra (questa è un’opera di soli uomini!) ma quella di natura psichica, che si manifesta in forma maligna (Claggart-Billy) ma anche benigna (Vere-Billy) portando però ad una drammatica convergenza Claggart-Vere sul comune obiettivo (conscio o inconscio) consistente nell’eliminazione dell’oggetto del loro peccaminoso desiderio.

Trattandosi poi di un soggetto a sfondo bellico (1797, UK vs France) esso si presta anche a qualche frecciatina pacifista. E comportando l’esecuzione sommaria di un poveraccio che oltretutto ha attenuanti in quantità per il suo omicidio (come minimo, preterintenzionale) consente a Britten di farci venire a nausea la pena di morte. Ma non vi manca neppure l’antinomia bene-male, Cristo-Satana (Billy-Claggart) e addirittura un’allegoria Abramo-Isacco (Vere-Billy). Michele Girardi, in occasione di una rappresentazione alla Fenice nel 2000, è arrivato a proporre un parallelo con l’Otello di Verdi, e non solo per la chiara e universalmente riconosciuta parentela Claggart-Jago, ma anche per la prossimità del rapporto Vere-Billy con quello Otello-Desdemona!    

Insomma, un soggetto che si presta a mille (beh… a diverse) chiavi di lettura, tutte legittime, purchè nessuna diventi totalizzante ed esclusiva, chè altrimenti si viene a perdere proprio la complessità e la poliedricità che dell’opera sono i principali pregi.   
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Sul piano strettamente musicale Britten si mantiene fedele alla tonalità, limitandosi ad arricchirla con qualche scala pentatonica e qualche politonalità (vedi il contrasto maggiore-minore fra SIb e SI naturale, che ritorna più volte) mentre approfondisce l’impiego dei Leit-motive con i quali caratterizzare situazioni, concetti e/o personalità.

Il più significativo dei quali (un semplice inciso costituito da una quinta ascendente seguita da una seconda minore, altre volte maggiore, pure ascendente) compare già nel Prologo in bocca al Capitano Vere, che si chiede: cosa ho fatto? ricordando quelle vicende di cui fu protagonista e testimone sul suo vascello Indomitable nell’estate del 1797 in acque francesi:


Motivo che viene catalogato come dell’Ammutinamento, poichè ritorna nel canto dei marinai sottoposti alla disumana disciplina di bordo:


Accompagna poi i riferimenti espliciti ai gravissimi casi di ammutinamento (Spithead e Nore) ricordati nell’opera:


Ma il motivo è anche intonato da Billy sul suo saluto di addio alla nave mercantile (Rights o’ Man) dalla quale è stato prelevato a forza:


Questa sembrerebbe a tutta prima una circostanza gratuita - dato che l’ammutinamento è proprio l’ultima cosa che passa per la testa al ragazzo - ma spiegabilissima sul lato psicologico: è ciò che i presenti (ufficiali di bordo) associano al nome del mercantile, che in bocca a Billy diviene, per loro e ossessivamente, un simbolo di ribellione!

Oltre che in innumerevoli altre circostanze, il tema (o sue manipolazioni alla fiamminga, tipo il moto retrogrado) compare anche ad accompagnare esternazioni di Claggart e di Vere (vedasi Prologo ed Epilogo); ciò si spiega benissimo sul fronte della problematica omosessuale: per i due la sola presenza a bordo del bellissimo giovane rappresenta una minaccia, il rischio di ammutinamento delle loro stesse coscienze contro le oppressive ed oscurantiste regole della società in cui occupano posizioni di rilievo. Non a caso Claggart pianificherà scientificamente la distruzione di Billy, di cui successivamente Vere avallerà (pur potendola impedire) la condanna capitale.  

Quanto ai personaggi principali, essi si caratterizzano - più che con veri e propri temi che li identificano ad ogni apparizione - con motivi o atmosfere sonore che ne richiamano la personalità: Billy è accompagnato da figurazioni brillanti degli strumentini, o da tremoli delle trombe, strepiti delle tavolette di legno e singhiozzi dei legni (la sua balbuzie) o dal malefico tritono (DO#-SOL, al momento dell’uccisione di Claggart); la tonalità che spesso lo contraddistingue è LA maggiore (serenità, innocenza). Claggart si caratterizza per motivi di quarte discendenti seguite da seconde minori-maggiori ascendenti; la tonalità prevalente è FA minore. Vere fin dall’inizio si distingue per l’ambiguità dei suoi comportamenti, evocata dall’instabilità tonale (SIb-SI) mentre è il DO maggiore a rappresentare la sua autorità e la sua ascendenza sulla ciurma (che in quella tonalità ne esalta le virtù).

Spesso e volentieri i motivi si intersecano o vanno ad aggredire territori altrui: ad esempio Vere è a volte inquinato dalle quarte discendenti di Claggart, a testimonianza dell’influenza che il cattivone ha su di lui. Altri motivi ricorrenti evocano atmosfere particolari, come la ferrea e proterva disciplina militare, un motivo marziale che ritorna a sottolineare gli interventi autoritari degli ufficiali; o il motivo cupo e deprimente che segue la ridiscesa della nebbia che rende impossibile l’ingaggio con la nave nemica, motivo che poi pervade l’Interludio che precede la seconda scena dell’Atto II, dove si evoca un’altra e ben più pericolosa nebbia: quella che occupa la mente di Vere!    

A proposito, come nelle altre sue opere, Britten ha corredato il Billy di alcuni Interludi orchestrali, uno dei quali in realtà si costituisce come una vera e propria scena, ma priva di parole e di… immagini. Sono le 34 battute – fra la seconda e la terza scena dell’Atto II - che accompagnano Vere che entra nella cabina dove è rinchiuso Billy, cui il Capitano deve comunicare la sentenza di condanna all’impiccagione comminatagli dalla Corte marziale per avere ammazzato Claggart. Noi – come già volle Melville - non vediamo, né sentiamo alcunchè di quest’ultimo colloquio a quattr’occhi, possiamo solo congetturarci sopra, e i 34 accordi di questa particolarissima frase musicale (tutte triadi, una semibreve per battuta) ci lasciano immaginare del suo contenuto… ciò che meglio preferiamo:     

1
FA M
f
ottoni
18
FA M
pp
legni-oboi-sax-cfagotto
2
LA M
ff
tutti
19
DO M
pp
corni
3
REb M
mf
legni
20
FA M
pp
legni-oboi-sax-cfagotto
4
DO M
p
archi
21
RE M
pp
trombe+tromboni
5
RE m
mf
legni+corni
22
FA M
pp
legni-oboi-sax-cfagotto
6
LAb M
ff
tutti
23
DO M
pp
corni
7
RE M
mf
archi
24
FA# m
p
sax+trombe+tromboni
8
SIb m
p
legni
25
FA M
pp
legni-oboi-sax-cfagotto
9
LA m
pp
trombe+tromboni
26
LAb M
pp
archi
10
SIb M
pp
corni
27
FA M
pp
legni-oboi-sax-cfagotto
11
LAb M
p
legni
28
DO M
pp
corni
12
FA m
pp
corni
29
REb M
ppp
archi
13
DO M
p
archi
30
FA M
pp
legni-oboi-sax-cfagotto
14
FA# m
f
flauti+trombe+tromboni
31
DO M
pp
corni
15
SIb M
mf
legni-flauti
32
FA M
pp
legni-oboi-sax-cfagotto
16
DO m
p
archi
33
RE M
ppp
trombe+tromboni
17
LA M
pp
ottoni
34
DO M
ppp
corni
   
Effettivamente si tratta di una serie piuttosto ardua da decifrare (chissà se Britten si è portato nella tomba l’algoritmo da lui impiegato per generarla… oppure se gli è venuta così, a sentimento, o ancora se ha estratto le successive tonalità, gli strumenti e le dinamiche da un cappello, chissà…) L’unica caratteristica scientificamente rilevabile è che si tratta di accordi nelle sole 13 su 24 tonalità (maggiori + minori) che contengono almeno una nota della triade di FA maggiore, da cui inizia e su cui sfocia l’Interludio. E quali sono le note di quella triade? FA-Claggart / LA-Billy / DO-Vere (!!!) 

L’Epilogo ha un punto culminante su un SIb maggiore pieno, che sembrerebbe implicare per Vere una ritrovata pace e serenità (where she’ll anchor forever…) al riparo da ogni pericolo, rappresentato dal precedente SI minore, ma le ultime battute del Capitano si allontanano ancora da quella tonalità, che permane nel quasi indistinguibile borbottìo dei timpani e sfuma (IV-V-III grado) su… Vere commanded the Indomitable:


10 aprile, 2015

Orchestraverdi 14-15 – Concerto n° 29


Nemmeno fosse stato tutto programmato a tavolino, ecco che a dirigere il concerto post-pasquale de laVERDI col nuovo fregio I.C.O. è il beniamino Bignamini, che impersona come nessun altro l’inarrestabile crescita artistica dell’Orchestra.

E per celebrare adeguatamente la circostanza arriva un concertone fin troppo ricco: due titani in un sol colpo!

Il primo è quello con cui da sempre si suole (più o meno indebitamente, trattandosi della versione definitiva) apostrofare la Prima Sinfonia di Mahler (a proposito: da qui inizia una filiera di 5 concerti che ci offriranno tutte le sinfonie dispari del boemo, dopo che quelle pariottava inclusa! – ci erano state presentate nella stagione scorsa).

Bignamini ha mostrato grande attenzione ai dettagli, soprattutto alle dinamiche (apprezzabili i pianissimo e le irruzioni degli strumentini del movimento iniziale e la frase iper-romantica del finale) e ha cercato grandi contrasti nei tempi (penso ad esempio al repentino vorwärts del secondo movimento): in generale darei un giudizio più che positivo della sua lettura.

L’Orchestra ha mostrato qualche piccola imprecisione (nei corni, ad esempio) che non ha però compromesso una prestazione complessivamente pregevole. Poi questa è musica che si fa apprezzare comunque, e il pubblico – foltissimo, ma non proprio oceanico - dell’Auditorium ha mostrato ampiamente il suo gradimento.
___
Il secondo titano è la… titanica Quinta beethoveniana. Dove Bignamini ha tirato fuori le unghie, con una lettura à la Toscanini, tutta nervi e senza un attimo di respiro, pur rispettando anche il da-capo del finale. E i ragazzi qui non hanno avuto la minima sbavatura, meritandosi applausi ed ovazioni.

02 aprile, 2015

L’Orchestraverdi riconosciuta come ICO


Le oltre 25.000 firme arrivate nelle ultime settimane sulla scrivania del Ministro Franceschini, per sensibilizzarne l’attenzione alla realtà de laVERDI, hanno ottenuto un primo, minimo anche se importante risultato: il riconoscimento dello status di Istituzione Concertistica Orchestrale (ICO), una delle tipologie in cui sono classificate le strutture che operano nel mondo musicale in Italia.

Ovviamente il riconoscimento, al di là dell’aspetto onorifico, pure importante, ha risvolti assai più concreti, leggi: accesso all’erogazione stabile di finanziamenti pubblici, che rappresentano la conditio-sine-qua-non perché una qualsiasi istituzione culturale possa sopravvivere.

Fino a ieri i contributi pubblici che laVERDI riceveva avevano sempre avuto carattere episodico: in sostanza il Presidente Cervetti e il Direttore Generale Corbani dovevano passare gran parte del loro tempo a fare anticamera, con il cappello in mano, presso le varie Istituzioni Pubbliche (Ministero, Regione, Provincia, Comune) per poter garantire, quasi giorno per giorno, la sopravvivenza della Fondazione. Da qui le frequenti e ricorrenti situazioni di crisi che si verificavano in mancanza dell’arrivo dei suddetti contributi e che sono state sempre faticosamente superate grazie a sottoscrizioni straordinarie o ad erogazioni liberali di soggetti privati, oltre che al ricorso all'indebitamento con le banche.

L’auspicio di tutti è che in futuro laVERDI possa operare in un regime di relativa stabilità, per continuare a dare il suo fondamentale contributo alla vita culturale di Milano, e non solo.

01 aprile, 2015

Orchestraverdi 14-15 – Concerto n° 28


Siamo sotto Pasqua e – immancabile – ecco l’appuntamento con Ruben Jais per una delle due (rimaste, delle 5) Passioni bachiane, che ad anni alterni caratterizzano la programmazione de laVERDI nella Settimana Santa. Questa volta ritocca alla grandiosa Matthäeus-Passion del 1727.

La squadra di quest’anno vede impegnati i complessi strumentali de laBAROCCA, rinforzati (per formare le due orchestre) da altri elementi dell’Orchestra principale (cito per tutti: Scarpolini e Mugnai, prime parti di violoncello e viola) e dai cori de laVERDI, quello adulto di Erina Gambarini, suddiviso nei due prescritti dalla partitura, e quello dei piccoli di Maria Teresa Tramontin, che a questi si aggiunge (per le parti di soprano ripieno) all’apertura e alla grande chiusa della prima parte della Passione.

Ieri sera gli interpreti di Evangelista (Clemens Löschmann), Gesù (Klaus Häger) e Pietro-Pilato-Pontefice-Giuda (Daniele Caputo) erano sistemati davanti al coro I, mentre i 4 solisti (Céline Scheen, Filippo Mineccia, Tim Lawrence e Marco Granata) si alternavano al proscenio. Cristiano Contadin era alla viola da gamba.

Pubblico abbastanza numeroso (con parecchie presenze… germaniche) e soprattutto concentratissimo (durante le quasi tre ore di musica non si è sentita volare una mosca) che ha tributato a tutti un grandissimo trionfo.

Oltre alla seconda recita in Auditorium (di venerdi 3) questa sera l’esecuzione viene replicata in Duomo, in quella che speriamo diventi una bella consuetudine, grazie alla fattiva collaborazione di Monsignor Gianantonio Borgonovo.

30 marzo, 2015

Il virus Fedora falcidia la famiglia Dessì

 

Ieri pomeriggio il Carlo Felice ha ospitato l’ultima recita di Fedora. Una produzione invero casereccia, visto che i due protagonisti del primo cast erano (o dovevano essere, per la verità) i due genovesi della famiglia Dessì(-Armiliato) e dato che la protagonista del secondo cast (Irene Cerboncini) è pure genovese.

Invece gli acciacchi di stagione (causa ufficiale) hanno ridotto le presenze complessive del duo Dessì-Armiliato in questa produzione da sette a… tre! Per di più ieri all’ennesimo forfait del soprano (ancora una volta rimpiazzato dalla Cerboncini) si è aggiunto di fatto quello del tenore, che ha chiuso il second’atto (che poi per lui sarebbe il primo…) in modo davvero tragico, o tragi-comico. Dopodiché ha fatto annunciare che avrebbe stoicamente portato a termine la recita, cosa che in effetti ha fatto e in modo neanche poi così scandaloso. Meglio però sarebbe stato sostituirlo fin dall’inizio con il mio conterraneo Rubens Pelizzari da Salò, visto aggirarsi in sala.  

Come detto, Fedora è stata ancora una volta la Cerboncini, autrice di una prestazione più che dignitosa vocalmente ed anche efficace sul piano attoriale, che ci ha proposto una donna sensibile (certo facile all’innamoramento e quindi preda di approfittatori alla Vladimir) ma non volgare né mangia-uomini, né tantomeno reazionaria incallita. 

Per il resto definirò passabile la prova di Paola Santucci, che ha ben incarnato la volubile e un po’ svampita Olga. Fra i tanti altri personaggi di contorno citerò Sergio Bologna, un DeSiriex abbastanza convincente, a dispetto della voce piuttosto piccola. Tutti, cori compresi, su un livello di professionale sufficienza.

Bene giudicherei il Direttore Valerio Galli, il più applaudito alla fine ed anche a scena aperta dopo la vibrante esecuzione dell’Intermezzo del second’atto, dove anche l’Orchestra si è fatta valere. La sua interpretazione di Fedora è piuttosto soft, quasi da opéra-comique, scevra da eccessi tipici di certo verismo da strapazzo.
___      
La regìa di Rosetta Cucchi, pianista in origine migrata poi alla messinscena, è di quelle che si usano definire tradizionali, nel senso che presentano quasi pedestremente ciò che si legge su libretto e partitura; o meglio: non mostrano il contrario! E solo per questo si merita un elogio.

Per la verità un paio di tocchi personali non poteva risparmiarseli (altrimenti non servirebbe una regìa, smile!): l’ambientazione è spostata in avanti di una ventina d’anni, quindi durante la Grande Guerra. Di ciò nessuno si accorgerebbe se non fosse che, all’inizio del secondo e terz’atto, vengono presentate in sottofondo (dietro un velario) scene e audio relative a quegli eventi bellici. Che nulla, ma proprio nulla, hanno a che vedere con il soggetto di Sardou ripreso da Colautti e musicato da Giordano. Ma trattandosi appunto solo di immagini fugaci, esse riescono a distrarre assai poco l’attenzione dello spettatore da ciò che davvero conta. L’altra trovata è quella di collocare in un angolo del proscenio un vecchio signore (interpretato da Luca Alberti) che rappresenta il protagonista Loris che rivede il film degli avvenimenti da lui vissuti nell’Opera: rimane lì anche nei due intervalli (!) e se ne va poco prima della finale tragedia. Mah…

Le scene di Tiziano Santi sono improntate a grande sobrietà: Pietroburgo, Parigi e Thun sono la stessa cosa, salvo qualche sfondo più o meno pertinente; si fa uso di pannelli scorrevoli in orizzontale per mettere di volta in volta qualcosa in evidenza, lasciando il resto visibile in background. Belli i costumi di Claudia Pernigotti, anch’essi più o meno plausibili rispetto al periodo storico in questione. Luciano Novelli curava le luci, anche qui con approccio di basso profilo.

Insomma, uno spettacolo gestito in modo abbastanza intelligente e assai godibile, cui farei un unico appunto: l’intervallo di 25 minuti scrupolosamente rispettato anche dopo i soli 23 minuti del primo atto, una cosa francamente eccessiva e nemmeno giustificata da necessità legate a complicati cambi di scena. 

Teatro non propriamente affollatissimo e pubblico che alla fine ha voluto dimenticare le disavventure dei cast tributando a tutti (ehm, Armiliato escluso…) calorosi applausi. Ecco, proprio una cosa all’acqua di rose…


29 marzo, 2015

Riecco la famigerata Carmen… dantesca

 

Ieri sera terza ed ultima (per ora, in attesa di giugno) recita della Carmen (di Emma Dante, perché di Meilhac-Halévy non c’è proprio nulla!)

E appunto sugli aspetti non legati ai suoni di questa produzione avevo già scritto peste e corna all’indomani dell’uscita originale il SantAmbrogio 2009 (dove per me si erano salvati il divo Kaufmann e il discreto Barenboim) e questa ripresa non poteva certo farmi cambiare idea. Anzi mi fa detestare chi ha avuto quella di riproporre un simile spettacolo in abbonamento, quindi di imporlo anche a chi già ne conosceva i limiti. (Almeno la ripresa del 2010 era stata programmata fuori abbonamento, e così me l’ero fortunatamente risparmiata!) Perciò sulla parte visiva dello spettacolo mi fermo qui.
___ 
In mancanza di un divo (Kaufmann) ed essendo un suo probabile buon sostituto (Meli) relegato alle recite in zona-Expo, il livello della prestazione musicale è stato appena sopra la sufficienza soltanto nel caso di Elīna Garanča. Che ha il fisique du role di… Fricka (stra-smile!) ma almeno canta dignitosamente, ecco. Se poi si facesse prestare qualche decibel (in zona centro-bassa) dalla Rachvelishvili sarebbe ancor meglio.

Invece José Cura canta come Kaufmann… fra una decina d’anni, sempre col fiato in gola e parecchia approssimazione: un amico gli è rimasto, quello che dal loggione gli ha gridato un gran bravo! dopo l’aria del fiore. Pagato con gli interessi (una sonora buata) all’uscita singola. Un isolato buh anche alla fine del second’atto, immagino però indirizzato alla regìa. Per il resto pochi e miseri applausi a scena aperta, compreso quello a sproposito sulla corona puntata che precede l’Andante moderato del Preludio.

Il torero Vito Priante mi ha fatto rimpiangere il pur non irresistibile Schrott dell’allestimento originale. Elena Mosuc è una Micaela… invecchiata precocemente anche nella voce, oltre che nell’orrenda acconciatura affibbiatale dalla regista.

Tutti gli altri sono comprimari che hanno fatto del loro meglio per… non farsi notare. Bene almeno il coro di Casoni.

Massimo Zanetti ha diretto tutto sommato con merito, riuscendo se non altro a tenere sempre basso il volume dell’orchestra, il che è un bene per la resa di un’opera come questa, ed anche per i cantanti in scena, che hanno evitato di far la figura dei pesci in acquario. 

Pubblico abbastanza numeroso e alla fine fin troppo… generoso.

28 marzo, 2015

Orchestraverdi 14-15 – Concerto n° 27


Ricambiando la cortesia di una visita fatta da laVERDI qualche mese fa a Bolzano&Trento, ecco la gloriosa Orchestra Haydn occupare la scena dell’Auditorium sotto gli occhi del suo Direttore musicale Daniele Spini e la guida del suo Direttore principale, il 53enne estone Arvo Volmer, per proporci un bel concerto di impaginazione classica.  

Concerto che si apre con la Leonore N°2, Ouverture che Beethoven antepose alla prima versione (1805) del Fidelio, quella in tre atti che venne subito rimaneggiata per il secondo (e altrettanto sfortunato) ciclo di rappresentazioni del 1806. Dove l’opera è ridotta in due atti e dove l’Ouverture diventa la Leonore N°3, che è un mirabile perfezionamento della precedente (anche se poi, nel 1814, Beethoven la sostituirà con quella definitiva, battezzata con il nome stesso dell’Opera).

Come puro esercizio accademico, vediamo quali sono le differenze fra le due Leonore, facendoci aiutare da Claudio Abbado (che ha eseguito in concerto e inciso con i Wiener tutte le 4 versioni delle Ouverture, inclusa la Leonore N°1, composta probabilmente dopo la N°3, da cui prende decisamente le distanze, e comunque mai eseguita in teatro.)   

Come considerazione preliminare e di pura curiosità si noti come sotto la bacchetta di Abbado la N°2 duri qualcosa in più della N°3 (15’20” contro 13’35”) nonostante quest’ultima abbia108 battute in più (638 contro 530). Dal punto di vista dei contenuti, le due sorelle hanno una macro-struttura assai simile (Adagio – Allegro – Sostenuto – Allegro - Presto) ma nei dettagli le differenze sono molte e consistenti. Analogamente dicasi per i temi principali, che sono sostanzialmente tre, ma diversamente trattati: quello che viene etichettato come Florestan (perché cantato dal protagonista nella scena di apertura dell’atto secondo – terzo nella prima edizione 1805) e quello che chiamerò io eroico (non avendo trovato altre etichettature più precise, mai ricorrendo quel tema dentro l’opera); ad essi va aggiunto il motivo della trombetta del tirapiedi di Pizarro (quello che annuncia l’arrivo del Ministro) anzi: i due motivi, chè sono assai diversi fra le due versioni dell’opera (e delle rispettive ouverture). La Leonore N°3 presenta inoltre almeno tre nuovi motivi-ponte con una propria spiccata personalità.

Nello specchietto che segue ho riassunto le strutture delle due ouverture e i minutaggi di Abbado nelle due esecuzioni. Si potrà notare anche a prima vista quali e quante siano le differenze fra le due versioni: la N°3 lascia molto più spazio alla sezione in Allegro dopo gli interventi della tromba, essendo invece più asciutta nella parte iniziale e centrale.


___
Volmer, che ha schierato le viole al proscenio, dirige con grande aplombe (ricorda un po’ nel fisico il grande Böhm) con gesti misurati e severi, bacchetta per il tempo, mano sinistra per le dinamiche. La sua è una lettura severa e rigorosa, come si addice al soggetto. L’orchestra ha un bel suono brillante (poco tedesco, devo dire) e ne esce un’esecuzione pregevole, accolta con calore dal pubblico (non proprio oceanico) dell’Auditorium.
___
Poi abbiamo Jeu de cartes di Stravinski, tutt’altra musica davvero! Che forse Volmer ha preso un po’ troppo… sul serio, sacrificando qualcosa del brio e della’impertinenza del brano (non dimentichiamo che è musica per un balletto sul tema del poker). Mi è anche parso che la seconda mano della partita sia iniziata con una… carta fuori posto (corni o trombe?) Comunque un’esecuzione di tutto rispetto, che ha indotto il pubblico a tre chiamate del Direttore, cui il Konzertmeister Stefano Ferrario ha addirittura negato la quarta, inchinandosi e girando i tacchi mentre Volmer si apprestava a uscire!      
___
Chiude il concerto la celebre Prima Sinfonia di Robert Schumann (sulla quale in passato avevo scritto qualche nota analitica in occasione di una proposta dell’Orchestra che la tenne a battesimo, nota cui rimando i… volonterosi).

Esecuzione vibrante e quasi integrale (Volmer ha omesso il da-capo del Finale) che ha messo in mostra la grande compattezza dell’orchestra e l’equilibrio fra le sezioni, tutte sollecitate dalla scrittura aspra e teatrale di Schumann. Perdoneremo al Direttore la libertà che si è preso nell’anticipare di 10 battute buone il Poco a poco accelerando del finale, per creare un effetto tanto indebito quanto… trascinante. Ma il pubblico ha evidentemente gradito, tributando a tutti lunghi e meritati applausi.

In definitiva, una graditissima visita e una bella serata di musica!

23 marzo, 2015

A Venezia un’Alceste… smagrita ma sempre bella

 

Ieri, in una Fenice abbastanza affollata, complice (o nonostante) un inizio di… inverno, è andata in scena la seconda rappresentazione di Alceste. Firmato dalla coppia Pizzi- Tourniaire.

La diffusione di Radio3 della prima di venerdi scorso (cui ha assistito il venetiofobo Amfortas riportandone impressioni positive) mi aveva un filino deluso sul piano dei contenuti (si intuiva già dai tempi indicati per lo spettacolo che ci fossero tagli non propriamente marginali) mentre mi aveva abbastanza soddisfatto su quello dell’esecuzione musicale.  

L’allestimento di Pier Luigi Pizzi prevede un solo intervallo, collocato - per equilibrare i tempi delle due parti - dopo la Scena II dell’Atto II. Questo comporta qualche teorico scompenso a livello del respiro dello spettacolo, che in origine prevede due fermate in momenti topici e paralleli: lo sconcerto generale per il destino di Admeto e quello analogo per il destino di Alceste, sostituitasi al marito.

Qui invece la prima parte, dopo l’Atto I, prosegue con la proposizione anticipata del Pantomimo numi infernali, che è in origine proprio alla fine della Scena II: non saprei dire se questo spostamento sia dovuto a necessità di coprire un cambio-scena (del resto non complicatissimo, apparentemente) oppure da una scelta estetica del duo regista-direttore: fatto sta che dopo il coro in DO maggiore Chi serve e chi regna, che chiude(rebbe) l’Atto I, il sipario viene calato e il pubblico applaude proprio come si fosse arrivati all’intervallo… invece ecco uscire sul proscenio Alceste, silenziosa e accompagnata dal Pantomimo (DO minore) che si chiude con l’entrata di Ismene (LA minore, Ferma, dell’inizio Atto II).

Prima parte dello spettacolo che si chiude quindi con l’aria di Alceste (Non vi turbate no) che ottiene dai Numi di poter tornare a salutare per l’ultima volta i cari, prima di morire. Una chiusura quindi piuttosto dimessa, sia pure in MIb maggiore, assai diversa da come sarebbe quella dell’Atto I, sul possente coro del Popolo.  

Per avere poi due parti di durata paragonabile (65 e 70 minuti) l’Atto II e l’Atto III hanno subito i tagli più evidenti (anche il primo atto ha delle sforbiciatine, ma roba da poco). In particolare la Scena VI dell’Atto II manca dei recitativi di Alceste (O casto…) e dei Cortigiani (Così bella…) e soprattutto del lungo e bellissimo recitativo di Alceste Figli, diletti figli. Nell’Atto III è principalmente tagliata la Scena II: recitativo di Alceste-Admeto (Vieni dunque) prima di Cari figli. Per il resto, è stato sacrificato qualche da-capo nei balletti.

Pizzi, intervistato alla radio venerdi scorso dalla Gaia Varon, aveva giustificato questi interventi sul testo con razionali vaghi e opinabili, del tipo: qualche taglio si faceva anche ai tempi di Gluck… In realtà la ragione più plausibile sembrerebbe di puro carattere… logistico: evitare un secondo intervallo, che si renderebbe necessario data la durata dei 3 atti completi (60-73-38 minuti, come si può rilevare da questa registrazione con la Flagstad, oltre che dall’esecuzione scaligera di Muti del 1987).  

Però, fatte queste doverose premesse e osservazioni di carattere tecnico-pedantesco, devo dire: tanto di cappello a Pizzi per come ha reinterpretato – era la sua quarta volta! - l’opera, benissimo coadiuvato dalle luci di Vincenzo Raponi.

Scene e costumi sono intonati ai colori bianco e nero (il proscenio ha addirittura un pavimento a scacchiera…): bianco come amore e nero come morte. Poi nella seconda parte dello spettacolo compare anche un poco di giallo-oro, forse a rappresentare la felicità. Il fondo della scena è modellato da pannelli che lo suddividono in 3 arcate, all’interno delle quali compaiono pochi e simbolici oggetti: un enorme turibolo e la statua di Apollo, poi (scena agli Inferi) degli alberi neri e rinsecchiti con le radici ricoperte di bianchi teschi (che sono anche appesi, quali frutti, ai rami). Per il resto servono anche a separare (come le basse gradinate che scendono al proscenio) i cori, fra destra e sinistra, come prescritto in partitura da Gluck. Fanno eccezione i Numi infernali, il cui coro canta in buca, mentre in scena scorrono pantomime di spettri rigorosamente in nero. Anche i costumi, di foggia assolutamente classica e stilizzata, come detto sono immacolati, salvo quelli di Alceste e della confidente Ismene, che mutano in nero dopo che la protagonista ha deciso di sacrificarsi.

I movimenti di protagonisti e masse sono sempre lenti e ieratici (un po’ alla… Wilson, se vogliamo) come si addice allo spirito dell’opera. La morte e… resurrezione di Alceste sono rappresentate dal suo addormentarsi sul letto posto al centro della scena, e alla fine dal suo risvegliarsi grazie alla… grazia di Apollo, la cui voce si ode dall’alto, senza che il dio appaia di persona.

Insomma, una messinscena pregevole che va ad aggiungersi al già abbondantissimo carnet di Pizzi.
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Sul fronte dei suoni, confermata la buona impressione della prima radiofonica.

Guillaume Torniaire – è il primo direttore mancino che io abbia mai visto su un podio - sfoggia grande sicurezza e sensibilità, ottenendo dall’ottima orchestra della Fenice un suono sempre morbido e leggero, come si confà allo spirito dell’opera, che rifugge da qualsiasi forzatura, enfasi o fracasso per concentrarsi sul dramma dei protagonisti e del popolo che ne condivide ogni singolo passo. A proposito di Popolo e di Numi infernali, eccellenti i componenti del coro di Claudio Marino Moretti, che ha appunto messo in mostra quel pathos che caratterizza i numerosi interventi delle masse.

Trionfatrice del pomeriggio Carmela Remigio, un’Alceste davvero emozionante, in tutta la gamma dei sentimenti che la protagonista esterna durante l’intera opera: dolcezza, amore, dolore, sacrificio, rassegnazione, gioia.

Marlin Miller è Admeto, una parte difficile che il tenore americano affronta forse con un po’ di circospezione all’inizio, per poi crescere nettamente. La voce forse non è penetrantissima, ma sempre ben intonata e senza forzature.

Quasi meglio di lui il suo… confidente Evandro, dicasi Giorgio Misseri, bella voce squillante e ben impostata (forse un paio di lievi calatine, ma nulla di grave). E anche l’altra confidente, Zuzana Marková, se l’è cavata assai bene.

Più che apprezzabili gli altri comprimari: Armando Gabba, Vincenzo Nizzardo e gli altri solisti del Coro che hanno parti di un certo rilievo.

Bravissimi infine i due fanciulli (interpreti dei figli della coppia protagonista) che vengono dal Coro di voci bianche dei Piccoli Cantori Veneziani di Diana D’Alessio.
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Ecco, uno spettacolo che val bene una trasferta in laguna!