trallalalera, trallalalà!

droni di qua, razzi di là, bombe di su, spari di giù...

11 febbraio, 2015

Poppea incoronata alla Scala


La stagione della Scala ospita la terza stazione della trilogia monteverdiana (targata Alessandrini-Wilson) con l’ultima opera del grande cremonese: L’incoronazione di Poppea, arrivata ier sera alla quarta recita delle otto in programma.

Opera controversa ed anche da sempre bistrattata per il semplice motivo che non ne esiste – ma nemmeno lontanamente – una versione definibile come authoritative. Lo spettacolo della Scala si basa su una ricostruzione, anzi collazione acritica (sic, sul libretto pubblicato dal Teatro e sulla locandina) del concertatore Rinaldo Alessandrini, che ha ricomposto - a sua sensibilità - i diversi tasselli di un mosaico prendendo tessere dalle due copie manoscritte (nessuna delle quali autografa) della partitura, cosiddette di Venezia e Napoli (le due sedi delle prime rappresentazioni, 1642/3 e 1651). E lo stesso Alessandrini (un esperto assoluto in materia) ammette che non più del 60% della musica di Poppea sia plausibilmente attribuibile a Monteverdi! Fatto sta che il citato libretto reca, come autori cui sono attribuite le musiche, Monteverdi e Cavalli e per la scena conclusiva Sacrati e Ferrari. Ma c’è chi, per il duetto finale, aggiungerebbe alla lista anche tale Filiberto Laurenzi…   
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La vicenda della ricostruzione delle fonti dell’opera è talmente intricata da sfiorare il thriller: ed è un giallo che ancor oggi non ha una conclusione certa, dato che si continuano tuttora a ritrovare in giro tracce e indizi che di volta in volta orientano in modo diverso le… indagini, smentendo precedenti conclusioni.

La prima traccia dell’esistenza stessa dell’Incoronazione è un libricino del 1643, un cosiddetto scenario della rappresentazione:



Si tratta di una specie di bigino dell'opera, che ne descrive scena per scena il soggetto, per facilitarne la comprensione da parte dello spettatore. Insomma, l’antesignano del moderno programma di sala… Peccato che non rechi traccia né del librettista, né dell’autore della musica! Ci dice però – inoppugnabilmente – che un’opera con quel titolo andò in scena a Venezia in quel periodo. (Teniamo presente che Monteverdi muore nel novembre di quello stesso anno, 1643!)

Di ben 13 anni più tarda è la pubblicazione del libretto dell’opera, parte di un volume fatto stampare nel 1656 dall’autore dei testi (il librettista, appunto) Giovanni Francesco Busenello:


Abbiamo quindi la conferma che un’opera con quel titolo fu data nel 1642 a Venezia, al teatro della famiglia Grimani (il Santi Giovanni e Paolo). La discrepanza fra 1642 e 1643 sembra da attribuirsi al diverso standard di annualità che distingueva Venezia dal resto dell’Europa: a Venezia l’anno veniva fatto iniziare il 1° marzo, ma ciò valeva solo per i documenti a diffusione interna alla Repubblica (urbi) mentre per quelli destinati alla diffusione generale (orbi) si impiegava il calendario normale. Ciò spiega perché uno stesso evento verificatosi nei mesi di gennaio e febbraio poteva essere riferito all’anno n o all’anno n-1, a seconda dello standard utilizzato. Ora, l’opera andò in scena nel periodo di carnevale (che iniziava a fine dicembre) e quindi proprio in uno dei mesi equivoci: in sostanza Busenello usò verosimilmente il calendario veneziano, da cui 1642 e non 1643.

In ogni caso, nel 1656 veniamo a conoscenza dell’identità del librettista. Ma costui, il buon Busenello, tralascia di riportare un piccolo dettaglio: l’autore delle musiche! Per questo ci viene in aiuto qualche lustro dopo un letterato dalmata emigrato a Venezia, tal Cristoforo Ivanovich, che pubblica una lista di rappresentazioni di teatro musicale tenutesi a Venezia a partire dal 1637 (anno in cui fu aperto il primo teatro pubblico, quello di San Cassiano): fra queste elenca due produzioni dell’Incoronazione, nel 1643 e nel 1646 (sempre al teatro Grimani) riportando – alleluja! – oltre a quello del librettista anche il nome dell’autore, Monteverde!


Ecco, siamo nel 1681 e adesso sappiamo che nel 1643 e poi nel 1646 Venezia ospitò rappresentazioni di un’opera dal titolo L’Incoronatione di Poppea di Monteverde. Ci manca però ancora la… sostanza: le note! Ma per questo ci dobbiamo preparare ad un’attesa assai lunga, addirittura di 200 anni! Sì, perché soltanto nel 1888 Taddeo Wiel, bibliotecario della Marciana di Venezia, censì nel materiale della Collezione Contarini, ceduto alla Biblioteca a inizio ‘800, un manoscritto di musica dal titolo Il Nerone, il cui contenuto fu universalmente reputato essere L’Incoronazione di Poppea di Monteverdi. Il Volume, presumibilmente appartenuto a Francesco Cavalli e nel quale gli atti I e III dell’opera risulterebbero ricopiati dalla di lui moglie, presenta questo dorso:


Come si vede chiaramente, il titolo del tomo è IL-NE-RO-NE (che in effetti è il protagonista dell’opera) ma sotto – e lo si scopre senza ombra di dubbio osservando attentamente – erano in precedenza impresse altre lettere, per la precisione MO-NT-EV-ER-DE (!) Scritta che ricompare anche sulla prima pagina del Prologo, mentre una mano ignota, su una delle pagine di rispetto, ha vergato Claudio MONTEVERDI (?) - L’incoronazione di Poppea. Bene, tutto a posto, tutto chiaro? E invece siamo solo all’inizio dei misteri…

Tanto per cominciare, il volume di questa partitura, se reca – pur marginalmente – il nome del compositore, manca invece di quello del librettista: mancanza perfettamente speculare a quella del libretto di Busenello! E anche il contenuto non è del tutto coerente con il libretto, presentando numerose discrepanze rispetto ad esso: ad esempio nel second’atto manca la scena (dopo la terza) che descrive il suicidio di Seneca, assistito dal Coro di Virtù; la quinta scena è privata dei personaggi di Tigellino e Petronio e subito dopo manca la scena di un nuovo incontro Nerone-Poppea. Ma poi ce n’è una abbastanza clamorosa: la partitura contiene la conclusione della scena finale (duetto Nerone-Poppea) che manca nel libretto. Ma fin qui siamo quasi nella normalità, trattandosi di pubblicazioni indipendenti che spesso e volentieri divergono di poco o tanto: in sostanza, pochi mettono in dubbio che quella sia la Poppea di Monteverdi.

Ma quei pochi ringalluzziscono attorno al 1930, quando si verifica una clamorosa quanto fortunata e fortuita scoperta fatta da Guido Gasperini del Conservatorio San Pietro a Majella: fra volumi abbandonati e a rischio di finire al macero, il bibliotecario scovò una seconda partitura manoscritta (neppur essa di mano di Monteverdi) dell’Incoronazione!


Il che non solo confermò le ipotesi già avanzate nel 1891 da Benedetto Croce riguardo una rappresentazione dell’opera a Napoli nel 1651 (testimoniata dal ritrovamento di un libretto colà stampato) ma – dal confronto con il documento veneziano – fece salire le quotazioni dell’ipotesi che l’opera non fosse (tutta, quantomeno) di Monteverdi: ad esempio, la Sinfonia della versione napoletana è assai diversa ed è (secondo Gianfrancesco Malipiero, autore nel 1931 di una mirabile edizione dell’opera, basata su entrambe le fonti) più monteverdiana di quella di Venezia:


Le due partiture (che hanno in comune anche la presenza del duetto finale) divergono in più punti nel contenuto (scene mancanti o modificate) e presentano inoltre strutture diverse dei brani strumentali (sinfonie e ritornelli): tre linee per Venezia, quattro per Napoli. Apriti cielo poi quando nel 1958 Wofgang Osthoff scopre che il basso della sinfonia versione-Venezia è perfettamente identico a quello di un’opera di Cavalli (La Doriclea) rappresentata a Venezia nel 1645! Crescono quindi i dubbi e qualcuno sentenzia: la musica del manoscritto di Venezia non è di Monteverdi! È quello che si deve dedurre anche dall’ipotesi che nel 1967 avanza Anna Mondolfi-Bossarelli, un’ipotesi davvero distruttiva: la copia veneziana (quella in origine posseduta da Cavalli) sarebbe da datarsi nel periodo della morte del Cavalli medesimo, addirittura 30 anni dopo le rappresentazioni dell’opera a Venezia! Quindi la versione di Napoli sarebbe quanto meno più credibile di quella di Venezia (e bisogna riconoscere qui che Malipiero aveva visto giusto!)

Dopo alcuni colpi al cerchio, eccone uno alla botte: nel 1974 Alessandra Chiarelli, a seguito di un minuzioso confronto fra le due partiture, propone una nuova teoria: che esse siano entrambe derivate da uno stesso esemplare originario, da attribuirsi comunque a Monteverdi, impiegato per le prime rappresentazioni; quella veneziana sarebbe probabilmente di mano di Cavalli, fatta magari in occasione della ripresa del 1646, e Cavalli oltre a trascrivere (o far trascrivere dalla moglie, almeno in parte) l’originale, vi avrebbe introdotto altra musica (sua e non solo sua); quella di Napoli si dovrebbe a qualche copista al servizio della compagnia dei Febiarmonici, che girava l’Italia rappresentando opere musicali.

Ma ecco che fra il 1976 e i primi anni ’80 arriva un nuovo terremoto. La prima scossa la dà Thomas Walker, che dimostra con dovizia di esempi come la famosa lista di Ivanovich del 1681 sia zeppa di inesattezze e di informazioni manifestamente infondate; dal che deduce (magari fin troppo sommariamente) che anche i due riferimenti a Monteverdi come autore dell’Incoronazione siano del tutto inattendibili. E il terremoto si propaga a macchia d’olio, per merito di Lorenzo Bianconi, che assesta un altro paio di colpi alla paternità di Monteverdi sull’opera: il primo riguarda il duetto finale Pur ti miro. Bianconi osserva che il testo è uguale a quello del finale del Pastor regio di Ferrari, rappresentato a Venezia due anni prima dell’Incoronazione. Che significa? Che testo e musica del Ferrari sono stati incorporati nell’opera, oppure solo il testo (visto che non c’è rimasta traccia della musica del Pastor)? E poi lo stesso testo si trova in un pezzo (un cosiddetto carro musicale) di Filiberto Laurenzi, rappresentato a Roma 5 anni dopo l’Incoronazione. Insomma, quante altre mani hanno tirato la pasta della Poppea? Secondo colpo: Bianconi rileva che le sinfonie dell’opera La finta Pazza di Scarati sono identiche a quelle del finale dell’Incoronazione (coro di tribuni e consoli).

Mamma mia… ce n’è abbastanza per far concludere ad Alan Curtis (1989) che ci troviamo di fronte ad una Poppea impasticciata.

Ma non è finita, e il pendolo che si è allontanato da Monteverdi torna ad avvicinarglisi: grazie alla scoperta di Paolo Fabbri, che nel 1993 scova ad Udine (Fondo Joppi della Biblioteca comunale) una nuova edizione del libretto dell’opera, diversa da quella dell’autore dei testi (Busenello). Cosa ci dice questo documento? Innanzitutto reca la fondamentale informazione relativa all’autore della musica: Monteverdi! Poi ha proprio l’apparenza di un testo derivato da una partitura, non da un altro libretto: fa esplicito riferimento alla produzione originale del 1643; contiene precise indicazioni per lo scenografo e per l’interprete del ruolo di Poppea. Insomma, il documento pare restituire la piena credibilità al povero Ivanovich, troppo frettolosamente sbugiardato da Walker. E in più contiene un’autentica bomba: include (contrariamente all’edizione di Busenello) il duetto finale Pur ti miro!

Che significa tutto ciò? Che dobbiamo fare piazza pulita di tutte le ipotesi che volevano il duetto importato nell’opera - dal Pastor regio - in tempi successivi alla prima produzione del 1643 e quindi presumibilmente non di mano di Monteverdi? E pensare invece che sia stato musicato da Monteverdi impiegando il testo di Ferrari (il che spiegherebbe l’assenza del finale – e del nome dell’autore della musica - nel testo di Busenello)? A dar man forte a questa tesi è Anthony Pryer che, nel 1995, fa notare come non ci sia certezza che il duetto in questione fosse già presente nel Pastor regio del 1640 e che quindi potrebbe essere stato Ferrari a scriverlo per Monteverdi per importarlo successivamente nella sua opera dalla Poppea, e non viceversa!

Insomma… a questo punto ci converrà aspettare la prossima scoperta, e intanto goderci questa musica a prescindere che sia tutta, o solo in parte, o per nulla di Monteverdi.
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La povertà delle fonti si estende anche ai contenuti musicali: i due manoscritti esistenti recano – oltre le parti di canto – solo righi di accompagnamento senza specifiche indicazioni di strumentazione (al contrario, ad esempio, di Orfeo e di Ulisse). Gli storici-sociologi della musica ci spiegano come ciò sia da mettere in relazione con i peculiari mutamenti nella fruizione del teatro musicale, mutamenti che si realizzarono proprio nella Venezia del primo ‘600: dove si passò dal teatro di corte (o di famiglia, privato ed elitario, finanziato da mecenati) al teatro pubblico, gestito da imprenditori con l’ovvio assillo del profitto, e che ciascun cittadino, di qualunque ceto sociale, poteva frequentare alla sola condizione di pagare il biglietto d’ingresso. Da qui le spending-review ante-litteram, e la preoccupazione degli impresari di limitare i costi delle produzioni, riducendo al minimo anche gli organici orchestrali. E da qui anche la trasformazione dei contenuti musicali verso forme più popolari: il passaggio dal recitar-cantando di bardiana memoria - praticato da Monteverdi fino all’Ulisse - al cantar-parlando, che mette sempre più in primo piano la musica (non più ancella del verso declamato) e quindi il cantante e le sue qualità canore, trasformazione che proprio la Poppea rende evidente (e in base alla quale ragionano molti dei negazionisti - come Annibale Gianuario - della paternità di Monteverdi sull’opera…)

La conseguenza di tutto ciò, per noi oggi, è che ogni rappresentazione (o incisione) dell’opera dipende da autonome (e pure arbitrarie) decisioni del direttore. Ed infatti esistono una gran quantità di versioni diversamente strumentate, che spaziano dalla parsimonia del solo basso continuo per l’accompagnamento più la presenza di qualche arco per sinfonie e ritornelli (secondo quanto si conosce della tipica composizione strumentale dei teatri della Venezia seicentesca):


…all’opulenza persino esagerata di complessi con dovizia di strumenti ad arco e fiato, come fece Harnoncourt nel 1979.

Alessandrini, fedele alla sua concezione filologica, ha tenuto il primo approccio, impiegando il nutrito basso continuo del suo Concerto italiano (3 tiorbe, 2 arpe, 2 cembali e un violoncello) a cui, tenendo conto degli enormi spazi del Piermarini, ha aggiunto un contrabbasso e, per sinfonie e ritornelli, 2 violini e una viola, per un totale di 12 strumenti. Cui nel terz’atto si sono aggiunti 2 trombini esclusivamente per la sinfonia che introduce il giubilo di Arnalta e poi l’omaggio di Consoli e Tribuni.

Qui si può ascoltare una sua interpretazione (con aggiunta di… regìa) di qualche anno fa a Salamanca. Alla Scala il Direttore ha cambiato qualcosa nella distribuzione dei ruoli, altro rompicapo che ognuno risolve a modo suo, poiché i manoscritti recano solo le chiavi di ciascuna parte, ma spesso e volentieri presentano anche le indicazioni di trasposizione (alla quarta, o alla seconda alta, eccetera): in sostanza le parti vengono spesso adattate alla voce dell’interprete. Ad esempio quelle di Nerone e Valletto furono probabilmente scritte per, e sostenute da, castrati, mentre Alessandrini (seguendo una prassi vecchia ormai di un secolo) le affida a due tenori, così come quella della Nutrice, in origine in chiave di contralto, è qui affidata a… Tina Pica (!) Eliminati tout-court personaggi come Pallade e Venere (secondari saranno, ma pur sempre due dee!)

Quanto ai contenuti, il Direttore ne è ovviamente responsabile, stante l’esistenza delle due diverse fonti (Venezia-Napoli) cui potersi riferire e dalle quali poter selezionare i tasselli del mosaico. Alessandrini, che evidentemente è sempre alla ricerca di nuove soluzioni (come dimostrano alcune divergenze dalle scelte da lui fatte per la citata rappresentazione a Salamanca) ha cominciato con lo scegliere da Napoli la Sinfonia iniziale (concordando evidentemente con Malipiero); sempre dalla versione partenopea ha ripescato la parte di Arnalta (Infelice ragazzo) che chiude la scena XI del primo atto (qui spostata ad aprire la scena XII); così come il contenuto della scena IV del second’atto (Damigella-Valletto) più ricco… sessualmente di quello di Venezia (Dunque Amor così comincia?) e pure quello della scena V del medesimo atto (Nerone-Lucano, O felice Poppea). Sempre nell’atto secondo Alessandrini ha deciso di cassare la scena di Ottone solo (I miei subiti sdegni) in favore di quella (ancora da Napoli) di Ottavia sola (Eccomi quasi priva… Neron, Nerone mio): una scelta coraggiosa/discutibile, dato che quella scena compare soltanto nel manoscritto napoletano, mentre è del tutto assente sia in quello veneziano che nei libretti, quindi di dubbia autenticità. Dopo la scena VIII (Ottavia-Ottone) Alessandrini ha recuperato da Napoli (facendola diventare la sua scena IX) parte dell’esternazione di Ottavia Vattene pure. Nel terzo atto è rispettato l’ordine delle scene VI e VII come appare nei manoscritti (prima Arnalta e poi Ottavia) che contraddice il libretto di Busenello (seguito invece da diversi concertatori dell’opera).

Per il resto il direttore ha operato diversi tagli, molti dei quali di portata ridotta e trascurabile, altri invece più pesanti, come la scena VII del primo atto (Seneca che esterna la sua filosofia sulla caducità dei successi mondani, Le porpore regali e imperatrici) e il successivo intervento premonitore di Pallade; oppure una parte importante delle considerazioni di Seneca a Liberto (scena II dell’atto secondo); o ancora, nello stesso atto, la scena VII (Nerone-Poppea, Ò come, ò come a tempo). Anche il finale è vistosamente accorciato, in pratica lasciando in primo piano i due protagonisti, liberati dalla presenza di Venere, del Coro di Amori e soprattutto di Amore, che così è privata del suo trionfo su Fortuna e Virtù, sfidate nel Prologo (Wilson la fa comunque apparire, muta, a benedire gli amanti).

Tutto sommato, quello proposto alla Scala da Alessandrini è un corpus assai ben proporzionato e come sempre ben armonizzato con la regìa di Bob Wilson.
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Nella sua prefazione al libretto, Busenello pubblica un super-condensato del soggetto, ammettendo subito di aver… adulterato la storia come narrata da Tacito:

 
I personaggi principali dell’opera e le relazioni fondamentali (preesistenti alla vicenda e/o in essa sbocciate) che fra essi intercorrono sono schematizzati nella tavola seguente (dovuta al citato Anthony Pryer e da me tradotta e rielaborata) distinti fra umani e divini. Come detto, di questi ultimi Pallade (che dovrebbe comparire nella scena VIII del primo atto ad annunciare a Seneca la sua morte) e Venere (che dovrebbe comparire nel finale, scena VIII del terz’atto, a benedire l’amore fra Nerone e Poppea) sono assenti dalla rappresentazione scaligera.


Lo schema generale dell’opera (Prologo escluso) è invece sintetizzato in questa tavola del citato Lorenzo Bianconi che riassume, nei tre atti, i luoghi dell’azione e i principali intrecci che la caratterizzano, distribuiti nelle varie scene (la cui numerazione nell’atto II è incerta, mancando nel manoscritto di Venezia e divergendo dal libretto in quello di Napoli):


Il soggetto, che Busenello derivò liberamente da Tacito (ed altri) è di carattere marcatamente erotico, fatto certamente per eccitare l’immaginazione del pubblico di allora e attirarlo nelle nuove sale del teatro in musica: la prima parte della scena X del prim’atto (Poppea-Nerone) è di un’audacia ancor oggi sorprendente! Ma ha anche basi storiche ed etiche: la rivalità Venezia-Roma e le discussioni filosofiche che tenevano banco in ambienti quali L’Accademia degli Incogniti, cui apparteneva il librettista; scandalosa poi, per quei tempi, la figura di una donna che impiega le sue qualità fisiche per manovrare un imperatore come fosse un burattino (ecco, oggi per noi può benissimo rappresentare scenari di attualità, tipo i bunga-bunga e i divorzi e innamoramenti di un moderno Nerone brianzolo…)

Naturalmente ci sono diverse visioni e modi di interpretare la morale della favola. Trionfa Amore? Mah, che dire degli ultimi versi dei due innamorati: Pur ti miro, Pur ti godo, Pur ti stringo, Pur t'annodo… Sembrerebbero espressioni di orgasmo, più che di amore! E del resto Nerone ha fin dall’inizio ammesso che la sua per Poppea è pura infatuazione, libidine, attrazione sessuale: le poppe di Poppea! (…di questo seno i pomi). E poi, non si è mai vista una persona sinceramente innamorata ragionare come Nerone: siansi giuste od ingiuste le mie voglie, oggi, oggi Poppea sarà mia moglie! E infatti il saggio Seneca subito sentenzia: ma ch’una femminella abbia possenza di condurti gli errori, non è colpa da rege o semideo: è un misfatto plebeo.  

Insomma: è davvero il trionfo dell’amore con la A maiuscola o invece il trionfo della pura e semplice sete di potere (di una donna) in un mondo dove tutti (escluso Seneca, o magari no) si muovono quasi esclusivamente in base ad egoismo o desiderio di vendetta, e ne combinano di cotte e di crude?
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Bob Wilson, come sempre, si libra in aerei spazi… e non scende mai sulla terra, quindi tutto quanto c’è di erotico, comico o socio-politico nel libretto si stempera nella sua ieratica atmosfera, fatta di movimenti lenti (e di scatti improvvisi del gesto) e di nobiltà declamatoria. Unica eccezione la Nutrice, cui Giuseppe Di Vittorio (che ho più sopra amichevolmente apostrofato come la leggendaria Tina) conferisce un carattere di macchietta napoletana.

Scene spoglie, con impiego di parti mobili a sbozzarne i caratteri: colonnati (Roma), siepi (il giardino di Poppea), un obelisco, alberelli, un grosso capitello in rovina. Luci sapientissime a scolpire gli ambienti e le espressioni degli interpreti, tutti col viso imbiancato e occhi e labbra in rilievo scuro; costumi d’epoca assai appropriati.

Insomma, una… sacra rappresentazione, con tutti (tanti) i pro e (pochissimi) contro che caratterizzano queste scelte.

Gli interpreti hanno tutti magnificamente assecondato le intenzioni del regista e per questo sono da lodare in blocco. Più articolato deve necessariamente essere il giudizio sul versante vocale, dove c’è chi ha meritato più di altri, comunque tutti al di sopra dell’ampia sufficienza.

Va premesso che gli spazi sconfinati del Piermarini penalizzano per definizione un po’ tutti: cantanti che faticano a farsi udire e pubblico che fatica a seguire nei dettagli il filo drammaturgico. (Quanto si rimpiange in queste occasioni la vecchia, cara, Piccola Scala, ambiente ideale per queste rappresentazioni, ignominiosamente mandata al macero, ormai da una vita!)

Miah Persson è una Poppea di assoluto rilievo, coniugando sensibilità e portamento a un canto sempre impeccabile e ad una voce che passa benissimo. Come lei Monica Bacelli, un’Ottavia autorevole, nei momenti di sconforto come in quelli di rabbia. Bene anche Silvia Frigato in Amore, tanto nel Prologo quanto nella sua azione di commando per salvare Poppea dalle trame di Ottone. Il quale è interpretato da una Sara Mingardo la cui voce per la verità stenta a passare, forse penalizzata dalla tessitura grave della sua parte. Più convincenti la Drusilla di Maria Celeng, la Arnalta di Adriana Di Paola e la Damigella di Monica Piccinini.

Fra le voci maschili si è distinto Leonardo Cortellazzi, un Nerone magari troppo… macho rispetto alla leggerezza che ne caratterizza la linea vocale (scritta per castrato) ma assolutamente efficace e perfettamente chiaro e udibile. Un filino al di sotto Mirko Guadagnini come Valletto (e 2° console): anche per lui vale la considerazione relativa alla tessitura di una parte scritta in origine per castrato (o soprano). Efficace anche Luca Dordolo (Lucano) nel suo duetto celebrativo con Nerone. Ecco poi i bassi: Seneca è Andrea Concetti che se la cava con onore, anche se mi è parso troppo leggero rispetto alla personalità del filosofo. Bene gli altri due, Luigi De Donato (Mercurio, Littore ed altro…) e Furio Zanasi (Liberto e altri due ruoli minori). Per ultimi i due (sulla carta) controtenori: Andrea Arrivabene ha fatto ciò che richiede la parte piuttosto contenuta del famigliare di Nerone; quanto a Giuseppe Di Vittorio ho già detto di come la sua parte sia stata (da Wilson?) trasformata in macchietta da avanspettacolo (ma ci sta pure questo, in mezzo a tanta… austerità).  

Del complesso di Alessandrini e del Direttore (anche clavicembalista all’occorrenza) non si può dire che tutto il bene, come dei sei strumentisti dell’orchestra scaligera che lo hanno integrato.

Ecco, uno spettacolo di alto livello che riconcilia con il teatro musicale, riportandoci proprio alle origini di un’arte che da lì partirà per lunghi viaggi verso mete diverse ma tutte straordinariamente esaltanti. E il pubblico di ieri, pur selezionato (è un modo come un altro per segnalare i vasti vuoti nei palchi…) ha mostrato di apprezzare moltissimo, decretando il caloroso successo della serata.

07 febbraio, 2015

Orchestraverdi 14-15 – Concerto n° 20


Uno Jader Bignamini sempre più melodrammatico si ripresenta su podio de laVERDI per proporci la… prova generale di canto della Butterfly che fra pochi mesi lui stesso dirigerà nella sala dorata della Fenice. Sul cui sito ad oggi ancora non è pubblicato il cast, che però dovrebbe essere quello che si esibisce qui in Auditorium, se dobbiamo credere a quanto afferma lo stesso Maestro. Ed è in massima parte uno dei cast già protagonista delle rappresentazioni veneziane del 2013.

Questa è la classica opera strappalacrime (Puccini considerava primo obiettivo del compositore quello di far piangere il pubblico) che talvolta viene trasformata dai soliti registi creativi in crudo documentario sulla piaga del turismo sessuale (per fortuna non è il caso dello spettacolo della Fenice). Ecco, nulla più di una recita in forma di concerto (anzi, semiscenica) è funzionale agli obiettivi dell’Autore: senza distrazioni di sorta, lo spettatore può versare tutti i fiumi di lacrime indotti dal testo della premiata coppia Giacosa-Illica e soprattutto dai suoni del genio di Lucca. E anche ieri sera in Auditorium si sono visti parecchi occhi lucidi…

I due giovani, per non dire giovanissimi, protagonisti Svetlana Kasyan e Vincenzo Costanzo hanno confermato le loro ottime qualità: voce da soprano drammatico lei (con qualche punto debole nelle note gravi) e voce potente lui, anche se un poco stimbrata nei centri, ma insomma due prestazioni di tutto rilievo.

Ancor meglio di loro ha fatto, a mio modesto avviso, Luca Grassi, uno Sharpless davvero autorevole per impostazione vocale e portamento scenico. Benissimo anche la Suzuki di Manuela Custer e il Goro di Nicola Pamio.

Più che discrete le prestazioni dei tre personaggi di minor peso: William Corrò (Yamadori) Cristian Saitta (Zio bonzo) e Julie Mellor (Kate); così come quelle dei sei, chiamiamoli comprimari: Daniele Caputo (Il Commissario) Marco Piretta (zio Yakusidé) Gianluca Alfano (Ufficiale) Raffaela Ravecca (Madre di Cio-Cio-San) Anila Gjermeni (la zia) e Nina Almark (la cugina).

Eccellente anche la prestazione del Coro di Erina Gambarini, congedatosi con una meravigliosa esecuzione (a bocca chiusa) del finale della prima parte dell’atto secondo, accompagnato dal caldo suono della viola d’amore di Gabriele Mugnai, sistematosi per l’occasione proprio a fianco dei coristi.

Jader Bignamini non si smentisce e guida i ragazzi (ex-colleghi, si può ben dire) in una esecuzione vibrante, sempre pulita, senza una sbavatura: capita raramente di ascoltare a teatro passaggi come l’Introduzione alla seconda parte del second’atto (e successivo levar del giorno) suonati con tanta trascinante efficacia! 

Insomma, un successo completo e un trionfo per tutti.  

02 febbraio, 2015

A Firenze suona la tromba di Einstein

 

Ieri pomeriggio il nuovo - e tuttora incompiuto, manca solo qualche decina di milioni… pinzillacchere – Teatro dell’OF ha ospitato la terza dei Puritani, cantata da quello che in gergo si definisce secondo cast.

Ma parlo subito della regìa, anche per spiegare il titolo del post. Partendo da una definizione, diciamo così, casereccia, scovata in rete, delle onde gravitazionali:

Le onde gravitazionali, previste dalla relatività generale del solito Albert Einstein, sarebbero un’increspatura che si propaga nello spazio-tempo, come uno squillo di tromba è un’onda che si propaga nell’aria.

Ecco, nei Puritani (finale atto II) c’è il celebre suoni la tromba, che quindi richiama la relatività generale del buon Einstein. Direte: ma che minchia(*) c’entra tutto ciò con la cronaca di un pomeriggio all’opera? (*) doveroso omaggio alla terra del nuovo Presidente.

Ecco, la risposta ce la dà il regista Fabio Ceresa, che per i Puritani si è inventato una drammaturgia tutta sua, prendendo sul serio e alla lettera un’innocente battuta di Elvira che nel terzo atto, re-incontrando Arturo dopo la di lui fuga con Enrichetta, gli dice: questi tre mesi mi son parsi tre secoli: in pratica, un’espressione che ciascuno di noi usa almeno un paio di volte la settimana, quando aspetta (avendo una fretta blu) un autobus che ritarda, o quando non vede l’ora che l’arbitro fischi la fine della partita che la sua squadra sta conducendo per 1-0 ma giocando in 9 contro 11, o in mille altri casi analoghi dove anche un minuto ci pare un’eternità.

Ceresa tira in ballo proprio Einstein e la teoria della relatività, compreso il famoso paradosso dei due gemelli (uno che dopo aver vagato nello spazio alla velocità della luce per due anni rientra a casa e trova l’altro invecchiato di ottanta…) per poi imbarcarsi in teorie sulla sfericità del tempo (passato=presente=futuro) e sulla curvatura dello spazio. Ne trae come conseguenza una sua personale versione del libretto dell’opera, dove Riccardo all’inizio (Per sempre, per sempre io ti perdei) piange sulla tomba di Elvira (presente=futuro) e tutti i suoi guerrieri sono disperati per la dipartita della giovane. Poi si passa al presente=passato, rivivendo le vicende della fuga di Arturo e della pazzia di Elvira. Infine si arriva al futuro=futuro (terzo atto) dove sono appunto passati secoli, come dimostrano alcune rovine di edifici visti nel primo atto e una specie di nuvola da esplosione atomica; futuro che però sarà diverso da come lo si era visto nel… passato, grazie al perdono di Riccardo per Arturo, che cambia (curvandolo, come spiega Einstein) il corso del tempo e provocando il miracoloso lieto-fine.

Apperò… Intanto dico subito che la drammaturgia di cui sopra la comprende solo chi legga le note di regìa sul programma di sala: sfido chiunque a dedurla da ciò che si vede in scena e ovviamente meno ancora da ciò che si ode (che sarebbe poi il libretto originale di Pepoli, sul quale Bellini ha composto la sua mirabile musica). Comunque il danno non è poi così grave, perché per fortuna sulla scena non c’è e non succede praticamente nulla; i personaggi (singoli e masse) entrano, cantano le loro meravigliose parti e se ne vanno. Si dirà: quasi come fosse un’esecuzione in forma di concerto. Esatto, solo che questa costa qualcosina in più, a partire dalla parcella del fisico-teorico regista (stra-smile!)
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Il cast, come detto, era il secondo: quindi niente Pratt, tanto per cominciare, che alla radio mercoledi scorso mi aveva fatto (ancora una volta) una grande impressione.

I due protagonisti (Maria Aleida e Jésus Léon) si son prodigati al meglio delle loro possibilità, sfoderando anche gli acuti e sovracuti previsti (non il FA da baraccone del tenore nel terz’atto) ma le loro voci sono proprio piccole di natura, ergo secondo me non proprio adattissime a due ruoli che non saranno (rispettivamente) di soprano drammatico e di Heldentenor, ma neanche di Adine e Nemorini.

Il più efficace della compagnia mi è parso il veterano Riccardo Zanellato (Giorgio) mentre Julian Kim (Riccardo) e Martina Belli (Enrichetta) non mi hanno proprio entusiasmato. Lascio senza voto (per non dare insufficienze) Gianluca Margheri (Valton) e Saverio Fiore (Bruno).

Bene il coro di Lorenzo Fratini, a cui Einstein il regista non ha chiesto molto di più che… cantare, entrando da sinistra per uscire a destra, e viceversa.

Matteo (ormai non solo a Firenze è un nome vincente!) Beltrami era sul podio dell’Orchestra del Maggio. Ha impiegato la partitura, diciamo così, tradizionale (senza seguire quindi le novità presentate dall’ultima edizione critica di Fabrizio Della Seta) alla quale ha apportato pochi e abbastanza soliti tagli. In generale devo dire che mi ha abbastanza convinto, compensando con un bel-suono qualche carenza di bel-canto presente in palcoscenico: lui è un (relativamente) giovane che merita di fare strada. 

Applausi per tutti (a scena aperta dopo le principali arie e poi all’uscita finale) in un teatro piacevolmente affollato. Spettacolo che in Aprile si trasferirà a Torino, protagonisti Mariotti&consorte.  

31 gennaio, 2015

Orchestraverdi 14-15 – Concerto n° 19


Riecco Jader Bignamini con laVERDI in un programma davvero corposo ed interessante, dove Strauss racchiude Hindemith e Goldmark.

Apre la serata Till Eulenspiegel (I tiri burloni di…) dove Strauss fa un regalino al padre (famoso cornista) scrivendo quel tremendo passaggio che l’interprete deve suonare a freddo (battuta 7) e che prevede, dopo tre scalate apparentemente facili, un precipitare sulla triade di FA di quasi tre ottave, dal RE acuto al FA grave:
Oltretutto la prima volta va suonato piano, il che non aiuta, mentre subito dopo, in mezzo-forte sfociante a fortissimo, già lo strumentista può rinfrancarsi assai.

Come in tutta la musica a programma, la pertinenza dei suoni con il programma è lasciata alla nostra capacità di giudizio, o alle nostre reazioni di fronte ai suoni, una volta che ci sia stato chiaramente spiegato da chi, cosa o quant’altro siano stati, quei suoni, ispirati al musicista.

Che l’assolo del corno, come quello più avanti del clarinetto in RE, ci sbozzino la personalità del burlone Till è concetto che arriviamo a condividere soltanto dopo che siamo stati informati dell’identità del citato burlone. Mai e poi mai – ignorando tale identità – avremmo potuto sbottare, ascoltando di primo acchito quei temi: ma certo, come no! è quel mattoide di Till, lo si riconosce da lontano!

Insomma, sulla natura della musica aveva mille ragioni il tanto vituperato Eduard Hanslick, e se la musica a programma ci può piacere è solo - ed esclusivamente – perché è grande musica di per se stessa, alla faccia del programma!

Sarà che non lo suonano spesso, ma mi è parso che i ragazzi avessero qualche problema di affiatamento, che peraltro non ci ha impedito di ascoltare un Till più che dignitoso, anche se non eccezionale. Bignamini da parte sua ha mostrato ancora una volta le sue doti e la sua personalità, fin dal vibrante attacco del corno (Allmählich lebhafter) che ha velocità tripla rispetto all’introduzione (Gemächlich) mentre troppo spesso viene eseguito (per far un favore al cornista…) con eccessiva sostenutezza. Tutto sommato una prova ben accolta dal pubblico (anche ieri sera non oceanico).
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Ecco poi il virtuoso di casa Radovan Vlatkovic interpretare il Concerto per corno di Paul Hindemith. Ne fu dedicatario Dennis Brain, che ne eseguì la prima giovedi 8 giugno 1950 a Baden-Baden con Hindemith sul podio della Südwestfunkorchester. Ecco qui i due in una successiva registrazione con la Philharmonia.

L’orchestra, assai leggera, presenta archi, legni (1-2-2-2, mentre il corno solista è l’unico degli ottoni) e timpani. La struttura del concerto è nei classici tre movimenti, ma assai sbilanciata sul fronte delle durate, con i primi due che insieme occupano circa 6’ (73+138 battute) e il terzo che da solo supera i 9’ (274 battute). In omaggio alla sua seconda patria americana, le indicazioni agogiche sono presentate da Hindemith in inglese e, a fianco, in tedesco.
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Seguiamo l’esecuzione ascoltando Hindemith e Brain. Il Moderately fast iniziale presenta un tema principale, esposto dall’orchestra e poi dal solista, tema che la fa da padrone, e un secondo motivo esposto dal solista. È l’orchestra ad aprire il movimento (4”) con l’esposizione del tema principale, caratterizzato da diversi salti di tempo e costituito da tre sezioni di cui le prime due insieme coprono il totale cromatico dei 12 suoni. Qui la parte dei violini, che il flauto doppia per la prima sezione:

Siamo quindi in presenza di un classico esempio di quella dodecafonia tonale che Hindemith teorizzò e praticò in opposizione alla dodecafonia atonale di Schönberg.

(19”) Il tema viene ripetuto a uguali altezze da violoncelli e fagotti, che però alla quinta battuta lo variano senza chiuderlo, mentre flauto e clarinetti (28”) entrano sul tema in contrappunto, ma partendo dal DO#. (41”) Ora violini e flauto riespongono la sola sezione iniziale del tema, ripetendola per tre volte in 5 battute di 5/4 ma traslando, rispetto all’inizio, la scansione di una semiminima in ritardo e l’altezza di un semitono in alto (si parte da FA#).

(54”) Adesso (battuta 21) entra il corno solista, che espone, tornando al FA e con scansione più regolare (4/4 in prevalenza) il tema ampliato e leggermente variato: la seconda sezione presenta due inversioni di note della serie e viene ripetuta altre due volte. La chiusa (SIb - SOLb - FA) è enarmonicamente identica a quella dell’esposizione orchestrale:
(1’15”) Ancora sul FA archi e flauto espongono la sola sezione iniziale del tema. Il corno (1’18”) ne riprende il frammento finale (4 note) reiterandolo variato, prima di esporre (1’37”) un secondo motivo più mosso, che parte dal SOL#:
(1’50”) Archi e flauto tornano ancora sul tema principale (prima sezione) questa volta dal SOL#; i violini espongono la seconda sezione, che il corno contrappunta e poi sviluppa ulteriormente per tornare (2’14”) ad esporre il tema, canonicamente dal FA, ma variandolo ulteriormente.

(2’41”) Riecco nel corno il secondo tema, questa volta dal FA# e variato, fino a condurre (2’52”) alla cadenza finale, basata sul primo tema e chiusa (3’09”) da un inciso esposto in forte dal solista e poi in fortissimo dall’orchestra, seguito da una mesta fanfara sul FA grave del corno.

Abbiamo ora il tempo centrale, Very fast, che è in forma di Rondo con struttura A-B-A-B-A-C-C’-A-A’ e una Coda conclusiva. È di norma il corno a prendere l’iniziativa, mentre l’orchestra risponde con gli strumenti acuti (ottavino e violini).

(3’24”) Il corno espone il ritornello A (che parte e chiude sul FA) con timpani e celli ad accompagnarlo in contrattempo:
Il ritornello (3’33”) è ripreso, semplicemente arricchito nell’armonia, dall’orchestra, poi (3’41”) il corno espone il primo episodio (B), avente sempre il FA come nota di riferimento:
L’ultimo FA diviene anche il primo della ripresentazione del ritornello (3’51”) sempre nel corno, ma con traslazione di una semiminima (timpani e celli sui tempi forti della battuta, corno in contrattempo).

(4’00”) L’orchestra imita il solista riproponendo il motivo B seguito (4’08”) dal ritornello in contrattempo. Rientra ora il corno (4’17”)  che espone il motivo C, assai mosso, stavolta centrato sul SOL:

(4’27”) Il motivo C viene ripreso ed arricchito (C’) dall’orchestra con il solista ad accompagnare con sporadici interventi di semicrome. (4’33”) Riecco il corno con il ritornello, sempre dal FA, ora in tempo giusto, compreso l’accompagnamento dei fagotti, mentre i violini si sbizzarriscono con volate di semicrome. Il ritornello è proseguito (4’42”) dall’orchestra (A’) mentre il corno accompagna con un motivo diatonico e poi dialoga con l’oboe fino all’arrivo (4’58”) della Coda, che ha la inizialmente la forma del ritornello A. Poi tutto si stempera fino ad un esilarante sussulto (5’07”) del corno, prima della chiusura sul FA.

Il terzo movimento è, come detto, il più robusto ed articolato dei tre: si suddivide in sei sezioni, caratterizzate da motivi e tempi diversi.

(5’21”) Il corno, con discreto accompagnamento, attacca in tempo Very slow esponendo un tema costituito da due sezioni, di cui la seconda formata dalla ripetizione anche variata di un breve motivo:
L’orchestra riprende negli archi (5’59”) con agitatissime biscrome dei fiati, l’elemento (a) e subito il corno (6’13”) espone un nuovo motivo (c) accompagnato dai soli archi con incisi nervosi:

Ora il tempo muta (6’56”) in Moderately fast, una vasta sezione caratterizzata dall’esposizione di nuovi motivi, magari imparentati perché ottenuti attraverso trasformazioni:
Corno e oboe ci giocano, poi (7’53”) è il flauto a presentare un nuovo motivo, sul quale subito risponde il corno:

(8’06”) È ancora il corno a dare inizio alla parte finale della sezione, esponendo un nuovo motivo (d) la cui conclusione:
è ripresa dai clarinetti che poi si aggiungono al corno per la chiusura.

Inizia ora (8’53”) la sezione Very fast, dove il corno tacet (è il classico momento di pausa che il solista impiega per… svuotare lo strumento). Gli archi, poi raggiunti dai fiati, curiosamente ripropongono il motivo iniziale (a) con valori aumentati, equilibrando quindi l’effetto della diversa agogica. Si tratta di una serie di varianti del tema che viene magistralmente esposto e contrappuntato alternativamente da archi e fiati.

(9’43”) A questo punto sulla pagina della partitura Hindemith scrisse alcuni versi (in tedesco antico) sotto il titolo Declamation, in cui esalta i suoni del corno (che nelle successive 41 battute propone un motivo dal sapore arcano, quasi declamasse proprio quei versi) invitando l’ascoltatore a lasciarsi da essi trasportare nel passato, di cui onorare le vestigia:

“Mein Rufen wandelt
In herbstgetönten Hain den Saal,
Das Erben in Verschollnes,
Dich in Gewand und Brauch der Ahnen,
In ihr Verlangen und Empfahn dein Glück.
Gönn teuren Schemen Urständ,
Dir Halbvergessener Gemeinschaft,
Und mir mein tongestaltnes Sehnen.“
“Il mio richiamo trasforma
l’auditorium in un bosco di suoni autunnali,
l’erede nello scomparso,
te nelle vesti e nei costumi degli antenati,
la tua felicità nella loro nostalgia e accoglienza.
Concedi la resurrezione alle care ombre,
a te la comunione con loro, semidimenticati,
e a me la mia nostalgia plasmata nei suoni.”

È una specie di compendio poetico dell’estetica di Hindemith, che propugnava una rivalutazione dell’antico (non un ritorno tout-court all’antico) come motore per il progresso della musica. Insomma, lui vestiva un po’ i panni di Hans Sachs!

I primi tre versi, liberamente tradotti in inglese, sono incisi sulla lapide che allo Hampstead Cemetery di Londra ricorda Dennis Brain, prematuramente scomparso a soli 36 anni nel 1957, schiantandosi contro un albero con la sua Triumph TR2, mentre tornava a casa da Edinburgo, dove aveva suonato la Patetica con Ormandy:


Dopo la chiusura (11’30”) inizia ora una sezione in tempo Lively, che negli archi e poi (12’11”) nel corno e quindi nell’ottavino ripropone i motivi della precedente Moderately fast, sottoposti a sottili manipolazioni. Anche il motivo (d) ricompare (13’09”) nel corno, subito imitato dal clarinetto.

(13’57”) Nell’ultima sezione (Very slow) il corno, accompagnato discretamente dagli archi e alla fine anche da clarinetti e fagotti, riprende il motivo (c) e conduce serenamente alla conclusione, sul DO che si unisce al LA dei clarinetti, al DO dei fagotti, al FA dei contrabbassi e a due discese dei violini (DO-SIb-LA e poi LA-SOL-FA). Insomma, si chiude su un perfetto… FA maggiore!
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Il grande Radovan non si smentisce e cava dal suo corno magico bellissimi suoni – compresi quelli a campana chiusa alla fine della Declamation - che danno piena ragione ai versi di Hindemith! Per lui trionfo assicurato e quindi un bis che – come ha già fatto altre volte – non esegue da solo ma insieme a colleghi dell’orchestra: così con Ceccarelli, Amatulli e Buldrini ci porge il primo tempo della Sonata per 4 corni (1952) di… Hindemith!
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Ora è la volta del poco conosciuto Karl Goldmark e della sua ouverture Im Frühling. Che spiega perché questo compositore sia… poco conosciuto (smile!) Questo pezzo che sta, diciamo, fra Dvorak e Rimski, a me dà l’idea del tipico vorrei, non posso. Francamente mi sfugge il razionale di averlo proposto – vaso non di coccio, ma di cartavelina – fra tre vasi d’acciao. Come sempre in casi simili, va lodata l’abnegazione dei ragazzi che se lo sono studiato per proporcelo facendo del loro meglio.
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Ha chiuso la serata l’inflazionato Zarathustra, che a differenza del Till l’orchestra padroneggia ormai disinvoltamente e di cui anche Bignamini ha fornito un’interpretazione davvero pregevole, salutata da ovazioni per tutti e ripetute chiamate per il Maestro, che fra una settimana ci farà un’anteprima della Butterfly che lui dirigerà prossimamente alla Fenice