affinità bombarole

rinsaldato il patto atlantico

23 maggio, 2012

Alla Scala il Peter Grimes di Jones-Ticciati


La Scala ripropone di questi tempi Peter Grimes di Benjamin Britten, affidata alla coppia londinese di regista-direttore formata da Richard Jones e Robin Ticciati. Dirò subito che il giovane maestro ha dato gran prova di sé, mentre il regista mi ha lasciato tra il perplesso e l’insoddisfatto.

Tanto per cominciare, l’ambientazione. Jones porta tutto ai giorni nostri, ma sempre in Inghilterra (o comunque in un Paese, diciamo così, civilizzato). Orbene, è pur vero che anche nelle nostre società cosiddette avanzate permangono sacche di schiavitù più o meno mascherata, ma – che so – si dovrebbe trattare del solito cinese che fa lavorare bambini per 20 ore al giorno in qualche scantinato, oppure di un grosso amministratore di condomini che schiavizza fino alla consunzione dei poveri co-co-co… Ma che nell’Inghilterra di oggi ancora ci siano pescatori in proprio che sfruttano poveri orfanelli, come due secoli fa beh, mi pare proprio un’idea bizzarra! Di sicuro è fra quelle suggerite in questo manuale del regista d’avanguardia (smile!)

Essendo portata ai giorni nostri, la taverna di zia Auntie (così come la sala civica nel terzo atto) è trasformata in discoteca. Da esse escono i vendicativi borgatari per dare la (seconda) caccia a Grimes, in puro stile musical di Broadway, con i coristi che ballano come al carnevale di Rio, mentre cantano – ohibò – La nostra maledizione cadrà sul suo giorno malvagio. Noi domeremo la sua arroganza. Faremo pagare all’assassino il suo crimine. Una vera parodia, complimenti. 

Abbastanza banale l’ambientazione della baracca di Grimes e patetico il suo gesto di accendere la TV – che trasmette un cartone animato di contenuto marinar-piratesco, ma di quelli per bambini da scuola materna (smile!) - per tranquillizzare il ragazzo, prima della di lui caduta nel precipizio… della buca del suggeritore (mah!)   

Discutibile la scelta di presentare il ritorno finale di Grimes dentro la sala civica, in piena luce, il che toglie gran parte delle suggestioni che la scena dovrebbe avere, se correttamente ambientata al buio e nella nebbia (così anche il Fog-Horn qui pare fuori posto!) Certo, il regista si è risparmiato con questa trovata un cambio di scena in vista del suo finale, ma il risultato è deludente.

E appunto per l’ambientazione della scena finale - che nell’originale è pari-pari, musica compresa, in LA maggiore, quella dell’inizio dell’atto primo – il regista ne ha proprio combinata una delle sue. Così, invece di mostrarci il ritorno del borgo alla vita un po’ sonnolenta e monotona, come nulla fosse successo, lui ci riporta al prologo, mostrandoci un nuovo processo, intentato ora ad Ellen, evidentemente ritenuta complice di Grimes. Questa non solo è un’invenzione bella e buona, ma per di più è totalmente strampalata. Chè, se Jones ci voleva significare che il borgo è sempre in cerca di qualche diverso da eleggere a capro espiatorio (cosa del tutto plausibile) ha proprio sbagliato personaggio. Poiché  né Ellen né del resto Balstrode (che allora potrebbe essere pure lui la prossima vittima) hanno alcunché delle caratteristiche di diversi che il borgo possa prendere a pretesto per farne, appunto, dei capri espiatori: sono onesti e tranquilli pensionati che non potrebbero materialmente far male ad una mosca. A meno che Jones non voglia insinuare che nella società di oggi si prendano per diversi coloro che mostrano semplicemente di avere un po’ di sale in zucca… ma questa mi sembrerebbe davvero una forzatura di bassa lega.

Alcuni spunti della regìa sembrano mutuati da quella di Willy Decker, autore dell’edizione presentata tempo fa al Regio di Torino: ad esempio il mare che non si vede mai, poiché secondo Jones sul mare sta il pubblico, che da lì osserva ciò che accade sulla riva (e questa è una trovata plausibile); oppure Grimes che si vede – a fine secondo atto – trascinare il ragazzino morto verso casa (qui siamo però ad un didascalismo quasi offensivo per le capacità cognitive dello spettatore). E anche l’apertura del primo atto, con borgatari seduti come fossero in platea a guardare il mare, tutti perfettamente allineati e composti, ricorda vagamente quella di Decker.

Per fortuna la caratterizzazione dei personaggi è in generale apprezzabile: quello che vediamo è il Grimes di Britten-Pears-Slater, e non quello di Crabbe… ed è già qualcosa! Qualche riserva, come detto, sul  modo un po’ troppo da avanspettacolo con il quale ci vengono presentate certe esternazioni, soprattutto del popolo. Intelligenti le scene e le luci, a parte… l’ambientazione moderna (il che coinvolge anche i costumi).  

Ma tutto sommato, quale valore aggiunto apporti all’originale questo allestimento, resta per me un mistero.  
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Come detto, buone se non proprio ottime notizie invece sul fronte musicale. Merito di Ticciati, giovane ma evidentemente assai preparato ed autorevole sul podio, e di Bruno Casoni, che ha riportato il coro al livello che gli compete.

John Graham-Hall è un Grimes efficace, pur faticando parecchio sulle note alte, come qui al momento di prendere la drammatica decisione che lo porterà alla rovina:
(Poi, nell’esternazione finale, il regista lo fa esibire su un tavolo e accucciato sulle punte dei piedi, posizione credo infelice per il canto…) In ogni caso si prende grandi applausi. Più grandi ancora (ma forse alle mie orecchie non così meritati) quelli andati a Susan Gritton, una Ellen che mi è parsa discontinua e in difficoltà nell’ottava bassa.

Christopher Purves è un ottimo Balstrode, e ancor meglio di lui fa Peter Hoare come Boles (pur penalizzato sul lato scenico da eccessivo macchiettismo). Felicity Palmer è una Auntie di gran livello. Nettamente al di sotto Catherine Wyn-Rogers (Sedley) Christopher Gillett (Adams) e Stephen Richardson (Hobson). Un poco meglio George von Bergen come Keene (e non Keen come scritto sulle locandine!) e lo Swallow di Daniel Okulitch. Anonime le nipotine e le due altre parti minori.     

Successo abbastanza caloroso, ma francamente nulla di epocale.

22 maggio, 2012

Fabio Luisi sul podio della Filarmonica


Il successore-in-pectore di James Levine alla guida del MET è stato ieri sera ospite della stagione della Filarmonica, dirigendo un concerto di musiche italiane più… Beethoven!

Ha aperto con una trascrizione di tre brani di Giovanni Gabrieli, fatta da Claudio Ambrosini nel 1998 per Milano Musica e già allora (30 ottobre di quell’anno) eseguita dalla Filarmonica guidata dal dedicatario Riccardo Muti.

Si tratta della Canzon XIII dalle Sacrae Symphoniae (1597), della Canzon I e della Sonata XIX dalle Canzoni et Sonate (1615, postume). L’approccio programmatico di Ambrosini è quello di evocare le melodie rinascimentali di Gabrieli immergendole  in uno scenario sonoro moderno. E tanto per tener fede al proposito, impiega anche un gong immerso in una vaschetta d’acqua (smile!) Oppure fa suonare lo xilofono con le nocche delle dita, o percuotere le corde del pianoforte con bacchette di spugna… insomma, cose che ai tempi di Gabrieli lo avrebbero fatto rinchiudere ai Piombi! C’è di buono che, pur immersa in un magma indecifrabile,  qualche nota di Gabrieli si può ancora ascoltare (ri-smile!)

Dopo questo esordio bizzarro, ecco arrivare il 27enne polacco Rafał Blechacz a proporci il Quarto concerto di Beethoven. Tutt’altra musica (tri-smile!) Il ragazzo ha una tecnica sopraffina che forse, nell’iniziale Allegro moderato, penalizza un poco l’espressività, dando (a me, perlomeno) l’impressione di un’esecuzione un po’… meccanica. In ogni caso dall’Andante in poi le cose migliorano e il resto della prestazione è davvero rimarchevole. Bravo anche Luisi a sostenerlo con un’orchestra mai invadente, ma allo stesso tempo protagonista. Gran successo per il bel Rafał che ringrazia con un paio di bis.  

Dopo l’intervallo si torna in Italia con Paganiniana di Alfredo Casella. Nel 1942 compivano 100 anni i leggendari Wiener (al 28 marzo 1842 risale il primo concerto della Philharmonische Academie, diretto dal fondatore Otto Nicolai). La ricorrenza cadde in un periodo disgraziato, ma a quel momento in Germania e in Italia il clima era euforico e il Patto d’acciaio più che mai saldo. Vienna era la seconda capitale tedesca e Karl Böhm – deciso fautore dell’Anschluss – sarebbe di lì a poco diventato direttore della Staatsoper. Così successe che l’italiano Casella (anche lui assai ben disposto verso il fascismo e i suoi alleati) compose per l’occasione questo divertimento in quattro parti che è ispirato a musiche (capricci e quartetti) del grande genovese. La cui prima fu diretta – per l’appunto - da Karl Böhm.

L’opera si suddivide in quattro sezioni, a partire da un Allegro agitato (Capricci 8-12-16-19) seguito dalla Polachetta (Quartetto n°4), dalla Romanza (Duo inedito violino-clarinetto) per chiudere con la Tarantella (ancora dal Quartetto). Un brano effettivamente di circostanza, in cui però Casella mostra la sua raffinata abilità di orchestratore, senza cadere nelle sesquipedali esagerazioni di Ottorino Respighi.

Del quale ha chiuso il concerto Feste romane, anteriore di 14 anni alla Paganiniana. È il terzo dei poemi sinfonici della triade romana (con Pini e Fontane) dove il nostro scimmiotta – pur con grande maestria, va detto - i Liszt e gli Strauss. In effetti l’orchestra pare quella dell’Alpensinfonie, con una sessantina di archi, sette trombe e percussioni a non finire. Il risultato – ammettiamolo pure – è un filino al di sotto, ma dobbiamo accontentarci.

Il brano ci elenca – con precise didascalie poste in prefazione alla partitura - quattro tipi di passatempo SPQR: dai gladiatori e dai cristiani offerti in pasto a belve fameliche, ai pellegrini che arrivano al Giubileo, alla classica ottobrata, e infine alla Befana. Nel cui conclusivo episodio – come fece nei Pini di Roma, dove introdusse, insieme ad altre filastrocche, la famosa Madama Doré - Respighi non manca di citare uno dei tipici stornelli romaneschi:

che chiude le feste con gran fracasso e fuochi d’artificio. Caos sonoro talmente parossistico, che diventa persino difficile capire se i suonatori (gli ottoni in particolare) hanno eseguito proprio le note giuste, o altre buttate lì a caso (smile!) Nel dubbio, gran trionfo per tutti, e quindi per Luisi un buon viatico in vista della prossima Manon

21 maggio, 2012

Anne-Sophie Mutter per beneficenza alla Scala


A una settimana precisa di distanza dall’esibizione della Staatskapelle Dresden con Colin Davis, la Scala ha ospitato, per l’annuale iniziativa benefica della Croce Rossa, un altro bel concerto mozartiano, protagonisti Anne-Sophie Mutter e la Kammerorchester Wien-Berlin (formata da strumentisti dei celebri Wiener e Berliner Philharmoniker).

Come una settimana addietro, in programma c’era quel Mozart leggero ed etereo che – almeno a me personalmente – non manca mai di provocare emozioni e grande piacere estetico. Per di più se eseguito da autentici fuoriclasse, come sono i Musikanten di Dresda e quelli di Vienna-Berlino. I quali si schierano in 17 (nessuna superstizione, evidentemente) con due corni e due oboi  (prescritti dai tre brani in programma) e 13 archi, disposti alla tedesca (quattro primi violini a sinistra, tre secondi violini a destra e dietro, da sinistra, il contrabbasso, i due violoncelli e le tre viole.

Dà inizio al concerto Rainer Honeck (con tali strumentisti un Direttore non serve davvero…) attaccando con la Sinfonia K201.

È questa una delle opere che vengono indicate come lo spartiacque fra il Mozart ancora acerbo, principalmente influenzato dallo stile italiano (di J.Christian Bach) e il Mozart che – sotto l’influsso della Mannheim di Stamitz e della Vienna di Haydn - si incammina sulla strada della maturità.

Già l’articolazione in 4 movimenti è un chiaro sintomo del nuovo corso (vero è che sinfonie successive - K297, K338 e K504-Praga - tornano alla struttura in 3 movimenti) ma è soprattutto lo spessore delle idee musicali che fa davvero intravedere cosa uscirà di lì a poco dalla penna del Teofilo. Per dire, all’attacco dell’Allegro moderato deve aver pensato 30 anni dopo Beethoven al momento di mettere su carta il tema principale del suo Quarto Concerto per pianoforte:


Anche la struttura formale – a parte il movimento aggiuntivo – si arricchisce: nascono temi diversi e a volte contrapposti, che vengono, sia pure moderatamente, sviluppati e inquadrati negli schemi che si stavano consolidando della forma-sonata, pur ancora allo stato embrionale. E certi rimandi tematici (come il salto di un’ottava discendente che apre il primo movimento, e poi si ritrova… raddoppiato anche all’apertura dell’ultimo) sono indici di un’attenzione particolare alla caratterizzazione dell’opera nel suo insieme.

Impeccabile l’esecuzione dei vien-linesi; data la (relativa) brevità della Sinfonia, è da apprezzare anche il rispetto dei da-capo prescritti da Mozart.



Ora la sempre affascinante (a dispetto dell’anagrafe) Anne-Sophie - in un lungo e scollato turchese - va in cattedra con il primo dei due Concerti in programma: il K216, terzo dei cinque nel catalogo mozartiano. Denominato Straßburg, dal tema dell’Allegretto che compare nel Rondeau finale, che riproduce quasi alla lettera quello di una danza (si dice opera di tale Georg von Reutter, Maestro di Cappella di Corte) molto popolare a Vienna:
  
Invece: il motivo dell’incipit del tema principale e della chiusa dell’Adagio ci ricorda qualcosa? Ma come no! Quell’ammiratore sfegatato di Mozart che rispondeva al nome di Ciajkovski lo citò (quasi) letteralmente – nei clarinetti – al momento di chiudere l’Andante cantabile della sua Quinta:

La Mutter ha proprio tutte le carte in regola, e non fa certo rimpiangere i mostri sacri del passato! 

Dopo l’intervallo ecco il K219, famoso come il turco. Del quale avevo scritto qualcosa un anno fa, dopo averlo ascoltato da Isabelle Faust accompagnata da Abbado a Ravenna.

Curiosa la chiusura di questo 5° concerto (come del resto quelle del 3° e del 4°) che, invece di presentare i classici accordi dell’orchestra, avviene sommessamente, come di chi non voglia disturbare eventuali ascoltatori già passati nel mondo dei sogni (smile!)

Ma alla Scala credo nessuno si sia addormentato al suono dello Stradivari della Mutter! Che ci regala due bis: il primo ancora mozartiano e poi, quasi a chiudere il concerto come si era iniziato – con un minuto di raccoglimento per i recenti fatti luttuosi - l’Aria dalla bachiana Suite 1068, che lei esegue con le sole quattro prime parti degli archi.

Bellissima serata, che ci fa tornare a credere che il mondo non sia solo stragi e terremoti.

18 maggio, 2012

Orchestraverdi – concerto n°33


Ancora Zhang Xian alla ribalta con un programma di gran tradizione, Beethoven e Mahler, in un Auditorium finalmente affollato, dopo qualche puntata un po’ stanca.

Sono tre moschettieri de laVerdi: Luca Santaniello al violino, Mario Shirai Grigolato al violoncello e il residente Simone Pedroni al pianoforte a proporci dapprima il cosiddetto Triplo Concerto in DO maggiore di Beethoven. Opera da sempre relegata in quel limbo delle composizioni giudicate minori, disimpegnate e mancanti di quel tasso di eroismo che l’agiografia ha affibbiato alla produzione del genio di Bonn.

E magari solo perché composta per gratificare un illustre allievo, l’Arciduca Rodolfo che da poco si era messo a prender lezioni di pianoforte dal già rinomato Ludwig (siamo nel 1803-1804, ai tempi dell’Eroica, per intenderci… ma l’opera non verrà eseguita se non nel 1808, chissà, forse perché l’Arciduca ebbe bisogno di molte lezioni? smile!) O perché, prevedendo tre solisti – invece di uno solo, come è caratteristica dei Concerti – finisce per apparire, ai solisti medesimi, come un lavoro poco gratificante e in fin dei conti da… snobbare.

E così, normalmente si sottovaluta (un po’ troppo, pare a me) la struttura stessa della composizione, per il suo primo movimento privo dei caratteristici contrasti (temi poco distinguibili) e in compenso ricco di enfasi, affettazione e di eccessive lungaggini e divagazioni tematiche (tutti aspetti considerati estranei alla tipica scrittura di Beethoven); un movimento centrale troppo breve e lezioso e uno conclusivo da… festa campestre.

Sarà, ma personalmente trovo in questo apparente disimpegno un voluto omaggio a forme settecentesche, fatto con garbo e con un po’ di ironia, ma sempre con grande sapienza e ispirazione. Un pezzo assolutamente godibile, anche se non manda messaggi universali né evoca chissà quali scontri fra ragione e tenebre!
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L’Allegro è una corposa costruzione, in forma-sonata assai liberamente interpretata: una lunga esposizione, dove si possono individuare parecchi motivi; uno sviluppo piuttosto breve e da essa quasi indistinguibile; una ripresa a sua volta molto complessa e infine una veloce coda a concludere il movimento.       

Sono gli archi bassi ad esporre immediatamente, soli e pianissimo, il motivo principale (1):

Poco dopo l’orchestra presenta una specie di introduzione, in crescendo, basata su una variante del motivo (1), che culmina in fortissimo e per due volte sulla sottodominante FA, poi (con curiosa presenza di due intervalli di tritono ascendenti – FA-SI e SOL-DO#) si sposta sulla dominante SOL, dove i primi violini espongono un secondo motivo (2):

Che viene ripreso quasi subito dai fiati, ma in DO (!) Sulla tonalità di impianto ecco poi i primi violini esporre un nuovo motivo (3):

ripetuto poi un’ottava sopra, che sfocia in fieri incisi trocaici (MIb-DO) dell’intera orchestra, a chiudere, prima sul SOL, poi sul DO la prima esposizione.

Esposizione che viene ora affidata ai solisti, a partire (sarà sempre così…) dal violoncello (pare che in origine il concerto fosse proprio stato concepito per questo strumento). È lui che, nel registro acuto, ci propone il motivo (1) che viene sviluppato, salendo alla sesta per poi scendere sulla dominante SOL, dove il violino solista ripropone il motivo, sulla cui conclusione si innesta un arabesco (terzine puntate) dei due, che riconduce al DO sul quale finalmente entra anche il pianoforte. Esso sviluppa ulteriormente il tema, con veloci quartine di semicrome, contrappuntate dagli altri due solisti, fino all’esplosione, sempre in DO maggiore, di un nuovo motivo (4), enfaticamente colmo di prosopopea:

Il violoncello però, riprendendolo e ampliandolo (5), mostra come quel tema in fondo non sia poi così becero:

Motivo che subito è sviluppato con veloci quartine di semicroma insieme al violino, cui poi si aggiunge il pianoforte con veloci scale ascendenti in ottava, che intercalano un inciso (6) degli altri due solisti, ripreso poi dall’orchestra:

È il pianoforte a svilupparlo dapprima, poi imitato dal violoncello e quindi dal violino, con terzine in staccato che fanno lentamente virare l’atmosfera verso il LA, sulla cui dominante MI si afferma una perentoria cadenza dell’orchestra (7), due discese di ottava, da tonica a tonica, passando per dominante e mediante:

Il Pianoforte con arpeggi di semicrome ci porta ora verso la riproposizione del motivo (2) nella tonalità abbastanza lontana di LA maggiore (è sempre il violoncello ad aprire le danze…); gli risponde il violino ribadendo il tema, ma nella sottodominante RE. Presto si torna a LA con lo stesso motivo riproposto dall’orchestra, mentre i solisti si lasciano poi andare ancora a svolazzi di semicrome, spostando l’atmosfera verso il LA minore, dov’è ancora il violoncello a introdurre un nuovo motivo (8) dal ritmo trocaico:

che poi si sviluppa con terzine in staccato dei due archi solisti, per accelerare con semicrome all’arrivo del pianoforte, che fa ristagnare l’atmosfera sul LA minore, finchè il violoncello, poi il pianoforte e quindi il violino presentano un nuovo motivo (9) che insiste sulla sopratonica SI e, ancora in ritmo trocaico, se ne discosta scendendo di un semitono:

Violino, poi pianoforte e quindi violoncello si imbarcano in svolazzi di semicrome che portano ad un crescendo vorticoso, chiuso da un trillo dei tre solisti sull’accordo di sensibile, che sfocia platealmente sul LA fortissimo di tutta l’orchestra. La quale, muovendo da quel LA come mediante di FA, reitera il retorico motivo (4) in questa nuova tonalità.

A differenza della prima comparsa, qui il tema non è ripreso né sviluppato, ma l’orchestra passa direttamente ad esporre gli stessi incisi trocaici uditi dopo il motivo (3) a chiusura dell’esposizione orchestrale, ma qui ancora in LA minore (DO-LA). Qui si potrebbe parlare di fine dell’esposizione canonica.

Lo sviluppo è aperto dal violoncello, che su quel LA passa a maggiore dove, dopo una breve transizione, riespone il motivo (1). Il violino lo imita nella dominante MI maggiore, poi ancora sul LA arriva il pianoforte che però vira a RE minore, e da qui, con arpeggi in cui tornano intervalli di tritono (DO#-SOL), tramite sesta napoletana, a SIb, dove i tre solisti si rincorrono con terzine in staccato, mentre oboe e fagotto contrappuntano con uno spezzone del motivo (1). Altre modulazioni portano finalmente a DO minore, dove è ancora il violoncello protagonista dell’esposizione di un nuovo motivo (10) sottolineato cantabile in partitura; è l’unico motivo che non riudiremo più nel seguito:

Manco a dirlo segue il violino, e poi il pianoforte, che in realtà non ripete questo tema, ma si limita ad accompagnarlo. Scale ascendenti negli archi solisti, contrappuntate da un ritmo sincopato ci portano con un grande crescendo alla conclusione dello sviluppo, con un poderoso accordo di DO maggiore dell’orchestra, che dà inizio alla ripresa.

A piena orchestra e in fortissimo viene esposto il motivo (1) che in origine avevamo ascoltato dai soli bassi e in pianissimo. Quindi l’introduzione, con le esplosioni in fortissimo sui FA (come all’inizio) intercalate qui però dai solisti; ma poi, che succede? Niente temi principali, ma improvvisamente compare il motivo (5), nel violoncello naturalmente, in FA maggiore! Che è seguito, come nell’esposizione, ma sempre in FA, dall’inciso (6) che porta a sua volta alla perorazione (7), le due discese di ottava, ma qui sul SOL.

Da qui, come nell’esposizione, ma in DO (le sacre regole!) ecco il motivo (2) esposto, indovinate da chi? dal violoncello, natürlisch! Il violino risponde, ma adesso in FA, che vira quindi al DO, dove l’orchestra ribadisce il motivo (2). I solisti lo sviluppano fino a modulare su DO minore, dove – sempre nel violoncello – riudiamo il motivo (8) che nell’esposizione era in LA minore. Come nell’esposizione, pianoforte e violoncello ci riportano al motivo (9) nel violoncello, qui incardinato sulla sopratonica (RE) di DO (là era sul SI…)

Quindi i tre solisti con vorticose ascese raggiungono il DO, dove tutta l’orchestra ripete la poderosa perorazione (4) che, partendo dal DO come mediante, cade sul LAb maggiore. Ancora gli incisi trocaici MIb-DO con caduta sul SI, che torna sensibile di DO, dove – sempre il solito violoncello – espone ora il motivo (3), il quale prende però una strada tutta diversa rispetto all’esposizione; strada che conduce, passando anche da modulazioni a FA, alla chiusura della ripresa e al passaggio diretto alla coda

La quale consta di 18 battute (Più Allegro) dove, aizzati dall’orchestra, i tre solisti si scatenano prima in scalette ascendenti, poi in trilli e quindi in scale discendenti, fino ai due secchi accordi conclusivi.

Beh, il risultato puramente estetico potrà magari far storcere il naso a qualcuno, ma mi pare che come strutturazione questo movimento non sia poi tanto banale, anzi si potrebbe concludere che configuri una complessità che si fatica a riscontrare anche in opere più mature di Beethoven.

Il Largo centrale, in LAb maggiore (3/8) è invece di una semplicità assoluta: una brevissima introduzione degli archi, poi il tema presentato – c’è da dubitarne? – dal violoncello. Tema languido, carezzevole, di 17 battute, scomponibile in tre frasi di 5-6-6 battute:

Si ripete l’introduzione (con i fiati) e poi sono i due archi solisti a riesporre il tema, per terze, con il pianoforte ad arpeggiare languidamente. Ora inizia un ponte che modula lentamente un semitono sotto, a SOL maggiore (una cosa analoga farà Beethoven, più bruscamente, nell’Adagio non troppo dell’Imperatore, scendendo dal SI al SIb in vista del MIb del Rondo), per preparare l’attacco del conclusivo Rondo alla Polacca.

Il quale ha – come il primo movimento – una struttura assai articolata, così sommariamente interpretabile: A-B-A-C-A-B-A’-A”. Il tempo è sempre 3/4, salvo che per A’ (2/4).
    
Immancabilmente è il violoncello, che ha concluso in solitaria (salvo un pizzicato degli archi) l’Adagio con una serie di biscrome e semibiscrome sempre più affrettate, ad introdurre il Rondo, la cui sezione ricorrente A è inizialmente presentata con una struttura interna in cui si distinguono tre motivi: A1, A2 e A3. Il violoncello espone A1:

Lo chiude modulando a MI maggiore, dove lo riespone il violino, che a sua volta lo chiude virando a minore e rimodulando quindi a DO. Ora abbiamo il motivo A2, nell’orchestra:

che viene sviluppato poi dai tre solisti e in particolare dai due archi, fino ad una cadenza dell’orchestra sull’accordo di settima. Torna il motivo A1, nei tre solisti e subito dopo – accorciato - ad orchestra piena. Da qui si diparte, negli strumentini, un ponte in semicrome che porta, dopo marziali accordi che anticipano il ritmo di polacca, ad un nuovo motivo (A3)  esposto primi violini e poi ripreso dai legni:

La sezione A si chiude con decisi accordi di DO in staccato dell’orchestra. E subito compare la sezione B, con il violoncello e in contrappunto il violino che espongono il motivo B1:

Poco dopo è il pianoforte a riprendere il motivo, modulando verso SOL, dove il solito violoncello presenta il motivo B2, contrappuntato dal violino, mentre il pianoforte arpeggia in sestine:

Dopo che i solisti si sono sbizzarriti in svolazzi con sestine di semicrome è l’orchestra a riprendere il motivo B2, con i solisti ad interloquire e poi a riprendere in mano il pallino, con le loro sestine che conducono alla chiusa in DO della sezione B.

Si ripete ora la sezione A, praticamente identica alla sua prima apparizione, ma solo fino al motivo A1 nell’orchestra, al termine del quale un nuovo ponte, invece di portare ad A3, conduce direttamente alla sezione C, preparandone con incisi dattilici il caratteristico ritmo di polacca. La tonalità è mutata nel frattempo nella relativa LA minore. Qui, per l’unica volta nel Concerto, tocca al violino solista aprire le… danze, con l’esposizione del motivo C1:

Il motivo viene poi reiterato più volte dai solisti, che se lo rimpallano con continue variazioni e modulazioni di tonalità. Finalmente compare un nuovo motivo più cantabile ed espressivo (C2) che è sempre il violoncello ad esporre per primo, subito imitato dal violino:

Il pianoforte si limita ad un accompagnamento in semicrome, come a mantenere il ritmo, aiutato qua e là dai fiati. Poi avvia un breve crescendo in cui trascina gli altri solisti e l’orchestra, dopo il quale è ancora compito suo esporre una cadenza in terzine, quindi rallentando, fino a chiudere la sezione C sul SOL, da cui riprende una nuova ricorrenza della sezione A, col violoncello, costituita peraltro dal solo motivo A1, cui però non segue come al solito il violino, ma direttamente il tutti orchestrale.

Ultima comparsa della sezione B, sempre in DO, con B1 in violoncello, poi violino e pianoforte e quindi B2 nel violoncello, cui si aggiungono gli altri due solisti che si imbarcano ancora in veloci sestine di semicrome. L’intera orchestra ripropone B2, finchè sono i solisti a portarlo a compimento.

Ora un’autentica sorpresa, con la ricomparsa, dapprima nel pianoforte, del motivo di polacca C2, ripreso subito da violino e violoncello che vanno poi a chiudere la sezione sul LA.

Altro scombussolamento, con il tempo che passa ad Allegro in 2/4. È il violino ad esporre un il motivo A1 variato e velocizzato. Poi lo seguono gli altri due solisti, che sembrano ingaggiare una gara di velocità, finchè l’orchestra non interviene riproponendo ancora A1 sempre nel tempo marziale di 2/4.

Un ultimo ponte, con i solisti impegnati in terzine, porta – col ritorno a 3/4 e al Tempo I - alla conclusiva comparsa del tema A1, o meglio di suoi spezzoni, nei solisti. Quindi si riaffaccia nel violino anche il motivo A3, reiterato dal pianoforte e poi dall’orchestra che innesca la coda dove ancora i solisti si sfogano con veloci sestine, prima dei tre pesanti accordi conclusivi.
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Prestazione discreta – non eccezionale, secondo me - dei solisti, che non sono andati esenti da qualche pecca, specie nell’iniziale Allegro, dove può darsi che un po' di emozione gli abbia giocato qualche scherzetto... E anche il Rondò, soprattutto la sezione polacca, non mi ha entusiasmato. Forse anche per colpa della direzione di Xian, che mi è parsa piuttosto anonima e priva di mordente: chissà, magari proprio per non accreditare le critiche di eccessiva appariscenza che vengono tradizionalmente mosse al Concerto.

Ma trattandosi dei beniamini del pubblico il successo non è mancato di certo, ricompensato anche da un bis… 

Poi Mahler e Das Lied von der Erde, già da Xian interpretato in Auditorium poco più di due anni faQui la cinesina (stante che con quest’opera si deve sentire… a casa propria, smile!ha offerto di nuovo un’interpretazione assolutamente convincente, cavando fuori tutti i tesori di questo capolavoro, fin dal magnifico attacco iniziale dei corni. Assecondata in ciò da un’orchestra quasi perfetta, nell’insieme e nelle diverse parti solistiche che questa partitura impegna assai, a partire dall’oboe di Luca Stocco, dal flauto di Massimiliano Crepaldi e dal fagotto di Andrea Magnani, per non tacere poi della sezione dei corni guidati da Giuseppe Amatulli. Di assoluto livello, in particolare, gli interludi dell’Abschied.

Peccato che il canto abbia invece lasciato parecchio a desiderare: in particolare il tenore John Daszak, voce magari potente, ma assai sguaiata e impiccata (la scusa che deve interpretare gente che brinda, che beve e che si ubriaca non giustifica schiamazzi da osteria, smile!) mentre il contralto Carina Vinke ha mostrato qualche buona qualità, soprattutto nell’ottava alta, laddove mi è parsa deficitaria in quella bassa (in particolare, il passaggio concitato del quarto Lied ne ha sofferto assai).

Anche qui comunque grandi applausi, da parte mia riservati soprattutto a direttora e orchestra.

Prossimamente si rifarà vivo il Direttore principale per proporre un programma moderno con intermezzo… caramelloso.

14 maggio, 2012

La leggendaria Staatskapelle alla Scala con Mozart


Il venerabile Colin Davis (85 primavere fra poco!) è stato ospite ieri alla Scala con la Staatskapelle Dresden, orchestra fra le più antiche e rinomate del pianeta, per proporre un programma tutto mozartiano.

Aperto dalla Pauken-Serenade (K 239) che a Milano è stata eseguita poche settimane fa con laVerdi all’Auditorium da Claus Peter Flor. Interessante – non proprio in senso positivo… - la disposizione degli strumentisti: il quartetto (violino I, violino II, viola, contrabbasso) non è isolato dall’orchestrina, ma è semplicemente costituito dalle quattro prime parti che stanno ai loro posti canonici (viola al proscenio). Invece una particolarità più sostanziale riguarda l’aggiunta di due contrabbassi all’orchestrina, non previsti da Mozart. In tutto quest’ultima era formata da 23 elementi: 12 violini (I e II) 4 viole, 4 violoncelli, due contrabbassi e i timpani. Esecuzione assai sobria, che non ha concesso alcuna deroga alla partitura scritta: quindi nessuna cadenza – come spesso e volentieri accade – nel Rondo finale. Insomma, Mozart allo stato… asettico.

Ecco poi il Quarto concerto per violino (K218) interpretato dal 37enne danese Nikolaj Znaider, con il suo Guarneri, costruito 15 anni prima che Mozart nascesse! Oltre ai 4 fiati (coppie di oboi e corni) pochissimi rinforzi agli archi, rispetto alla Serenata.

Esecuzione gradevole, come si addice ad opere di questo tipo, che certo non hanno la pretesa delle pari-grado di Beethoven, Brahms e simili. Comunque buon successo per Znaider e bis bachiano.

Chiude il concerto la celeberrima Sinfonia in Sol minore. Viene eseguita – ovviamente, mi verrebbe da dire – la versione con i clarinetti (contrariamente a ciò che si poteva dedurre dal programma di sala, dove questi mancavano). Gli archi sono precisamente 40.

Davis – comprensibilmente seduto su uno sgabello (mi ricordava l’ultimo Boehm sentito proprio in Scala, diciamo… 40 anni fa?) ne dà un’interpretazione che potrebbe apparire routinaria, ma in fondo ha il pregio della purezza di approccio e della mancanza di gratuite gigionerie.

Gran successo per il vegliardo che – dopo un bis e tre chiamate – prende sotto braccio il suo Konzertmeister e se ne va meritatamente a riposare.

11 maggio, 2012

Orchestraverdi – concerto n°32


Rientra alla base Zhang Xian per questo concerto che accosta Ciajkovski e Beethoven.

La prima opera in programma è la Seconda Sinfonia di Ciajkovski, già diretta qui da Caetani precisamente un anno fa.

Strepitosa prestazione – alle mie orecchie - di Xian e dell’Orchestra: chiaroscuri ben scolpiti, con i temi delicati e languidi che emergevano come fiori dalle enfatiche perorazioni nei movimenti esterni; in quelli interni, sonorità rarefatte, e poi tempi stringati e nessuna caduta nella facile retorica. Insomma, questo Ciajkovski ancora immaturo reso con grande efficacia e sensibilità.

Veniamo ora all’Eroica. La novità – in un certo senso – di questa esecuzione è che viene impiegata la partitura riveduta-e-corretta da Gustav Mahler (che sia un’appendice alle celebrazioni dei 100 anni dalla scomparsa?) E lodevolissima è la precisazione fornita al riguardo dalla locandina de laVerdi. Poiché è bene che l’ascoltatore – quello esperto, ma anche quello naif – venga sempre informato del contenuto della merce che gli viene propinata. Proprio come si fa – per legge! – con qualunque altro prodotto di consumo.
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Della liceità, o opportunità, o tollerabilità, o criminalità degli interventi sulla carta delle opere musicali (come di qualunque altra opera dell’umano ingegno) si discute da sempre accanitamente, senza che si trovi una risposta univoca e definitiva alla questione. Perciò l’unica cosa seria da farsi è – appunto – chiarire all’utente in modo trasparente e senza infingimenti o manfrine qual è la natura del prodotto proposto: originale o manipolato.  

Ciò che è intollerabile (a mio modesto modo di vedere) è spacciare per originale qualcosa che non lo è. E questo, indipendentemente dal valore soggettivo che il compratore può attribuire al prodotto che gli viene venduto. Mi spiego: una falsa Lacoste o un falso Rolex potrebbero anche essere giudicati dall’acquirente intrinsecamente migliori della Lacoste autentica, o del Rolex autentico; fatto sta che il fabbricante e il venditore di quei prodotti contraffatti rischiano – codice penale alla mano – il carcere. E persino l’acquirente rischia una salatissima multa.

Perché lo stesso metro non si dovrebbe impiegare per giudicare – ed eventualmente sanzionare – produzioni artistiche che sono palesi contraffazioni (quand’anche… in meglio) dell’originale? Ora, sulle partiture la cosa per fortuna accade ancora di rado (almeno a livelli macroscopici) ma si pensi invece alle cento e mille autentiche contraffazioni che vengono giornalmente perpetrate dalle regìe teatrali moderne e post-moderne… Come gridava Bracardi? In galera!

Altro discorso invece è lasciare all’interprete – addirittura pretendere da lui – di portare il valore aggiunto della sua propria sensibilità (interpretativa, appunto) all’opera che esegue. Purtroppo il confine fra libertà interpretativa (sacrosanta) e adulterazione dell’originale (intollerabile, a meno che non venga apertamente dichiarata, come fatto da laVerdi per questa esecuzione) è spesso assai nebuloso e difficilmente tracciabile a priori.

Veniamo a Mahler. Come giustamente rileva Enzo Beacco: Mahler vuol fare di più. Cambia la partitura. Non è una cosa da poco, non è la cosmesi che in fondo tutti i grandi direttori operano sui classici sinfonici (e operistici, ndr), per lasciare il proprio segno. A suo modo è una provocazione.

E in effetti sappiamo come Mahler, il più grande Direttore dei tempi moderni, fu accanito sostenitore – e attivo praticante – della teoria secondo cui era non solo ammissibile, ma doveroso intervenire sulle partiture dei suoi predecessori, per adeguarle alle ultime conquiste della civiltà, o per meglio renderle fruibili impiegando strumenti di cui i compositori non avevano potuto disporre. O ancora, nel caso specifico di Beethoven, per ovviare a vere e proprie manchevolezze nella strumentazione, da Mahler attribuite allo stato di quasi totale sordità dell’Autore. Seguendo del resto l’esempio del suo idolo Wagner (che per primo aveva messo mano pesantemente e in modo scientifico alle sinfonie beethoveniane, e alla Nona in particolare) Mahler riorchestrò addirittura tutte le sinfonie del suo amato Schumann (ma oggi per fortuna c’è chi critica aspramente quegli interventi, come quelli di Rimski su Musorgski) e intervenne profondamente su Beethoven. Una delle sue manìe era il clarinetto piccolo, quello in MIb, usato fino ad allora solo nelle bande: lui non solo lo impiegò (legittimamente, ci mancherebbe!) in parecchie sue opere, ma appunto lo introdusse nell’organico orchestrale della Sinfonia in MIb di Beethoven (Mahler soffre di una malattia da clarinetto in MIb, ironizzò qualcuno sulla stampa del tempo) insieme ad abnormi rinforzi di corni e timpani, giustificati con la necessità di controbilanciare le masse continuamente crescenti degli archi.

Al proposito mi sento di proporre una riflessione che non mi pare peregrina: una musica composta per un’orchestra di 40 elementi (le dimensioni medio-massime ai tempi di Beethoven: diciamo 26 archi e 13 fiati più i timpani – ma alla prima del 1804 pare che gli archi fossero poco più di una dozzina!) viene di sicuro snaturata se, a parità di fiati, gli archi diventano 45, come erano già ai tempi di Mahler. Però se, seguendo la logica di Mahler, per bilanciare i 45 archi portiamo i fiati a 25 (quindi portando l’intera orchestra a 70 elementi) siamo sicuri di ripristinare il suono dell’orchestra beethoveniana? In fondo è lo stesso problema che si presenta quando Mahler (guarda caso!) trascrive per orchestra da camera (30-40 elementi) un Quartetto (4 elementi): qualcuno osa sostenere che – essendo rispettate le proporzioni fra violini, viole e violoncelli (con aggiunta magari di contrabbassi) - abbiamo lo stesso risultato sonoro del quartetto? Ecco, Mahler sosteneva di sì… o comunque riteneva inevitabile quella soluzione per poter eseguire un quartetto in una sala da concerto. Chi oggi gli dà ancora ragione?

Insomma, credo che non avessero tutti i torti i molti critici di fine ‘800 che accusavano sarcasticamente Mahler di narcisismo, nel pretendere di migliorare Beethoven, che non avrebbe avuto secondo lui la possibilità di realizzare tutte le sue intenzioni. (E in effetti, parlando di strumenti inesistenti o inconsueti ai tempi di Beethoven: perché allora non impiegare oggi anche i sassofoni, le tubette wagneriane e – magari nella Pastorale - pure chitarra e mandolino?)

Così scriveva nel 1893 – fra il sarcastico e l’indignato - dell’interpretazione mahleriana della Quinta beethoveniana tale Josef Sittard, critico di Amburgo (dove Mahler dirigeva ai tempi): Senza dubbio è essenziale oggi sottoporre le partiture di Beethoven a una revisione, conformemente ai moderni principi esecutivi. Ma si tratta di un problema assai grave. O Beethoven sapeva esattamente ciò che faceva, mentre componeva, oppure lui stesso non ha compreso nulla delle sue proprie idee. E sull’uso esagerato dei timpani nel finale, sempre della Quinta, aggiungeva: Mahler evidentemente considera quest’opera di Beethoven come musica di Giannizzeri. (!!!)

Mahler eseguì la sua Eroica anche nel 1898, per il suo insediamento a capo dei Wiener: ancor prima del concerto già si prendevano a pretesto i suoi interventi sulla partitura per fare commenti offensivi riguardo alla sua origine semita. Così accadde che uno dei pochi critici favorevoli all’esecuzione fu stranamente tale Eduard Hanslick, ben noto per il suo conservatorismo. Ma forse il critico immigrato da Praga, mezzo-ebreo pure lui, difendeva Mahler l’artista per difendere in realtà Mahler l’ebreo…    

Ecco invece come un critico presente ad un’esecuzione di Mahler dell’Eroica al Trocadero di Parigi nel giugno del 1900 ci descrive le sue impressioni: Certo, nella sala c’era il mondo intero, ma Beethoven era assente!

L’ironia sta poi nel fatto che invece, per le sue proprie opere, Mahler fu di una puntigliosità davvero degna di miglior causa, quanto ad indicazioni agogiche e dinamiche, infarcendo di descrizioni dettagliate (spesso pure strampalate e intraducibili in gesti concreti per i musicisti - vedi il bizzarro Altväterisch della Sesta…) e di segni di portamento ogni singola nota delle sue partiture, e pretendendo il massimo rispetto per quelle indicazioni! Ma datosi che chi di spada ferisce, di spada perisce, destino volle che anche lui fosse abbondantemente vittima di contrappasso, almeno a giudicare dai barbari tagli di cui le sue sinfonie furono fatte oggetto nel secolo scorso.

Questo è l’esempio più clamoroso dei mostruosi ritocchi apportati da Mahler al primo movimento dell’Eroica, nel punto di più alta drammaticità (ho riprodotto l’immagine da questo interessante studio); vi si vede anche (terzo rigo dall’alto) l’introduzione della parte di clarinetto piccolo, oltre a quelle dei tre corni addizionali, all’aggiunta di rintocchi di timpano e allo stravolgimento delle indicazioni esecutive; qui nessuno dovrebbe avanzare dubbi sul fasullo substrato romantico (per non dire tardo-romantico) di questo intervento:
Purtroppo la notorietà di Mahler ne fece un caposcuola anche per l’interpretazione beethoveniana, e così tutto il ‘900 è stato un fiorire del Beethoven (falsamente) romantico, suonato proprio à la Mahler e à la Wagner, fino ai giorni nostri (Christian Thielemann, gran wagneriano, è solo l’ultimo alfiere di questa pseudo-scuola).

Oggi per fortuna possiamo però ascoltare le sinfonie beethoveniane nella loro forma più autentica, grazie ai seri studi portati avanti negli ultimi decenni; primo fra tutti quello di Jonathan Del Mar, che ha prodotto un’edizione critica unanimemente giudicata di grandissimo pregio, e che viene adottata da un sempre maggior numero di direttori.

C’è poi chi sembra tenere i piedi in due scarpe, adottando un approccio intermedio (fra Mahler e Del Mar): si tratta di Aldo Ceccato, che ha di recente pubblicato un libricino – introdotto da Quirino Principe - contenente tutte le sue annotazioni (e interventi) sulle partiture beethoveniane: in sostanza Ceccato introduce sue proprie varianti in quei punti della partitura dove risulta (o risulterebbe, secondo lui) evidente la costrizione subita da Beethoven a causa dei limiti degli strumenti del suo tempo (l’estensione dei flauti, ad esempio) con conseguenti salti mortali (esteticamente bizzarri, ma obbligati) che Beethoven avrebbe dovuto compiere per aggirare quei limiti; salti mortali evitabili oggi, stando a Ceccato, impiegando gli strumenti moderni. Ma il nostro adotta anche parecchie modifiche a suo tempo proposte da Mahler (da lui richiamato, con Wagner, nell’introduzione al suo scritto): ad esempio nell’estensione delle parti dei timpani. Peraltro non sembra seguire Mahler fino alle estreme conseguenze: niente clarinetto piccolo (smile!)
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Già il colpo d’occhio dell’orchestra è spaventevole: si direbbe che debba essere suonata la Totenfeier, mica l’Eroica! Dopodiché ciò che si deve ascoltare fa accapponare la pelle: a volte par di sentire la batteria dei corni dei cacciatori della Alpensinfonie; la marcia funebre assomiglia maledettamente a quella di Sigfrido; il clarinetto piccolo squittisce come nella Fantastica; i corni a volte creano un magma sonoro volgare, che distrugge i mirabili temi beethoveniani; gli strumentini suonano quasi sempre con la campana in alto, creando sonorità impertinenti e fastidiose; altre volte le trombe (che sembrano proprio quelle di Gerico, come sarcasticamente affermavano i detrattori antisemiti di Mahler) portano in primo piano linee che dovrebbero starsene in sottofondo. Insomma, un supplizio per le orecchie!

E devo dire che l’esecuzione di Xian e dell’Orchestra non mi è parsa nemmeno di alto livello tecnico, forse proprio a causa dell’inconsueta circostanza. Certo, alla fine gli applausi non sono mancati, anche quelli ritmati dal calpestio dei professori.

I miei (scarsi) clap sono andati agli interpreti e – ça va sans dire – all’Autore. Per l’arrangiatore – e lo confessa uno che si sente mahleriano fino al midollo – lascio la parola a… Bracardi (smile!)

(per pietà, non fatelo più)


Ancora Mahler (l’ultimo) e guarda caso ancora con Beethoven (però non arrangiato, strasmile!) e ancora Xian sul podio per il prossimo appuntamento.