sarà vero?

una luce in fondo ai tunnel

20 gennaio, 2012

Orchestraverdi – concerto n 16


Torna Aldo Ceccato e torna il suo amato Dvorak.

Il primo dei tre brani in programma è lo Scherzo capriccioso, un pezzo di grande effetto, dove l'attenzione dell'ascoltatore viene subito catturata da due corni (disposti da Ceccato a destra, sotto gli altri ottoni) che espongono, a mo' di introduzione in SIb, il primo tema, che verrà poi presentato dagli archi nella tonalità di impianto, REb. La sincope che precede l'inconsueta chiusa del tema, sulla sottodominante, gli conferisce un che di altezzoso, quasi di sfrontato, o donchisciottesco:
Nell'esposizione negli archi, il tema è seguito da un motivo negli strumentini, che si appoggia alla dominante LAb (lo risentiremo ampiamente nello sviluppo, dopo il Trio).

Preceduto da un'atmosfera bruckneriana, entra poi Il secondo tema, che contrasta apertamente con il primo – secondo i canoni della forma-sonata – avendo natura più femminile e contemplativa, ed è scopertamente caratteristico di danza slava (Dvorak ne musicò espressamente 16) e la sua seconda parte anticipa chiaramente il Mahler del Wunderhorn. Sono i violini ad esporlo, inizialmente in SOL maggiore:
I due temi si ripetono, con divagazioni in diverse tonalità, fino all'ingresso del Trio (caratteristico degli Scherzi delle sinfonie) il cui primo tema, in RE maggiore, è esposto dal corno inglese:
Il secondo tema del Trio, più mosso, richiama vagamente il secondo tema principale. L'intero Trio andrebbe ripetuto (cosa che raramente avviene, e Ceccato non fa eccezione) prima del ritorno del tema principale, che subisce una specie di sviluppo tipo forma-sonata, contrappuntato dal motivo secondario, svolazzante negli strumentini. Torna il secondo tema e lo sviluppo termina con un rallentando (Poco meno mosso) che presenta i due temi (il primo nei corni, il secondo negli strumentini) in tempo moderato, che porta ad una cadenza dell'arpa, su un MI tenuto dei corni. Un crescendo, sfociante poi in Presto, conduce alla trionfante conclusione, sulle note del tema principale.

Arriva adesso Benedetto Lupo per interpretare il Concerto per pianoforte. Nonostante recenti e meno recenti sponsorizzazioni (si pensi a Richter) oltre che a rimaneggiamenti vari (primo fra i quali quello di Vilèm Kurz, che apportò una serie di modifiche alla parte solistica, più che altro rimpolpandone le sonorità con raddoppi all'ottava o accordi di tre invece che due note) questa è francamente un'opera esteticamente deficitaria… e forse Dvorak per primo se ne rendeva conto. (Anche Ceccato pare non averne eccessiva familiarità, visto che per l'occasione si fa portare il leggìo con la partitura ed inforca gli occhiali…) I temi non sarebbero neanche male, come già quello introduttivo:

Ma è il loro sviluppo, insomma: la narrativa che Dvorak ne ricava, a lasciare parecchio a desiderare. Si ha l'impressione di una composizione sforzata, dove l'ispirazione scarseggia, ed è sostituita da costrutti piuttosto stucchevoli e di scarso appeal. Doverosi comunque gli applausi al solista, che ha fatto del suo meglio per indorarci la pillola!

Dopo la pausa ecco l'Ottava sinfonia, pagina certamente accattivante, che molti considerano addirittura superiore alla famosissima Dal nuovo mondo. Ceccato la dirige ovviamente a memoria, sfoggiando quel tanto di gigionerìa che gli si può perdonare… data l'età (smile!) L'orchestra risponde bene e il risultato che ne esce è di ottima qualità. Da incorniciare l'Adagio, con la bellissima melodia esposta da flauto e oboi, ma anche l'Allegretto grazioso è stato di alta qualità. Senza voler essere troppo partigiano, mi pare che si stata un'esecuzione da preferire a quella offertaci dalla Filarmonica scaligera con Noseda l'anno scorso. Il pubblico, anche questa volta non foltissimo, ha mostrato di gradire con diverse chiamate per Ceccato e applausi per tutti.

Da tutto-Dvorak a tutto-Mozart la prossima settimana.
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18 gennaio, 2012

La vecchia ricetta Hoffmann-Offenbach alla Scala


Ieri sera seconda rappresentazione dei Contes alla Scala, con il secondo (?) cast, dopo la prima diffusa per radio domenica e accolta dal pubblico in sala con un certo entusiasmo (per me francamente eccessivo, per ciò che concerne la parte vocale).

Opera, sappiamo, rimasta abbondantemente incompiuta, causa la scomparsa dell'autore proprio alla vigilia della prima. E che quindi è andata incontro alle stesse traversie – più o meno, ma forse più più che meno – di altre orfanelle musicali come lei (Carmen in primis): completamenti, rimaneggiamenti, tagli, inquinamenti, adulterazioni, perpetrati da personaggi diversi, chi in buona fede, chi pronto ad approfittare dell'occasione per farsi bello a buon mercato. Dell'opera esistono così diverse versioni (anzi, si dovrebbe dire: diversi assemblaggi) nessuna delle quali si può dire autentica, date le circostanze: qui una assai esauriente disamina dello stato dell'arte, da cui si evince che al problema (di approntare appunto un'edizione autentica) non c'è una soluzione, quanto meno univoca, e menchemeno facile.

La Scala ha ripresentato in questa stagione una produzione parigina vecchia di 12 anni, e ad essa si è dovuta (o voluta?) attenere, per ragioni vagamente plausibili: ha quindi preso come riferimento – analogamente a quanto fatto per le produzioni del 1994-1995 e 2003-2004, con qualche ulteriore ritocco - la ultra-centenaria edizione Choudens (approntata in origine dal recidivo Ernest Guiraud, già primo tutore-stupratore della Carmen) mantecata con alcune importanti aggiunte da quella (meno antica, ma pur sempre vecchiotta) di Bärenreiter (curata da un altro sedicente editore critico dell'ultima opera di Bizet, Fritz Oeser). Si tratta quindi di una versione che si può definire – nel bene e nel male - tradizionale, che non tiene conto dei più recenti studi che hanno fornito nuovo importante materiale di base - in sostituzione o a fianco di quello (spurio) tradizionale - a chi deve di volta in volta decidere quali Contes presentare al pubblico (il flow-chart in appendice alla prefazione dell'edizione Schott - Kaye-Keck - dà solo una vaga idea di quante possibili combinazioni si possano ottenere a partire dal materiale proposto!) Ecco, la Scala ha forse perso una buona occasione per presentare al suo pubblico una veste più aggiornata e più fedele (anzi, meglio sarebbe dire: meno-infedele) di quest'opera, nata sotto cattiva stella.

Va però sempre tenuto presente che, per quanto lodevoli e degni di rispetto e di incentivo siano gli sforzi degli studiosi, purtroppo mai potranno regalarci ciò che l'Autore per primo non ha avuto la possibilità (o la volontà?) di regalarci. Per dire, pretendere di incorporare in uno stesso allestimento tutte insieme le diverse reliquie rinvenute nel corso degli anni sarebbe impresa, oltre che dura, destinata a sua volta a sollevare inevitabilmente obiezioni e critiche di ogni genere, chè nessuno potrà mai dimostrare trattarsi di materiale infallibilmente destinato dal compositore ad essere integrato nell'opera. Tanto per fare un esempio (estremizzato, ma giusto per chiarire il concetto): quanti schizzi e appunti ha lasciato Beethoven delle sue composizioni? Una montagna; ma son poi finiti tutti nelle partiture rilasciate dal genio di Bonn per la pubblicazione? Certo che no, e a nessuno oggi verrebbe in mente di riesumarli per infilarli in sinfonie e quartetti (al massimo ci si fa riferimento per chiarire qualche zona d'ombra riscontrata sulle partiture pubblicate). Analogamente, non è affatto detto che tutto il materiale (pure di mano di Offenbach) rinvenuto qua e là negli anni sarebbe stato comunque incluso dal compositore in una eventuale sua versione definitiva (o in più di una, perché no…) dell'opera, avesse avuto dal buon dio il tempo (ma anche la voglia) per approntarla. Un po' come accadde al finale della Turandot, di cui abbiamo parecchi schizzi autografi, ma che nessuno può immaginare se e come sarebbe stato completato da Puccini, fosse vissuto qualche settimana (o mese, o anno) in più.

Insomma, purtroppo bisogna pur prendere atto che un'edizione authoritative dei Contes è materialmente impossibile da mettere in piedi - a meno di pretendere di entrare nella testa di un… morto - e quindi tanto vale mettersi l'animo in pace e accontentarsi di ciò che passa, di volta in volta, il convento, dicasi: la coppia concertatore-regista (più la direzione artistica/musicale del teatro) che in definitiva è responsabile della scelta degli ingredienti di base con cui cucinare e servire in tavola il minestrone. Dopodichè giudicheremo se quel minestrone ci è piaciuto o ci è rimasto sullo stomaco, se è il migliore da noi mai assaporato, o se pure quello cucinato da altri cuochi ci aveva convinto di più. Ripeto e chiudo: il torto (se vogliamo proprio chiamarlo così) della Scala è di averci propinato negli ultimi tre lustri il minestrone fatto con la stessa vecchia (pur se collaudata) ricetta, invece di provare a deliziarci con ricette più aggiornate e comunque già ampiamente collaudate (per la cronaca, sono quasi 1000 le rappresentazioni già date, dal lontano 7 ottobre 1988 – LosAngeles - della versione Schott).

Robert Carsen ne ha cavato uno spettacolo più che godibile, sfruttando da par suo i risvolti surreali del soggetto, che si presta per sua natura ad interpretazioni fantastiche (o fantasiose) e che è di fatto inossidabile a qualunque adulterazione (specialità in cui Carsen è maestro). L'ambientazione, perennemente calata nel Don Giovanni che Stella sta interpretando, è un'idea non solo intelligente (come sono tutte le idee del regista canadese) ma anche appropriata (cosa che invece non sempre accade) al soggetto da rappresentare e al suo protagonista, le cui oniriche avventure a pessimo fine ricordano in effetti le vicende del personaggio mozartiano (però non come ce le ha raccontate Carsen stesso di questi tempi, tanto per ribadire il concetto sull'appropriatezza delle sue idee!)

Data la successione temporale dei due allestimenti di Carsen, verrebbe da pensare che quello del recente Don abbia mutuato parecchio da questo, vecchio di una dozzina d'anni; persino certe componenti della scenografia si richiamano in modo sorprendente: sipari e quinte, il palco-nel-palco, il tavolone del bar che occupa tutto il fronte della scena, proprio come la tavola della cena di Don Giovanni, la passeggiata in platea di Giulietta e Pitichinaccio, che anticipa quelle dei protagonisti del capolavoro di Mozart… Va detto però che la tecnica del teatro-nel-teatro (usata abbastanza a sproposito nel recente Don) è qui invece impiegata in modo assai efficace per ambientare la vicenda di Hoffmann (con tutte le sue implicazioni di carattere psico-esistenziale) e le ambigue relazioni fra l'artista e il mondo del teatro, con tutte le dicotomie fra sogno (o chimera, o spettacolo, o subconscio) e realtà (o realismo, o vita quotidiana, o razionalità) che sono alla base del soggetto hoffmann-offenbachiano.

Fin dall'apertura del teatro (ore 19, mezz'ora prima dell'inizio dello spettacolo) una controfigura di Hoffmann è presente sul proscenio, sdraiato per terra, su un fianco, spalle rivolte al pubblico, intento a scartabellare appunti e schizzi musicali, tracannando a garganella diverse bottiglie di vino sparse qua e là… All'apertura del sipario, mentre udiamo il coro degli spiriti, vediamo una scena del Don Giovanni, con Donna Anna (Stella) in bella evidenza (più la statua del Commendatore e diverse comparse) e capiamo che Hoffmann era lì per lei (Stella, appunto). La scena si muove e ci spostiamo di lato, dietro le quinte, dove arriva la Musa a prendersi cura – travestendosi poi da Nicklausse – del povero Hoffmann. E dove arriva anche il bieco Lindorf, che induce Andrès a cedergli la missiva indirizzata da Stella a Hoffmann. La scena adesso si trasforma in un bar (la taverna di Luther, con l'emersione del lungo bancone) dove si affollano comparse e masse del teatro, in un intervallo della recita del Don Giovanni. Qui si svolge tutto il resto del Prologo, con piacevolissime gag sulla filastrocca di Kleinzach, l'incontro-scontro fra il protagonista e Lindorf e la rivelazione di Hoffmann sulle tre donne che si incarnano in Stella e la conseguente decisione di raccontarne le tre avventure.

Per l'atto di Olympia, che segue senza intervallo, compaiono delle quinte viste da dietro (cioè dall'ipotetico fondo-scena) mentre sul fondo campeggia il retro (vuoto) della statua del Commendatore e sul proscenio vero compaiono suppellettili del laboratorio di Spalanzani (che entra in camice bianco imbrattato di sangue) con tanto di barella su cui è adagiata Olympia-frankenstein. La bambolona qui rappresenta il simbolo efficace di tutte le bambole che ammiccano oggi da schermi e web-pages, in mondi artefatti, tipo reality o grandi fratelli, animate da qualcuno che le muove con un telecomando (o da noi stessi tramite un mouse…) Facciamo conoscenza col cattivone di turno, Coppélius, che per la verità sembra più un onesto (smile!) venditore di cianfrusaglie che un criminale, e che solo dopo essere stato vittima di un imbroglio maturerà un filino di rancore verso Spalanzani. La scena dell'esibizione di Olympia è mirabilmente occupata da una sfilata di decine di Zerline e Masetti prelevati di peso dal Don Giovanni, che assistono ai gorgheggi della bambolona, cui Spalanzani ricarica le pile, anziché toccandole la spalla, sdraiandosi per terra, a mò di meccanico, sotto le sue gonne e ravanando… chissa dove?

Dopo l'intermezzo in cui Hoffmann e Olympia restano soli, ecco la gustosissima fase finale dell'atto, con Olympia che si trasforma in robot impazzito, in bambola sfruttata che si ribella ai telecomandi, ai suoi sfruttatori e ai suoi pretendenti, e alla fine si denuda completamente, mostrando con orgoglio le sue tette e il suo culo di bachelite (o silicone…) Quando si dice: la verità è nuda! Ecco, qui abbiamo la falsità nuda, proprio come in molti nostri mondi, reali o virtuali. Semplicemente strepitoso!

Dopo l'intervallo, l'atto di Antonia. Qui, invece che in casa di un fabbricante di violini, siamo nella buca dell'orchestra, dove i violini normalmente suonano. È evidentemente un intervallo dell'opera, la buca è vuota, ma la partitura mozartiana in bella mostra sul leggìo del direttore (che scopriremo essere lo sbifido Dr.Miracle) e un clavicembalo ci assicurano trattarsi del Don Giovanni. E proprio al clavicembalo – nello scrupoloso rispetto del libretto – siede Antonia ad intonare la sua straordinaria tourterelle. La scena si svolge prevalentemente giù, nella buca. Sopra si intravedono un paio di metri di sipario chiuso, davanti al quale compaiono due personaggi: Frantz (che vi canta il suo tra-la-la-la-là) ma soprattutto Miracle, che si presenta estraendo dalla borsa di medico una… bacchetta da direttore d'orchestra. Di grande effetto la scena dell'apparizione della madre di Antonia: Miracle è adesso giù in buca, con la ragazza, mentre sopra di loro il sipario si apre sulla scena del Don Giovanni (sempre con statua del Commendatore) in cui canta – nel costume di Donna Anna – la defunta madre di Antonia. È il richiamo di quella specie di droga (di cui Miracle è spacciatore) che è la musica. In questo scenario ascoltiamo il mirabile terzetto. Poi Antonia sale in scena, entrano gli orchestrali, Miracle dà l'attacco… e la ragazza muore, dopo aver indossato il velo lasciatole a terra – a mo' di testimone - dalla madre. Una cosa grande!

L'atto di Giulietta fu il più tormentato nella sua gestazione e, insieme al finale, è quello che più divide le versioni tradizionali dell'opera da quelle di più recente approntamento. Carsen ci mostra la platea di un teatro, evidentemente in un intervallo delle prove del Don Giovanni, dove comparse e masse – cullate dal canto di Giulietta e Nicklausse che si aggirano fra le poltrone ondeggianti come gondole - si rendono protagonisti di una specie di orgia, un'ammucchiata che materializza l'invito di Hoffmann Amis, l'amour tendre et rêveur, erreur! Qui il cattivone è Dapertutto e fa il regista, sempre con lo spartito del Don Giovanni in mano. Finita l'orgia, lui canta la sua Scintille, diamant per convincere Giulietta ad adescare Hoffmann, poi va in platea a seguire le prove dell'adescamento. Lo spettacolo riprende, in sala rientra il pubblico elegante, mentre il regista dirige il sestetto pretendendo dai cantanti un totale asservimento ai suoi desiderata: restano tutti impalati come marionette, con i cinque occhi-di-bue che sembrano inchiodarli al tavolato. Finito il sestetto e lo spettacolo, Hoffmann ammazza Schlemil per poi vedere Giulietta allontanarsi lungo il corridoio della platea con Pitichinaccio. Francamente questo è l'atto forse meno riuscito nella regìa di Carsen, soprattutto per l'associazione della figura di Dapertutto a quella di un regista, francamente un po' forzata e dal significato non immediatamente chiaro (ma, come dico, è anche il libretto ad essere poco efficace).

Per il finale torniamo… al bar del teatro dove ad Hoffmann – gelato da Lindorf che se ne va con la sua diva Stella – non resta che lo sfogo con Kleinzach, prima dell'apoteosi, un viaggio verso una luce abbagliante, sotto lo sguardo protettivo della sua Musa.

Bene, questo per quanto concerne lo spettacolo, almeno secondo me, più che convincente.
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Sul fronte musicale, notizie in chiaroscuro. Marko Letonja si era presentato alla radio, domenica sera, con alcune giustificazioni francamente imbarazzanti sulla scelta del menu musicale: poteva limitarsi ad ammettere che lui è un follower, invece di incolpare, tra virgolette, il povero Carsen, che non credo avrebbe avuto difficoltà ad armonizzare con il suo impianto l'atto di Giulietta e il finale della versione Schott! In buca è apparso altrettanto pavido, appiattendo – a mio modo di sentire - tutte le curve della musica di Offenbach (o chi per lui…) che invece ha caratteristiche di mirabile eterogeneità, un misto di operetta, melodramma e dramma-per-musica. Una prestazione abbastanza incolore.

Fra i protagonisti, benino l'Hoffmann di Arturo Chacon-Cruz (di certo meglio dell'impiccato quanto stonato Vargas ascoltato per radio) il cui limite principale è la potenza di suono. Idem per Daniela Sindram, che mi è parsa meglio in forma della piuttosto spenta Gubanova (*** e non Gruberova come avevo erroneamente scritto e come mi ha giustamente fatto osservare Amfortas nel suo commento ***) . Vassiliki Karavanni ha sostituito all'ultimo momento, dato che mancava nell'agenda originaria (e la sua foto manca dal programma di sala…) la Gilmore nel ruolo di Olympia: lei non arriva al SOL sovracuto, si ferma solo al FA (smile!) ma in compenso pare avere una voce umana e non cibernetico-metallica come quella della collega (sempre udita via etere). Ellie Dehn è stata una passabile Antonia, non facendo per nulla rimpiangere la Kühmeier di domenica. Si è confermata con pieno merito Veronica Simeoni nel ruolo abbastanza facile, diciamo, di Giulietta. Hermine May ha fatto il suo compitino come mamma di Antonia, richiamata temporaneamente in vita dallo sbifido Miracle.

Degli altri maschi, in gran spolvero Ildar Abdrazakov nei quattro ruoli dei cattivoni, in particolare in quello di Miracle. Gli altri: William Shimmel (oste e liutaio, che accoppiata!) Rodolphe Briand (Spalanzani), Cyrille Dubois (Nathanel) e Nicolas Testè (Hermann e Schlemil) sul livello di sufficienza. Ampiamente al di sopra del quale metterei invece Carlo Bosi, assai efficace nei suoi 4 ruoli comprimari, ma soprattutto in quello di Frantz, applaudito a scena aperta. Sul suo standard il coro di Casoni.

L'Orchestra non ha suonato male, peccato che sul podio ci fosse Letonja e non Harding (smile!)

Comunque discreto successo, ma senza eccessivi entusiasmi, per tutti. Spettacolo per me salvato, questa volta, dalla regìa.
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13 gennaio, 2012

Orchestraverdi – concerto n 15


Passate le feste e l'allegria (effettivamente, con gli spread che corrono…) la stagione riprende con un programma assai serioso, che vede alla ribalta come solisti anche quattro prime parti dell'Orchestra.

Luca Santaniello (violino), Mario Shirai Grigolato (cello), Luca Stocco (oboe) e Andrea Magnani (fagotto) si cimentano infatti con la Hoboken 105 di Josephus Haydn, intitolata semplicemente Concertante in SIb. Scritta a Londra nel 1792, reca in testa l'epigrafe In nomine Domini e in coda il sigillo Fine Laus Deo: insomma una cosa sentita proprio… religiosamente!

È in tre movimenti (manca il classico menuetto) ed ha una leggerezza di fondo, tutta cameristica, che la distingue dalle coeve e robuste sinfonie londinesi, il che conferma il suo carattere di concerto, più che di sinfonia. I 4 moschettieri de laVerdi hanno così l'occasione di mostrare tutto il loro valore e di raccogliere l'applauso dei colleghi, oltre che quello del (non proprio numerosissimo) pubblico.

Dopo l'intervallo, la sinfonia forse più colossale, per struttura oltre che per durata - dove è superata di poco solo dall'Ottava – di Anton Bruckner, la Quinta, qui presentata nell'edizione ormai consolidata di Leopold Nowak (basata sui manoscritti del 1878). A Bruckner avrebbero potuto portar via anche le mutande, ma la sua fede nella musica e in Dio (o in Dio e quindi nella musica) mai sarebbe venuta meno. Era emigrato da Linz a Vienna e, invece di far fortuna nella capitale dell'impero e della musica, vi aveva trovato – almeno inizialmente - un'accoglienza a dir poco sbifida, tra bistrattamenti e riduzioni di stipendio, e viveva in uno stato di totale prostrazione: pure, si mise come nulla fosse ad erigere questa autentica cattedrale di note, uno dei suoi più arditi monumenti al Creatore. Ma la cosa più stupefacente è che, completato questo po' po' di behemoth, lo mise in un cassetto dove restò per 15 anni ad ammuffire, e lì sarebbe rimasto forse per sempre, non fosse stato per l'insistenza di quel suo ammiratore-arrangiatore che rispondeva al nome di Franz Schalk!

Nell'iniziale Adagio-Allegro pare di entrare in una basilica barocca (magari proprio a Sankt Florian?) e di percorrerla in lungo, in largo e in… altezza. Poderose colonne sonore ci spingono la vista fin su, verso i soffitti affrescati; percorriamo navate nella penombra, ammirando gli archi che le sostengono e gli stucchi che le abbelliscono; contempliamo gli altari e ascoltiamo corali che emanano dall'organo (di Bruckner!); svoltiamo in una cella laterale e vi troviamo una pala raffigurante una grande scena biblica; più in là una cripta avvolta nel buio lascia intravedere preziose reliquie. Poi diamo un colpo d'occhio d'insieme a tutte queste magnificenze, le ripercorriamo con lo sguardo a ritroso, dall'alto al basso; e infine le contempliamo ancora una volta in tutta la loro maestosità. Poi gli analisti ci spiegheranno che il movimento è in forma-sonata, con tre temi principali, le transizioni, il canonico sviluppo e la ricapitolazione, e che temi e motivi sono sottoposti a trattamenti in stile fiammingo (così come un architetto ci potrebbe spiegare i criteri costruttivi della basilica) ma ciò che ci resta dentro è quella particolare sensazione di severa sacralità, di profonda religiosità che emana da quel luogo e che ci ha invaso l'anima e il corpo. In particolare, di un tema ci dovremo ricordare (lo farà più avanti anche Dvorak) poiché tornerà nel Finale e addirittura chiuderà la sinfonia:

Nella prima sezione dell'Adagio il comptomane Bruckner si cimenta con il classico problema della quadratura del cerchio: siamo in tempo C tagliato, ma ancor prima che l'oboe attacchi il tema principale (RE minore) in quattro quarti, tutti gli archi, in pizzicato, hanno esposto un accompagnamento in 2 terzine a battuta che prosegue per 18 battute, sostenendo il tema dell'oboe, cui si sono aggiunti fagotto e flauto; poi i violini attaccano un motivo pari, mentre viole, violoncelli e contrabbassi insistono con le terzine, che da battuta 23 diventano padrone del campo, fino alla conclusione dell'esposizione (battuta 30).

Siamo rimasti fino ad ora in questa strana ambiguità ritmica, come se stessimo marciando in un corteo accompagnato da tamburi che battono tre colpi ogni due passi nostri… Ma adesso c'è una pausa di 3 semiminime e poi improvvisamente - Assai robusto e marcato - i violini, sulla corda più grave, accompagnati dal resto degli archi, espongono un motivo (inizialmente in DO) carico di severità, nobiltà austera, ma che chiude la seconda sezione con un illanguidimento, quasi una reminiscenza del Wotan che dà l'addio a Brünnhilde:

Il tema si sviluppa poi in modo assai ampio, fino a misura 70, con un poderoso crescendo sostenuto dagli ottoni. Torna il tema principale, ora esposto da tutti gli strumentini e sempre con le terzine sottostanti degli archi, ma presto le carte si mescolano: ora celli e contrabbassi con fagotti e corni espongono il tema, mentre i primi violini passano alle sestine, velocizzando l'accompagnamento. A misura 81 una grande perorazione di tutti i fiati, accompagnata dagli archi con sestine tremolanti, rappresenta la vetta del movimento. Torna il secondo tema, a partire da un tono sopra (RE) rispetto alla prima comparsa; anch'esso si sviluppa ampiamente, in specie con interventi degli strumentini. A misura 163 riattacca il tema principale, sempre in RE minore, nei fiati: qui però il sottostante accompagnamento degli archi è in ritmo pari (anche i violini suonano 4 sestine a battuta). Da qui inizia una lunga coda che porta alla conclusione, dove il tema è ancora esposto da corno, oboe e flauto, in una sommessa cadenza.

Anche lo Scherzo ha dimensioni ragguardevoli ed una struttura piuttosto insolita: dopo la serrata esposizione del tema principale (3/4) parrebbe subentrare – assai anzitempo – un trio, vista la pausa con corona puntata ed il tempo che rallenta vistosamente. Invece è solo apparenza, e il Trio propriamente detto (in 2/4) arriverà assai più tardi, dopo che lo Scherzo avrà espresso tutta una serie di motivi, dal Ländler (di cui Mahler si ricorderà) al walzeraccio tracotante.

Per il Finale rientriamo in un'altra cattedrale, in cui subito scopriamo la stessa mano dell'architetto di quella esplorata nel primo movimento: come detto, ne udiamo uno dei temi, e poi anche il tema dell'Adagio, come accade per la IX di Beethoven (in musicologia tutto ciò si cataloga come: forma ciclica). Anche qui la macro-struttura è in forma-sonata, ma con dimensioni davvero ipertrofiche. Uno dei temi si traveste da pesantissimo corale e la fa da padrone, contrappuntando il tema ciclico, cui è riservata la chiusa, procedimento non nuovo per Bruckner, che poi lo riapplicherà ancora (già a partire dalla Sesta).

Flor mi è sembrato un ottimo cicerone, guidandoci proprio per mano alla scoperta di tutte le celestiali noiosaggini (per parafrasare Schumann su Schubert) del tuttora poco apprezzato (in Italia per lo meno) organista di Ansfelden. Merito ovviamente dell'Orchestra – disposta proprio alla tedesca, bassi al centro-sinistra e violini secondi al proscenio - dove i fiati soprattutto sono chiamati a prove davvero terrificanti.

Prossimo appuntamento tutto con Dvorak e con il suo mentore Aldo Ceccato.
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02 gennaio, 2012

Torino dentro la musica


Da qualche anno la Città di Torino ha lanciato una lodevole iniziativa, denominata Dentro la Musica, che si propone di introdurre profani e non nei segreti e nei misteri della musica strumentale, a partire dalla forma sinfonica, come si è venuta sviluppando dal '700 in avanti.

In pratica ogni anno è stata resa disponibile una nuova lezione, curata da professori universitari e con ausilio di strumenti multimediali (files musicali e spezzoni di partitura) che prende per mano l'ascoltatore-discepolo e lo accompagna alla scoperta delle intime strutture di grandi opere sinfoniche.

Particolarmente interessante la lezione su Haydn (La sorpresa), che ricostruisce origini ed evoluzione della forma sinfonica e ne individua chiaramente le principali caratteristiche strutturali, riscontrabili poi in tutta la produzione dell'800 (e oltre). Beethoven (Eroica e Nona) e Ciajkovsky (Patetica) sono gli altri autori esplorati fino ad oggi.

Uno strumento di approccio semplice e facile, che può aiutare chiunque a fare qualche decisivo passo dall'ascolto puramente passivo a quello… riflessivo!
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29 dicembre, 2011

Orchestraverdi – concerto n 14



È ormai consolidata consuetudine de laVerdi offrire al suo pubblico, per gli auguri di Capodanno, il sommo capolavoro sinfonico beethoveniano: la nona. L'orchestra e il coro sono reduci dall'Oman, dove hanno collaudato, con alcune Carmen, l'acustica della nuovissima Royal Opera House (il loro DG Corbani, almeno a giudicare dall'abbronzatura, deve essersi assiduamente dedicato al collaudo di tutte le piscine del sultanato, smile!) La bravissima Viviana Mologni invece deve aver importato dall'oriente un'acconciatura tipo Sheherazade, la qual cosa non le impedisce di percuotere al meglio le pelli dei suoi timpani!

Zhang Xian sul podio e Nicolai von Dellingshausen sulla seggiola del Konzertmeister hanno trascinato l'orchestra in una prestazione di gran qualità, completata da quella del coro di Erina Gambarini e da quelle dei quattro solisti (soprano Eva Oltivanyi, mezzo Maria José Montiel, tenore Arthur Espiritu e basso-baritono David Wilson Johnson). Confermando il suo approccio interpretativo, la Zhang ha tenuto tempi sempre stringati e ha fatto risaltare tutti i chiaroscuri della partitura, in particolare le linee del corno, cui Beethoven riserva un trattamento particolare. Il finale è stato una specie di sceneggiata, con Johnson uscito dalla quinta di sinistra e catapultatosi sul palco giusto in tempo per attaccare il suo appello:

seguito poi a ruota dagli altri tre solisti.

Trionfo per tutti, con finale a sorpresa: non tanto per il bis dell'ultima sezione della sinfonia, ormai tradizionale come il Danubio e la Radetzky, ma per il tocco tutto viennese degli auguri di Buon Anno gridati da maestro, orchestra e coro, come si usa (e rivedremo fare domenica) al Musikverein.

Si riprende il 12 gennaio con Haydn e Bruckner. Ma anche alla Befana l'Auditorium sarà aperto alla barocca per il gigantesco Oratorio di Natale.
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24 dicembre, 2011

Caro Gesù Bambino...


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Quando si dice: …e io c’ero!


Il Nuovo Teatro dell'Opera di Firenze (aka Auditorium Parco della Musica e della Cultura) è ancora in buona parte allo stato di cantiere (si nutrono seri dubbi che possa entrare compiutamente in attività nel 2012) ma quel (non poco) che c'è ha consentito di aprire, almeno pro-tempore, rispettando così in modo magari un pochino artificioso – ehi, ma siamo o no in Italia? - la promessa di inaugurare entro il 2011, e rientrando in-extremis nei vincoli di calendario dei 150-anni-di-unità.

La struttura della sala principale – a dire dei suoi progettisti - è essa stessa concepita come la cassa armonica di uno strumento (un violoncello, o un contrabbasso?) e quindi non bisognosa di artificiosi pannelli diffusori per trasferire i suoni da violoncelli e contrabbassi alle trombe (di Eustachio, smile!) degli ascoltatori. Il che direi avvenga in modo davvero eccellente, come si è potuto constatare alla chiusura della nona mahleriana.

Ieri sera, per la sua terza serata di operatività, il nuovo teatro ha ospitato Claudio Abbado, con le orchestre Mozart e del Maggio unite nel nome di Brahms, ma soprattutto di Mahler. Pochissimi i posti vuoti, il che ha fugato i timori indotti dall'offerta, in internet, di almeno un terzo dei biglietti di platea ancora a poche dal concerto (evidentemente il passa-parola e la riduzione del prezzo hanno convinto molti a non perdere un appuntamento che, credo, difficilmente potranno dimenticare in fretta.)

Le orchestre: qualcuno magari avrà in cuor suo criticato Abbado per aver voluto questo connubio fra l'orchestra di casa e la sua Mozart. A parte che nella Mozart (come al Maggio) suonano fior di solisti di fama internazionale, fra le due orchestre ci sono normalmente degli interscambi (di prime parti, soprattutto): fatto sta che il risultato gli ha dato pienamente ragione e nonostante le presumibili poche ore a disposizione per provare, l'affiatamento fra fiorentini e bolognesi, dislocati quasi a schacchiera (i maschi si distinguevano per la presenza o meno delle alette alle tasche delle giacche…) è parso invero eccellente e la prova inequivocabile del successo dell'impresa è stato l'abbraccio finale che ha unito tutti i componenti delle due compagini.

Nello Schicksalslied ha spiccato anche il Coro di Piero Monti, che ha magistralmente interpretato il triplice appello dell'Hyperion di Hölderlin, prima della (un po' posticciamente) serena conclusione strumentale brahmsiana.

Ma il pezzo forte della serata era, ovviamente, la Nona sinfonia di Mahler, opera forse prediletta da Abbado, che pare oggi sentirla anche fisicamente, oltre che spiritualmente, vicina. E ogni volta ne cura l'esecuzione anche in dettagli apparentemente insignificanti (come ad esempio far suonare anche alla seconda fila dei primi violini la frase iniziale dell'Andante comodo, o silenziare la spalla nell'incipit dell'Adagio). Memorabili le strappate di violini e viole nell'esposizione del tema del Ländler (Mahler usa il termine schwerfällig, quasi intraducibile, come di cosa che cade pesantemente) che gli tolgono ogni residuo di eleganza e di ingenuità . Travolgente poi il Rondo-Burleske, con l'accelerazione feroce dal Più stretto al Presto della Coda, che scolpisce terrificanti suoni spettrali.

E infine quell'Adagio che è suonato proprio quasi con sofferenza, come fosse il prodotto di uno sforzo fisico oltre che spirituale. Dopo la strepitosa quanto straziante perorazione dei quattro corni e l'ultimo addio del passato (due sole misure del violoncello solo, che ti strappano le budella) Abbado ha offerto la sua straordinaria visione delle ultime 27 battute della sinfonia, quell'Adagissimo dei soli archi dove compaiono dei veri e propri frammenti di vita vissuta, guardata con gli occhi umidi e una stretta al cuore. Da qui le luci sull'orchestra hanno cominciato impercettibilmente ma costantemente ad abbassarsi, fino a lasciare la scena quasi al buio. Qualche schizzinoso purista magari avrà storto il naso, pensando ad una trovata un po' kitsch, ad una parodia della Abschieds-Symphonie di Haydn, fatto sta che l'effetto è stato sconvolgente. Certo, più che il passaggio dalla luce alle tenebre, è pur sempre la musica ad avere il ruolo principale, con quel trasmutare del suono in silenzio, che rende in modo mirabile la serena rassegnazione dell'Uomo di fronte all'inevitabilità della fine della vita terrena.

Le viole, guidate dal leggendario Wolfram Christ (e dislocate appropriatamente al proscenio) dopo aver esalato (ersterbend) il LAb, col supporto del REb dei violoncelli e del FA dei violini secondi, restano dopo quella corona puntata per un tempo indefinito (materialmente, forse 2 minuti) che dà precisamente una sensazione, un brivido, più che l'idea, dell'eternità.

Che altro si può dire? Grazie!




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22 dicembre, 2011

Con Dudamel la Scala anticipa la Pasqua a Natale



Martedi il forfait (causa influenza intermittente) della diva-Anna, mercoledi lo striking-choir che manda a monte la nona, e stasera la Harteros che la dà buca a poche ore dal concerto… insomma l'era del nuovo Direttore musicale sembra aprirsi nel segno della sfiga (il 13° dello zodiaco, per i poco informati).


Per fortuna, per il Concerto di Natale, era in apparente buona salute almeno il californiano d'adozione Gustavo Dudamel, tornato in Scala un mese dopo il concerto con la Bolivar. Essendo come sempre proiettata nel futuro, per Natale la Scala ha messo in programma la Resurrezione, opera di un altro famoso Gustavo. E opera che è tornata finalmente a farsi udire dentro il Piermarini, dopo le diverse promesse non mantenute (da Abbado, ma anche – senza colpa – da Pappano con la S.Cecilia) nella primavera del 2010.

Dudamel, che ha diretto a memoria questo behemoth musicale, ne ha proposto una visione ampollosa e retorica al massimo grado. Non brutta, ci mancherebbe, ma con i movimenti esterni dilatati quanto di più non si potrebbe. E i 90 minuti di durata sono lì a dimostrarlo.

L'orchestra si è portata bene, anche nella sezione ottoni (sua croce-e-delizia) che ha limitato i danni ad un paio di sbavature, non di più. Eccellenti gli strumentini e veramente compatti gli archi, nei numerosi passaggi della sinfonia dove sarebbe facile cadere in asincronie e sfasature.

Il coro di Casoni – riposatosi con lo sciopero di ieri (smile!) - ha ripreso la forma di un tempo ed è quindi risorto pure lui dalle ceneri…

Il soprano Genia Kühmeier, arrivata evidentemente all'ultimo momento, e il contralto Anna Larsson hanno assai onorevolmente assolto il loro compito. In particolare la seconda, nel Lied della rosellina rossa (e dello sbifido angioletto tentatore…)

Alla fine un gran trionfo e numerose chiamate per le soliste, per Casoni e ovviamente per il Direttore che, una volta assolto il suo compito sul podio, mai più vi mette piede, rintanandosi in mezzo agli orchestrali a condividere con loro gli applausi: un bel segno di modestia, in tempi di divismo esasperato.

E domani, tutt'altro Mahler a Firenze con il sommo Claudio… che però - a giudicare dal numero di posti (soprattutto di platea, e piuttosto salati) ancora disponibile in internet e dagli sconti last minute - sembra non destare un interesse così spasmodico. Vedremo.
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Orchestraverdi – concerto n 13 .


Ancora laVerdi barocca a festeggiare Natale con il monumentale Messiah. Quest'anno il celebre oratorio è inserito nel programma della stagione concertistica maggiore, essendo l'orchestra principale ancora in trasferta nel Golfo. Ma già lo scorso anno (e l'anno prima ancora) lo avevamo potuto ascoltare nella stagione speciale della barocca.

Ruben Jais ci propone – come in precedenza – l'intera Prima Parte (la Natività) e, dopo l'intervallo, le altre due parti, cui apporta qualche sforbiciata. Nella Seconda Parte (che tratta della Passione, Morte, Resurrezione e Secondo Avvento) Jais omette tre numeri (che precedono il racconto del Messia rinnegato dai Giudei), quattro numeri fino all'Ascensione e l'aria del tenore prima del celeberrimo Hallelujah. Solo un paio di minuti per consentire al Konzertmeister Gianfranco Ricci di riaccordare gli archi e attacca la Terza Parte (Redenzione e Glorificazione) che Jais ha depurato delle arie di contralto, tenore e soprano che precedono il Finale. In termini di durata, questa esecuzione dell'oratorio si presenta con due tempi di circa un'ora, ed è accorciato di quasi mezz'ora rispetto all'originale.

Successo grandissimo, in un Auditorium affollato ed entusiasta, per i solisti (Theila Nini Goldstein, Sonia Prina, Carlo Vincenzo Allemano e Christian Senn), i sedici componenti del coro di Gianluca Capuano e i 22 strumentisti di Jais. Che, come consuetudine, ci regala un bis dell'Hallelujah, con i solisti andati a dar man forte al coro.

Adesso, per la fine dell'anno, ci aspetta l'immancabile nona.
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