affinità bombarole

rinsaldato il patto atlantico

14 settembre, 2011

Un grande Mehta con la IPO agli Arcimboldi


Ieri sera l'enorme anfiteatro degli Arcimboldi, praticamente esaurito, ha ospitato la Israel Philharmonic Orchestra, guidata dal suo Direttore principale, Zubin Mehta, in uno dei concerti del MITO-2011. Fuori, qualche ragazzo con bandiere palestinesi, tenuto a debita distanza da pochi agenti, e un volantinaggio che invitava a boicottare la IPO (ritenuta responsabile di fiancheggiamento dell'esercito israeliano nelle sue occupazioni di territori palestinesi): nulla al confronto delle pesanti contestazioni di cui la IPO è stata fatta oggetto di recente ai Proms.


L'orchestra, con il nome di Palestine Orchestra, nacque nel 1936 e tenne il concerto inaugurale il 26 Dicembre, diretta da Arturo Toscanini. Ecco come l'avvenimento viene descritto - sotto il titolo Jewish Affairs - nel rapporto relativo a quell'anno dell'Alto Commissario di Sua Maestà Britannica, sir Arthur Grenfell Wauchope, responsabile dell'Amministrazione di Palestina e Trans-Giordania, allora sotto mandato britannico per conto della Lega delle Nazioni:

99. A Jewish symphony orchestra was established at the end of the year through the initiative of Mr. Bronislaw Huberman, the well-known violinist, who secured the services of a large number of Jewish players and considerable financial support for his scheme from abroad. Mr. Arturo Toscanini conducted the first concerts of the new orchestra, which achieved a striking success. A number of the concerts are being broadcast by the Palestine Broadcasting Service.

Fu subito dopo la nascita dello Stato di Israele che l'orchestra assunse il suo nome attuale. In questa foto del 20 novembre 1948 si vede un trentenne Lenny Bernstein al pianoforte dirigere l'orchestra a Be'er Sheva:


Gustav Mahler è per evidenti ragioni uno dei compositori beniamini dell'orchestra, che cominciò ad inciderne le opere già 60 anni orsono. Sappiamo invece come Wagner soffra di un ostracismo ideologico in Israele, nato peraltro nel 1938, dopo la Kristallnacht (Toscanini in precedenza aveva eseguito, con la neonata Orchestra di Palestina, brani di Wagner senza suscitare scandalo) e divenuto totale dopo l'Olocausto. Zubin Mehta e poi Daniel Barenboim hanno compiuto qualche tentativo isolato di romperlo, suscitando polemiche a non finire.

Problemi che invece non esistono con Franz Liszt, di cui la IPO ci presenta, in apertura di concerto, il terzo poema sinfonico, Les Préludes. Però attenzione, la fanfara che lo contraddistingue e lo chiude:

fu impiegata dai nazisti nel 1941, durante la campagna di Russia, come segnale militare, e per di più, da un altro tema dei Préludes, Wagner ricavò il motivo del Walhall! Insomma ci sarebbero gli estremi per una messa al bando… ma (per fortuna) la cosa è sempre passata sotto silenzio.

Così la IPO e Mehta possono allietarci con questo trascinante pezzo, che suscita sempre applausi e ovazioni: il Maestro sembra quasi voler calcare la mano, la butta sull'enfasi e la retorica, ma sa anche mettere in risalto i lati intimistici del brano. Insomma, un'interpretazione un poco pesante, ma non greve.

Dove Mehta – per me – è stato grande è nella Quinta di Mahler, proposta con una assoluta fedeltà alla lettera (oltre che allo spirito) della partitura. Un esempio per tutti: l'attacco del tema iniziale, dopo la fanfara introduttiva, che Mahler prescrive Un poco più trattenuto, e che a volte viene interpretato – anche da direttori di gran nome - come un Improvvisamente lento… E poi, niente fracassi gratuiti, ma anche niente sdolcinamenti decadenti (vedi il delicatissimo Adagietto). Invece Mehta ha messo sapientemente in risalto – vedasi lo Scherzo e il Rondo - tutta la fitta rete di contrappunti che pervade quest'opera, troppo spesso fatta oggetto di attenzioni… gigionesche. E l'Orchestra, compatta in tutte le sezioni (con gli ottoni ovviamente in evidenza) gli ha risposto in modo esemplare. 

Interminabili gli applausi, le urla e le richieste di bis, andate purtroppo deluse (sul leggìo di un violino si intravedeva uno spartito di Ciajkovski…) ma forse si era fatto troppo tardi, e oggi la IPO deve risuonare, con diverso programma, a Torino. Poi, dopo un altro giro in Europa, il 24 Orchestra e Maestro replicheranno lo stesso programma di ieri a Rimini, chiudendovi la serie dei 5 concerti della Sagra malatestiana. Il giorno successivo concluderanno il loro tour a Verona, con il programma di Torino.
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12 settembre, 2011

Fuori Gelmini, dentro Principe!



Il commento di Moreno al post precedente (sul War Requiem e laVerdi) si appaia significativamente ad un articolo di Quirino Principe comparso ieri sul Sole24Ore.

Adriano Celentano tempo fa usava i termini: rock e lento. Non per descrivere due generi di ballo, ma come aggettivi per distinguere: forte da debole, o gagliardo da rammollito, o anche intelligente da becero, e così via.

Non so se Quirino Principe si sia ispirato al molleggiato (non… rammollito, smile!) per ri-coniare la definizione di musica classica, seria o colta in musica forte (certo si è che chiamarla rock gli avrebbe creato qualche problemino, ari-smile!) ma una cosa è sacrosanta: se non la si insegna a scuola (a partire da quella materna, o asilo che chiamar si voglia, neanche dalla prima elementare) la musica, che poi è una sola, forte di sua natura, rischia inesorabilmente il declino.

Ironia della sorte e sfiga profonda: a pagina 2 della versione web del citato articolo, nel secondo paragrafo, dove Principe ricorda la sensibilità del Presidente (quello buono, mica quello che aiuta i sedicenti-poveri tarantini) un disgraziato refuso ci avverte della finzione primaria della musica. Buonanottealsecchio…
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Una grande “Verdi” con Britten alla Scala


Ieri sera la Scala ha ospitato (come accade ormai da diversi anni) il concerto inaugurale della stagione 2011-12 dell'Orchestra Verdi.

La data ricordava una tragedia, le cui conseguenze ancora si possono vedere in quel di Manhattan. E in memoria di un'altra tragedia Benjamin Britten compose il War Requiem (completato nella sua Aldeburgh il 20 dicembre 1961) che fu eseguito per la prima volta in occasione dell'inaugurazione (30 maggio, 1962) della ricostruita cattedrale di SanMichele a Coventry. La cattedrale era stata rasa al suolo nel 1940 - con tutto il resto della città - dalle bombe della Luftwaffe, in conseguenza del raid aereo che i nazisti (con raffinata quanto blasfema ispirazione) avevano soprannominato Mondschein-Sonate. Più tardi, nel 1945, Dresda subì la medesima sorte - con vittime moltiplicate almeno per 50 - in virtù della regola di retaliation (leggi: taglione) che governa i rapporti umani in simili disgraziate circostanze.

Quel giorno di quasi 50 anni orsono furono significativamente un inglese (il compagno di Britten, Peter Pears) ed un tedesco (Dietrich Fischer-Dieskau) a cantare i versi del poeta-soldato Wilfred Owen, caduto nel 1918 sul fronte occidentale. Versi ispirati dagli orrori di un'altra guerra, la cosiddetta Grande (ma fu un record battuto assai presto) e che Britten ha intercalato a quelli latini nel suo Requiem. Requiem a sua volta dedicato, dall'autore che fu pacifista convinto ed obiettore di coscienza, a quattro amici marinai (tre britannici e un neo-zelandese) morti o dispersi durante (o poco dopo) il secondo conflitto mondiale.
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L'opera è chiaramente ispirata dalla spazialità del luogo cui fu dedicata: due orchestre (e solisti + coro) che (prevalentemente) si alternano nell'esposizione del Requiem cristiano e dei versi di Owen; più un coro di ragazzi accompagnato dal solo organo. I versi latini della Missa pro defunctis sono esposti dal soprano e dal coro misto con l'orchestra sinfonica e dal coro di ragazzi con l'organo. Quelli di Owen – in lingua inglese – sono cantati da un tenore e da un baritono, accompagnati da un'orchestra da camera di 12 elementi. I versi latini e quelli di Owen creano uno stridente contrasto fra la cristiana speranza, che i primi lasciano sempre intravedere, anche nel cupo Dies Irae, e il disperato pessimismo, cui sono improntati i secondi.

Britten, strenuo assertore del diatonismo, ne impiega uno dei simboli – il diabolico intervallo di tritono – come ingrediente di base del suo Requiem. Tradizionalmente è l'intervallo (proibito dai classici poiché dissonante e di impervia intonazione) con cui sono stati rappresentati musicalmente: l'orrore, il terrore, l'illegalità, l'immoralità, l'abiezione, il disprezzo delle regole, ed ogni altra immaginabile nefandezza. Insomma, tutti gli ingredienti che si cumulano nel termine guerra.

È il coro, insieme alle campane, ad esporlo subito, all'inizio del Requiem aeternam (N°1) in diverse forme: dapprima con il FA# seguito dal DO in voci diverse, poi con l'intervallo esposto dalle 4 voci del coro a canone (Et lux perpetua DO-FA#, luceat eis FA#-DO) e quindi con i due suoni sovrapposti:
Il coro di ragazzi sembra gettare un po' di luce sullo scenario (Te decet hymnus) ma la chiusa, che si sovrappone al ritorno del Requiem, ripropone il famigerato tritono, che poi torna a farla da padrone fino all'ingresso del tenore (What passing bells, Quali campane funebri) sui versi di Owen da Anthem for Doomed Youth; un canto agitato, per ricordare chi muore senza nemmeno un requiem.

Il coro chiude questa prima parte con il lento e sostenuto Kyrie, e allo stesso modo concluderà il Dies Irae (Pie Jesu) e l'Opera (Requiescant in pace). E sempre è il tritono (FA#-SI#) a prevalere, cedendo poi solo sull'ultima battuta, che sfocia faticosamente in FA maggiore.

Adesso il coro – che dovrebbe rimanere finora seduto – si alza per attaccare il Dies Irae (N°2) che è suddiviso in 4 sezioni: Dies Irae, Liber scriptum (dove interviene il soprano), Recordare e Dies Irae (Lacrimosa, con nuovo intervento del soprano). Con esse si intercalano 4 poemi di Owen: Voices (Bugles sang, Le trombe cantarono) esposto dal baritono; The next war (Out there, we've walked quite friendly up to Death, Là abbiamo camminato molto ben disposti verso la morte) cantato da tenore e baritono; On Seeing a Piece of our Heavy Artillery Brought into Action (Be slowly lifted up, thou long black arm, Sollevati lentamente, tu lungo braccio nero) esposto dal baritono e infine Futility (Move him into the sun, Spostatelo al sole) cantato dal tenore. La seconda strofa di quest'ultimo brano si intercala con il coro e il soprano che riprendono il Lacrimosa. Chiude il numero il coro con Pie Jesu Domine, dona eis requiem. Amen.

L'Offertorium (N°3) è aperto dal coro di ragazzi, cui subentra quello adulto (sul Sed signifer sanctus Michael) che introduce il lungo Quam olim Abrahae. A questo punto ascoltiamo da baritono e tenore i versi di Owen da The parable of the Old Man and the Young (So Abram rose, così Abramo si alzò). Sono una spietata e straziante versione cruenta e attuale del testo biblico: qui l'Abramo moderno – la follìa della guerra – non accoglie l'invito dell'Angelo a risparmiare il figlio, ma al contrario ammazza il suo Isacco, e con lui one by one, half the seed of Europe, uno per uno, la metà del seme dell'Europa! I ragazzi contrappuntano significativamente questa disperata imprecazione con i versi Hostias et preces tibi Domine laudis offerimus, poi reintroducono il coro che chiude riproponendo il Quam olim Abrahae.

Il Sanctus (N°4) è introdotto dal soprano, accompagnato soltanto dalle percussioni scampaneggianti e dal pianoforte. Sul Dominus Deus Sabaoth spunta ancora il famigerato tritono, che proprio non risparmia nessuno! Poi l'Hosanna è accompagnato da un turbinio di note degli ottoni. Dopo il Benedictus e il ritorno dell'Hosanna in excelsis, ecco il baritono ricacciarci nel più nero pessimismo, intonando i versi di Owen da The End (After the blast of lightning, Dopo l'esplosione dei lampi) che non lasciano proprio alcuna speranza: It is death, È la morte… intonata (indovinate un po') sull'intervallo RE-SOL# dei fagotti.

Ora abbiamo l'Agnus Dei (N°5) che, contrariamente agli altri numeri, è aperto dal tenore, quindi dall'orchestra da camera, quindi da versi di Owen: One ever hangs where shelled roads part, C'è sempre un impiccato là dove le strade bombardate si biforcano, da At a Calvary near the Ancre (il fiume della Piccardia dove ebbe luogo una battaglia nel 1916). Le tre strofe della poesia sono intercalate dal verso latino, mentre il tenore chiude cantando – per la prima e unica volta – anche lui in latino: Dona nobis pacem.

L'ultimo numero è il Libera me (N°6) aperto dal coro e dal soprano, prima del lungo intermezzo da Strange meeting (It seemed that out of battle I escaped, Mi parve di essere sfuggito alla battaglia) in cui tenore e baritono sostengono le parti di due nemici che si sono affrontati sul campo. Let us sleep now (dormiamo, adesso) è la rassegnata conclusione che i due cantano insieme, mentre i cori e il soprano, con il pieno dell'orchestra, contrappuntano con l'ultima strofa dell'inno cristiano.

È il coro solo - con l'intervento di un unico rintocco delle campane (FA#-DO!) – a chiudere con il Requiescant in pace… Amen, che si dissolve definitivamente in FA maggiore:

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laVerdi schierava tutto il suo ragguardevole organico: l'orchestra sinfonica, sotto la guida sapiente di Zhang Xian (Konzertmeister Luca Santaniello); quella da camera, disposta all'estrema destra del podio, condotta da Ruben Jais (primo violino Nicolai von Dellingshausen); il coro misto di Erina Gambarini e il coro di voci bianche (collocato nel Palco Reale!) di Maria Teresa Tramontin.

Il soprano Chiara Angella, il tenore Barry Banks e il baritono Mark Stone (entrambi britannici) completavano la squadra.

Un'esecuzione impeccabile, senza un attimo di perdita di tensione, che il pubblico ha gratificato di un lunghissimo applauso e rumorose acclamazioni, per tutti e per ciascuno degli interpreti. Davvero un'impresa che definire storica non è esagerato.
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Come nobile antipasto della serata avevamo avuto il brahmsiano Schicksalslied, dove Hölderlin ha in certo qual modo anticipato Britten, laddove separa nettamente (nelle prime due strofe) la condizione degli spiriti celesti da quella (terza strofe) degli esseri umani, ai quali ultimi è negata ogni pace, e il cui destino è di cadere, come l'acqua in una forra, di rupe in rupe, verso abissi insondabili. Brahms - lui era un laico sì, ma non certo un nichilista… - ci mette un pizzico di ottimismo, e così, dopo le prime due strofe (celesti, in MIb maggiore) e la terza (umana, in DO minore) chiude tutto con la ripresa della prima strofe, solo strumentale e in DO maggiore (quindi con una concatenazione tonale a dir poco didascalica).

Impeccabile anche qui il coro della Gambarini e proprio… brahmsiana la direzione di Xian.

Giovedi prossimo, dopo un giretto di riscaldamento nella mia Brescia, si ricomincia in Auditorium!
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10 settembre, 2011

Un (mezzo) Fidelio e la Leonore3 trionfano alla Scala


All'annuncio della stagione 2010-2011 de La Scala, in molti avevano di certo pregustato la rappresentazione, in forma scenica, della straussiana Arabella, da parte della Wiener Staatsoper con Welser-Möst. Ma strada facendo (già a SantAmbrogio) corsero voci su cambiamenti di programma, poi la cosa fu ufficializzata: niente Arabella (rappresentata a Vienna giovedi sera!) ma Fidelio. Sempre Staatsoper, sempre Welser-Möst, ma niente scene, esecuzione in forma di concerto. E tanto per infierire, anche il concerto dei Wiener Philharmoniker, che si doveva tenere a ridosso di Arabella, è svanito nel nulla.

Ultima suspence, il minacciato sciopero degli addetti all'accoglienza del pubblico, che aveva francamente del grottesco, date le circostanze, e che è poi rientrato (pratica di solito attuata attorno al 7 dicembre, smile!)

C'è chi sostiene che la forma di concerto sia l'unica adatta a presentare Fidelio, falsa opera di un compositore cromosomicamente sinfonico e troppo freddo e razionale per distinguersi in un campo dominato da emotività e irrazionalità. Altri sostengono esattamente il contrario e fra questi Giorgio Pestelli, che ha riempito due terzi delle pagine del programma di sala per convincerci della teatralità di Fidelio. (Ma di solito, se si deve ricorrere a lunghe e verbose spiegazioni, significa che la tesi traballa… smile!)

Comunque, qui abbiamo proprio un'esecuzione in-forma-di-concerto: cantanti impalati davanti al loro leggìo, neanche l'ombra di qualche scimmiottamento sceneggiato. Gli unici movimenti sono quelli di entrata e uscita dal palco, prima e dopo aver cantato il proprio numero. I dialoghi parlati sono quasi totalmente soppressi, salvo pochissime battute, messe lì più per occupare il tempo dell'entrata del cantante sul palco che altro.

Lunghi applausi all'ingresso dell'Orchestra (70 elementi o poco più) e di Welser-Möst, ma l'Ouverture non scatena entusiasmi (persino i celebri corni lasciano un po' a desiderare…) e il Kapellmeister, dopo un paio di secondi di attesa (del mancato applauso…) attacca il numero di Marzelline (Anita Hartig, bella voce penetrante) e Jaquino (Norbert Ernst, tutto il contrario della Hartig) accolto da deboli battimani. Meglio va alla Hartig con la sua aria, applaudita peraltro freddamente. Nessuna reazione del pubblico al famoso quartetto, che di solito strappa uragani di applausi, né all'aria di Rocco (Hans-Peter König, che forse e senza forse è più adatto a fare gli Hunding e gli Hagen, che non un personaggio di mediocre statura come Rocco…)

Il pubblico resta indifferente anche all'aria di Pizarro (Albert Dohmen, che pure del ruolo è specialista) che avrebbe meritato assai di più, mentre si anima dopo l'Abscheulicher di Leonore (Nina Stemme, che peraltro mi è parsa deboluccia nella cosiddetta ottava bassa).

Insomma, il primo atto, nonostante un apprezzabile coro dei prigionieri (dove il tenore solista si fa sentire meglio di Ernst, pur trovandosi 20 metri più indietro) si chiude senza troppi entusiasmi ed anzi (mi sbaglierò forse) con un paio di timidi buh piovuti dal secondo loggione.

Però sappiamo che il meglio di Fidelio è il secondo atto, che infatti comincia – per me - nel migliore dei modi con l'aria di Florestan (un Peter Seiffert apparso in ottima forma) anche se il pubblico latita ancora. Però dopo la scena-madre e il Namenlose Freude di Nina e Peter cominciano a piovere applausi.

E qui arriva il piatto forte, nella più classica tradizione viennese, inaugurata a suo tempo da tale Mahler: la Leonore3. Quanto fuori posto è in una rappresentazione scenica, tanto è efficace per risollevare le sorti di un concerto! E siccome nessuno (o pochissimi) al mondo la sa suonare meglio dei Wiener, il successo è assicurato e il teatro viene giù, come si suol dire. Il quarto d'ora strumentale consente anche a Nina Stemme di restituire (immagino ad un orchestrale, smile!) il frac con cui fino a quel momento si era presentata (essendo maschio): svelati l'identità e il sesso, la bella svedesina (!) torna in palco con un lungo nero, a godersi il trionfo.

Sì, perchè da qui in poi è un entusiasmante crescendo, grazie soprattutto al coro di Thomas Lang (il cui nome nella locandina web non viene nemmeno citato… vergogna) e in minima misura grazie all'arrivo del super-ministro Don Fernando (un dignitoso Markus Marquardt).

Alla fine gran trionfo per tutti e ripetute chiamate per direttore, solisti e maestro del coro. Una serata, diciamo, un po' diesel, a lenta carburazione, ma poi chiusa in gloria. Forse, date le circostanze - recita blitz, immagino fatta senza rete (cioè senza una prova seria sul posto) - non era lecito chiedere di più…
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06 settembre, 2011

La messa cantata di Mahler a Rimini


Dopo l'esordio a Torino, dove ha aperto il MITO-2011 (con presenza di Radio3) il mio illustre concittadino Gianandrea Noseda da Sesto (San Giovanni) si è spostato armi e… musicanti in Adriatico per replicarvi l'esecuzione di quella gigantesca quanto nobile mappazza che risponde al nome di Sinfonia dei Mille.

L'eventuale riferimento ai 150 anni dalla nascita del BelPaese è nella fattispecie del tutto fallace, datosi che quei mille nulla hanno di garibaldino, né di italico (questa l'ha raccontata anche Bossini alla radio…) Essendo il prodotto più genuino e d.o.c. della cultura musicale mitteleuropea dell'ottocento-novecento, qui da noi piuttosto snobbata, ai tempi, se non proprio irrisa. Poi, come spesso accade, si assiste al fenomeno opposto, quello della renaissance, che spesso ha presupposti extra-artistici e aspetti più vicini alla moda che al gusto estetico. Ma tutto fa brodo, e che Mahler oggi si esegua (o registri) con grande frequenza è di sicuro un bene; caso mai sta a ciascuno di noi decidere in quali dosi fruirne, onde evitare possibili intossicazioni.

L'Ottava è uno dei tanti esempi di rimescolamento – per gli scettici: di imbastardimento - delle forme musicali operato da Mahler, costantemente alla ricerca di strumenti nuovi con i quali dare espressione alla sua estetica e alla sua personale visione del mondo. Sinfonia? Messa? Oratorio? Cantata? Fantasia corale? Poema sinfonico con voci? Nulla di tutto ciò, ma allo stesso tempo un po' tutto di ciò. E il nostro aveva cominciato così - quando ancora non aveva vent'anni - con il velleitario Das klagende Lied (non per nulla bocciato senza pietà da tale Brahms): poi, a più di 25 anni di distanza e all'apice del successo, cuocerà insieme Hrabanus Maurus e Goethe in un brodo di MI bemolle di ordinanza, per propinarci questo suo sesquipedale minestrone monumento.

Nel quale si ritrovano reminiscenze del passato (motivi, incisi, a volte sfumature, già uditi in una qualche precedente sinfonia o lied) e novità che ricompariranno in seguito. (In fondo, non si dice forse che la musica di Mahler è sempre uguale a se stessa?)

Il Veni creator in effetti è (quasi) una messa, dove i cori la fanno da padroni, mentre ai solisti sono riservate parti poco… solistiche, anche se estremamente impegnative. Presenta già dei temi che – variati, invertiti, trasposti – ricompaiono poi nella seconda parte, a sua volta poggiante su alcuni motivi che vengono impiegati in scenari diversi e con varianti diverse.

Ad esempio, quello esposto da flauti e clarinetti alla battuta 4 diviene la base per diversi interventi dei soli e del coro:

O ancora, il motivo che udiamo cantato prima dal Pater Profundus e quindi dal Doctor Marianus – dopo essere stato introdotto dagli ottoni isolati al termine della prima parte - altro non è che l'anticipazione del dolcissimo tema che accompagna l'apparizione della Mater Gloriosa:
Un altro motivo portante dell'opera è di chiara ascendenza parsifaliana:
E, proprio come nel dramma wagneriano, questa caratteristica scala ascendente ritorna ad ogni pie' sospinto, e significativamente a supportare il conclusivo zieht uns hinan.

Ma l'Ottava (in specie la seconda parte) è costruita – in contrasto con i canoni sinfonici, che prevedono l'esposizione di pochi temi, ben delineati – come un meccano, a partire da alcuni frammenti di base, di volta in volta montati in configurazioni diverse. O, per usare un termine della forma-sonata, è come un solo, lungo e gigantesco sviluppo.

La seconda sezione pone in musica - escludendo il solo intervento del Pater seraphicus - gran parte del Bergschluchten (l'ultima scena del Faust II, atto V). Alla fine del quale, dal goethiano Ewig-Weibliche (l'eterno femminino) Mahler estrapola, per reiterarlo più e più volte, quell'Ewig che qui ha il sapore dell'eternità (cristiana?) oltre che quello dell'ottimismo, vissuto dal compositore nel momento di piena realizzazione dei suoi obiettivi (e sogni) esistenziali ed artistici. Pochi mesi dopo il completamento dell'Ottava arriveranno però impietosi i tre colpi di martello con cui Mahler - nella sua pretenziosa quanto discussa sesta - aveva simbolizzato il destino che abbatte l'uomo. Ecco così che un altro Ewig tornerà a farsi ripetutamente udire – gänzlich ersterbend - come ultima parola, significante serena e laica (meglio: confuciana) rassegnazione, a chiudere l'ultimo canto musicato dal piccolo-grande boemo.
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Ai quasi 1500 spettatori che assiepano la vasta platea del Palacongressi (quello vecchio… ancora) si presenta un impressionante colpo d'occhio sull'ipertrofico complesso degli interpreti: non 1000 - come effettivamente furono alla prima di Monaco, 101 anni orsono, il prossimo lunedì - ma quasi 400, come ci ha precisato una delle voci fiorentine dei cori. Gli strumentisti devono essere in numero adeguato a fronteggiare le masse corali (due cori misti del Regio e del Maggio e due cori di voci bianche, del Regio e del Conservatorio di Torino) e ciò giustifica l'impiego cooperativo di due orchestre (RAI e Regio). Mahler qui non si serve dei suoi cari campanacci da mucca (che pure sarebbero in sintonia con lo scenario materiale, quantomeno nella parte goethiana) forse ritenendo la cosa irrispettosa dello scenario spirituale… e quindi, per evocare le atmosfere rarefatte, si accontenta (si fa per dire) delle sonorità di pianoforte, celesta, arpe, mandolini e glockenspiel…

Il pacchetto di ottoni che suonano isolati a chiusura dei due tempi della sinfonia si posiziona, al momento opportuno, sul fondo della sala, proprio nel corridoio di ingresso, mentre la Mater Gloriosa, che verso la fine dovrebbe far udire la sua voce aus höhern Sphären, entra a fianco del secondo coro.

Rispetto alla formazione annunciata da tempo ci sono due sostituzioni: Erika Sunnegårdh al posto di Violeta Urmana (Soprano I e Magna Peccatrix) e Bernarda Bobro al posto di Julia Kleiter (Soprano, Mater Gloriosa). Gli altri sei solisti sono Elena Pankratova (Soprano II e Una Poenitentum), Yvonne Naef (Contralto I e Mulier Samaritana), Maria Radner (Contralto II e Maria Aegyptiaca), Stephen Gould (Tenore, Doctor Marianus), Detlef Roth (Baritono, Pater Estaticus) e Christof Fischesser (Basso, Pater Profundus). Solisti disposti davanti al coro, a sinistra del podio e dietro violini, arpe, piano e celesta: il che richiede a loro grande sforzo per passare, e al Direttore grande cura nel non coprirli.

Garibaldi non c'entrerà, ma Noseda tira in ballo i bersaglieri per l'attacco del Veni Creator: una cosa travolgente, e del resto in linea con le indicazioni agogiche di Mahler (Allegro impetuoso)!

Emozionante poi l'attacco dell'Accende lumen, dove il direttore crea il silenzio fra Ac… e …cende, forse andando al di là delle stesse indicazioni di Mahler, che prescrive – con il segno dell'apostrofo - una evidente (entschiedene) pausa di respiro.

La direzione di Noseda (che ha momentaneamente abbandonato la bacchetta, dall'inizio del Faust e fino alla seconda entrata dei cori, dirigendo con… le dita, alla maniera del suo vecchio maestro Gergiev) non sarà magari stata memorabile, per via di una certa meccanicità e asciuttezza nell'esposizione (mi viene in mente il motivo dell'apparizione della Mater Gloriosa, messo in scarso rilievo) magari spiegabile col desiderio di evitare eccessi enfatici e retorici; ma in complesso il mio concittadino va elogiato non fosse altro che per aver saputo tenere insieme con grande autorità quel po' po' di esercito di musicanti.

Elena Pankratova mi è parsa la migliore dei solisti: voce potente, intonatissima e di grande espressività. Erika Sunnegårdh ha una voce meno penetrante (non è la Urmana!) ma in complesso non ha demeritato. Entrambe sono chiamate ad alcuni DO acuti, che hanno sfoderato con sicurezza.

Yvonne Naef e Maria Radner hanno mostrato belle voci (più chiara la prima, più brunita la seconda) e sostenuto dignitosamente i rispettivi ruoli. Bernarda Bobro deve cantare pochi versi e ciò ha fatto con diligenza.

Stephen Gould ha una voce dal timbro profondo (più da baritono o addirittura da basso che da tenore) per me poco adatta al ruolo di Doctor Marianus; in più fatica tremendamente sugli acuti (già dal SOL): l'unico SI naturale cui è chiamato (peraltro opzionalmente) lo ha dovuto emettere… impiccandosi.

Buono Detlef Roth, che ha esposto con grande sicurezza il suo Ewiger Wonnebrand e discreto Christof Fischesser, eremita… mangiapesci (smile!)

Grande la prestazione dei cori di Claudio Fenoglio e Piero Monti, così come quella dei professori: a dimostrazione che in Italia esistono risorse di livello assoluto, che meritano di essere valorizzate e sostenute. Questo e non altro hanno detto gli applausi che per lunghissimi minuti il pubblico ha tributato loro, dopo lo schianto del MIb conclusivo.

Fuori – dopo due giorni di nuvolaglia e di afa - ci accoglie una serata limpida e tiepida: qui l'estate ancora non è finita…

PS: il dolore per la morte di Licitra ha trovato spazio anche qui.
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01 settembre, 2011

La stagione della “Verdi” inizia l’11/9 alla Scala


Domenica 11 settembre la Scala ospita il concerto inaugurale – fuori abbonamento – della stagione 2011-12 dell'Orchestra Verdi.

Da 10 anni esatti la data dell'11 settembre è diventata – da commemorazione di una strage inaudita - simbolo della volontà del mondo (cosiddetto) civilizzato di opporsi a qualunque fondamentalismo e a tutti i terrorismi che ne scaturiscono.

L'Orchestra Verdi già nel 2003 rese omaggio alle vittime di GroundZero con un Requiem classico, quello di Johannes Brahms. Quest'anno sarà la volta di un Requiem moderno, quello di Benjamin Britten, che permetterà a laVerdi di mettere in mostra tutte le sue risorse: orchestra sinfonica, orchestra da camera, cori (adulti e fanciulli) e i due Direttori stabili.

La stagione ufficiale inizierà poi giovedi 15 settembre, all'Auditorium, con un programma sontuoso: Imperatore+Fantastica!
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27 agosto, 2011

Musica di fine estate


Fra pochi giorni si inaugurano due manifestazioni (prevalentemente musicali) di fine estate, che quest'anno sono accumunate dal fatto di essere aperte dallo stesso programma: la colossale Ottava di Mahler, diretta da Gianandrea Noseda con le orchestre Nazionale RAI e del Regio-TO e i Cori del Regio, del Conservatorio di Torino e del Maggio fiorentino.

La prima a partire, sabato 3, è il MITO (Settembre Musica) manifestazione relativamente giovane (alla 5a edizione) ma che già ha raggiunto una notevole fama e notorietà.

La seconda è assai più longeva (tocca la 62a edizione) anche se meno famosa, tenendosi - diciamo così - in provincia: la Sagra Musicale Malatestiana di Rimini, che apre lunedì 5 la sua sezione principale, costituita quest'anno da cinque concerti di altissimo livello. Oltre a Noseda (5/9) saranno ospiti: Yuri Temirkanov (11/9) reduce proprio dal MITO con la sua Filarmonica di Pietroburgo e un programma russo doc; Juraj Valčuha (15/9) alla testa della Nazionale RAI (di cui è Direttore musicale) che interpreta Strauss, Chopin e Weber; Antonio Pappano (18/9) con la sua SantaCecilia, in Brahms e Rimsky; e infine Zubin Mehta (24/9) anche lui reduce dal MITO, che propone Liszt e Mahler con la Israel Philharmonic (di cui pure è Direttore musicale).

Insomma, nonostante i disgraziati tempi che corrono, fa piacere che l'Arte, e la buona musica in particolare, abbiano ancora lo spazio che si meritano di diritto, sia nelle metropoli che in periferia.
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23 agosto, 2011

ROF-2011: il (nuovo) Barbiere di Siviglia


Ieri sera Alberto Zedda ha presentato – dal podio, alla guida di Orchestra e Coro del Comunale di Bologna – la sua ultima edizione dell'opera più famosa di Gioachino Rossini.

Un riassunto delle novità contenute in tale edizione è riportato, a firma dello stesso musicologo, sulle pagine del programma di sala. A giudicare dal sommario elenco, si dovrebbe dire: nulla di trascendentale; o magari: particolari che possono dir qualcosa al musicofilo esperto, se non proprio ai più specializzati addetti ai lavori. In compenso, Zedda non manca di lanciare qualche frecciatina polemica al suo ex-sodale-in-Rossini Philip Gossett, con cui ha rotto i ponti da qualche tempo, e che si è messo al servizio della concorrenza, collaborando con Patricia Brauner ad un'edizione critica del Barbiere pubblicata nel 2008 dall'autorevole casa editrice Bärenreiter. La contestazione che Zedda muove alla Brauner (perché Gossett intenda…) riguarda le parti di Lisa e Berta - le due domestiche di casa-Bartolo - i cui ruoli (del tutto secondario soprattutto quello di Lisa) sono di fatto riuniti dalla Brauner (secondo tradizione e…logica) in uno solo: quello di Berta, che nell'opera ha una parte più corposa, essendo anche gratificata di un'aria. Zedda invece li tiene scrupolosamente distinti: Berta=soprano e Lisa=mezzosoprano (che canta 3 – dicansi tre - versi in tutto, in 18 battute di musica). Però Zedda si affretta ad aggiungere che la fusione dei ruoli, essendo per l'appunto contemplata dalla tradizione, va comunque prospettata e rispettata. Vai a capire un po' come funzionano questi editori critici

Invece sul podio il Maestro ha mostrato tutta la sua esperienza in Rossini e nel Barbiere, trascinando da par suo i 45 strumentisti bolognesi e accompagnando amorevolmente i cantanti (più il coro maschile di Lorenzo Fratini).

Ad eccezione di Ecco ridente in cielo, tutte le arie e i diversi concertati sono stati accolti da applausi (a volte vere e proprie ovazioni) che hanno gratificato gli interpreti. Su tutti il Figaro di Mario Cassi (che nella celebre cavatina d'esordio non mi è peraltro sembrato impeccabile, ma non tutti possono essere dei… Bruscantini).

Sugli scudi i due Nicola-bassi: Ulivieri, davvero bravo nella Calunnia, e Alaimo, un Bartolo efficacissimo tanto nel canto quanto nella recitazione (non c'era allestimento scenico, ma i personaggi si muovevano come ci fosse, il che mi convince sempre di più che queste esecuzioni semi-sceniche siano largamente da preferire a tante cervellotiche e pseudo-maieutiche concezioni di registi alla Vick!)

Marianna Pizzolato è stata una Rosina più che discreta. E poi ha il fisico perfetto per il personaggio: grassotta (smile!), genialotta, capello nero, guancia porporina, occhio che parla, mano che innamora… come la descrive il barbiere).
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Il Conte/Lindoro era Juan Francisco Gatell: voce piccolina, ma abbastanza efficace. E ottima tenuta, visto come ha superato brillantemente le asperità del finale.

Clemente Antonio Daliotti ha impersonato Fiorello e pure un Ufficiale, cavandosela più che dignitosamente.

Come pure Jeannette Fischer, nel ruolo secondario (ma con… arietta) di Berta.

Francesca Pierpaoli ha cantato i suoi 3 versi e le sue 18 battute in concertato: nulla di più le veniva chiesto.

Insomma, una bella serata di musica, cui hanno potuto assistere anche alcune centinaia di persone assiepate in Piazza del Popolo, dove l'opera è stata irradiata grazie al comune di Pesaro.

Questa sera il ROF-32 chiude come aveva aperto, con Adelaide. Peccato fosse (da molto tempo ormai) saltata la Petite Messe con il prodigioso Patalung… sarà, speriamo, per un'altra volta.
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21 agosto, 2011

ROF-2011 – Mosè in Egitto


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Questo Mosè aveva fatto notizia, più che per la prestazione musicale, per le polemiche suscitate dall'allestimento di Graham Vick, sul quale torno più sotto.

Rispetto alla prima, udita via-radio, mi è parso di notare un certo miglioramento in alcune prestazioni dei singoli. Alex Esposito (Faraone) ha tenuto da par suo il ruolo, senza mostrare affanni o incertezze. Sonia Ganassi (Elcìa) pur con i limiti congeniti legati alla sua voce (più da mezzo, che da soprano) mi è parsa più sicura e meno urlacchiante, anche se in generale questo ruolo non è forse il massimo per lei. Discreto l'Osiride di Dimitri Korchak, voce ben passante, che ha un filino sforzato gli acuti nei suoi consiglio e periglio del secondo atto. Riccardo Zanellato si conferma un Mosè autorevole, con voce ben impostata e potente. Discreta l'Amaltea di Olga Senderskaya, che ben ha esposto la sua aria del second'atto, e molto positivo l'Aronne di Yijie Shi. Enea Scala (Mambre) e Chiara Amarù (Amenofi) all'altezza dei non proibitivi compiti. Forse qualche sbavatura si è notata nei numeri d'insieme (ad esempio nel quartetto del sotterraneo) ma in complesso c'è da essere abbastanza soddisfatti.

Bene il coro e bene l'orchestra. Roberto Abbado ha forse ecceduto in un paio di occasioni con il fracasso, coprendo le voci (c'è da dire che all'Adriatic Arena l'orchestra è sistemata a livello del parterre e non in buca, quindi forse il suono ne esce meno amalgamato) ma la sua è stata comunque una direzione più che apprezzabile, così come quella di Lorenzo Fratini.

Alle chiamate singole finali solo applausi e bravo! per tutti (chi più, chi meno). Ciò porterebbe a pensare che i buh - isolati per l'aria della Ganassi e dopo lo stellato soglio, più consistenti al calare del (virtuale) sipario - fossero destinati al regista, che peraltro non si è fatto vedere.

E quindi è arrivato il momento di Vick. Il quale, giusto per fare qualcosa di un-conventional (secondo quella prassi tanto consolidata, quanto bizzarra, dei festival, che vengono, chissà perché, trattati alla stregua di laboratori in cui sperimentare qualunque idiozìa) ha pensato bene di trasportare il Mosè dal Vecchio Testamento al ventesimo secolo, raccontandoci la storia dello Stato di Israele, diciamo dal primissimo dopoguerra fino ai giorni nostri. Ci intravediamo le conseguenze dell'attentato all'Hotel King David (1946) e/o della strage di Deir Yassin (1948), le attività clandestine delle formazioni para-terroristiche Stern e Irgun, magari il piano Dalet e infine la Zahal (oggi IDF, con il suo possente carro armato) e il muraglione che divide i bantustan della West Bank dal mondo civile e democratico. Come dire: ciò che il Vecchio Testamento descrive a livello soprannaturale, qualcuno lo ha messo di recente in pratica sul piano squisitamente materiale e senza andarci troppo per il sottile (il Mosè che imbraccia il mitra, più che BinLaden, potrebbe essere Vladimir Jabotinsky!) E così si sono creati i presupposti per l'imitazione, impersonificata dal ragazzino egizio che si trasforma in kamikaze.

Una bella lezione di storia, nulla da dire. Ma noi andiamo a teatro per meditare sulla storia? O per quello non ci sono già trasmissioni TV, tipo Annozero (trasmissione per cui nutro profonda stima e ammirazione)? Quando sulla scena vediamo un uomo soffocare una donna e poi pugnalarsi, che proviamo? Orrore, disgusto, nausea, come quando vedessimo quella scena in TV, nella realtà quotidiana? No di certo, poiché un tale Giuseppe Verdi ha saputo evocare in noi il piacere estetico, che soltanto un'opera d'arte ci può procurare. Perché l'arte (la musica, nel nostro caso) è in grado di aggiungere poesia anche alla realtà materiale e ai fatti più orribili. Nemmeno il verismo si è mai sognato di trasformare l'opera lirica nella pagina di cronaca nera o politica di un giornale: perchè ha cercato (magari non sempre riuscendovi al meglio) di poetizzare anche la cronaca nera. Invece Vick è riuscito nella mirabile impresa di spoetizzare una grande opera d'arte, riducendola a cronaca politica. Sì, perché Rossini e il suo librettista Tottola non si proponevano certo di presentarci uno spaccato di realtà politica o religiosa, né tanto meno di fare apologia dell'ebraismo: trassero spunto dall'Antico Testamento semplicemente per costruire un'opera d'arte, che non a caso resiste come tale nei secoli. Invece, sequestrare il Mosè di Rossini per trasformarlo in colonna sonora di un'inchiesta giornalistica è semplicemente – appunto – un sequestro. Perpetrato da chi, per accreditare il suo allestimento dell'opera, deve ricorrere nientemeno che al discredito dell'Antico Testamento!

Ora, a chi sostiene che anche il teatro musicale non può rinchiudersi in una torre d'avorio, ignorando i problemi della realtà contemporanea, dico: benissimo, accomodatevi, chiedete a drammaturghi e compositori di scrivere e comporre opere che abbiano a sfondo la crisi mediorientale o la bolla speculativa, la manovra di 3monti o l'ennesimo omicidio del serial-killer di turno. E l'ultimo fulgido esempio di opera contemporanea che tratta problemi della nostra decadente società ce lo ha presentato pochi mesi orsono il Teatro alla Scala, con Quartett di Francesconi. Basta volere e impegnarsi… poi caso mai constateremo quali siano i risultati dell'impresa in termini estetici e in termini di successo di pubblico. Una cosa è comunque certa: a nessun compositore – a partire dall'antichità, fino ai giorni nostri – sarebbe venuta l'ispirazione di comporre una musica come quella di Rossini per accompagnare questo Mosè di Vick.

Off topic (?) Oggi a Rimini gran trionfo per un altro Mosè: il nostro sempre più amato (e indispensabile per… attraversare il guado) Presidente Napolitano.
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19 agosto, 2011

ROF-2011 - La Scala di Seta


Altra puntata del mio personale programma al ROF-2011, con La scala di seta, in un Teatro Rossini ancora affollatissimo.

Questa farsa del Rossini giovane (20 anni o giù di lì) è un'altra delle sue opere che hanno avuto fortune non proprio luminose. A parte la pregevole e popolare Sinfonia, eseguita spesso come antipasto di concerti o incisa per qualche antologia, pochissime sono le rappresentazioni complete. Invece è il titolo più presente nelle 32 edizioni del ROF: fu messa in scena per la prima volta nel 1988 (con la coppia Serra-Bartoli) poi ancora con lo stesso allestimento (Scaparro) e diverso cast nel 1990. Fu eseguita nel 1992 in forma di concerto, poi nuova produzione nel 2000 (De Filippo) prima di quella attuale di Michieletto, presentata nel 2009.

Il soggetto – assai vicino a quello del Matrimonio segreto di Cimarosa – è la classica commedia degli equivoci e dei sotterfugi, con gente che si nasconde in gabinetti, che scala balconi, che spia ed è spiata, che prende fischi-per-fiaschi, e così via parodiando. Immancabile il lieto fine, dopo la classica scena-madre (un gran concertato) dove tutti gli equivoci vengono spiegati, dove quasi tutti i personaggi hanno il loro contentino, salvo il beota di turno che fa soltanto la figura del pirla, per far divertire gli spettatori.

Consta di otto cosiddetti numeri, precisamente quattro arie (di altrettanti protagonisti principali: tenore, mezzosoprano, soprano e buffo) più un terzetto, un duetto, un quartetto e il concertato finale. In questa edizione ROF viene aggiunta una quinta aria (Alle voci dell'amore) per il protagonista basso, portata di peso dentro l'opera dall'esterno (si tratta di un'aria da concerto di Rossini, dal titolo originale Alle voci della gloria). La motivazione di tale scelta (ciò si faceva normalmente ai tempi di Rossini) esposta da Alberto Zedda sul programma di sala è come minimo singolare, per non dir di peggio; poiché starebbe benissimo in bocca ad un sovrintendente - che deve preoccuparsi della cassetta e dei buoni rapporti con un tal cantante – mentre stona assai in bocca all'editore-critico-principe del ROF! Al quale si potrebbe allora obiettare che l'aria (Qual tenero diletto, da L'inganno felice) fatta cantare al secondo tenore del cast in questa simpatica produzione svizzera sia anche meglio, come musica e come effetto teatrale…

Ad ogni buon conto quella che si ascolta è musica sopraffina, dalla spigliata Introduzione in FA maggiore, fino al bellissimo finale, che si apre con un Andante, misterioso, ma sognante, in RE maggiore, perfettamente attagliato allo scenario notturno. Sempre nel finale, prima che Blansac canti il suo È mezzanotte, troviamo un singolare imprestito: udiamo infatti dal flauto una deliziosa introduzione in SIb (Andantino in 2/4) che è copiata pari-pari da una composizione del Rossini dodicenne (!): precisamente dal terzo movimento della Sonata a quattro, n°3 (Moderato, 2/4 DO maggiore) del 1804.

Quanto agli interpreti, ottima prova della piccola Orchestra Rossini, ben guidata dal corpulento Josè Miguel Pérez-Sierra.

Sul fronte del canto, discreta prestazione di tutti, chi più chi meno in difficoltà nelle parti più virtuosistiche: Hila Baggio (Giulia) con qualche urletto di troppo (ma bene negli acuti spiegati) Paolo Bordogna (Germano) con qualche problema di intonazione sulle note alte e Juan Francisco Gatell (Dorvil) non sempre pulito.

Simone Alberghini ottimo per presenza scenica, appena discreto sul lato canto: nell'aria posticcia ha fatto più il guitto che non il basso.

Chi forse se l'è cavata meglio è stata Josè Maria Lo Monaco (Lucilla) che ha mostrato sicurezza e bella espressione.

John Zuckerman ha degnamente impersonato l'ingenuo Dormont.

Alla fine grande successo per tutti, e per Bordogna in particolare.

La regìa di Damiano Michieletto, in una scena tutta aperta, coglie alla perfezione lo spirito dell'opera. Gli perdoneremo qualche sconfinamento nell'avanspettacolo, ma evidentemente il regista, con le farse, si trova perfettamente a suo agio (smile!)

Fuori, Pesaro è ancora in pieno clima ferragostano, strade, bar e ristoranti ricolmi di gente, la sfera sventrata di Pomodoro in Piazza della Libertà circondata da frotte di ragazzini e la luna, ancora bassa sull'orizzonte, ad est, che stende sul mare appena increspato la sua particolare scala di seta.
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