affinità bombarole

rinsaldato il patto atlantico

20 marzo, 2011

Ancora sui Vespri del Regio di Torino


Anche senza aver assistito dal vivo (cosa che farò prossimamente) provo a buttar giù alcune considerazioni sulla produzione dei Vespri del Regio di Torino, la cui seconda – alla presenza del Presidente Napolitano - è stata trasmessa lo scorso venerdì da RAI-Storia (e Radio3).

Siamo in tempi di celebrazioni, ed è più che giusto che anche il teatro musicale dia il suo contributo alla bisogna, essendo stato a suo modo protagonista delle vicende che si commemorano. C'è caso mai da lamentare che solo due teatri – per quanto importanti (Roma e Torino) - se ne siano ricordati e che si siano ricordati solo di Verdi.

Subito una domanda: la celebrazione si serve presentando l'opera originale e ricordandone – a margine – il ruolo di stimolo che ebbe a suo tempo sulle coscienze personali e collettive, oppure la si serve forzando dentro l'opera originale contenuti estranei, sia pur vagamente legati ai fatti storici che si commemorano, o a scenari di attualità su cui si desidera attirare l'attenzione e stimolare la riflessione del pubblico?

A Roma si è seguita la prima strada: rappresentazione asettica (avrebbe potuto essere benissimo in forma di concerto, e poco sarebbe cambiato) del Nabucco. Scelta assolutamente corretta nel titolo: Nabucco, pur trattando fatti storici del tutto estranei al Risorgimento, era però immediatamente assurta a simbolo dello stesso, issata dagli italiani del tempo come vessillo dell'idea di liberazione e di unità della Patria sì bella e perduta. E oggi la possiamo ascoltare chiedendole di far rivivere anche in noi quei sentimenti di indipendenza e di unità che i nostri antenati provavano ascoltandola quasi 170 anni or sono. Ma senza bisogno di mostrare Zaccaria, Ismaele e Fenena ammantati di tricolore, né sostituendo la Tavola della Legge, recata dal Levita, con il testo della Costituzione Italiana.

A Torino si è scelta l'altra strada. Si è presa un'opera oltretutto nata fuori dall'Italia e che con il Risorgimento poco o nulla ebbe a che fare, e la si è violentata per infarcirvi riferimenti all'attualità (nemmeno al Risorgimento). Scelta assai discutibile, pericolosa e potenzialmente devastante, principalmente sul piano artistico. Perché, se si intende o pretende di caricare su un'opera d'arte anche obiettivi e contenuti educativi, allora si sa dove si comincia… ma non dove si va a finire. Sappiamo - o dovremmo sapere - che la vicenda dei Vespri con il Risorgimento c'entra come i cavoli a merenda. Perciò, proprio una celebrazione come questa avrebbe dovuto essere l'occasione buona per fare finalmente piazza pulita – tanto sul piano storico come su quello artistico – di tutte le scorie di retorica pseudo-risorgimentale che si sono accumulate su di essa. Sarebbe stata davvero un'operazione di educazione civica, oltre che culturale. Invece, si è aggiunta nuova cartapesta e pericolosa retorica a quanta già sfornata nel passato.

Primo: proporre paralleli fra lo scenario della Sicilia del '200 e quello dell'Italia di metà '800 (e, peggio, con quello di oggi, come accade a Torino) è semplicemente assurdo, quindi altamente diseducativo. La Sicilia di fine medioevo era un crogiolo di etnie e di civiltà che si erano via-via stratificate nei secoli, a fronte di perenni invasioni e conquiste: greci, fenici, romani, goti, islamici, normanni, svevi e – al tempo dei Vespri – angioini. I Vespri furono una rivolta - come ce ne sono mille al mondo, e non per questo sono tutti risorgimenti - di gente semplicemente esasperata dal vessatorio dominio dell'ennesimo padrone straniero (Angiò, imposto dal Papa). In luogo del quale – manovrando e cavalcando opportunisticamente le sommosse succedutesi a quella di Palermo - i baroni siculi guidati da Procida intendevano ripristinare un altro tutore straniero: il ghibellino svevo, che era molto amato, magari a buona ragione, in Sicilia (ma abbastanza odiato da altre parti, e non solo dai guelfi, e massimamente al Nord, visto che aveva vendicato il Barbarossa, catturando il Carroccio; per di più il suo regime – pur caratterizzato da mecenatismo e cultura - era stato di quelli più accentratori, autoritari e antidemocratici che si possa immaginare). In subordine, tanto per migliorare le cose, i notabili siculi erano pronti ad accogliere a braccia aperte il suo parente spagnolo.

Cosa abbia tutto ciò a che fare con un movimento genuinamente patriottico, indipendentista e unitario, fondato su basi ideali e sullo sviluppo di un pensiero filosofico, politico e culturale come quello che animò la prima metà dell'800 italiano, è davvero un mistero. Meno ancora ha a che fare con i problemi della nostra contemporanea società, che soffre di malattie sociali allora del tutto sconosciute. Se poi consideriamo gli sbocchi che i Vespri ebbero nei decenni successivi (la progressiva decadenza della Sicilia) ne abbiamo abbastanza per capire che quello fu tutto tranne che un bell'esempio di rivendicazione di autonomia e indipendenza, men che meno di unità o di democrazia.

Secondo: il Verdi che affrontò l'impresa Vêpres nemmeno lontanamente pensava di farne uno strumento di propaganda risorgimentale: a lui premeva – e come dargli torto – di entrare con successo all'Opéra di Parigi, e il soggetto non fu di certo una sua scelta, ma gli fu sottoposto-imposto da Scribe&C, delegati dall'Opéra medesima alla bisogna. E nel libretto di Scribe, di patriottismo ce n'è assai poco: c'è un miscuglio di interessi o rivincite personali (Procida, Elena), ci sono crisi di identità (Arrigo, che scopertosi mezzo-galletto, smette di fare l'irredentista e poi Elena, che scopertasi innamorata di un mezzo-francese, dimentica le sue vendette anti-francesi) e c'è la tracotanza del tiranno (Monforte) mitigata però dall'amor paterno per il figlio mezzo-siculo (è un caso che il tema più famoso dell'opera sia proprio quello cantato insieme da padre e figlio, che assommano ad un totale di 3/4 di sangue francese?)

E poi: Monforte non risparmia per caso la vita, e per ben due volte, a Procida? Ed Elena – dopo averlo maledetto come assassino del fratello - non accetta di buon grado la sua protezione, a ciò consigliata dal machiavellico e assai poco patriottico salernitano? Addirittura, nella versione originale francese, Elena alla fine si oppone a Procida, che la fa massacrare insieme a tutti gli altri, gridando ai quattro venti la sua vera natura: Frappez-les tous! Que vous importe? Français ou bien Siciliens, Frappez toujours! Dieu choisira les siens! Insomma, Scribe mise furbescamente insieme un minestrone cerchiobottista, che sembra fatto apposta per evitare usi irredentisti in Italia e rimostranze scioviniste in Francia. E Verdi mostrò quanto nullo fosse il suo interesse per gli aspetti patriottici dell'opera allorquando – pur di farla a tutti i costi rappresentare in Italia – suggerì lui stesso di ri-ambientarla in Portogallo! Solo dopo la proclamazione del Regno d'Italia, quindi a Risorgimento concluso, l'opera verrà stampata con titolo e testo italiani, ed entrerà faticosamente nel repertorio.

Quindi – sembra paradossale, ma è così - fu il Risorgimento ad aiutare i Vespri verdiani, e non viceversa!

In conclusione, il fatto che nell'800 i Vespri (storici) siano stati contrabbandati come proto-Risorgimento (dalle opere di Amari, al famoso quadro di Hayez, al richiamo nell'Inno di Mameli) e che nel passato, recente e non, i Vespri (opera) siano stati ambientati nell'800 risorgimentale, con tanto di tricolori sventolanti, non trasforma merce di contrabbando in prodotti genuini.

È poi assolutamente falso sostenere che con i Vespri Verdi avesse in mente di stimolare l'amor patrio, o l'impegno civile, degli italiani. E purtroppo queste sono invece le parole d'ordine che sono risuonate in modo martellante attorno a questa produzione dei Vespri, e si sono materializzate in un allestimento volgarmente ed incoerentemente ideologizzato, oltre che stravolgente dell'originale.

Intendiamoci: trasferire l'ambientazione in luoghi e tempi diversi rispetto al libretto non è né un peccato, né tanto meno una novità; e può avere risultati entusiasmanti o merdosi. Come sempre, it depends (così dicono dalle mie parti, su nelle valli bresciane). Da che cosa? Intanto dall'atteggiamento e dalle aspettative (influenzati dal grado di sensibilità e di preparazione) dello spettatore-ascoltatore. Chi ignora i contenuti (soprattutto) estetici dell'opera e va a teatro (o guarda in TV) con atteggiamento passivo, può benissimo accettare e gradire anche allestimenti che snaturano del tutto l'originale (e i suoi contenuti estetici): ha assistito – senza rendersene conto – alla rappresentazione di un maldestro surrogato, o ad una parodia (o, ancor peggio, ad una supposta commemorazione) ma l'ha trovata interessante e applaude convinto. Beato lui, che ha goduto. Ma l'operazione è quanto di più diseducativo si possa immaginare.

Viceversa chi ha un minimo di conoscenza dell'opera originale, e va a teatro per godersi quella, e non per celebrare ricorrenze, per quanto importanti, né tantomeno per prendere improbabili lezioni di patriottismo o di educazione civica, tenderà naturalmente a giudicare ciò che gli viene propinato rispetto a parametri e criteri di valutazione ben precisi, il primo dei quali è la coerenza fra ciò che si vede e ciò che si sente. Sì, perché è questo l'elemento fondante del teatro musicale, e il pregio e il livello artistico-estetico di un'opera sono direttamente proporzionali al grado di coerenza fra immagine, testo e musica. Così come risulterebbe inaccettabile - perché assurdo ed esteticamente nullo - l'accompagnare un testo che esprime euforia con una musica che alle nostre orecchie esprime dolore, e viceversa (salvo casi eccezionali, non infrequenti in Wagner, per dire, in cui si debba esprimere un'evidente dissociazione psicologica) è altrettanto inaccettabile che ciò che viene mostrato in scena contraddica palesemente, e proprio sul piano artistico ed estetico, ciò che si ascolta, testo e musica. Per questo tipo di spettatore (che magari è minoranza, purtroppo) la semplice genialità del regista (o meglio, del suo Konzept) è condizione forse necessaria, ma di sicuro non sufficiente alla riuscita dell'operazione, se non si accompagna con il rispetto della coerenza di cui sopra.

Artefice di questo mistificatorio allestimento è Davide Livermore, un regista che applica – vantandosi pubblicamente, per di più, di agire nel pieno rispetto della partitura – l'odiosa metodologia del Regietheater più bieco: inventare un proprio Konzept (in questo caso un classico cliché ideologico marxista-leninista in salsa socialdemocratica: la condanna dei mali dello stato borghese e il richiamo a superiori ideali di giustizia) per poi adattargli attorno il capolavoro da rappresentare. E chissenefrega se quel capolavoro tratta di tutt'altro: per il regista è solo un volgare strumento di promozione del suo messaggio (in questo caso, ideologico) e al servizio di questo viene piegato in tutti i modi. E ha anche la faccia tosta di sentenziare, il regista: Qui si fa arte, non politica… Arte? Di sicuro, Zdanov approverebbe.

Ma adesso entro nel merito. Cominciando dallo scenario generale, per poi esaminare qualche dettaglio.

Ciò che è scritto nel libretto di Scribe musicato da Verdi (sì, la partitura, caro Livermore) e ciò che sentiamo cantare – parole e musica – sul palco, è uno scenario così articolato: c'è una contrapposizione fra due (non tre, teniamolo subito presente, questo particolare) protagonisti di massa, 1. i francesi occupanti da una parte e 2. i siciliani oppressi e vessati, dall'altra. All'interno di questo macro-scenario - e sullo sfondo di piccole manifestazioni di insofferenza verso i francesi da parte del popolo vessato - si muovono i quattro protagonisti principali: il tiranno Monforte e i tre presunti irredentisti (Elena, Arrigo e Procida, in ordine di apparizione) che ne progettano la morte. Uno solo di questi quattro (Procida) si manterrà ostinatamente e pervicacemente fermo nel suo disegno (ammazzare Monforte per far sollevare i siciliani) mentre gli altri tre vivranno laceranti vicende esistenziali, stupendamente musicate da Verdi, determinate dalla rivelazione e dall'insorgere di affetti personali (Monforte che scopre di essere padre di Arrigo; Arrigo che si scopre mezzo-francese e opera contro Procida, vanificandone gli attentati al padre; Elena che dimentica il suo odio per Monforte e la sua sete di vendetta dopo essersi innamorata di Arrigo ed avere scoperto poi la verità sulla sua identità).

Ora, nel Konzept di Livermore lo scenario generale è la Sicilia di oggi (da 150 anni parte dello Stato italiano) dove si muovono – questa è cronaca di tutti i giorni – non due, ma tre macro-protagonisti: 1. lo Stato italiano (con le relative Forze dell'ordine e i liberi, sulla carta, organi di informazione mediatica); 2. il Popolo siciliano, desideroso di pace, prosperità e giustizia dentro (non contro) lo Stato italiano; e 3. la mafia, il cancro anti-stato che ne corrompe il tessuto sociale.

Ohibò, gia qui ci sarebbe da rinunciare all'impiego dei Vespri, per supportare il Konzept, poiché sappiamo che l'opera originale ci presenta solo due macro-protagonisti, e non tre. Ma Livermore non si perde d'animo, lui ha inventato il suo straordinario Konzept e chissenefrega se l'originale di Verdi non lo supporta? Elementare, Watson! Si piega l'originale alle esigenze maieutiche del regista. Strepitoso, bravo, bene, bis!

Quindi adesso sappiamo che Livermore ha un problema: come rappresentare i suoi tre macro-protagonisti, visto che Scribe-Verdi ne forniscono solo due? Semplice, si assegnano due ruoli (lo Stato italiano e la mafia!) ad uno stesso protagonista (Monforte e i suoi sgherri). Magari facendogli indossare e togliere una maschera di gomma, quasi che Stato italiano e mafia fossero lo stesso soggetto, che di volta in volta si traveste (!?)

Ce n'è già abbastanza per prendere Livermore per pazzo, ma vediamo i dettagli.

Cominciamo dal primo atto, dove Elena canta il suo dolore privato per il fratello, giustiziato dagli odiati francesi. Ma cu fu, costui? Fu tale Federico d'Austria (amico e sodale dello svevo Corradino) uno che la Sicilia manco la vide in fotografia (smile!) dato che fu decapitato insieme allo stesso Corradino (non a Palermo, ma a Napoli, dai francesi) mentre era in viaggio verso l'isola. Mi dite voi che cazzo ha a che fare con Vito Schifani, il caposcorta di Falcone, siciliano d.o.c. e martire dello Stato italiano? Elena, irrisa dai gendarmi francesi, canta (la partitura di Verdi) un invito ai siciliani per riprendere in mano le loro sorti, e ciò fa nascere una mezza sommossa contro gli occupanti francesi. Ora, cosa vediamo noi in scena e in TV? La vedova di Schifani che si scaglia contro la mafia; e la polizia di Palermo, Italia, che tiene a bada una folla inferocita. Ma allora chi si sta fronteggiando qui? Il popolo italiano e la Polizia dello Stato italiano. Quindi, lo Stato italiano sarebbe l'occupante straniero? Mandante ed esecutore dell'ammazzamento del fratello di Elena? Del quale adesso si fa però il funerale di Stato? Dove interviene Monforte nei panni di un alto funzionario dello Stato italiano… Monforte che invece nell'opera di Verdi rappresenta il tiranno francese occupante!?

Ecco a dove porta l'idea scellerata di Livermore di usare i Vespri per presentarci la sua brillante lezioncina di educazione civica. Ma ci si rende conto dell'assurdità di tutto ciò?

E come nulla fosse noi vedremo – perché questo è ciò che sta scritto sul libretto, e fu musicato da Verdi, e viene cantato in scena – che Elena si innamorerà di un rivoluzionario siciliano, al quale affiderà la sua vendetta contro gli uccisori del fratello. Ma quel giovane si scoprirà figlio illegittimo dell'occupante francese (ma qui è lo Stato italiano, o la mafia, vero Livermore?) e di conseguenza smetterà di fare il rivoluzionario, anzi salverà il padre dai complotti di Elena&C. Dopodichè Elena per amor suo abbandonerà il popolo e passerà con gli occupanti (lo Stato italiano, o la mafia?) Ma che figura ci fa adesso la vedova di Schifani? Roba da chiodi, anzi da denuncia per diffamazione!

Passiamo al secondo atto: Procida arriva sull'isola e canta la sua nobile O tu, Palermo, terra adorata. Cosa ci indica il libretto, ad ambientazione di questa accorata e dolcissima perorazione? Le coste palermitane, circondate da colline fiorite e sparse di cedri e d'aranci. E Verdi splendidamente esprime i sentimenti che quella vista suscita, con una musica in uno struggente SOLb maggiore, che sembra precisamente emanare profumo di zagara. Ora domandiamoci: se il libretto, puta caso, avesse invece previsto una scena ingombra di patiboli e ceppi, disseminata di teste siciliane mozzate dai francesi del bieco Monforte, Verdi secondo voi ci avrebbe scritto sopra quell'aria sbudellante, tutta inghirlandata di arabeschi dei flauti?

Orbene, cosa ci mostra appunto la disgraziata ambientazione di Livermore? L'autostrada e le auto sventrate dall'attentato di Capaci! Ma ce la vedete, anzi sentite, questa musica a fare da colonna sonora alle immagini – e agli odori - di una strage?

Ma torniamo ai fatti. Siamo quindi in presenza della strage mafiosa più terribile della nostra storia recente. Ma Livermore non può farci capire chi sono i responsabili, perché è a corto di personaggi. O meglio: stando a ciò che sentiamo, Procida canta il suo desiderio di vendetta contro gli occupanti francesi e, insieme ad Elena e Arrigo, pianifica l'attentato contro il loro capo, Monforte, ritenuto responsabile dell'assassinio del fratello di Elena (quindi della strage di Capaci?) Ma il Monforte che vediamo (quello di Livermore) è un alto funzionario dello Stato italiano (o è invece un capocosca mafioso? o entrambe le cose insieme? fa lo stesso?) Quindi Procida con chi ce l'ha? Il personaggio storico fu un illustre medico, e anche diplomatico, che si adoperò in tutti i modi per contrastare gli angioini. In favore dell'indipendenza della Sicilia? Ma manco per niente: per cercare di imporre il ritorno dei suoi protettori-clienti Hohenstaufen. Per Scribe e Verdi è un cospiratore di pochi scrupoli, che ha come unico obiettivo ammazzare Monforte. Ma con Livermore ancora non capiamo se Procida sia un irredentista, un brigatista, o un mafioso di una cosca nemica di quella che ha cacciato i suoi compari (che però non sappiamo distinguere dallo Stato italiano, perché in scena c'è solo Monforte, vero Livermore?)

Chi ci capisce qualcosa?

Il terzo atto ci mostra la rivelazione di Monforte ad Arrigo, che subito cambia atteggiamento e, in luogo di ammazzare il padre tiranno, lo salva dall'attentato di Elena e Procida, che vengono imprigionati. Che dobbiamo pensare, caro Livermore? Che anche Arrigo è un picciotto? O si è scoperto figlio del capo della Polizia italiana? Ce lo vorresti spiegare, di grazia?

Nel quarto atto Arrigo si rivela (per figlio di Monforte) ad Elena. E qui la donna cambia a sua volta campo, passando da quello del popolo italiano a… chi? Lo Stato italiano, o la cosca di Monforte-Arrigo? Chiedere a Livermore, prego.

Nel quinto e ultimo atto assistiamo al tira-molla (matrimonio sì, matrimonio no) fra Elena e Arrigo, con Procida che ha predisposto tutto per la sommossa che dovrà far secchi Monforte e tutti quanti, francesi e collaborazionisti siculi. E quando il matrimonio avviene e suona la campana noi sentiamo, ma proprio bene, il popolo siciliano che si appresta a massacrare i francesi cantando a squarciagola:

Vendetta! vendetta!
Ci guidi il furor!
Già l'odio ne affretta
Le stragi e l'orror!
Vendetta, vendetta
È l'urlo del cor!

Vendetta, vendetta, vendetta!


Ora, il nostro maestro Livermore, poveraccio, si è preso sulle spalle il pesante fardello di educare gli italiani alla giustizia, alla democrazia e alla non-violenza. Quindi, mica ci può far vedere il massacro, che è una delle pochissime verità (storiche e… operistiche) dei Vespri. Perciò, dopo aver già rovinato tutto il resto, si copre con l'iride della pace e manda all'aria anche il finale di Verdi. Mostrandoci il Parlamento (italiano, o regionale, di oggi) dove tutti – occupanti francesi, o mafiosi? e italiani per bene? – si purificano sotto l'Art.1 della Costituzione.

Demenziale. Insomma, l'allestimento di questi Vespri torinesi pare a me una indegna operazione di marketing per il 150°, diseducativa e volgare. Non lamentiamoci poi se i nostri giovani non prendono a cuore il rispetto e il ricordo delle nostre radici, da un lato, e snobbano sempre di più il teatro musicale, dall'altro. E spiace che il Presidente si sia – involontariamente, di certo – prestato per dare lustro a questa pagliacciata.
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19 marzo, 2011

I Vespri Siciliani secondo il dottor Stranamore



1. La Polizia italiana è una forza straniera di occupazione.

2. La strage di Capaci fu opera della Polizia italiana.

3. La vedova del caposcorta di Falcone si è invaghita di un figlio illegittimo di Provenzano.

4. L'attuale Parlamento Italiano è incostituzionale.


Beh, come lezioncina per il 150° non è davvero male.

Post-scriptum: la conduttrice di RAI-Storia ci ha informato che l'autore del libretto è tale Victorien Sardou.
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18 marzo, 2011

Stagione dell’OrchestraVerdi - 27



Torna all'Auditorium il simpatico (e soprattutto bravo!) John Axelrod, con un programma di quelli da collezione popolare, o da inserto+CD del quotidiano di turno.

Prima di cominciare, si dedica il concerto al martoriato Giappone e si suona – e canta, in platea – l'Inno di Mameli. L'orchestra è schierata (come accade sempre più spesso) con i contrabbassi in fila frontale, fra percussioni e ottoni. Viole al proscenio. Il Konzertmeister Santaniello torna per l'occasione all'antico look con capelli stirati e codino.

Poi Axelrod attacca lo straussiano Don Juan, la prima di sette (o nove, se si includono la Sinfonia Domestica e Eine Alpensinfonie, o dieci, se ci si aggiunge anche Aus Italien) composizioni che sono etichettate con il termine poema sinfonico. Termine che era stato coniato da Liszt per definire della musica puramente strumentale, ma ispirata ad un programma letterario (di solito). Strauss usò invece il termine Tondichtung (letteralmente poema in suoni) per sottolineare come il programma poetico fosse per lui soltanto uno stimolo per l'espressione, in suoni appunto, dei propri sentimenti, e non lo spunto per una descrizione in musica di fatti/personaggi di natura materiale. (Quanto ciò sia coerente con opere come Ein Heldenleben, o peggio ancora come la Sinfonia Domestica, sarebbe da discutere.)

Ispirato al poema di Nikolaus Lenau, il Don Juan di Strauss sprizza esuberanza, vitalità, perenne ricerca dell'ideale femminino spinta – oltre l'erotismo - fino all'eroismo. Mirabili sono gli intermezzi amorosi, i corteggiamenti e gli abbandoni che vi sono disseminati (l'oboe di Emiliano Greci è strepitoso nel descrivere la principale love-scene, in SOL). Romantica fino all'estremo la conclusione dell'esistenza dell'eroe: quasi un tristaniano suicidio, sottolineato dal dissonante FA naturale delle trombe, poi dei corni, che cade sul MI, la tonalità del Don, che a sua volta va scemando, prima da maggiore a minore, per trovare pace sul MI all'unisono (archi in pizzicato, controfagotto, tromboni, tuba e timpano) delle due conclusive semiminime.

È curioso notare come la composizione (606 misure) sia tutta in tempo alla breve (2/2) eccetto cinque singole battute: la 30 (in 3/4) la 433 e 440 (3/2) la 507 (2/4) e la 542 (3/2). Axelrod ne cava fuori tutta l'energia e la cantabilità, ben coadiuvato dall'orchestra, dove gli ottoni sono chiamati ad imprese titaniche. A proposito, è sempre emozionante ed impressionante l'emergere improvviso del tema eroico del Don:



Ieri peraltro i corni mi sono sembrati, come dire, un po' trattenuti da Axelrod, mi sarei aspettato più grinta ed… eroismo! Comunque il pubblico non ha fatto di certo mancare applausi convinti.

Benedetto Lupo si siede quindi al pianoforte per suonarci il Primo Concerto di Franz Liszt. Pezzo che è stato al centro di altri due programmi sinfonici contemporanei lunedì scorso: suonato da Barenboim con la Filarmonica diretta da Wellber alla Scala e da Boris Berezovskyi con la Santa Cecilia diretta da Pappano (quest'ultimo concerto è stato trasmesso in streaming). Il Primo di Liszt ha l'incipit forse più enfatico e drammatico che sia mai stato scritto:



È un concerto davvero innovativo (per quei tempi): oltre ad avere una forma ciclica, con temi che tornano variati nel corso della composizione, vi si trovano indicazioni agogiche inconsuete, quali: grandioso, strepitoso, quasi Arpa! Addirittura ci sono parti che sembrano orchestrate per Triangolo obbligato (guardando la ripresa dal Parco della Musica si noterà che il percussionista era dislocato al proscenio, proprio a fianco del solista, in veste di vero e proprio concertante…)

Benedetto Lupo sa essere contenuto, pacato e sognante nell'iniziale parte solistica – che sembra una cadenza - del Quasi adagio; per il resto non lesina di certo gli effetti, anche i più plateali, nelle volate a rotta di collo, come nei poderosi passaggi con scale di ottave, mostrando tecnica eccezionale (non scalfita da qualche piccola imprecisione) e suscitando l'entusiasmo del pubblico.

Dopo l'intervallo torna ancora Lupo nella lisztiana Totentanz, questo Dies Irae trasformato in una specie di ballata infernale (Danse macabre ne è il sottotitolo). Concetto subito e perfettamente inquadrato dall'introduzione, dove il RE minore del canto gregoriano, esposto da fiati e archi è inquinato dai SOL# e SI naturale di pianoforte e timpani, che letteralmente satanizzano il Dies Irae con un'orgia di tritoni. Fino ad esplodere – battuta 11 – in quel terrificante accordo di tutta l'orchestra (solista escluso) che sembra far materializzare davanti ai nostri occhi Belzebù in persona. Chi pensava che Berlioz – nel suo incubo sabbatico - avesse raggiunto il limite, qui deve ricredersi (molto più tardi peraltro anche tale Rachmaninov, col Dies Irae, ne combinerà di cotte e di crude).

Lupo non si tira indietro (si guarda bene dall'accorciare il pezzo, come pure suggerito dall'Autore) né cerca di indorarci la pillola: usa il pianoforte proprio come strumento a percussione e lo strapazza per benino. (Dopo due pezzi come questi di Liszt mi sa che lo strumento necessiti di ore e ore di riaccordatura, smile!) Alla fine si merita il gran trionfo che il pubblico gli tributa per lunghi minuti.

Si chiude tornando a Strauss, con la Suite del Rosenkavalier, un piatto francamente un tantino stomachevole, come trangugiare in tre soli bocconi un'intera Sacher. Strauss va perdonato, perché si limitò ad acconsentire (ma aveva poca scelta, alla fine del 1944!) alla cottura di questo raffazzonato minestrone, fatta in USA da Artur Rodziński. Così la si prende come un'appendice tardiva del concerto di capodanno, e via con gli applausi (che ovviamente si meritano in pieno Axelrod e soprattutto i professori!)

Per l'appuntamento n°28 ci sposteremo decisamente nel XX e XXI secolo! Ma prima ci sarà una parentesi patriottica: domenica 20 il Presidente di tutti gli italiani (non quell'altro che piace soprattutto ad evasori fiscali, puttanieri e piduisti, e della cultura se ne fa un… bunga-bunga) sarà in Auditorium per celebrare, con l'Orchestra e il Coro de laVerdi, i 150 anni di Unità d'Italia.
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11 marzo, 2011

Stagione dell’OrchestraVerdi - 26


Siamo nell'anno di Mahler, e il ciclo prosegue con la Quinta Sinfonia, diretta da Xian Zhang e degnamente introdotta, nell'ambito del meritorio ciclo di conferenze sulle sinfonie del boemo, da un intervento di Maurizio Corbella, eclettico musicista-musicologo-compositore-attore-ed-altro-ancora.

Ma come prologo abbiamo un pezzo assai poco eseguito, e non solo perché venuto alla luce nel 1989 (la caduta del muro però non c'entra…) Si tratta di Rendering, opera che Luciano Berio ricavò da abbozzi di Schubert per quella che avrebbe potuto essere la sua decima sinfonia in RE maggiore. Molti di noi hanno in mente il motivo dell'Allegro finale, per essere da anni impiegato come sigla di un container di Radio3:


Qui una registrazione di Eschenbach. Questa (supposta) sinfonia è stata anche completata da Brian Newbould, che ha dedicato una vita a ricostruire opere di Schubert a partire da schizzi e abbozzi. Qui la sua versione diretta da Marriner.

La peculiarità di Rendering consiste nel singolare approccio con il quale Berio ha affrontato l'impresa di portare alla luce la sinfonia. A differenza di Newbould, che si è messo nei panni di Schubert e ha prodotto un lavoro compiuto, ma ovviamente apocrifo (un po' come il suo compatriota Derick Cooke si comportò con un'altra Decima, quella di Mahler) Berio ha invece evitato di comporre à la Schubert, ed ha riempito i tasselli mancanti al mosaico del manoscritto originale con proprie e perfettamente distinguibili tessere (in cui c'è del materiale schubertiano) che di volta in volta sfumano da Schubert verso Berio (atonalità, dissonanze, suono della celesta) e viceversa. Insomma, non ha completato, né ricostruito, ma ha appunto portato alla luce ciò che Schubert ci ha lasciato, non solo rendendo udibili le parti originali, ma mostrandoci chiaramente anche le lacune che l'ormai quasi moribondo compositore non fece in tempo a colmare. Insomma, un approccio a sua volta non poco narcisistico, se si vuole, ma almeno originale. (Personalmente trovo insopportabile la ricostruzione di Newbould.)

Si è ampiamente notato come l'atmosfera dell'Andante abbia un sapore mahleriano: e certo da Schubert il boemo prese innumerevoli spunti. Ma a me colpisce anche il secondo tema dell'iniziale Allegro maestoso, in LA, che sembra un germoglio da cui sboccerà quasi 30 anni dopo il primaverile Winterstürme:


(Certo Wagner nulla poteva sapere di quello schizzo schubertiano, ma la somiglianza balza all'orecchio, anche nell'armonizzazione.)

Delicata e misurata l'interpretazione di Zhang, che fa proprio emergere le tracce di Schubert da una specie di nebbiolina beriana.

Ecco poi la Quinta di Mahler, eseguita anche nella stagione scorsa (con Damian Iorio). Ieri è sembrata uscire irrobustita dalle mani di Zhang. Che evidentemente sta lasciando sempre di più sull'orchestra la sua precisa impronta interpretativa. Lo Scherzo e l'Adagietto (lentissimo, ma mai sdolcinato) mi son parsi al limite dell'eccellenza, ma tutta la sinfonia è uscita in modo splendido, negli insiemi e nelle parti solistiche, la tromba di Caruana e il corno di Ceccarelli in testa a tutti. Insomma, un'esecuzione di quelle che ti lasciano davvero qualcosa dentro.

Prossimamente ancora romanticismo, maturo e …tardo.
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09 marzo, 2011

Più bunga-bunga, meno Vespri

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Death in Venice, Life (?) in Scala



Death in Venice (ieri alla sua positiva seconda, dopo una prima filata via altrettanto liscia, a giudicare dall'ascolto di Radio3) è la quintessenza di un teatro musicale che mai e poi mai avrebbe potuto e potrebbe giustificare l'esistenza dei loggioni (termine da intendersi in senso antropologico e non catastale; tipo le curve degli stadi calcistici, per capirci).

 
Neanche la fantasia più sfrenata potrebbe immaginare il formarsi – sull'oggetto: come interpretare Britten? - di tifoserie e fazioni nemmeno lontanamente parenti di quelle accanite e ringhiose che si sono ancora di recente affrontate sul selciato antistante il Piermarini. Vi immaginate una diatriba tra chi loda la purezza dei declamati dell'Aschenbach di turno (di 16 o 18 o… 34 note senza indicazione di lunghezza) e chi lamenta che il direttore non ha fatto emergere con pienezza estetica la putridità dei canali della Serenissima? Anche il rilievo dato nella circostanza da giornali, siti e blog è quello che, nello sport, si riserva ad un concorso ippico (magari con telecronaca di Alberto Giubilo, riding-cap in testa, ai tempi) o a una partita di polo (smile!) Eppure si tratta di un esordio assoluto dell'opera alla Scala…

 
Dove il pubblico (ieri occupante non più del 75% dei posti disponibili, e ciò vorrà pur dir qualcosa…) ha ascoltato in silenzio, ha applaudito solo dopo che l'addetto alle luci ha aperto l'interruttore generale dell'elettricità del teatro – come si fa altrimenti a sapere se l'atto è finito? – e ha dato mostra di aver gradito lo spettacolo con applausi durati parecchi minuti (anche perché i solisti del coro di Casoni e le altre comparse – decine di persone – si sono presentati alla spicciolata, smile!) Poi se n'è tornato a casa – non pochi anticipando il rientro già all'intervallo, per la verità - come dopo una messa dei morti, felice per aver fatto un fioretto quaresimale e con lo spirito sollevato perché la prossima messa sarà celebrata solo fra un mese o più ancora. Domanda: quanti rinnoverebbero l'abbonamento, se il cartellone prevedesse 10 opere di questo tipo?

 
A questi risultati porta il progresso. Eh sì, perché ascoltando la famigerata Tosca, chiunque non può non ficcarsi in testa almeno i tre volgarissimi accordi che aprono l'opera, e poi ricollegarli al volgarissimo Scarpia, visto che tornano regolarmente ogni volta che lo sbifido siculo aleggia nei paraggi. E pazienza se uno ignora che fra le note estreme dei tre suddetti accordi c'è la distanza del diabolus… Col Britten di Death in Venice la cosa è un pochino più ardua. Perché anche qui c'è – per dire, ed è solo un esempio – un Leit-motiv principale (se così si può chiamare) dell'opera, ma decifrarlo non è propriamente facile, meno ancora riscoprirlo nel seguito, per collegarlo ad eventi, stati d'animo e così via.

 
Compare per la prima volta accompagnando il verso d'esordio del Viaggiatore, che è il primo di sette diversi personaggi interpretati dallo stesso cantante (basso-baritono); personaggi che rappresentano in qualche modo le forze dionisiache che dapprima intaccheranno, quindi mineranno e infine distruggeranno l'apollinea irreprensibilità di Aschenbach. Il viaggiatore misterioso è in realtà un serpente tentatore (nel racconto di Mann, nemmeno parla) che stuzzica la curiosità e poi l'irrefrenabile desiderio dell'attempato scrittore con la promessa di meraviglie svelate (Marvels unfold). Lo canta sulle note RE-DO-MI-RE#:

Il quale Aschenbach, dopo aver cercato di ignorare lo straniero, cade invece preda dell'irresistibile desiderio (sudden desire for the unknown) che vorrebbe tener celato al pubblico (il quale deve ignorare la fonte d'ispirazione dell'Artista!) ma che traspare impietosamente dal suo stesso canto, precisamente mutuato da quello del viaggiatore, RE-DO-MI-RE#:

(Tanto per complicare le cose, il declamato di cui sopra può essere tagliato – Britten consenziente – e tagliato viene in questa produzione). Il tema ha effettivamente un che di arcano, non è per nulla rassicurante. Infatti presto le meraviglie e l'ignoto si manifesteranno per qualcosa di assai poco meraviglioso e di molto tristemente conosciuto: il colera! È la musica – basta cercare con pazienza - a spiegarcelo inequivocabilmente, attraverso la tuba, che espone il tema (RE-DO-MI-MIb) all'inizio del secondo atto, dopo che il barbiere si è lasciato sfuggire la verità; e poco dopo attraverso i corni, che lo innalzano di una terza maggiore (FA#-MI-SOL#-SOL) e subito dopo di una terza minore (FA-MIb-SOL-FA#) sulle domande del perplesso Aschenbach:

Ed ancora riascoltiamo il tema sulle parole che Aschenbach, girovagando per Venezia, legge sul Tagblatt, RE-DO-MI-RE#:

Cases of cholera! E il povero scrittore, che vede l'epidemia come una possibile minaccia alla sua prossimità con l'adolescente Tadzio (o, in alternativa, spera che faccia secchi tutti quanti, tranne se stesso e il suo amore) si vuole auto-convincere del contrario, cantando Ugh! rumors, rumors, rumors… ma proprio sulle note (trasposte) del nostro tema: dapprima LA-SOL-SI-SIb e poi (leggermente variato) DO-SI-RE-REb! La conferma definitiva ci viene dall'accompagnamento dei bassi al preoccupato e preoccupante resoconto sull'epidemia fatto dall'impiegato dell'agenzia di viaggi, ancora RE-DO-MI-RE#:

Ma tutto questo ancora è niente, poiché dovremmo nel frattempo aver scoperto che la malattia vera è quella che si annida nell'Io profondo di Aschenbach, ed è assai più insidiosa (e altrettanto mortale) dell'epidemia. Ecco perché il tema compare subdolamente in altre circostanze, ad esempio verso la fine del primo atto, dopo che lo scrittore ha rinunciato, impotente, ad approcciare Tadzio e riflette sul fatale desiderio: So longing passes back and forth between life and the mind. Con altezze diverse (LA-SOL-SI-LA#) il motivo sottolinea (in corni, arpa e viola) proprio le parole life and mind, la realtà e lo spirito, le due polarità (Dioniso-Apollo) fra cui si dibatte l'Io di Aschenbach. E subito dopo lo udiamo ancora, negli stessi strumenti, ma un semitono sotto, mentre Tadzio passa vicino allo scrittore inebetito e gli sorride (!) spogliandolo definitivamente di tutte le sue apollinee (e ipocrite?) difese e gettandolo in pasto a Dioniso. Il tema torna a farsi sentire, appena variato, all'inizio della seconda parte, nell'accompagnamento del pianoforte, quando il protagonista prende atto e razionalmente/esteticamente cerca di giustificare a se stesso quel suo I love you che nelle ultime battute della prima parte aveva indirizzato a Tadzio. E poi ancora, nelle tube, durante l'onirica orgia dionisiaca; e sempre nelle tube al momento in cui l'efebico polacchino soccombe al rude coetaneo Jaschiu nella zuffa sul bagnasciuga che precede l'epilogo.

 
Di questo passo potremmo anche scoprire che di una certa malattia dell'Artista aveva già trattato qualcuno, in un'opera musicale, addirittura 30 anni prima che Thomas Mann venisse al mondo: mettendo in parole e musica baccanali chèz Venus e severe tenzoni canore in quel di Turingia. E comunque, con tutto ciò avremmo solo esplorato la punta di un iceberg, figuriamoci! Aggiungiamo poi che parecchi interrogativi e lati oscuri dell'opera si possono chiarire solo dopo aver letto la novella di Thomas Mann che ispirò Britten-Piper: ad esempio che i risvolti omosex-pedofili della vicenda - pur tanto cari al compositore (come al sommo Luchino) e impiegati dal marketing teatrale per stuzzicare la curiosità morbosa dello spettatore verso una cronaca di turismo sessuale – sono solo una, e forse nemmeno la più importante, delle componenti del dramma; e che al fondo di Death in Venice - come di Der Tod in Venedig – c'è invece qualche problemino da nulla, filosofico-estetico-esistenziale, vecchio quanto il mondo.

 
Considerazioni per nulla nuove, queste, e presentate in modo assai più dotto e strutturato sul programma di sala, che però uno si dovrebbe studiare per bene prima di andare a teatro, invece di scorrerlo in fretta nei 5 minuti che precedono il via, o nei 10 di intervallo.

 
A proposito di programmi di sala, quello distribuito nell'occasione è al 70% scopiazzato – per gentile concessione - da quello che nel 2008 venne meritoriamente prodotto – ed è disponibile in web - dalla Fenice di Venezia. Incluso il libretto con la traduzione di Renato Pontiggia, ma senza la preziosa esegesi di Daniele Carnini (a pag.41 del citato programma) che qui viene indicato, come revisore del testo, con il nome di Davide Carnivi (ma è solo un imperdonabile errore di stompa, o c'è dietro qualcos'altro?)

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La produzione viene da Londra (E.N.O.) dove nel 2007 ottenne un successo (non incontrastato peraltro) di critica. L'allestimento di Deborah Warner prevede scene minimaliste, ma proprio per questo assai adatte a gestire i frenetici andirivieni Lido-Venezia; ci sono abili giochi di luci per trasmettere sensazioni ed emozioni; efficaci i movimenti delle masse e dei singoli; encomiabili i danzatori della scuola dell'Accademia scaligera e su tutti il Tadzio di Alberto Terribile. Personalmente mi sento invece di censurare l'eccessiva caricaturizzazione di Aschenbach, presentato fin dall'inizio non solo come un individuo in preda a dubbi di natura intellettuale e a vaghe inquietudini da crisi di ispirazione artistica, ma anche come un personaggio in uno stato di permanente crisi epilettica, sempre sospettoso, scontroso e in guerra con tutti e tutto. Insomma, viene così a mancare quel drammatico crescendo che caratterizza il percorso dello scrittore verso l'abisso.

 
John Graham-Hall (a parte la citata e discutibile caratterizzazione attoriale) ha mostrato di padroneggiare assai bene il ruolo sul lato vocale: efficace espressione e chiarezza e profondità del suono. All'opposto (mi è parso) Peter Coleman-Wright, eccellente nel proporre i sette ruoli – e diversissimi – in cui è impegnato; ma un po' meno sul piano vocale, dove ha faticato a penetrare gli ampi spazi del Piermarini. Meglio di lui l'Apollo di Iestyn Davies. Fra gli altri interpreti minori citerei Jonathan Gunthorpe, l'efficace impiegato dell'agenzia di viaggi e Anna Dennis, la venditrice di frutta. Da elogiare incondizionatamente il coro di Casoni, che qui è chiamato, oltre che a cantare, anche a dare corpo e volto alla varia umanità che circola in albergo e in città.

 
Edward Gardner deve essere uno che sa come gestire un'orchestra, a giudicare dagli applausi arrivatigli dal teatro, ma più ancora dalla buca!
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04 marzo, 2011

Stagione dell’OrchestraVerdi - 25



Gran concerto con Xian Zhang, che si cimenta con un programma tardo-romantico.

Orchestra ipertrofica (salvo che per Ciajkovski) con i contrabbassi schierati in linea sul fondo, davanti alle percussioni e dietro ai fiati.

L'antipasto è il Capriccio Spagnolo di Rimsky, un classico brano adatto a rompere il ghiaccio e mettere il pubblico di buon umore. Il compositore russo lo trasse da una raccolta di musiche popolari spagnole, Ecos de España (da cui il titolo corretto di Capriccio su temi spagnoli) di José Inzenga y Castellanos. L'Alborada, che è presente due volte (1° e 3° brano) in tonalità diverse (LA e Sib) viene da un canto di pastori che salutano il mattino. Le Variazioni (2° brano) provengono dall'asturiana Danza prima (danza serale). La Scena e canto gitano (n°4) viene dall'Andalusia, con le sue caratteristiche note diminuite (secondo, sesto e settimo grado della scala). Chiude in bellezza il Fandango asturiano con un travolgente Presto, che scatena l'entusiasmo.

Fasciata in un lungo scarlatto, arriva poi - per deliziarci con il Concerto per violino di Ciajkovski - Arabella Steinbacher. Che nulla ha da invidiare – a mio modestissimo avviso – con il Leonidas Kavakos ascoltato nello stesso impegno settimane fa con Gergiev alla Scala. Bando alle sdolcinature, che fecero scrivere ad Hanslick di musica che puzza (e più recentemente ne hanno fatto musica che invita al drink) la bella Arabella, e Zhang con lei, ci propongono un Ciajkovski con un profumo di aria fresca, asciutto e nervoso. Gran trionfo per la violinista crucco-nipponica, che ci regala anche un bis (Ysaye?)

Si chiude con lo Zarathustra e la sua fin troppo bistrattata (extra-moenia, non certo qui, eseguita in modo eccellente) introduzione delle trombette all'astro nascente, simbolo della Natura. Un ascoltatore naif (tutti noi lo siamo stati almeno una volta) si immagina che lo sfolgorante inizio non sia, appunto, che l'inizio, e che il suo fulgore debba tornare, necessariamente e addirittura ingigantito, nel corso e soprattutto alla fine del brano. Eh no, qui siamo in piena filosofia, e l'inizio non è in realtà che una luminosa alba alla quale necessariamente seguirà un tramonto, non certo un'alba ancor più luminosa… parola di Nietzsche (che peraltro non aveva inventato nulla, ma aveva magari creduto di interpretare Anassimandro da Mileto). Certo, nel centrale episodio del Convalescente il tema viene riproposto, ma quasi con tracotanza e perfino indisponenza, con tutti gli ottoni (2 tube incluse) in un pesantissimo fff. Poi tornerà – e da ultimo proprio alla fine – quasi come un'impersonificazione dell'apeiron.

Nel lungo cammino dell'Uomo c'è spazio per la religione, e non sarà un caso che - proprio nell'iniziale Von den Hinterweltlern (gli abitanti del mondo trascendente) - Strauss ci infili un paio di riferimenti liturgici, Credo e Magnificat:
L'opera si chiude con una specie di braccio di ferro – dove però, attenzione, le due contrapposte mani si stringono con forza suprema - fra gli accordi in tonalità di SI e di DO (quanta simbologia si portano dietro, e quanta musicale e filosofica distanza):
E quando pare che sia la prima – l'Uomo, lo Spirito - ad avere il sopravvento, ecco che la seconda, la Natura (l'apeiron?) si riprende l'ultima parola, per quanto appena appena esalata: in pizzicato, violoncelli e contrabbassi ne ripercorrono, due volte, il tema iniziale (l'ascensione DO-SOL-DO) e infine, dopo l'ultimo accordo di SI maggiore dei flauti col primo violino sulla dominante FA# superacuto, chiudono, sempre in pizzicato, con tre DO gravi:

In una sala da concerto (magari non accade ascoltando in cuffia un CD) queste note, in tripla p, si rischia di perderle del tutto, se non si sa a priori che ci sono. E comunque l'orecchio nostro fatica assai a distinguere, nel grave, un DO da un SI: e chissà se non fosse proprio questo ciò che Strauss voleva…

Convincente sotto ogni punto di vista l'approccio di Xian Zhang, coadiuvata da una prestazione davvero rimarchevole dell'orchestra (prestazione purtroppo sfregiata da un paio di défaillances della tromba nella seconda parte del Convalescente, quella che porta al Tanzlied: cose che capitano, evidentemente) che le ha meritato un grande successo.

Ancora Zhang per il prossimo appuntamento con Mahler.
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03 marzo, 2011

Il Naso di Shostakovich ritrovato a Reggio Emilia



Dopo avere occupato per 5 giorni consecutivi la scena al Regio di Parma, è transitata da Reggio Emilia – ieri e ieri l'altro - questa edizione del Naso di Shostakovich, opera ispirata al racconto un po' demenziale di Gogol.


Si tratta della ripresa della produzione russa del 1974 (che fu in pratica la riproposizione dell'Opera in URSS dopo l'oblìo in cui vi era caduta). Nel racconto di Gogol si possono cercare e ipotizzare i significati più disparati, da quelli politico-sociologici a quelli freudiani e sessuali. Insomma, qui ci sarebbe ampio spazio non solo per cervellotiche, ma forse anche per interessanti invenzioni da Regietheater… invece Boris Pokrovskij si tenne con i piedi per terra, limitandosi a presentare, più o meno fedelmente, ciò che troviamo scritto nel libretto.

 
Il quale si rifà genericamente al racconto originale, introducendovi peraltro piccole o grandi varianti, quali: il prologo iniziale con la rasatura di Kovalev, il ripristino della scena alla Cattedrale Kazansky (al posto dei Grandi Magazzini, su cui Gogol era stato in pratica costretto a ripiegare per ragioni di censura) e soprattutto la nuova e lunga scena (settima, prima del terzo atto) della movimentata cattura del naso - episodio che nel racconto di Gogol rimane (letteralmente) avvolto nella nebbia e per nulla descritto nei dettagli - per la quale furono impiegati degli spezzoni di altre opere dello scrittore. Infine, nella chiusa, proprio prima dell'ultima esternazione di Kovalev, Pokrovskij inserisce di sua iniziativa una serie di battute recitate dai diversi protagonisti e mutuate quasi alla lettera dall'ultimo paragrafo del racconto di Gogol, dove lo scrittore presenta una specie di giustificazione surreale dei surreali avvenimenti appena narrati.

 
La scena è spoglia e il sipario è sempre aperto: ai lati i costumi dei vari personaggi, appesi ad attaccapanni, sul fondo una pedana con cancellate che servono da siparietto. Rudimentali oggetti (casse, tavolini, sedie, materassi) sono portati e rimossi di volta in volta per supportare l'azione, e sfruttando i tempi dei diversi interludi (presumibilmente previsti in origine proprio in concomitanza con i cambi di scena): quello di percussioni, fra la passeggiata di Iakovlevich e il risveglio di Kovalev; il galop che descrive l'uscita di Kovalev sulla Nevsky Prospekt; quello fra la scena al giornale e la scena a casa di Kovalev (dove Ivan suona la balalaika). In alcuni casi si sfrutta anche la platea - dai lati della quale emergono alcuni personaggi che salgono in scena – ed anche un palco, dal quale un ufficiale di polizia risponde alle richieste di Kovalev. Teatrale anche l'ingresso per il terzo atto del Maestro Vladimir Agronskij, dopo l'intervallo: arriva dal fondo della platea, percorre l'intero corridoio centrale e scende sul podio accolto da due ufficiali zaristi, che richiudono gli sportelli dietro di lui.

 
Spettacolo che scorre davvero senza un attimo di respiro. Ben reso il quartetto delle lettere (Kovalev-Jariskin / Podtotchina-figlia) grazie all'uso sapiente delle luci. Insomma, una produzione tradizionale e gradevole, che merita i complimenti per tutta la compagnia, il Teatro Musicale da Camera di Mosca, fondato proprio da Boris Pokrovskij (scomparso a 97 anni nel 2009).

 
Anche sul piano musicale, note positive: per la piccola orchestra, fatta in pratica da solisti (pochi i raddoppi di strumenti, e solo negli archi) e per gli interpreti (la compagnia ha presentato, sia a Parma che a Reggio, due diversi cast, alternandoli ogni sera). Shostakovich prescrive prevalentemente un canto straniato, come lo sono in fondo tutti i personaggi della vicenda, che paiono sempre recitare la grottesca parodia di se stessi.

 
Il pubblico (aveva occupato sì e no il 60% dei posti del teatro, ahinoi) ha mostrato di gradire, gratificando la compagnia di calorosi applausi.

 
Quel che è certo è che, di fronte ad opere come questa, sarà difficile che si creino tifoserie e fazioni di melomani, come per una qualunque Tosca (smile!)
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02 marzo, 2011

Globalizzazione

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Questo avveniristico edificio…
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è un teatro d'opera... 

costruito in Cina...

progettato da una donna...

che vive a Londra...

ma che è nata a Baghdad.
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