affinità bombarole

rinsaldato il patto atlantico

09 febbraio, 2011

Tannhäuser in pellegrinaggio a Reggio Emilia



Dopo essere stato al centro dell'inaugurazione di stagione a Bologna, questo Tannhäuser (quasi) tutto tedesco è approdato al Valli di Reggio Emilia. Ieri sera seconda e ultima recita, dopo quelle di Bologna, accolte abbastanza tiepidamente (ad essere magnanimi…) E chissà se questa fama non proprio eccelsa non sia responsabile del desolante numero di vuoti che si notavano in platea e soprattutto nei palchi (unica consolazione: parecchi i volti giovani).

Apro con qualche considerazione superficiale e – come ama dire Amfortassemiseria. È ciò che magari si può pensare a prima vista di questa produzione. Intanto, Guy Montavon firma la regìa dell'opera: per intenderci, è come se Lissner in persona mettesse in scena, che so, la prossima Tosca alla Scala (smile!) O come se Moratti si mettesse a fare anche l'allenatore dell'Inter (ri-smile!) Montavon è svizzero trapiantato in Turingia e Tannhäuser è ambientato proprio lì, guarda caso. Peccato che il buon Guy abbia perso l'orientamento, confondendo est con ovest. E così, stando ad Erfurt, invece di guardare a 40Km di distanza a occidente, verso Eisenach, la Wartburg e l'Hörselberg, si è mosso, sempre di 40 Km, verso est, traslocando poeta, trovatori e femmine assortite in quel di Weimar, vicino e dentro la biblioteca mezzo distrutta dall'incendio di 7 anni fa. E chi se ne frega? si dirà… sempre in Turingia siamo e poi: Padrissa non ha per caso teletrasportato tutto e tutti a Bollywood?

Nel fare contemporaneamente il sovrintendente e il regista c'è però qualche vantaggio, apprezzabile nei momenti di crisi: se il manager si accorge che i quattrini scarseggiano, l'artista provvede seduta stante a tagliare i costi della produzione, a cominciare da quelli della scenografia (e magari a quelli del suo doppio-stipendio?) Ecco quindi che sul palco non c'è quasi nulla, e quel poco che c'è è roba che pare recuperata in discarica. Qualche filmato o diapositiva da proiettare su lenzuola e zanzariere, e il gioco è fatto. Se poi la genialità della regìa comporta la presenza di qualche comparsa straordinaria, basta usare il personale (già pagato comunque) dei servizi logistici del teatro, come pompieri e affini.

Certo, messa così, farebbe cadere le braccia, diciamocelo pure. Invece, dietro questa facciata poco promettente, c'è pure qualcosa (per non dire molto) di buono!

La presenza di biblioteca (nel secondo atto) e libretti vari (da subito) indirizza l'attenzione verso una delle problematiche fondamentali (anche se non unica) dell'opera Tannhäuser e della produzione wagneriana in generale: il ruolo di arte e artista nella società. E la scelta della versione da eseguire – quella di Dresda, quindi senza baccanale – mette del tutto in secondo piano le problematiche di natura strettamente religiosa o etico-morale, come il rapporto sesso-religione e carne-spirito.

Il libretto rosso che Tannhäuser si porta dietro è una specie di diario, di brogliaccio di appunti (Beethoven pare ne avesse sempre uno con sé, e Wagner… pure) dove l'artista segna gli spunti e le idee per le sue opere. Venus ne strappa le pagine su cui l'artista ha appuntato il suo anelito alla libertà (dalla claustrofobia del Venusberg, ma in fondo da se stesso e dal proprio auto-isolamento). Pure Elisabeth si porta dietro un libretto (giallo) che è a sua volta un diario, ma non dell'artista, bensì di una sua fan, di una che è stata colpita dalle prime opere dell'artista e le ha documentate, insieme alle sue reazioni. Se ne libera, consegnandolo proprio all'artista, perché lei è adesso irresistibilmente attirata dai contenuti del libretto rosso (che peraltro mai aprirà, custodendolo quasi come una reliquia, dopo la cacciata di Tannhäuser, allo scopo di riconsegnarglielo al suo ritorno da Roma) E altri libretti vengono consegnati ai cantori perché vi appuntino le idee per le rispettive composizioni per la tenzone. La quale tenzone avviene nella biblioteca di Weimar, distrutta dal rogo di libri, che è l'immagine della Wartburg rimasta orfana delle opere dei cantori e di Heinrich in particolare. E nella quale un secondo rogo vorrebbe distruggere il libretto rosso, simbolo dell'arte depravata di Tannhäuser; libretto che invece Elisabeth, appunto, si incarica di conservare. E che, non vedendo tornare Tannhäuser, consegnerà addirittura a Wolfram, quasi a investire il nobile e innamorato cantore della missione di perpetuare la nuova arte che tanto l'ha colpita e portata in uno stato di contraddizione spirituale che si risolverà solo con il sacrificio. Wolfram non saprà che farsene, e sarà ancora Heinrich a riprenderselo nel suo vaneggiamento finale. Ma proprio mentre il sipario cala (sulla doccia scozzese che purifica l'artista) scopriremo che quel libretto rosso è oggi conservato in un moderno scaffale, e viene preso da un ragazzino che mostra di interessarsene più che ad una bella palla colorata!

Ecco un Konzept che – a mio modestissimo avviso – centra nel modo più convincente l'intima essenza di questo dramma wagneriano. Che per il resto è sufficientemente contorto… e sofferto, come dimostrano ampiamente i mille rimaneggiamenti cui Wagner lo sottopose, mai trovandosene soddisfatto. A cominciare dalla ricerca del nesso causa-effetti riguardo al protagonista. Alla fine del secondo atto, dopo lo scoppio dello scandalo, Montavon ci presenta un fondale con la gigantografia – scattata dopo il rogo - dell'interno della Herzogin Anna Amalia Bibliothek; a fianco, una scritta, invero capitale: Il Poeta non appartiene né al mondo degli dei, nè al mondo degli uomini.

Chissà se è una frase (ad effetto) scritta dal megalomane Wagner in qualche suo libello (potrebbe benissimo trovarsi in Comunicazione ai miei amici) o confidata – che so – a un Liszt o a Mathilde, in un momento di particolare esaltazione… Sta di fatto che ben rappresenta il destino del povero Tannhäuser (e del Wagner anni-40?) che non riesce ad integrarsi da nessuna parte (né a Parigi, né a Dresda). Ma è colpa solo della società? Perché, nel prevalente MI del Venusberg, lui canta in REb, poi in RE e poi in MIb; e in compenso, nel prevalente MIb degli inni di Wolfram&C, se ne esce con un blasfemo MI naturale! Insomma, una specie di bastian-contrario, un artista maledetto che potrà trovare pace solo al cimitero, insieme alla sua ammiratrice e redentrice, la santa Elisabeth. (Quanto all'artista Wagner, dovrebbe spiegarci lui perché l'Ouverture presenta da subito il coro dei pellegrini in MI naturale, che pare una bestemmia se rapportato al MIb impiegato allo scopo nell'Opera: che sia così solo per meglio raccordarsi con il Venusberg su cui si apre il sipario, è spiegazione troppo banale.) Insomma, di strada per arrivare a Parsifal, Wagner ne dovrà fare ancora tanta…

A proposito di rimaneggiamenti, è interessante la soluzione che Montavon ha dato al finale, presentandoci una specie di misto fra quello che oggi è di fatto lo standard-di-Dresda (comparsa fisica di Venere e funerale di Elisabeth) e l'assetto dell'Ur-Tannhäuser, dove il Venusberg è solo un'allucinazione di Heinrich e di Elisabeth si ha solo un lontano riferimento alle stanze della Wartburg, illuminate per la sua camera ardente. Qui in teatro Venus soprattutto si sente (qualcuno può anche intravederla, dato che lei canta – spartito sul leggìo! - nel palco di barcaccia di sinistra) mentre delle esequie di Elisabeth resta solo il canto del coro, che ne tesse il necrologio.

Detto dell'allestimento minimalista, vengo agli interpreti, dove le note (smile!) non sono magari altrettanto liete, pur se non mi sento assolutamente di parlare di fallimento.

Intanto Reck: il 50enne direttore ha dato una lettura asciutta e… minimalista (smile!) della partitura, evitando enfasi e fracassi (salvo, ma doverosamente, nella scena corale del secondo atto). I suoi tempi, a partire dall'Ouverture, mi son parsi abbastanza vicini a quanto Wagner prescrive (in Tannhäuser ci sono minuziose indicazioni metronomiche). Mai ha coperto le voci, e già questa non è qualità da poco. L'Orchestra ha risposto assai bene, sia nella buca, che dietro le quinte.

Il Coro, diretto qui da Lorenzo Fantini, ha confermato la sua preparazione: eccellente sia nei piano dei pellegrini, che nei fortissimo dei nobili di Turingia.

Tannhäuser era Richard Decker: la voce non è proprio male (ricorda vagamente, anche nell'espressione, Domingo) ma francamente è parso in difficoltà (proprio di intonazione, credo) nella scena iniziale, chiusa con un Maria non propriamente da ricordare, il che ha fatto temere il peggio. Si è invece poi progressivamente ripreso ed ha concluso senza danni anche l'ultimo, tremendo sforzo del racconto di Roma. Assieme ad applausi, ha ricevuto un paio di buh (da un'unica fonte in platea, peraltro) che mi son parsi un pochino eccessivi.
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La Venus di Patrizia Orciani è stata molto applaudita, anche se non è andata esente da qualche pecca (da urletto) negli acuti.

Chi non si meritava i due fischi (sempre dallo stesso punto della platea) in mezzo ad un mare di applausi, era Orla Boylan, interprete di Elizabeth. Per me, una prestazione più che degna, se non proprio eccellente.

Mattatore della serata Martin Gantner, davvero un grande Wolfram, voce calda ma chiara e luminosa, proprio come si addice al leggendario Minnesanger.

Dignitosa la prova di Enzo Capuano, nei panni del Langravio, e notevole – pur nella limitata estensione – quella del pastorello, la davvero brava Guanqun Yu.
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Insomma, direi che – per quanto visto e sentito ieri – certe critiche seguite alle precedenti recite mi paiono immeritate. L'unica che mi sento di fare io è all'orario di inizio. Va bene che la Marcegaglia ha ormai bisogno di sfruttare anche i nostri minuti (smile!) ma cominciare alle 18, invece che alle 20, non credo avrebbe fatto precipitare il nostro PIL.

08 febbraio, 2011

Chailly - non Carydis - con la Filarmonica della Scala .


Pochi giorni prima del concerto, la Filarmonica ha annunciato la defezione di Constantin Carydis per il 7 febbraio. Indisposizione è la giustificazione ufficiale (capita, siamo in pieno inverno…) Senza spiegazioni (salvo forse che l'una non può far a meno dell'altro) il forfait anche di Anna Vinnitskaya (la partner solista per il concerto di Ciaikovski).

 
A salvare capra e cavoli è stato Riccardo Chailly – un discreto maestro sostituto (smile!) – che ha confermato metà del programma, il concerto ciajkovskiano, suonato da un altro interprete di tutto rispetto, Arcadi Volodos, mentre ha rimpiazzato l'impegnativa Decima di Shostakovich con la più abbordabile Settima di Dvorak. Senza sconti sul prezzo del biglietto (ari-smile!)

 
Del concerto di Ciajkovski se ne hanno piene (in senso buono!) le orecchie e anche per un solista non è facile apportarvi novità clamorose (salvo non mettersi ad imbrattare la partitura). Più facile – di questi tempi – è il rischio di sovraesposizione o di gigionismo (mi viene in mente il Lang Lang dell'ultimo MI-TO, tanto per non far nomi, ma cognomi…) Volodos mostra di cosa è capace la sua straordinaria tecnica; si prende anche un paio di libertà, ma abbastanza veniali. Chailly, da parte sua, lo supporta bene, sia nei fracassi che – soprattutto – nei passaggi intimistici, come l'Andantino semplice, dove flauto e violoncello solisti si mettono in bella mostra, giustamente chiamati per un applauso speciale. Volodos ci regala anche un paio di bis, con Vivaldi-Bach e la Malaguena di Ernesto Lecuona.

 
Dopo l'intervallo ecco la Settima sinfonia (la seconda, stando al primitivo catalogo predisposto dallo stesso autore, che considerava evidentemente puri esercizi accademici le prime 5) di Antonin Dvorak. Opera composta su invito londinese, ma anche sull'onda del rinnovato interesse per la sinfonia, promosso dalle ultime imprese del grande Johannes. Che il buon ceco non esitava a citare a destra e manca, come dimostra il secondo tema del primo movimento, che è un chiaro tributo all'amico-sponsor, di cui è copiato quasi alla lettera il tema dell'Andante del Secondo Concerto per pianoforte:



Ma Dvorak non dimenticava nemmeno Beethoven, a giudicare da una cadenza dello Scherzo, che ricorda assai il tracotante tema dell'Egmont:



 
E anche nel secondo movimento (Poco Adagio) l'assolo del corno (discesa mediante-tonica-dominante) mostra la sua chiara ascendenza brahmsiana (dall'Adagio del concerto per violino). A proposito di questo movimento, Dvorak, dopo le prime esecuzioni e prima di mandare la partitura alle stampe, lo accorciò considerevolmente nella sezione centrale, tagliandovi una quarantina di battute (francamente pleonastiche e ripetitive) portandolo così da 150 a 110 misure (e da quasi 13' di durata a molto meno di 10'). Oggi si può però ascoltare l'originale, riesumato in vista dell'edizione critica (?) presso Bärenreiter.

 
Brahms fa infine capolino anche nell'Allegro conclusivo, in quell'inciso giambico chiaramente mutuato dal primo movimento della Sinfonia in DO minore:
Insomma, nessuno denuncerà Dvorak per plagio reiterato... ma qui non è proprio tutta farina del suo - pur ricco - sacco! (Certo la decima del Dimitri è di altro spessore…)

 
I Filarmonici e Chailly ci fanno comunque un bel regalo, con un'esecuzione più che dignitosa, accolta da unanimi consensi.
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06 febbraio, 2011

Fidelio passa da Ravenna



D'inverno Rimini (Nord) è – più o meno – così…

Ma non ditelo ai crucchi (smile!) chè sennò non tornano più da queste parti, dove invece portano anche cose serie, come il Fidelio che passa in questi giorni da Ravenna, al Teatro Alighieri. Trattasi della produzione bolzanina - già lassù collaudata - dell'accoppiata Kuhn-Schweigkofler (gli stessi creatori di una notevole Elektra, un anno fa) rinforzata da interpreti austro-tedeschi.

Teatro lodevolmente stipato e pubblico che ha fatto onore allo spettacolo.

Allestimento intelligente ed interessante, con scene minimaliste di Walter Schütze e luci di Claudio Schmid: una semplice pedana vuota, circondata dai protagonisti, in costumi vagamente moderni, che vi salgono sopra via via che arriva il loro turno di intervenire nel plot. In più solo qualche sgabello e dei pali (tipo lap-dance) che scendono di tanto in tanto dall'alto, ad esempio per ricordarci simbolicamente che ci troviamo in una prigione. Programmaticamente Schweigkofler gestisce la parte attoriale secondo canoni da commedia dell'arte, il che a volte finisce per debordare in avanspettacolo, ma mai in modo volgare. Sotto questo punto di vista devo dire che tutti hanno svolto lodevolmente il loro compito.

Sul piano musicale, cito in ordine di apparizione:

Jaquino era Alexander Kaimbacher: voce leggera ma chiara e gradevole, come quella della Marzelline  di Rebecca Nelsen. Insieme hanno costituito una coppia assai efficace. Molto applaudita, in particolare, la Nelsen. Il tenore ha anche fatto pro tempore il mago da circo, esibendosi in alcuni tipici trucchi (anelli che si separano e si uniscono, spade a trafiggere inesistenti corpi, fuochi fatui che si sprigionano dalle mani) durante la marcia del primo atto, che Kuhn ha tirato in lungo eseguendo puntualmente il ritornello.

Leonore era Anna Katharina Behnke. Un'ottima prestazione, la sua (notevole l'Abscheulicher) in cui trovo un unico neo congenito, per così dire, un eccesso di vibrato sulle note alte che personalmente gradisco poco. Alla fine, grande accoglienza per lei.

 
Il Rocco di Ethan Herschenfeld è più che dignitoso, anche se la voce è poco penetrante e più baritonale che da basso. Nel quartetto iniziale forse è mancato a lui e agli altri tre succitati un tocco di pathos in più che non avrebbe guastato.

 
Don Pizarro era Thomas Gazheli. Prestazione notevole, sia sul piano attoriale (un ennesimo Gouverneur con handicap fisico – tutore alla gamba sinistra – e personalità schizoide) che su quello del canto, dove è stato eccellente nei momenti di grande violenza, mentre l'eccessivo macchiettismo ne ha un poco compromesso le frasi da cantare a mezza voce. Trionfo comunque per lui.


Il Florestan di Andreas Schager (mi) ha molto convinto: voce bella e chiara, non certo da heldentenor, ma per me appropriata al personaggio. Bravo anche ad emettere correttamente i suoni, nella sua aria tremenda di esordio, pur costretto a farlo da posizioni non proprio rilassanti (tipo flessioni sugli avambracci…) Applausi convinti anche per lui.

 
Infine, più che dignitoso il Don Fernando di Sebastian Holecek, voce potente e presenza autoritaria, come si addice al personaggio del lungimirante Minister.

Rouwen Huther e Ruggiero Lopopolo han fatto dignitosamente la loro parte di solisti, in mezzo al coro dei prigionieri.

 
Impeccabile, sia nel commovente coro del primo atto, che nelle finali esternazioni di giubilo, il Vienna Philharmonia Choir guidato da Walter Zeh.

 
Gustav Kuhn non ha resistito alla tentazione di infilare la Leonore 3 subito prima del Finale. Scelta sempre discutibile, nonostante Mahler… Schweigkofler ha cercato di catturare l'interesse del pubblico facendo sedere i prigionieri sulla piattaforma ad assistere alla proiezione di foto dell'Archivio Provinciale di Bolzano (scattate dopo la seconda guerra mondiale) in memoriam, si potrebbe dire, dei tempi in cui i reclusi vivevano serenamente in famiglia. Un diversivo che solo in parte, a mio modestissimo avviso, ha messo riparo ai danni arrecati all'azione dalla lunga cesura imposta dal quarto d'ora sinfonico. Detto questo, un bravi! a direttore e ai professori della Haydn di BZ-TN per l'esecuzione invero trascinante e fragorosamente applaudita a scena aperta.

 
A parte questa discutibile scelta, Kuhn ha ben reso la duplicità del dramma: quasi commedia leggera nel primo atto, tutto in punta di piedi (Pizarro a parte) e giusta pesantezza nel secondo, condotto con serietà davvero tutta beethoveniana. Anche per lui e per l'Orchestra un gran trionfo finale.

 
Conclusione: una bellissima serata di musica, che conferma l'ottimo livello di queste produzioni, spesso definite con sufficienza come provinciali. Avercene!

 

31 gennaio, 2011

Parsifal al Regio di Torino



 
Dopo il Boris, questo Parsifal è l'altro (per me) grande appuntamento della stagione del Regio di Torino. L'allestimento – con qualche variante - è quello presentato nel 2007 al SanCarlo: regìa di Federico Tiezzi e scene di Guido Paolini.

 
La ripresa radiofonica della prima del 26 scorso aveva lasciato davvero un'impressione sontuosa, che è stata pienamente confermata dalla rappresentazione di ieri pomeriggio.

 
Non saprei come aggettivare la prestazione di Kwangchul Youn, tale è stato il livello di assoluta nobiltà raggiunto dal basso coreano: chissà, forse sono proprio le sue origini orientali a permettergli di calarsi tanto profondamente nello spirito (ma anche nel fisico, proprio da ieratico monaco nepalese) del personaggio di Gurnemanz e dell'opera. Semplicemente grandioso!

 
Christopher Ventris ci ha portato qui Parsifal direttamente dalla sua Betlemme di Bayreuth, e dono migliore non ci poteva fare: non una smagliatura in un'interpretazione impeccabile.

 
Christine Goerke è stata una straordinaria Kundry: riuscire a cambiare letteralmente la voce – non soltanto gli abiti – per portarci le sue diverse reincarnazioni è cosa riservata solo a poche, e lei è da annoverare di diritto nel novero di quelle poche.

 
Jochen Schmeckenbecher è un Amfortas più che dignitoso, e del resto nessuno può pretendere che tutto e tutti siano perfetti. È soltanto la (quasi) perfezione dei tre protagonisti succitati che ce lo fa apparire un filino al di sotto!

 
Lo sbifido Klingsor era Mark Doss, beniamino del pubblico torinese. Valgono per lui le considerazioni fatte per Amfortas.

 
Il navigato Kurt Rydl ha interpretato da par suo la parte breve ma impegnativa del vegliardo Titurel (uno che abita direttamente in un sarcofago, così, tanto per facilitare le operazioni al suo funerale, smile!)

 
Non elencherò nei dettagli cavalieri, scudieri, fanciulle-fiore e voce dall'alto. Non per fargli uno sgarbo (la locandina è doverosamente linkata) ma perché cumulativamente li associo in un bravi! Insieme ai diversi cori guidati da Claudio Fenoglio, che ha già saldamente in pugno il testimone passatogli da Gabbiani, volato a Roma.

 
Bertrand de Billy, sconosciuto come minimo, e addirittura snobbato da taluni, ha invece fatto ai miei occhi un figurone. Intanto perché tiene tempi non esasperanti (non ha toccato le 4 ore) ma allo stesso tempo non cerca di imitare in velocità il suo connazionale Boulez (smile!) Poi perché mostra di saper padroneggiare questo behemoth – e l'orchestra che lo deve suonare - in modo sicuro e autoritario.

 
Merito ovviamente anche dei professori, che non hanno mostrato neanche una sbavatura in tutto il pomeriggio. Suono sempre pulito e discreto, che arriva proprio come da un altro mondo, mai a coprire le voci sul palco. Così come i cori di fanciulli e ragazzi, che cantano fuori scena, lasciando un effetto emozionante.

 
Un autentico trionfo, a fine degli atti, e un'apoteosi a fine opera. Pubblico a dir poco in delirio (fin troppo, forse, quanto a fretta nell'applaudire).

 
L'allestimento di Tiezzi-Paolini (coadiuvati da Giovanna Buzzi per i costumi e Luigi Saccomandi per le luci) non era una novità, ma ha confermato quanto di buono si era detto e scritto dopo l'esperienza napoletana. Nessun velleitario o fantasioso Konzept, cui adattare, magari distorcendolo, l'originale, ma una visione – per me – assolutamente laica di questo capolavoro, troppo spesso trattato alla stregua di una volgare (mi scuseranno i credenti) messa cantata.

 
Dell'intima natura del Parsifal si sono date mille diverse interpretazioni, e ciascuno di noi può legittimamente prediligere una o l'altra o l'altra ancora. Per me, Parsifal è tutto fuor che una parodia – o un'apologia, come pensò bizzarramente e perfidamente tale Nietzsche - di riti cristiani o addirittura cattolici, né un inno al pietismo e all'ingenuo volemmose-bbene; è tutto fuor che un'apologia razzista dell'antisemitismo; è tutto fuor che un libello contro l'omosessualità e la prostituzione. Io credo (e cerco di sviluppare questa tesi più compiutamente in appendice a questo post) che Parsifal ponga - in modo (per Wagner) definitivo - la questione del ruolo dell'Arte e dell'Artista all'interno dell'umana società, sempre più straniata fra una religione autoreferenziale e una scienza tracotante.

 
Ecco perché sono stato da subito piacevolmente colpito dall'ambientazione, che sembra indirizzarci verso questa prospettiva di fruizione del Parsifal: il sipario trasparente già ci introduce a geometrie e prospettive del pensiero (la curvatura dello spazio?) e poi si solleva proprio su un luogo dove convivono Arte e Scienza (statue e libri) in casa della Religione. E dove le imprese di Parsifal sono da subito e visibilmente rappresentate come opere di un artista: il cigno morente è letteralmente incorniciato, a suggerire che le azioni di Parsifal sono, appunto, intimamente di natura artistica (Al volo io colgo, ciò che vola).

 
L'agape al termine del primo atto non ci presenta vino e pane, ma… tomi e lo stesso Gral è una struttura composta da tre cornici di quadro disposte a formare un vuoto poliedro, che reca al suo interno il simbolo del tempo (una clessidra).

 
Nel secondo atto la Scienza ci viene presentata come astronomia: dapprima i pianeti che campeggiano sopra Klingsor, al momento per lui di risvegliare Kundry, alla fine come una galassia, o un pulviscolo stellare, o una supernova che prende il posto del castello, neutralizzato dalla presa di coscienza di Parsifal. Ma anche come primordiale scoperta dei quattro elementi fondamentali, rappresentati sulle quattro porte nidificate che incorniciano l'ingresso di Kundry. L'Arte compare nelle vesti e nelle aggraziate movenze delle fanciulle-fiore. E nel velo colorato con cui Kundry, la musa ispiratrice (dell'arte degenerata, che cerca di contrabbandare il meretricio come amor materno) avvolge Parsifal per attirarlo nella sua trappola.

 
Nel terzo atto, dopo la scena dell'Incantesimo (essenziale, luminosa, emozionante fino al groppo in gola) vediamo inizialmente l'Arte deturpata, dimenticata (piedistalli senza statue) o ridotta a puro segno (le colonne disegnate sullo sfondo) cui fa da contraltare la Religione decaduta ad oscurantismo: i cavalieri che si coprono gli occhi, pur in un ambiente scarsamente illuminato, e letteralmente minacciano Amfortas perché ripeta ancora la vuota liturgia. Poi, all'arrivo di Parsifal, torna anche l'Arte (colonne vere che scendono dall'alto) e anche la Scienza (libri che finalmente si riaprono). Amfortas letteralmente si auto-trafigge con la Lancia, proprio ad uccidere, e definitivamente esorcizzare, quella religione oscurantista, mentre Kundry si addormenta posando il capo sulle sue ginocchia, in un gesto emozionante di riconciliazione universale. E torna soprattutto la luce, quella della Ragione e dell'Arte, che nessuno più teme, ora che il Gral è scoperto per sempre e per tutti.

 
Così ho visto, ascoltato e vissuto io questo Parsifal. Altri l'avranno vissuto diversamente, e ciascuno per le sue ottime ragioni. Io cerco adesso di spiegare le mie.


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Appendice

 
Wagner era (soprattutto era convinto lui stesso di essere) un vero artista; nella sua concezione, l'arte, quindi l'artista, è investito di una ben precisa missione: procurare all'Uomo adeguati e nobili strumenti di contrasto contro le sue ossessioni esistenziali.

 
Ludwig Feuerbach, con la cui filosofia Wagner aveva preso dimestichezza ai tempi di Dresda e della rivoluzione, e che poi studierà a fondo – prima di imbattersi nella capitale figura di Schopenhauer - negli anni dell'esilio (durante i quali – è bene ricordarlo – getterà le fondamenta di tutta la sua futura produzione artistica, già del resto messa in cantiere a partire dal 1845) assegna all'Arte un ruolo paritetico e potenzialmente sostitutivo a quello della Religione. Secondo il filosofo, la Religione altro non è se non il prodotto dell'inventiva e della fantasia umane (a loro volta rese possibili grazie alle facoltà intellettive, prerogativa peculiare dell'animale Uomo). La capacità di razionalizzare l'esperienza ha portato l'Uomo a constatare, assieme alle proprie grandi qualità e capacità, anche i propri limiti e le proprie deficienze, prima fra tutte la propria mortalità. Allo stesso tempo l'Uomo ha preso atto che la Natura - assieme a molti lati consolanti – presenta anche aspetti negativi, dolorosi, ripugnanti e, in definitiva, insopportabili.

 
Per sfuggire a questa autentica ossessione, l'Uomo ha creato prima gli dei e poi Dio (che rappresenta la quintessenza idealizzata delle migliori qualità umane) e l'aldilà, che rappresenta l'ideale di un mondo perfetto, soprannaturale e metafisico in cui poter, anzi dover credere: tutto un insieme di valori codificati dalla Religione, che ha fatto assurgere a sistema assoluto (in cui aver fede dogmaticamente) ciò che in realtà era sbocciato dall'immaginazione e dalla fantasia umane.

 
Immaginazione e fantasia che sono, anche, i motori della produzione artistica dell'Uomo. E l'Arte altro non è se non un diverso (dalla Religione) strumento che l'Uomo si è dato per combattere le sue ossessioni e l'insopportabile constatazione della propria mortalità; in definitiva, uno strumento di evasione dalla miseria della propria condizione, e di elevazione spirituale, insomma: una religione laica.

 
Altra considerazione capitale: dato che l'intelletto consente all'Uomo di esplorare, e sempre più in profondità, la natura, la materia (organica e inorganica) che lo circonda, ma anche la propria stessa identità e la propria stessa mente, ecco nascere il pericolo mortale per la Religione: essere smentita dalle conquiste della Ragione (tramite la Scienza) e perdere ogni rilevanza, con ciò privando l'Uomo di quello strumento auto-consolatorio che si era così faticosamente costruito, e precipitandolo, in ultima analisi, in uno stato di gelida, spettrale, e in fin dei conti disperata condizione.

 
Religione ed Arte sono andate quasi sempre a braccetto: basti pensare a quanta Arte si è ispirata alla Religione e quanto la Religione si sia servita dell'Arte per edificare i suoi luoghi di culto e per nobilitare le sue liturgie. Diverso invece il rapporto che la Religione ha avuto con la Scienza, rapporto spesso, se non quasi sempre, conflittuale. Interessante è analizzare il rapporto fra Scienza ed Arte, dove si scopre, per fare un esempio perfettamente in tema, la grande affinità fra la Scienza dei Numeri e l'Arte dei suoni. Non a caso Wagner fu definito, da Thomas Mann, come l'Artista in grado di poetizzare l'intelletto! E nessun Artista più e meglio di Wagner seppe avere, e tradurre in parole e musica – i suoi drammi – intuizioni che la Scienza razionalizzerà e strutturerà molto tempo dopo: basti pensare alla psicanalisi (Freud) e alla teoria della relatività (Einstein).

 
Orbene, Wagner, interpretando Feuerbach (cui significativamente dedica, nel 1849, il suo fondamentale scritto L'Opera d'Arte dell'Avvenire) arriva a concludere che - scomparsa fatalmente la Religione sotto i colpi della Ragione - l'unico strumento di salvezza per l'Uomo non potrà essere che l'Arte. Domanda: perché l'Arte, i cui prodotti nascono pur sempre, come la Religione, da fantasia e immaginazione umane, quindi al di fuori della realtà razionalmente sperimentabile, può essere dall'Uomo accettata (come strumento auto-consolatorio) in luogo della Religione? Semplicemente perché l'Arte – a differenza della Religione - non pretende di imporre Dogmi, nè di rivelare Verità (dogmi e verità sempre meno accettabili dalla Ragione). Il prodotto artistico si presenta per ciò che è, senza maschere, né inganni: appunto, come un'invenzione della mente umana, volta a procurare all'Uomo non già speranze in una immaginaria e inesistente realtà metafisica, ma piacere estetico e spirituale, da consumarsi nella realtà della nostra mortale esistenza, e in piena armonia con la Natura immanente. Appunto, l'Arte come una religione laica.

 
Bene, ai tempi di Wagner, con la Religione che era da un lato messa alla berlina dai vari illuminismi, positivismi, comunismi, ateismi dilaganti in Europa, e dall'altro si andava sempre più trasformando nella parodia di se stessa, schiava delle sue proprie liturgìe, qual'era lo stato dell'arte della produzione artistica (particolarmente del teatro musicale) che alla Religione avrebbe dovuto sostituirsi? Per Wagner: deprimente e penoso. Che questo suo giudizio, più e oltre che da constatazioni oggettive, derivasse dalla sua personale incapacità di penetrare l'establishment di quel mondo (impersonato da Parigi) che mostrava di rifiutarlo, è questione magari secondaria. Sta di fatto che Wagner si vedeva e si sentiva investito della missione di redimere (toh, chi si vede: Parsifal!) l'Arte da quelle che per lui erano degenerazioni prodotte da maghi, stregoni e alchimisti (alla Meyerbeer, per intenderci… o alla Klingsor?) i quali, invece di regalare all'Uomo il tanto necessario ed edificante piacere estetico e spirituale, ne assecondavano le attitudini più abiette e disdicevoli, con prodotti che erano la pura e semplice mercificazione (e prostituzione, quindi) dell'Arte. Duplice compito, quindi, quello che Wagner si assegna: liberare l'Uomo dalla religione, scaduta a mera liturgia (il Gral periodicamente esposto proprio come un feticcio da adorare e usato come pseudo-balsamo per curare l'Uomo delle ferite derivanti dalle sue ossessioni esistenziali) e liberarlo anche dall'arte degradata a turpe e peccaminoso mercimonio (il castello di Klingsor).

 
Ecco, tutta la produzione artistica di Wagner (già a partire, come minimo, dall'Holländer) dapprima in forme e approcci ancora non ben codificati e spesso contraddittori (fino a Lohengrin compreso) ma successivamente in modo chiaro, programmato e strutturato, altro non è se non la rincorsa continua, instancabile – potremmo dire ossessiva (!) - alla propria auto-imposta missione. E non solo, ai drammi che compone, Wagner dà forme e contenuti di altissimo livello estetico, filosofico e spirituale (facendone appunto opere d'Arte nel senso più alto); ma gli stessi protagonisti dei suoi drammi impersonano precisamente le sue convinzioni riguardo l'Arte e la lotta che l'Artista (quello vero e puro, con la A maiuscola!) è chiamato a sostenere per svolgere la sua missione. Missione che si completa con Parsifal, guarda caso. Dove l'Artista Wagner, nell'atto di redimere Religione e Arte, redime anche se stesso (Erlösung dem Erlöser) da tutti i peccati, materiali, spirituali ed anche… artistici, che ha commesso lungo le tappe del suo missionario cammino.

 
Chi incontriamo in Parsifal?

 
Amfortas è il rappresentante, anzi il primo ministro, della Religione che, sentendosi minacciata dall'Arte, decide di combatterla. Ma l'Arte, che ai tempi di Monsalvat come di Wagner, è quella degenerata di Klingsor, lo seduce per tramite di Kundry, provocandogli una ferita insanabile: la perdita della Fede, in effetti. Ferita che la stessa Kundry – nelle sue reincarnazioni pietose (pietose, si badi bene, non compassionevoli!) – cerca invano di sanare.

 
Klingsor è un religioso mancato, per indegnità, che si trasforma in artista degenerato, e che alla purezza e spontaneità della fantasia e dell'immaginazione ha sostituito il trucco, la magìa, l'inganno, auto-castrandosi di tutte le sue potenzialità naturali. Vuole distruggere la Religione, ma non per sostituirla con la vera Arte, bensì per imporre una sua arte-religione depravata e depravante. È un caso forse che il secondo atto di Parsifal sia quasi letteralmente scopiazzato dal terzo atto di Robert le Diable? È il mondo degenerato (agli occhi di Wagner) di Meyerbeer, pieno di fasulle e profumate promesse, quello che l'Artista puro Wagner ci presenta – e con quale sublime maestrìa – per farcelo poi disprezzare e per distruggerlo sotto i nostri occhi, dopo che lui, l'Artista, ha fulmineamente messo a fuoco la verità, cioè il terribile inganno che si cela dietro i colori e i profumi di Klingsor e le dolci carezze di Kundry. (Qualcosa del genere Wagner aveva fatto nel secondo atto di Götterdämmerung, dove ci aveva mirabilmente mostrato – con sguaiati cori da grand-opéra - la degradazione della civiltà ghibicunga, meritevole così di essere travolta da incendi e inondazioni purificatrici!)

 
Kundry – nelle sue re-incarnazioni al servizio di Klingsor – rappresenta appunto la Musa ispiratrice dell'artista. Così si spiega perché lei conosca tutto di Parsifal, anche ciò che lui stesso non conosce di sè. Nei drammi di Wagner c'è sempre una figura femminile che rappresenta la Musa ispiratrice dell'Artista (Wagner) bistrattato e incompreso. Spesso e volentieri è, a differenza di Kundry, una musa nobile. Tanto per fare un esempio, Brünnhilde lo è nei confronti di Siegfried, con questo piccolo particolare aggiuntivo: la musica che Brünnhilde canta a Siegfried sulle parole Ewig war ich, ewig bin ich fu originariamente scritta da Wagner per Cosima, appena divenuta la sua musa ispiratrice, in quel di Starnberg! Ma, come esiste arte degenerata, così esistono le sue muse e Kundry è una di queste: dopo aver irriso la Religione (ridendo del Cristo sul Calvario) si è venduta a Klingsor ed ora è costretta a fare il suo gioco, adescando i nemici del suo padrone. Riesce a far cadere in trappola Amfortas e non Parsifal, poiché Amfortas è accecato dalla religione, e come tale incapace (agli occhi di Wagner) di comprendere la realtà e i suoi subdoli strumenti, mentre Parsifal è ignorante come un oco, ma – da vero naïf, quindi da autentico Artista toccato dalla grazia (come Wagner si autodipingeva, del resto) – sa cogliere l'essenza profonda delle cose e scongiurare così il pericolo di perdersi, acquisendo anzi quella conoscenza che lo mette in grado di redimere l'Umanità.

 
Parsifal è appunto l'Artista (Wagner) che, in cerca di se stesso, della sua identità e della sua missione, ha inizialmente vagato per il mondo, incontrandovi la religione degradata e l'arte corrotta e che finalmente, proprio mentre è sul punto di cadere, irretito dalle lusinghe della falsa arte, prova compassione. Compassione per chi? Ma per tutti gli uomini e le donne vittime di quella degradata religione e di quella falsa arte, fasulli ed abietti strumenti auto-consolatori, ben impersonati dalla cerimonia dell'Agape nel primo atto, che rappresenta mirabilmente la liturgia religiosa, trita, sterilizzante, magica e inafferrabile. L'ingenuo Parsifal nulla ci capisce, anzi l'unica cosa che capisce è che quello dev'essere un ambientino che nuoce gravemente alla salute, almeno a giudicare dalle esternazioni di Amfortas.

 
Questi uomini e donne possono essere redenti se il vero Artista aprirà loro gli occhi: sulla Realtà e sulla Natura (Ecco, ne rende grazie ogni creatura, quante han qui fiore e presto periranno, perché oggi la natura discolpata conquista il giorno della sua innocenza!) La cerimonia conclusiva del dramma è di fatto un funerale, quello della religione e del suo più illustre ministro (Titurel) a cui segue il trionfo della riconquistata conoscenza e dell'elevazione spirituale, prodotto dell'autentica espressione artistica. Elevazione che si potrà perpetuare se, una volta scoperto il Gral, scoperto lo si lascerà per sempre, come cantano le ultime parole di Parsifal.
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28 gennaio, 2011

Stagione dell’OrchestraVerdi - 20



Helmuth Rilling torna a dirigere laVerdi con un programma tutto romantico (anche lui evidentemente ogni tanto sente il bisogno di evadere dal severo mondo bachiano, smile!)

 
Si apre con Mendelssohn e l'Ouverture dalle musiche di scena per Athalia, opera che Rilling ha inciso nella sua interezza con la sua Gächinger Kantorei e l'Orchestra della Radio della sua Stuttgart. Il soggetto è di natura biblica, e l'Ouverture contiene sonorità, motivi e atmosfere già uditi ad esempio nella Lobgesang e nella Reformationssymphonie. Un brano austero e serioso nelle parti esterne (in Maestoso), entro le quali è incastonato il Molto Allegro, che resta comunque ancorato a grande nobiltà.

 
Dopo l'antipasto, ecco un pezzo da novanta. Essendo anno di ricorrenza mahleriana, il boemo viene infilato di traverso anche in questo concerto: suo è infatti l'adattamento per orchestra d'archi del famoso Quartetto D810 di Franz Schubert, noto col sottotitolo La Morte e la Fanciulla. Come accadde anche all'altrettanto famoso Quintetto in LA maggiore (la Trota) anche questo quartetto è lo sviluppo di un precedente Lied schubertiano.

 
Che fra le opere della civiltà musicale europea esistano vasi comunicanti e reciproche influenze è verificabile anche in questo Quartetto. A cominciare da un motivo esposto all'inizio dell'Allegro dal primo violino, che ritroveremo nella Prima sinfonia di Brahms:
Il lungo Andante con moto presenta il tema della morte, preso dall'omonimo Lied e chiaramente ispirato dall'Allegretto della Settima beethoveniana:


 
Poi, lo Scherzo è costruito su un ritmo di cui si ricorderà Wagner, al momento di scolpire la personalità dei suoi Nibelunghi:

 
Infine, fra il tema principale del Presto e la Chanson Bohème parrebbe esserci una qualche, sia pur vaga, parentela:

 
Il trasferimento del quartetto al più vasto organico dell'orchestra servirà magari a renderlo meglio udibile in una vasta sala da concerto, ma gli toglie la caratteristica intimità originaria. Già nel 1894 (anno della trascrizione) quando Mahler eseguì l'Andante all'interno di un concerto ad Amburgo, alcuni critici reagirono assai negativamente: uno dei più autorevoli, tale Josef Sittard, si indignò a tal punto da togliere il saluto al direttore-compositore!

 
Rilling fa del suo meglio per conservare la vena intimistica del quartetto e usa l'orchestra con grande parsimonia, quasi mai andando oltre il mezzo-forte. Fa tutti i ritornelli (come sua precisa consuetudine) e rimedia quindi una durata di tre quarti d'ora. È grande musica, che dà modo ai professori (Danilo Giust in testa, nell'occasione sulla sedia del Konzertmeister) di mostrare le loro qualità solistiche. Tutti accolti da applausi convinti (mah… anche alla fine dei primi due movimenti).

 
Dopo l'intervallo torna Mendelssohn a concludere il concerto con la fin troppo nota Sinfonia in LA maggiore. Anche qui Rilling evita accuratamente ogni enfasi e punta tutto sulla leggerezza e la trasparenza della partitura: ne esce quell'autentico gioiellino che l'Italiana è, quando non si pretende di farne una sinfonia tardo-romantica.

 
La prossima settimana un concerto fuori dagli schemi.
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26 gennaio, 2011

Grande Parsifal al Regio di Torino



Su Radio3 si è appena chiusa la prima del Parsifal al Regio di Torino.

Una prestazione musicale straordinaria, a mio modesto avviso. Youn, Ventris e la Goerke sugli scudi, ma tutti indistintamente eccellenti. Una serata che fa onore al Teatro e all'Italia.

(prossimamente una recensione dal vivo)
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25 gennaio, 2011

Temirkanov con la Mariella e la Filarmonica della Scala


Il venerabile Yuri Temirkanov e la beata Mariella Devia (siamo ormai a custodire come preziose reliquie simili uomini e donne di musica…) hanno deliziato gli ascoltatori di questo concerto della stagione sinfonica del teatro scaligero.

La stagione sinfonica del Teatro (5 titoli per 15 concerti nel 2010-2011) non è da confondersi con la stagione della Filarmonica della Scala (nel 2011: 12 concerti in Scala e 12 fuori-sede) anche se capita che qualche concerto delle due stagioni abbia contenuti simili (e gli stessi protagonisti). Entrambe le stagioni sono peraltro coperte dalle prestazioni dell'Associazione Filarmonica della Scala, fondata nel 1983 da un'idea di Abbado e per imitazione dei Wiener. Sarebbe interessante fare un confronto approfondito fra l'esperienza (160ennale!) dei Wiener e quella (28ennale) dei Filarmonici scaligeri: personalmente ho l'impressione che dal modello – come molte cose fatte all'italiana - siano stati copiati puntualmente i problemi, senza invece conseguirne i benefici.

Ma veniamo al concerto di ieri. Programma tutto novecentesco, ma… diatonico, toh (tanto per fare un dispetto ad Alex Ross, smile!)

Les Illuminations di Britten è del 1939. Scritta per soprano (fu dedicata a Sophie Wyss, il soprano svizzero che ne fu la prima interprete) è però entrata anche nel repertorio dei tenori (primo fra tutti ad interpretarla, il compagno di vita di Britten, Peter Pears). Si tratta di 10 numeri, i cui testi sono tratti da 8 dei 54 (o 46, 44, 43, 42, a seconda di diverse edizioni critiche) poemi intitolati Illuminations (all'inglese!) di Arthur Rimbaud. Britten ha aggiunto l'iniziale Fanfare e Interlude che comprendono un unico verso, preso da Parade. (Qui - 1. 2. 3. - un interpretazione della Aikin con Marriner e i radio-bavaresi.)

Domenica sera il concerto era stato irradiato da Radio3 e, dopo questo brano, alcune critiche erano state mosse alla pronuncia francese della Devia. Francamente mi son parse speciose, a fronte di una prestazione davvero ragguardevole. Caso mai mi sentirei – proprio a voler trovare il pelo nell'uovo – di giudicare fin troppo aggraziato e poco selvaggio l'approccio tenuto dalla brava Mariella, in particolare in Villes e in Parade. Mariella che ha comunque dimostrato – ma non ce n'era certo bisogno – come una grande professionista possa far bene anche quando si allontana – e di parecchio! – dal suo repertorio tradizionale.

Seconda parte con la Quarta di Mahler.

Temirkanov mostra un buon rispetto per la partitura, l'unico piccolo neo che mi permetto di segnalare è che lui pare tenere in poco conto le virgole (o gli apostrofi, insomma quei segni di piccola pausa di respiro che Mahler mette spesso all'interno delle sue frasi musicali). Per il resto, il maestro russo mette bene in risalto anche i minimi particolari, come questo, che ci mostra la chiara ascendenza straussiana del primo tema della sinfonia:


Il tema, nella sua forma principale, sale da dominante a tonica e scende alla mediante. Ma subito prima della cadenza conclusiva della ricapitolazione compare, come inciso, nell'oboe, una sua variante, dove dalla tonica si scende sulla dominante, esattamente come nel love-theme del Don Juan (guarda caso, anch'esso nell'oboe e nella stessa tonalità!) È anche questo un piccolo, ma importante segno della reciproca influenza fra i due maggiori protagonisti della civiltà musicale mitteleuropea dell'epoca.

In generale, il vegliardo direttore circasso trapiantato a SanPietroburgo – sempre senza bacchetta, ma con partitura sul leggìo, e attentamente seguita - ha tenuto un approccio soft, quasi sempre cameristico, come giusto che sia, mettendo bene in risalto la cantabilità dei temi (splendido in ciò il Ruhevoll). Un appunto, ma di natura logistica, che mi sento di avanzare è l'aver fatto entrare la Devia a Lied già attaccato: oltre che elemento di distrazione per il pubblico, credo non abbia giovato alla concentrazione del soprano, costretta ad arrivare al proscenio e quasi subito mettersi a cantare; cosa che peraltro ha fatto benissimo, a parte una difficoltà a farsi udire sul SI sotto il rigo del Tod, a metà della seconda strofa.

Sempre emozionante la chiusa, con la bravissima Luisa Prandina ad esalare, sul MI grave dei contrabbassi, il MI gravissimo dell'arpa. Pubblico educato, che ha rispettato qualche secondo di raccoglimento, prima di liberare il meritato applauso.

Un ultimo dettaglio organizzativo: sarebbe poi così difficile o costoso impiegare gli schermini in dotazione per presentare i testi di ciò che viene cantato, come si fa per l'opera? Evitando così agli spettatori di sfogliare il programma di sala (magari usando i telefonini come abat-jour…)?
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22 gennaio, 2011

Stagione dell’OrchestraVerdi - 19



Torna il Requiem verdiano all'Auditorium. Ormai è diventato – come la IX Sinfonia di Beethoven – uno dei caposaldi del repertorio dell'Orchestra e del Coro. Adesso è direttamente Xian Zhang a farsene carico, studiando, limando, perfezionando l'esecuzione, anche con esperimenti di natura… fonica.

La scorsa stagione era comparso l'Octobasse (il jumbo-contrabbasso) ad arricchire la sonorità di fondo degli archi; quest'anno Zhang ha studiato una nuova, particolare disposizione dell'orchestra (già sperimentata peraltro la settimana scorsa con la Prima di Brahms): tutti i contrabbassi in linea frontale, a far da muro (sonoro) divisorio fra il coro e il resto dell'orchestra, ottoni tutti raggruppati a destra, viole al proscenio, timpani e grancassa al pianterreno, estrema sinistra.

Difficile davvero giudicare i diversi risultati sonori, a distanza di 15 mesi, ma già la cosa in sé mi pare significativa di una precisa volontà e attitudine alla ricerca, in contrapposizione al vivere di rendita (che pure non sarebbe condannabile, nella fattispecie).

I solisti erano la veterana (dell'Auditorium e del Requiem) Maria José Montiel, impeccabile anche ieri (il suo Lux aeterna in particolare); Serena Daolio, per me una piacevole sorpresa, voce bella e abbastanza robusta, tecnica rimarchevole e acuti (il DO del Libera me fantastico) impeccabili. Bravo anche Luc Robert, voce forse non grande, ma timbro gradevole e ottima espressività. Un appunto (ma è un mio personale gusto) al basso Alexei Tanovitski, voce che per passare finisce per ingolarsi troppo.

Ma tutti, insieme all'irreprensibile Coro della Garbarini, hanno meritato il trionfo riservatogli alla fine da un pubblico davvero delle grandi occasioni.

Prossimamente… tutto romanticismo.
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21 gennaio, 2011

Pagliacci e Cavalleria alla Scala



Andata scioperata la prima, le sue ormai tradizionali veci sono state prontamente assunte dalla seconda (trasmessa anche in TV, ma non in web, chè siamo ancora al paleolitico di questa tecnologia… quindi pazienza) dove si sono sprecati (massimamente, ma non solo, dopo Pagliacci) fischi, buh e contestazioni nei riguardi di molti protagonisti (Direttore e Regista compresi). Tutti letteralmente dileggiati dal barcaccione Stinchelli! Con il naturale contraltare di qualcuno che invece vi ha visto l'interpretazione del millennio (come la dantesca Carmen? mah…)

Quindi, matematicamente, dall'altrettanto scontato buona la seconda siamo shiftati al buona la terza! Appunto la rappresentazione di ieri sera, accolta da applausi e ovazioni, che avrebbero sommerso (ammesso ci fossero stati) anche i fischi più acuti e i buh più incarogniti. Avevano quindi ragione i (relativamente pochi) laudanti del 18? O, come spesso accade, la verità sta in qualche punto intermedio, magari non proprio equidistante dagli estremi? Dico subito che personalmente mi colloco senza esitazione nel campo dei apprezzatori (non certo degli idolatri) di questo dittico.

Che ormai le prime (di diritto o di fatto) della Scala abbiano qualcosa di sospetto (o magari solo di sfigato) dev'essere chiaro anche ai responsabili, se è vero come è vero che quasi all'ultimo momento decisero di invertire la tradizionale, e annunciata, sequenza delle opere: mai successo, a memoria d'uomo, che Pagliacci abbia preceduto Cavalleria (quando dati insieme, smile!) L'unica seria ragione di ciò non può non risiedere nei dubbi che già in partenza devono aver assillato i responsabili dello spettacolo, portandoli alla decisione di anteporre la parte più a rischio a quella prevedibilmente meno a rischio, stanti la levatura degli interpreti e la loro preparazione. Quindi, un approccio del tipo: prendiamoci gli ortaggi subito, fuori il dente, così poi magari chiudiamo in recupero; ed è quello che più o meno è successo il 18.

Ieri, guarda caso, con il pubblico normale (o popolo-bue, secondo taluni?) l'ordine tradizionale avrebbe potuto essere tranquillamente ristabilito, a giudicare dall'accoglienza riservata ai Pagliacci di Cura e Dyka. Nonostante il primo mi sia sembrato – se possibile – persino peggiorato rispetto all'ascolto radio del 18! Io, che son di bocca buona, ho però qualche riferimento, diciamo così, estremo: fra una cariatide che canta almeno discretamente e un Lawrence Olivier che urla e stonacchia, scelgo con decisione massima la cariatide (chè il teatro musicale - fosse pure Wagner - senza la musica, nulla è per me…) Peggio ancora quando chi urla e stonacchia non è nemmeno un Olivier, ma un… pagliaccio (smile!) Cura ha in effetti gigioneggiato come fosse all'avanspettacolo (a proposito di verismo) e pare aver riservato le (poche) risorse di benzina rimastegli ai LA della Giubba e ai SIb del Pagliaccio. Per il resto, una prestazione canora che richiederebbe moltissima… cura (smile!) Quanto alla Dyka, mi sentirei di darle una risicata sufficienza. In ogni caso, se è stato applaudito a scena aperta il Cura della Giubba, allora lo andava anche la Dyka, dopo la sua ballatella ornitologica! Voto più che discreto per Maestri e sufficiente, o sufficiente- per Albelo e Cassi. Sempre all'altezza il coro di Casoni.

Harding, essendo uno che viene da fuori, per di più dal profondo nord, ha il vantaggio di non farsi condizionare più di tanto dall'ambiente, e di fidarsi solo e ciecamente della partitura. Il che può magari procurargli l'appellativo non propriamente entusiasmante di battisolfa, rispetto a direttori che vedono - e applicano – anche segni e indicazioni agogiche scritti evidentemente con inchiostro simpatico, del tipo qui mettere calore mediterraneo oppure suonare con passionalità tutta nostra (smile!) Il simpatico Stinchelli trova addirittura che il giovine Harding dirige come un 97enne!

Cavalleria più che dignitosa, con un Licitra un filino falloso, ma diciamo alla Balotelli: non sarà sempre perfetto, però spesso e volentieri segna gol decisivi, e questo conta pur qualcosa! Una domanda: dov'era collocato a cantare la sua siciliana a sipario chiuso? La voce pareva arrivare dalla stazione MM di Cordusio! La D'Intino direi bene (data l'età, smile!) una Santa all'altezza, mai urlante, sempre composta e ben immedesimata nel difficile personaggio. Sgura più che sufficiente e discrete le altre due protagoniste, Piunti e nonnina-Zilio. Anche qui un Harding asciutto, che mi sembra aver rallentato – rispetto al 18 - la velocità dell'Intermezzo (dove avrà tenuto 48 di metronomo, invece dei 54 prescritti… sempre meglio di tale Serafin, un'autentico lumacone mediterraneo, meno di 36!) ma in generale una lettura più che apprezzabile, sotto ogni punto di vista, compreso il giusto equilibrio fra strumenti e voci (ricordo solo una copertura eccessiva di Sgura - da parte del possente coro di Casoni, peraltro, non dell'orchestra - nella chiusa dell'aria di sortita). Meritato il consenso riservatogli dal pubblico (adesso qualcuno aprirà magari una petizione per chiederne l'arruolamento in pianta stabile?)

La regìa dei due spettacoli era di Mario Martone (in combutta con Sergio Tramonti per le scene) che il 18, intervistato su Radio3 (e anche in un video sul sito del teatro) aveva sottolineato i tratti caratteristici, e assai diversi, dei due allestimenti.

Pagliacci è ambientato ai giorni nostri e ci mostra impietosamente quanto sia regredita la nostra civiltà (figlia della cultura cristiano-giudaica) rispetto al lontano 1870. Anche nella ridente Montalto di Calabria è arrivata la modernità, rappresentata dalla futuristica A3, di cui vediamo una caratteristica rampa cadente. Sotto (e sopra) la quale rampa si aggirano signorine che svolgono una professione in altri tempi (lo vedremo più tardi) esercitata all'interno di apposite strutture di business. Possiamo quindi esser certi che ci troviamo dopo il 20 settembre 1958… Le vetture (camioncini della compagnia e berlina di Silvio) ci orienterebbero verso la fine anni '70.

Intelligente l'impiego di saltimbanchi, che animano la scena nei lunghi momenti in cui essa è occupata solo dal coro. Quanto ai personaggi, detto dello scarso verismo del Canio, mi è parso eccessivamente sputtanato (dal regista) il povero Silvio, trasformato in tamarro metropolitano, che arriva in BMW520 (prima serie) nel posto che probabilmente visita ogni sera (per via delle signorine di cui sopra) ad incontrare Nedda. La quale ci lascia il dubbio sulla sua intima natura: una donna sposata con un uomo possessivo e nomade, e che legittimamente aspira alla libertà e ad una stabile sistemazione, e si innamora sinceramente di un bravo giovine… oppure una sgualdrinella potenziale (o reale) attirata dagli averi, non dall'essere, di Silvio? La carta sporcata da Leoncavallo escluderebbe del tutto, mi pare, la seconda alternativa. Martone no. Insomma, una lettura interessante, ma con le sue belle distorsioni, come capita spesso a registi che si sentono in obbligo di inventare qualcosa di nuovo.

Cavalleria è presentata invece con taglio tutto cerebrale, introspettivo e socio-filosofeggiante, che subito si manifesta: bordelli! Le scene sono state costruite tempo fa, quindi mancava la targa "Villa San Martino - Arcore" per rendere l'ambientazione un filino più aderente al tema. Ecco, intanto sappiamo di trovarci prima del 20 settembre 1958, ed è già qualcosa. Poi, mostrare un casino in piena attività nella mattinata di Pasqua è una genialata di cui tutti i siciliani saranno eternamente grati al regista! Ma poco dopo scopriamo la vera intenzione di Martone: scolpire da subito la personalità di Alfio. Un tipo che, appunto, a Pasqua si alza e va direttamente al bordello; e ha tanto poco rispetto per la donna (moglie o puttana, fa lo stesso) che dopo (non prima) dello sfogo fisiologico va dal barbiere a farsi bello! Servono a qualcosa o no, i registi, vivaddio?

Non disprezzabile invece l'idea della scena inizialmente vuota, riempita via via da sedie su cui il popolo prende posto, senza più andarsene. Facendo da costante testimone dei drammi esistenziali che si svolgono lì attorno. La Santa che arriva con la sua sedia sotto braccio e fatica a sistemarsi in mezzo alle altre sedie rende efficacemente l'idea dell'espulsione della donna peccatrice da una società bigotta e piena di pregiudizi. A differenza di Nedda, Lola è – perché così ce la musica Mascagni, sul testo dei suoi librettisti – una ragazza piuttosto leggera, per così dire, una civetta piuttosto vanesia; e così ben ce la propone la regìa di Martone. Detto dell'arbitrarietà dell'impersonificazione di Alfio, bene invece anche l'esposizione di Turiddu e mamma Lucia.

In definitiva, una serata più che piacevole, grazie soprattutto a questa musica, in cui si sentono atmosfere sonore, se non proprio spunti tematici, che appariranno in quegli anni nelle sinfonie di Mahler, che fu interprete entusiasta sia di Mascagni che di Leoncavallo (a dispetto degli scontri avuti con quest'ultimo) e dalla cui musica dal taglio popolare fu sicuramente ispirato.
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14 gennaio, 2011

Mahler: buona la seconda!


Con una lodevole iniziativa, la Morgan Library & Museum di NY ha aperto i suoi archivi e sta pubblicando anche in web una montagna di materiale musicale (manoscritti fino ad oggi accessibili solo a pochi intimi.

Vi si possono scovare – o verificare in proprio – interessanti aspetti legati alla storia delle diverse composizioni.

(Quasi) a caso, sono entrato sul manoscritto originale (1903) della Quinta di Mahler. È noto a (quasi) tutti che l'Autore rimise le mani più volte sulla sinfonia, che è stata quindi oggetto di attenzioni ed edizioni critiche autorevoli.

Neanche a farlo apposta, osservando la prima pagina del famoso Adagietto, si nota subito una per nulla trascurabile differenza fra l'idea originale e la successiva revisione fatta dall'Autore. Ecco qui:


A parte la divisione delle viole, non prevista originariamente, si noterà come la seconda sezione del motivo conduttore (a cavallo fra le battute 3-4) sia stata quasi impercettibilmente, ma sostanzialmente modificata da Mahler, rispetto alla prima stesura: la penultima croma della misura 3, un originario SOL, che faceva crescere monotonamente la melodia (FA-SOL-LA) diventa alla fine un SIb, introducendo così fin da subito una increspatura espressionista, che viene subito dopo ripresa (già nell'originale) dalla riesposizione del motivo nei violoncelli. La prima forma – a velocità dimezzata (semiminime invece di crome) - resta al suo posto nella ripresa del motivo nei violini secondi (mis. 73 e successive).

Piccoli dettagli, forse, ma che ci raccontano dell'autentica sofferenza con cui un compositore come Mahler viveva le sue creature.
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