affinità bombarole

rinsaldato il patto atlantico

06 febbraio, 2011

Fidelio passa da Ravenna



D'inverno Rimini (Nord) è – più o meno – così…

Ma non ditelo ai crucchi (smile!) chè sennò non tornano più da queste parti, dove invece portano anche cose serie, come il Fidelio che passa in questi giorni da Ravenna, al Teatro Alighieri. Trattasi della produzione bolzanina - già lassù collaudata - dell'accoppiata Kuhn-Schweigkofler (gli stessi creatori di una notevole Elektra, un anno fa) rinforzata da interpreti austro-tedeschi.

Teatro lodevolmente stipato e pubblico che ha fatto onore allo spettacolo.

Allestimento intelligente ed interessante, con scene minimaliste di Walter Schütze e luci di Claudio Schmid: una semplice pedana vuota, circondata dai protagonisti, in costumi vagamente moderni, che vi salgono sopra via via che arriva il loro turno di intervenire nel plot. In più solo qualche sgabello e dei pali (tipo lap-dance) che scendono di tanto in tanto dall'alto, ad esempio per ricordarci simbolicamente che ci troviamo in una prigione. Programmaticamente Schweigkofler gestisce la parte attoriale secondo canoni da commedia dell'arte, il che a volte finisce per debordare in avanspettacolo, ma mai in modo volgare. Sotto questo punto di vista devo dire che tutti hanno svolto lodevolmente il loro compito.

Sul piano musicale, cito in ordine di apparizione:

Jaquino era Alexander Kaimbacher: voce leggera ma chiara e gradevole, come quella della Marzelline  di Rebecca Nelsen. Insieme hanno costituito una coppia assai efficace. Molto applaudita, in particolare, la Nelsen. Il tenore ha anche fatto pro tempore il mago da circo, esibendosi in alcuni tipici trucchi (anelli che si separano e si uniscono, spade a trafiggere inesistenti corpi, fuochi fatui che si sprigionano dalle mani) durante la marcia del primo atto, che Kuhn ha tirato in lungo eseguendo puntualmente il ritornello.

Leonore era Anna Katharina Behnke. Un'ottima prestazione, la sua (notevole l'Abscheulicher) in cui trovo un unico neo congenito, per così dire, un eccesso di vibrato sulle note alte che personalmente gradisco poco. Alla fine, grande accoglienza per lei.

 
Il Rocco di Ethan Herschenfeld è più che dignitoso, anche se la voce è poco penetrante e più baritonale che da basso. Nel quartetto iniziale forse è mancato a lui e agli altri tre succitati un tocco di pathos in più che non avrebbe guastato.

 
Don Pizarro era Thomas Gazheli. Prestazione notevole, sia sul piano attoriale (un ennesimo Gouverneur con handicap fisico – tutore alla gamba sinistra – e personalità schizoide) che su quello del canto, dove è stato eccellente nei momenti di grande violenza, mentre l'eccessivo macchiettismo ne ha un poco compromesso le frasi da cantare a mezza voce. Trionfo comunque per lui.


Il Florestan di Andreas Schager (mi) ha molto convinto: voce bella e chiara, non certo da heldentenor, ma per me appropriata al personaggio. Bravo anche ad emettere correttamente i suoni, nella sua aria tremenda di esordio, pur costretto a farlo da posizioni non proprio rilassanti (tipo flessioni sugli avambracci…) Applausi convinti anche per lui.

 
Infine, più che dignitoso il Don Fernando di Sebastian Holecek, voce potente e presenza autoritaria, come si addice al personaggio del lungimirante Minister.

Rouwen Huther e Ruggiero Lopopolo han fatto dignitosamente la loro parte di solisti, in mezzo al coro dei prigionieri.

 
Impeccabile, sia nel commovente coro del primo atto, che nelle finali esternazioni di giubilo, il Vienna Philharmonia Choir guidato da Walter Zeh.

 
Gustav Kuhn non ha resistito alla tentazione di infilare la Leonore 3 subito prima del Finale. Scelta sempre discutibile, nonostante Mahler… Schweigkofler ha cercato di catturare l'interesse del pubblico facendo sedere i prigionieri sulla piattaforma ad assistere alla proiezione di foto dell'Archivio Provinciale di Bolzano (scattate dopo la seconda guerra mondiale) in memoriam, si potrebbe dire, dei tempi in cui i reclusi vivevano serenamente in famiglia. Un diversivo che solo in parte, a mio modestissimo avviso, ha messo riparo ai danni arrecati all'azione dalla lunga cesura imposta dal quarto d'ora sinfonico. Detto questo, un bravi! a direttore e ai professori della Haydn di BZ-TN per l'esecuzione invero trascinante e fragorosamente applaudita a scena aperta.

 
A parte questa discutibile scelta, Kuhn ha ben reso la duplicità del dramma: quasi commedia leggera nel primo atto, tutto in punta di piedi (Pizarro a parte) e giusta pesantezza nel secondo, condotto con serietà davvero tutta beethoveniana. Anche per lui e per l'Orchestra un gran trionfo finale.

 
Conclusione: una bellissima serata di musica, che conferma l'ottimo livello di queste produzioni, spesso definite con sufficienza come provinciali. Avercene!

 

31 gennaio, 2011

Parsifal al Regio di Torino



 
Dopo il Boris, questo Parsifal è l'altro (per me) grande appuntamento della stagione del Regio di Torino. L'allestimento – con qualche variante - è quello presentato nel 2007 al SanCarlo: regìa di Federico Tiezzi e scene di Guido Paolini.

 
La ripresa radiofonica della prima del 26 scorso aveva lasciato davvero un'impressione sontuosa, che è stata pienamente confermata dalla rappresentazione di ieri pomeriggio.

 
Non saprei come aggettivare la prestazione di Kwangchul Youn, tale è stato il livello di assoluta nobiltà raggiunto dal basso coreano: chissà, forse sono proprio le sue origini orientali a permettergli di calarsi tanto profondamente nello spirito (ma anche nel fisico, proprio da ieratico monaco nepalese) del personaggio di Gurnemanz e dell'opera. Semplicemente grandioso!

 
Christopher Ventris ci ha portato qui Parsifal direttamente dalla sua Betlemme di Bayreuth, e dono migliore non ci poteva fare: non una smagliatura in un'interpretazione impeccabile.

 
Christine Goerke è stata una straordinaria Kundry: riuscire a cambiare letteralmente la voce – non soltanto gli abiti – per portarci le sue diverse reincarnazioni è cosa riservata solo a poche, e lei è da annoverare di diritto nel novero di quelle poche.

 
Jochen Schmeckenbecher è un Amfortas più che dignitoso, e del resto nessuno può pretendere che tutto e tutti siano perfetti. È soltanto la (quasi) perfezione dei tre protagonisti succitati che ce lo fa apparire un filino al di sotto!

 
Lo sbifido Klingsor era Mark Doss, beniamino del pubblico torinese. Valgono per lui le considerazioni fatte per Amfortas.

 
Il navigato Kurt Rydl ha interpretato da par suo la parte breve ma impegnativa del vegliardo Titurel (uno che abita direttamente in un sarcofago, così, tanto per facilitare le operazioni al suo funerale, smile!)

 
Non elencherò nei dettagli cavalieri, scudieri, fanciulle-fiore e voce dall'alto. Non per fargli uno sgarbo (la locandina è doverosamente linkata) ma perché cumulativamente li associo in un bravi! Insieme ai diversi cori guidati da Claudio Fenoglio, che ha già saldamente in pugno il testimone passatogli da Gabbiani, volato a Roma.

 
Bertrand de Billy, sconosciuto come minimo, e addirittura snobbato da taluni, ha invece fatto ai miei occhi un figurone. Intanto perché tiene tempi non esasperanti (non ha toccato le 4 ore) ma allo stesso tempo non cerca di imitare in velocità il suo connazionale Boulez (smile!) Poi perché mostra di saper padroneggiare questo behemoth – e l'orchestra che lo deve suonare - in modo sicuro e autoritario.

 
Merito ovviamente anche dei professori, che non hanno mostrato neanche una sbavatura in tutto il pomeriggio. Suono sempre pulito e discreto, che arriva proprio come da un altro mondo, mai a coprire le voci sul palco. Così come i cori di fanciulli e ragazzi, che cantano fuori scena, lasciando un effetto emozionante.

 
Un autentico trionfo, a fine degli atti, e un'apoteosi a fine opera. Pubblico a dir poco in delirio (fin troppo, forse, quanto a fretta nell'applaudire).

 
L'allestimento di Tiezzi-Paolini (coadiuvati da Giovanna Buzzi per i costumi e Luigi Saccomandi per le luci) non era una novità, ma ha confermato quanto di buono si era detto e scritto dopo l'esperienza napoletana. Nessun velleitario o fantasioso Konzept, cui adattare, magari distorcendolo, l'originale, ma una visione – per me – assolutamente laica di questo capolavoro, troppo spesso trattato alla stregua di una volgare (mi scuseranno i credenti) messa cantata.

 
Dell'intima natura del Parsifal si sono date mille diverse interpretazioni, e ciascuno di noi può legittimamente prediligere una o l'altra o l'altra ancora. Per me, Parsifal è tutto fuor che una parodia – o un'apologia, come pensò bizzarramente e perfidamente tale Nietzsche - di riti cristiani o addirittura cattolici, né un inno al pietismo e all'ingenuo volemmose-bbene; è tutto fuor che un'apologia razzista dell'antisemitismo; è tutto fuor che un libello contro l'omosessualità e la prostituzione. Io credo (e cerco di sviluppare questa tesi più compiutamente in appendice a questo post) che Parsifal ponga - in modo (per Wagner) definitivo - la questione del ruolo dell'Arte e dell'Artista all'interno dell'umana società, sempre più straniata fra una religione autoreferenziale e una scienza tracotante.

 
Ecco perché sono stato da subito piacevolmente colpito dall'ambientazione, che sembra indirizzarci verso questa prospettiva di fruizione del Parsifal: il sipario trasparente già ci introduce a geometrie e prospettive del pensiero (la curvatura dello spazio?) e poi si solleva proprio su un luogo dove convivono Arte e Scienza (statue e libri) in casa della Religione. E dove le imprese di Parsifal sono da subito e visibilmente rappresentate come opere di un artista: il cigno morente è letteralmente incorniciato, a suggerire che le azioni di Parsifal sono, appunto, intimamente di natura artistica (Al volo io colgo, ciò che vola).

 
L'agape al termine del primo atto non ci presenta vino e pane, ma… tomi e lo stesso Gral è una struttura composta da tre cornici di quadro disposte a formare un vuoto poliedro, che reca al suo interno il simbolo del tempo (una clessidra).

 
Nel secondo atto la Scienza ci viene presentata come astronomia: dapprima i pianeti che campeggiano sopra Klingsor, al momento per lui di risvegliare Kundry, alla fine come una galassia, o un pulviscolo stellare, o una supernova che prende il posto del castello, neutralizzato dalla presa di coscienza di Parsifal. Ma anche come primordiale scoperta dei quattro elementi fondamentali, rappresentati sulle quattro porte nidificate che incorniciano l'ingresso di Kundry. L'Arte compare nelle vesti e nelle aggraziate movenze delle fanciulle-fiore. E nel velo colorato con cui Kundry, la musa ispiratrice (dell'arte degenerata, che cerca di contrabbandare il meretricio come amor materno) avvolge Parsifal per attirarlo nella sua trappola.

 
Nel terzo atto, dopo la scena dell'Incantesimo (essenziale, luminosa, emozionante fino al groppo in gola) vediamo inizialmente l'Arte deturpata, dimenticata (piedistalli senza statue) o ridotta a puro segno (le colonne disegnate sullo sfondo) cui fa da contraltare la Religione decaduta ad oscurantismo: i cavalieri che si coprono gli occhi, pur in un ambiente scarsamente illuminato, e letteralmente minacciano Amfortas perché ripeta ancora la vuota liturgia. Poi, all'arrivo di Parsifal, torna anche l'Arte (colonne vere che scendono dall'alto) e anche la Scienza (libri che finalmente si riaprono). Amfortas letteralmente si auto-trafigge con la Lancia, proprio ad uccidere, e definitivamente esorcizzare, quella religione oscurantista, mentre Kundry si addormenta posando il capo sulle sue ginocchia, in un gesto emozionante di riconciliazione universale. E torna soprattutto la luce, quella della Ragione e dell'Arte, che nessuno più teme, ora che il Gral è scoperto per sempre e per tutti.

 
Così ho visto, ascoltato e vissuto io questo Parsifal. Altri l'avranno vissuto diversamente, e ciascuno per le sue ottime ragioni. Io cerco adesso di spiegare le mie.


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Appendice

 
Wagner era (soprattutto era convinto lui stesso di essere) un vero artista; nella sua concezione, l'arte, quindi l'artista, è investito di una ben precisa missione: procurare all'Uomo adeguati e nobili strumenti di contrasto contro le sue ossessioni esistenziali.

 
Ludwig Feuerbach, con la cui filosofia Wagner aveva preso dimestichezza ai tempi di Dresda e della rivoluzione, e che poi studierà a fondo – prima di imbattersi nella capitale figura di Schopenhauer - negli anni dell'esilio (durante i quali – è bene ricordarlo – getterà le fondamenta di tutta la sua futura produzione artistica, già del resto messa in cantiere a partire dal 1845) assegna all'Arte un ruolo paritetico e potenzialmente sostitutivo a quello della Religione. Secondo il filosofo, la Religione altro non è se non il prodotto dell'inventiva e della fantasia umane (a loro volta rese possibili grazie alle facoltà intellettive, prerogativa peculiare dell'animale Uomo). La capacità di razionalizzare l'esperienza ha portato l'Uomo a constatare, assieme alle proprie grandi qualità e capacità, anche i propri limiti e le proprie deficienze, prima fra tutte la propria mortalità. Allo stesso tempo l'Uomo ha preso atto che la Natura - assieme a molti lati consolanti – presenta anche aspetti negativi, dolorosi, ripugnanti e, in definitiva, insopportabili.

 
Per sfuggire a questa autentica ossessione, l'Uomo ha creato prima gli dei e poi Dio (che rappresenta la quintessenza idealizzata delle migliori qualità umane) e l'aldilà, che rappresenta l'ideale di un mondo perfetto, soprannaturale e metafisico in cui poter, anzi dover credere: tutto un insieme di valori codificati dalla Religione, che ha fatto assurgere a sistema assoluto (in cui aver fede dogmaticamente) ciò che in realtà era sbocciato dall'immaginazione e dalla fantasia umane.

 
Immaginazione e fantasia che sono, anche, i motori della produzione artistica dell'Uomo. E l'Arte altro non è se non un diverso (dalla Religione) strumento che l'Uomo si è dato per combattere le sue ossessioni e l'insopportabile constatazione della propria mortalità; in definitiva, uno strumento di evasione dalla miseria della propria condizione, e di elevazione spirituale, insomma: una religione laica.

 
Altra considerazione capitale: dato che l'intelletto consente all'Uomo di esplorare, e sempre più in profondità, la natura, la materia (organica e inorganica) che lo circonda, ma anche la propria stessa identità e la propria stessa mente, ecco nascere il pericolo mortale per la Religione: essere smentita dalle conquiste della Ragione (tramite la Scienza) e perdere ogni rilevanza, con ciò privando l'Uomo di quello strumento auto-consolatorio che si era così faticosamente costruito, e precipitandolo, in ultima analisi, in uno stato di gelida, spettrale, e in fin dei conti disperata condizione.

 
Religione ed Arte sono andate quasi sempre a braccetto: basti pensare a quanta Arte si è ispirata alla Religione e quanto la Religione si sia servita dell'Arte per edificare i suoi luoghi di culto e per nobilitare le sue liturgie. Diverso invece il rapporto che la Religione ha avuto con la Scienza, rapporto spesso, se non quasi sempre, conflittuale. Interessante è analizzare il rapporto fra Scienza ed Arte, dove si scopre, per fare un esempio perfettamente in tema, la grande affinità fra la Scienza dei Numeri e l'Arte dei suoni. Non a caso Wagner fu definito, da Thomas Mann, come l'Artista in grado di poetizzare l'intelletto! E nessun Artista più e meglio di Wagner seppe avere, e tradurre in parole e musica – i suoi drammi – intuizioni che la Scienza razionalizzerà e strutturerà molto tempo dopo: basti pensare alla psicanalisi (Freud) e alla teoria della relatività (Einstein).

 
Orbene, Wagner, interpretando Feuerbach (cui significativamente dedica, nel 1849, il suo fondamentale scritto L'Opera d'Arte dell'Avvenire) arriva a concludere che - scomparsa fatalmente la Religione sotto i colpi della Ragione - l'unico strumento di salvezza per l'Uomo non potrà essere che l'Arte. Domanda: perché l'Arte, i cui prodotti nascono pur sempre, come la Religione, da fantasia e immaginazione umane, quindi al di fuori della realtà razionalmente sperimentabile, può essere dall'Uomo accettata (come strumento auto-consolatorio) in luogo della Religione? Semplicemente perché l'Arte – a differenza della Religione - non pretende di imporre Dogmi, nè di rivelare Verità (dogmi e verità sempre meno accettabili dalla Ragione). Il prodotto artistico si presenta per ciò che è, senza maschere, né inganni: appunto, come un'invenzione della mente umana, volta a procurare all'Uomo non già speranze in una immaginaria e inesistente realtà metafisica, ma piacere estetico e spirituale, da consumarsi nella realtà della nostra mortale esistenza, e in piena armonia con la Natura immanente. Appunto, l'Arte come una religione laica.

 
Bene, ai tempi di Wagner, con la Religione che era da un lato messa alla berlina dai vari illuminismi, positivismi, comunismi, ateismi dilaganti in Europa, e dall'altro si andava sempre più trasformando nella parodia di se stessa, schiava delle sue proprie liturgìe, qual'era lo stato dell'arte della produzione artistica (particolarmente del teatro musicale) che alla Religione avrebbe dovuto sostituirsi? Per Wagner: deprimente e penoso. Che questo suo giudizio, più e oltre che da constatazioni oggettive, derivasse dalla sua personale incapacità di penetrare l'establishment di quel mondo (impersonato da Parigi) che mostrava di rifiutarlo, è questione magari secondaria. Sta di fatto che Wagner si vedeva e si sentiva investito della missione di redimere (toh, chi si vede: Parsifal!) l'Arte da quelle che per lui erano degenerazioni prodotte da maghi, stregoni e alchimisti (alla Meyerbeer, per intenderci… o alla Klingsor?) i quali, invece di regalare all'Uomo il tanto necessario ed edificante piacere estetico e spirituale, ne assecondavano le attitudini più abiette e disdicevoli, con prodotti che erano la pura e semplice mercificazione (e prostituzione, quindi) dell'Arte. Duplice compito, quindi, quello che Wagner si assegna: liberare l'Uomo dalla religione, scaduta a mera liturgia (il Gral periodicamente esposto proprio come un feticcio da adorare e usato come pseudo-balsamo per curare l'Uomo delle ferite derivanti dalle sue ossessioni esistenziali) e liberarlo anche dall'arte degradata a turpe e peccaminoso mercimonio (il castello di Klingsor).

 
Ecco, tutta la produzione artistica di Wagner (già a partire, come minimo, dall'Holländer) dapprima in forme e approcci ancora non ben codificati e spesso contraddittori (fino a Lohengrin compreso) ma successivamente in modo chiaro, programmato e strutturato, altro non è se non la rincorsa continua, instancabile – potremmo dire ossessiva (!) - alla propria auto-imposta missione. E non solo, ai drammi che compone, Wagner dà forme e contenuti di altissimo livello estetico, filosofico e spirituale (facendone appunto opere d'Arte nel senso più alto); ma gli stessi protagonisti dei suoi drammi impersonano precisamente le sue convinzioni riguardo l'Arte e la lotta che l'Artista (quello vero e puro, con la A maiuscola!) è chiamato a sostenere per svolgere la sua missione. Missione che si completa con Parsifal, guarda caso. Dove l'Artista Wagner, nell'atto di redimere Religione e Arte, redime anche se stesso (Erlösung dem Erlöser) da tutti i peccati, materiali, spirituali ed anche… artistici, che ha commesso lungo le tappe del suo missionario cammino.

 
Chi incontriamo in Parsifal?

 
Amfortas è il rappresentante, anzi il primo ministro, della Religione che, sentendosi minacciata dall'Arte, decide di combatterla. Ma l'Arte, che ai tempi di Monsalvat come di Wagner, è quella degenerata di Klingsor, lo seduce per tramite di Kundry, provocandogli una ferita insanabile: la perdita della Fede, in effetti. Ferita che la stessa Kundry – nelle sue reincarnazioni pietose (pietose, si badi bene, non compassionevoli!) – cerca invano di sanare.

 
Klingsor è un religioso mancato, per indegnità, che si trasforma in artista degenerato, e che alla purezza e spontaneità della fantasia e dell'immaginazione ha sostituito il trucco, la magìa, l'inganno, auto-castrandosi di tutte le sue potenzialità naturali. Vuole distruggere la Religione, ma non per sostituirla con la vera Arte, bensì per imporre una sua arte-religione depravata e depravante. È un caso forse che il secondo atto di Parsifal sia quasi letteralmente scopiazzato dal terzo atto di Robert le Diable? È il mondo degenerato (agli occhi di Wagner) di Meyerbeer, pieno di fasulle e profumate promesse, quello che l'Artista puro Wagner ci presenta – e con quale sublime maestrìa – per farcelo poi disprezzare e per distruggerlo sotto i nostri occhi, dopo che lui, l'Artista, ha fulmineamente messo a fuoco la verità, cioè il terribile inganno che si cela dietro i colori e i profumi di Klingsor e le dolci carezze di Kundry. (Qualcosa del genere Wagner aveva fatto nel secondo atto di Götterdämmerung, dove ci aveva mirabilmente mostrato – con sguaiati cori da grand-opéra - la degradazione della civiltà ghibicunga, meritevole così di essere travolta da incendi e inondazioni purificatrici!)

 
Kundry – nelle sue re-incarnazioni al servizio di Klingsor – rappresenta appunto la Musa ispiratrice dell'artista. Così si spiega perché lei conosca tutto di Parsifal, anche ciò che lui stesso non conosce di sè. Nei drammi di Wagner c'è sempre una figura femminile che rappresenta la Musa ispiratrice dell'Artista (Wagner) bistrattato e incompreso. Spesso e volentieri è, a differenza di Kundry, una musa nobile. Tanto per fare un esempio, Brünnhilde lo è nei confronti di Siegfried, con questo piccolo particolare aggiuntivo: la musica che Brünnhilde canta a Siegfried sulle parole Ewig war ich, ewig bin ich fu originariamente scritta da Wagner per Cosima, appena divenuta la sua musa ispiratrice, in quel di Starnberg! Ma, come esiste arte degenerata, così esistono le sue muse e Kundry è una di queste: dopo aver irriso la Religione (ridendo del Cristo sul Calvario) si è venduta a Klingsor ed ora è costretta a fare il suo gioco, adescando i nemici del suo padrone. Riesce a far cadere in trappola Amfortas e non Parsifal, poiché Amfortas è accecato dalla religione, e come tale incapace (agli occhi di Wagner) di comprendere la realtà e i suoi subdoli strumenti, mentre Parsifal è ignorante come un oco, ma – da vero naïf, quindi da autentico Artista toccato dalla grazia (come Wagner si autodipingeva, del resto) – sa cogliere l'essenza profonda delle cose e scongiurare così il pericolo di perdersi, acquisendo anzi quella conoscenza che lo mette in grado di redimere l'Umanità.

 
Parsifal è appunto l'Artista (Wagner) che, in cerca di se stesso, della sua identità e della sua missione, ha inizialmente vagato per il mondo, incontrandovi la religione degradata e l'arte corrotta e che finalmente, proprio mentre è sul punto di cadere, irretito dalle lusinghe della falsa arte, prova compassione. Compassione per chi? Ma per tutti gli uomini e le donne vittime di quella degradata religione e di quella falsa arte, fasulli ed abietti strumenti auto-consolatori, ben impersonati dalla cerimonia dell'Agape nel primo atto, che rappresenta mirabilmente la liturgia religiosa, trita, sterilizzante, magica e inafferrabile. L'ingenuo Parsifal nulla ci capisce, anzi l'unica cosa che capisce è che quello dev'essere un ambientino che nuoce gravemente alla salute, almeno a giudicare dalle esternazioni di Amfortas.

 
Questi uomini e donne possono essere redenti se il vero Artista aprirà loro gli occhi: sulla Realtà e sulla Natura (Ecco, ne rende grazie ogni creatura, quante han qui fiore e presto periranno, perché oggi la natura discolpata conquista il giorno della sua innocenza!) La cerimonia conclusiva del dramma è di fatto un funerale, quello della religione e del suo più illustre ministro (Titurel) a cui segue il trionfo della riconquistata conoscenza e dell'elevazione spirituale, prodotto dell'autentica espressione artistica. Elevazione che si potrà perpetuare se, una volta scoperto il Gral, scoperto lo si lascerà per sempre, come cantano le ultime parole di Parsifal.
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28 gennaio, 2011

Stagione dell’OrchestraVerdi - 20



Helmuth Rilling torna a dirigere laVerdi con un programma tutto romantico (anche lui evidentemente ogni tanto sente il bisogno di evadere dal severo mondo bachiano, smile!)

 
Si apre con Mendelssohn e l'Ouverture dalle musiche di scena per Athalia, opera che Rilling ha inciso nella sua interezza con la sua Gächinger Kantorei e l'Orchestra della Radio della sua Stuttgart. Il soggetto è di natura biblica, e l'Ouverture contiene sonorità, motivi e atmosfere già uditi ad esempio nella Lobgesang e nella Reformationssymphonie. Un brano austero e serioso nelle parti esterne (in Maestoso), entro le quali è incastonato il Molto Allegro, che resta comunque ancorato a grande nobiltà.

 
Dopo l'antipasto, ecco un pezzo da novanta. Essendo anno di ricorrenza mahleriana, il boemo viene infilato di traverso anche in questo concerto: suo è infatti l'adattamento per orchestra d'archi del famoso Quartetto D810 di Franz Schubert, noto col sottotitolo La Morte e la Fanciulla. Come accadde anche all'altrettanto famoso Quintetto in LA maggiore (la Trota) anche questo quartetto è lo sviluppo di un precedente Lied schubertiano.

 
Che fra le opere della civiltà musicale europea esistano vasi comunicanti e reciproche influenze è verificabile anche in questo Quartetto. A cominciare da un motivo esposto all'inizio dell'Allegro dal primo violino, che ritroveremo nella Prima sinfonia di Brahms:
Il lungo Andante con moto presenta il tema della morte, preso dall'omonimo Lied e chiaramente ispirato dall'Allegretto della Settima beethoveniana:


 
Poi, lo Scherzo è costruito su un ritmo di cui si ricorderà Wagner, al momento di scolpire la personalità dei suoi Nibelunghi:

 
Infine, fra il tema principale del Presto e la Chanson Bohème parrebbe esserci una qualche, sia pur vaga, parentela:

 
Il trasferimento del quartetto al più vasto organico dell'orchestra servirà magari a renderlo meglio udibile in una vasta sala da concerto, ma gli toglie la caratteristica intimità originaria. Già nel 1894 (anno della trascrizione) quando Mahler eseguì l'Andante all'interno di un concerto ad Amburgo, alcuni critici reagirono assai negativamente: uno dei più autorevoli, tale Josef Sittard, si indignò a tal punto da togliere il saluto al direttore-compositore!

 
Rilling fa del suo meglio per conservare la vena intimistica del quartetto e usa l'orchestra con grande parsimonia, quasi mai andando oltre il mezzo-forte. Fa tutti i ritornelli (come sua precisa consuetudine) e rimedia quindi una durata di tre quarti d'ora. È grande musica, che dà modo ai professori (Danilo Giust in testa, nell'occasione sulla sedia del Konzertmeister) di mostrare le loro qualità solistiche. Tutti accolti da applausi convinti (mah… anche alla fine dei primi due movimenti).

 
Dopo l'intervallo torna Mendelssohn a concludere il concerto con la fin troppo nota Sinfonia in LA maggiore. Anche qui Rilling evita accuratamente ogni enfasi e punta tutto sulla leggerezza e la trasparenza della partitura: ne esce quell'autentico gioiellino che l'Italiana è, quando non si pretende di farne una sinfonia tardo-romantica.

 
La prossima settimana un concerto fuori dagli schemi.
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26 gennaio, 2011

Grande Parsifal al Regio di Torino



Su Radio3 si è appena chiusa la prima del Parsifal al Regio di Torino.

Una prestazione musicale straordinaria, a mio modesto avviso. Youn, Ventris e la Goerke sugli scudi, ma tutti indistintamente eccellenti. Una serata che fa onore al Teatro e all'Italia.

(prossimamente una recensione dal vivo)
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25 gennaio, 2011

Temirkanov con la Mariella e la Filarmonica della Scala


Il venerabile Yuri Temirkanov e la beata Mariella Devia (siamo ormai a custodire come preziose reliquie simili uomini e donne di musica…) hanno deliziato gli ascoltatori di questo concerto della stagione sinfonica del teatro scaligero.

La stagione sinfonica del Teatro (5 titoli per 15 concerti nel 2010-2011) non è da confondersi con la stagione della Filarmonica della Scala (nel 2011: 12 concerti in Scala e 12 fuori-sede) anche se capita che qualche concerto delle due stagioni abbia contenuti simili (e gli stessi protagonisti). Entrambe le stagioni sono peraltro coperte dalle prestazioni dell'Associazione Filarmonica della Scala, fondata nel 1983 da un'idea di Abbado e per imitazione dei Wiener. Sarebbe interessante fare un confronto approfondito fra l'esperienza (160ennale!) dei Wiener e quella (28ennale) dei Filarmonici scaligeri: personalmente ho l'impressione che dal modello – come molte cose fatte all'italiana - siano stati copiati puntualmente i problemi, senza invece conseguirne i benefici.

Ma veniamo al concerto di ieri. Programma tutto novecentesco, ma… diatonico, toh (tanto per fare un dispetto ad Alex Ross, smile!)

Les Illuminations di Britten è del 1939. Scritta per soprano (fu dedicata a Sophie Wyss, il soprano svizzero che ne fu la prima interprete) è però entrata anche nel repertorio dei tenori (primo fra tutti ad interpretarla, il compagno di vita di Britten, Peter Pears). Si tratta di 10 numeri, i cui testi sono tratti da 8 dei 54 (o 46, 44, 43, 42, a seconda di diverse edizioni critiche) poemi intitolati Illuminations (all'inglese!) di Arthur Rimbaud. Britten ha aggiunto l'iniziale Fanfare e Interlude che comprendono un unico verso, preso da Parade. (Qui - 1. 2. 3. - un interpretazione della Aikin con Marriner e i radio-bavaresi.)

Domenica sera il concerto era stato irradiato da Radio3 e, dopo questo brano, alcune critiche erano state mosse alla pronuncia francese della Devia. Francamente mi son parse speciose, a fronte di una prestazione davvero ragguardevole. Caso mai mi sentirei – proprio a voler trovare il pelo nell'uovo – di giudicare fin troppo aggraziato e poco selvaggio l'approccio tenuto dalla brava Mariella, in particolare in Villes e in Parade. Mariella che ha comunque dimostrato – ma non ce n'era certo bisogno – come una grande professionista possa far bene anche quando si allontana – e di parecchio! – dal suo repertorio tradizionale.

Seconda parte con la Quarta di Mahler.

Temirkanov mostra un buon rispetto per la partitura, l'unico piccolo neo che mi permetto di segnalare è che lui pare tenere in poco conto le virgole (o gli apostrofi, insomma quei segni di piccola pausa di respiro che Mahler mette spesso all'interno delle sue frasi musicali). Per il resto, il maestro russo mette bene in risalto anche i minimi particolari, come questo, che ci mostra la chiara ascendenza straussiana del primo tema della sinfonia:


Il tema, nella sua forma principale, sale da dominante a tonica e scende alla mediante. Ma subito prima della cadenza conclusiva della ricapitolazione compare, come inciso, nell'oboe, una sua variante, dove dalla tonica si scende sulla dominante, esattamente come nel love-theme del Don Juan (guarda caso, anch'esso nell'oboe e nella stessa tonalità!) È anche questo un piccolo, ma importante segno della reciproca influenza fra i due maggiori protagonisti della civiltà musicale mitteleuropea dell'epoca.

In generale, il vegliardo direttore circasso trapiantato a SanPietroburgo – sempre senza bacchetta, ma con partitura sul leggìo, e attentamente seguita - ha tenuto un approccio soft, quasi sempre cameristico, come giusto che sia, mettendo bene in risalto la cantabilità dei temi (splendido in ciò il Ruhevoll). Un appunto, ma di natura logistica, che mi sento di avanzare è l'aver fatto entrare la Devia a Lied già attaccato: oltre che elemento di distrazione per il pubblico, credo non abbia giovato alla concentrazione del soprano, costretta ad arrivare al proscenio e quasi subito mettersi a cantare; cosa che peraltro ha fatto benissimo, a parte una difficoltà a farsi udire sul SI sotto il rigo del Tod, a metà della seconda strofa.

Sempre emozionante la chiusa, con la bravissima Luisa Prandina ad esalare, sul MI grave dei contrabbassi, il MI gravissimo dell'arpa. Pubblico educato, che ha rispettato qualche secondo di raccoglimento, prima di liberare il meritato applauso.

Un ultimo dettaglio organizzativo: sarebbe poi così difficile o costoso impiegare gli schermini in dotazione per presentare i testi di ciò che viene cantato, come si fa per l'opera? Evitando così agli spettatori di sfogliare il programma di sala (magari usando i telefonini come abat-jour…)?
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22 gennaio, 2011

Stagione dell’OrchestraVerdi - 19



Torna il Requiem verdiano all'Auditorium. Ormai è diventato – come la IX Sinfonia di Beethoven – uno dei caposaldi del repertorio dell'Orchestra e del Coro. Adesso è direttamente Xian Zhang a farsene carico, studiando, limando, perfezionando l'esecuzione, anche con esperimenti di natura… fonica.

La scorsa stagione era comparso l'Octobasse (il jumbo-contrabbasso) ad arricchire la sonorità di fondo degli archi; quest'anno Zhang ha studiato una nuova, particolare disposizione dell'orchestra (già sperimentata peraltro la settimana scorsa con la Prima di Brahms): tutti i contrabbassi in linea frontale, a far da muro (sonoro) divisorio fra il coro e il resto dell'orchestra, ottoni tutti raggruppati a destra, viole al proscenio, timpani e grancassa al pianterreno, estrema sinistra.

Difficile davvero giudicare i diversi risultati sonori, a distanza di 15 mesi, ma già la cosa in sé mi pare significativa di una precisa volontà e attitudine alla ricerca, in contrapposizione al vivere di rendita (che pure non sarebbe condannabile, nella fattispecie).

I solisti erano la veterana (dell'Auditorium e del Requiem) Maria José Montiel, impeccabile anche ieri (il suo Lux aeterna in particolare); Serena Daolio, per me una piacevole sorpresa, voce bella e abbastanza robusta, tecnica rimarchevole e acuti (il DO del Libera me fantastico) impeccabili. Bravo anche Luc Robert, voce forse non grande, ma timbro gradevole e ottima espressività. Un appunto (ma è un mio personale gusto) al basso Alexei Tanovitski, voce che per passare finisce per ingolarsi troppo.

Ma tutti, insieme all'irreprensibile Coro della Garbarini, hanno meritato il trionfo riservatogli alla fine da un pubblico davvero delle grandi occasioni.

Prossimamente… tutto romanticismo.
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21 gennaio, 2011

Pagliacci e Cavalleria alla Scala



Andata scioperata la prima, le sue ormai tradizionali veci sono state prontamente assunte dalla seconda (trasmessa anche in TV, ma non in web, chè siamo ancora al paleolitico di questa tecnologia… quindi pazienza) dove si sono sprecati (massimamente, ma non solo, dopo Pagliacci) fischi, buh e contestazioni nei riguardi di molti protagonisti (Direttore e Regista compresi). Tutti letteralmente dileggiati dal barcaccione Stinchelli! Con il naturale contraltare di qualcuno che invece vi ha visto l'interpretazione del millennio (come la dantesca Carmen? mah…)

Quindi, matematicamente, dall'altrettanto scontato buona la seconda siamo shiftati al buona la terza! Appunto la rappresentazione di ieri sera, accolta da applausi e ovazioni, che avrebbero sommerso (ammesso ci fossero stati) anche i fischi più acuti e i buh più incarogniti. Avevano quindi ragione i (relativamente pochi) laudanti del 18? O, come spesso accade, la verità sta in qualche punto intermedio, magari non proprio equidistante dagli estremi? Dico subito che personalmente mi colloco senza esitazione nel campo dei apprezzatori (non certo degli idolatri) di questo dittico.

Che ormai le prime (di diritto o di fatto) della Scala abbiano qualcosa di sospetto (o magari solo di sfigato) dev'essere chiaro anche ai responsabili, se è vero come è vero che quasi all'ultimo momento decisero di invertire la tradizionale, e annunciata, sequenza delle opere: mai successo, a memoria d'uomo, che Pagliacci abbia preceduto Cavalleria (quando dati insieme, smile!) L'unica seria ragione di ciò non può non risiedere nei dubbi che già in partenza devono aver assillato i responsabili dello spettacolo, portandoli alla decisione di anteporre la parte più a rischio a quella prevedibilmente meno a rischio, stanti la levatura degli interpreti e la loro preparazione. Quindi, un approccio del tipo: prendiamoci gli ortaggi subito, fuori il dente, così poi magari chiudiamo in recupero; ed è quello che più o meno è successo il 18.

Ieri, guarda caso, con il pubblico normale (o popolo-bue, secondo taluni?) l'ordine tradizionale avrebbe potuto essere tranquillamente ristabilito, a giudicare dall'accoglienza riservata ai Pagliacci di Cura e Dyka. Nonostante il primo mi sia sembrato – se possibile – persino peggiorato rispetto all'ascolto radio del 18! Io, che son di bocca buona, ho però qualche riferimento, diciamo così, estremo: fra una cariatide che canta almeno discretamente e un Lawrence Olivier che urla e stonacchia, scelgo con decisione massima la cariatide (chè il teatro musicale - fosse pure Wagner - senza la musica, nulla è per me…) Peggio ancora quando chi urla e stonacchia non è nemmeno un Olivier, ma un… pagliaccio (smile!) Cura ha in effetti gigioneggiato come fosse all'avanspettacolo (a proposito di verismo) e pare aver riservato le (poche) risorse di benzina rimastegli ai LA della Giubba e ai SIb del Pagliaccio. Per il resto, una prestazione canora che richiederebbe moltissima… cura (smile!) Quanto alla Dyka, mi sentirei di darle una risicata sufficienza. In ogni caso, se è stato applaudito a scena aperta il Cura della Giubba, allora lo andava anche la Dyka, dopo la sua ballatella ornitologica! Voto più che discreto per Maestri e sufficiente, o sufficiente- per Albelo e Cassi. Sempre all'altezza il coro di Casoni.

Harding, essendo uno che viene da fuori, per di più dal profondo nord, ha il vantaggio di non farsi condizionare più di tanto dall'ambiente, e di fidarsi solo e ciecamente della partitura. Il che può magari procurargli l'appellativo non propriamente entusiasmante di battisolfa, rispetto a direttori che vedono - e applicano – anche segni e indicazioni agogiche scritti evidentemente con inchiostro simpatico, del tipo qui mettere calore mediterraneo oppure suonare con passionalità tutta nostra (smile!) Il simpatico Stinchelli trova addirittura che il giovine Harding dirige come un 97enne!

Cavalleria più che dignitosa, con un Licitra un filino falloso, ma diciamo alla Balotelli: non sarà sempre perfetto, però spesso e volentieri segna gol decisivi, e questo conta pur qualcosa! Una domanda: dov'era collocato a cantare la sua siciliana a sipario chiuso? La voce pareva arrivare dalla stazione MM di Cordusio! La D'Intino direi bene (data l'età, smile!) una Santa all'altezza, mai urlante, sempre composta e ben immedesimata nel difficile personaggio. Sgura più che sufficiente e discrete le altre due protagoniste, Piunti e nonnina-Zilio. Anche qui un Harding asciutto, che mi sembra aver rallentato – rispetto al 18 - la velocità dell'Intermezzo (dove avrà tenuto 48 di metronomo, invece dei 54 prescritti… sempre meglio di tale Serafin, un'autentico lumacone mediterraneo, meno di 36!) ma in generale una lettura più che apprezzabile, sotto ogni punto di vista, compreso il giusto equilibrio fra strumenti e voci (ricordo solo una copertura eccessiva di Sgura - da parte del possente coro di Casoni, peraltro, non dell'orchestra - nella chiusa dell'aria di sortita). Meritato il consenso riservatogli dal pubblico (adesso qualcuno aprirà magari una petizione per chiederne l'arruolamento in pianta stabile?)

La regìa dei due spettacoli era di Mario Martone (in combutta con Sergio Tramonti per le scene) che il 18, intervistato su Radio3 (e anche in un video sul sito del teatro) aveva sottolineato i tratti caratteristici, e assai diversi, dei due allestimenti.

Pagliacci è ambientato ai giorni nostri e ci mostra impietosamente quanto sia regredita la nostra civiltà (figlia della cultura cristiano-giudaica) rispetto al lontano 1870. Anche nella ridente Montalto di Calabria è arrivata la modernità, rappresentata dalla futuristica A3, di cui vediamo una caratteristica rampa cadente. Sotto (e sopra) la quale rampa si aggirano signorine che svolgono una professione in altri tempi (lo vedremo più tardi) esercitata all'interno di apposite strutture di business. Possiamo quindi esser certi che ci troviamo dopo il 20 settembre 1958… Le vetture (camioncini della compagnia e berlina di Silvio) ci orienterebbero verso la fine anni '70.

Intelligente l'impiego di saltimbanchi, che animano la scena nei lunghi momenti in cui essa è occupata solo dal coro. Quanto ai personaggi, detto dello scarso verismo del Canio, mi è parso eccessivamente sputtanato (dal regista) il povero Silvio, trasformato in tamarro metropolitano, che arriva in BMW520 (prima serie) nel posto che probabilmente visita ogni sera (per via delle signorine di cui sopra) ad incontrare Nedda. La quale ci lascia il dubbio sulla sua intima natura: una donna sposata con un uomo possessivo e nomade, e che legittimamente aspira alla libertà e ad una stabile sistemazione, e si innamora sinceramente di un bravo giovine… oppure una sgualdrinella potenziale (o reale) attirata dagli averi, non dall'essere, di Silvio? La carta sporcata da Leoncavallo escluderebbe del tutto, mi pare, la seconda alternativa. Martone no. Insomma, una lettura interessante, ma con le sue belle distorsioni, come capita spesso a registi che si sentono in obbligo di inventare qualcosa di nuovo.

Cavalleria è presentata invece con taglio tutto cerebrale, introspettivo e socio-filosofeggiante, che subito si manifesta: bordelli! Le scene sono state costruite tempo fa, quindi mancava la targa "Villa San Martino - Arcore" per rendere l'ambientazione un filino più aderente al tema. Ecco, intanto sappiamo di trovarci prima del 20 settembre 1958, ed è già qualcosa. Poi, mostrare un casino in piena attività nella mattinata di Pasqua è una genialata di cui tutti i siciliani saranno eternamente grati al regista! Ma poco dopo scopriamo la vera intenzione di Martone: scolpire da subito la personalità di Alfio. Un tipo che, appunto, a Pasqua si alza e va direttamente al bordello; e ha tanto poco rispetto per la donna (moglie o puttana, fa lo stesso) che dopo (non prima) dello sfogo fisiologico va dal barbiere a farsi bello! Servono a qualcosa o no, i registi, vivaddio?

Non disprezzabile invece l'idea della scena inizialmente vuota, riempita via via da sedie su cui il popolo prende posto, senza più andarsene. Facendo da costante testimone dei drammi esistenziali che si svolgono lì attorno. La Santa che arriva con la sua sedia sotto braccio e fatica a sistemarsi in mezzo alle altre sedie rende efficacemente l'idea dell'espulsione della donna peccatrice da una società bigotta e piena di pregiudizi. A differenza di Nedda, Lola è – perché così ce la musica Mascagni, sul testo dei suoi librettisti – una ragazza piuttosto leggera, per così dire, una civetta piuttosto vanesia; e così ben ce la propone la regìa di Martone. Detto dell'arbitrarietà dell'impersonificazione di Alfio, bene invece anche l'esposizione di Turiddu e mamma Lucia.

In definitiva, una serata più che piacevole, grazie soprattutto a questa musica, in cui si sentono atmosfere sonore, se non proprio spunti tematici, che appariranno in quegli anni nelle sinfonie di Mahler, che fu interprete entusiasta sia di Mascagni che di Leoncavallo (a dispetto degli scontri avuti con quest'ultimo) e dalla cui musica dal taglio popolare fu sicuramente ispirato.
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14 gennaio, 2011

Mahler: buona la seconda!


Con una lodevole iniziativa, la Morgan Library & Museum di NY ha aperto i suoi archivi e sta pubblicando anche in web una montagna di materiale musicale (manoscritti fino ad oggi accessibili solo a pochi intimi.

Vi si possono scovare – o verificare in proprio – interessanti aspetti legati alla storia delle diverse composizioni.

(Quasi) a caso, sono entrato sul manoscritto originale (1903) della Quinta di Mahler. È noto a (quasi) tutti che l'Autore rimise le mani più volte sulla sinfonia, che è stata quindi oggetto di attenzioni ed edizioni critiche autorevoli.

Neanche a farlo apposta, osservando la prima pagina del famoso Adagietto, si nota subito una per nulla trascurabile differenza fra l'idea originale e la successiva revisione fatta dall'Autore. Ecco qui:


A parte la divisione delle viole, non prevista originariamente, si noterà come la seconda sezione del motivo conduttore (a cavallo fra le battute 3-4) sia stata quasi impercettibilmente, ma sostanzialmente modificata da Mahler, rispetto alla prima stesura: la penultima croma della misura 3, un originario SOL, che faceva crescere monotonamente la melodia (FA-SOL-LA) diventa alla fine un SIb, introducendo così fin da subito una increspatura espressionista, che viene subito dopo ripresa (già nell'originale) dalla riesposizione del motivo nei violoncelli. La prima forma – a velocità dimezzata (semiminime invece di crome) - resta al suo posto nella ripresa del motivo nei violini secondi (mis. 73 e successive).

Piccoli dettagli, forse, ma che ci raccontano dell'autentica sofferenza con cui un compositore come Mahler viveva le sue creature.
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Stagione dell’OrchestraVerdi - 18



Un concerto del tutto tradizionale, quello che si dà in questi giorni. Che accorpa Brahms e Haydn, mettendo in risalto alcune radici del primo che affondano, più o meno profondamente, nel secondo.

Subito da segnalare la disposizione dell'orchestra, un ibrido poco consueto fra layout alto-tedesco e moderno: contrabbassi in linea frontale, sul fondo; ottoni tutti a destra; viole al proscenio e violoncelli arretrati; e soprattutto timpani (e triangolo) all'estrema destra, sul tavolato, quasi in primo piano.

 
I legami fra Brahms e Haydn emergono a partire dal primo brano in programma, le brahmsiane Variazioni (per orchestra, poichè ne esiste una versione per due tastiere) su un tema di Haydn (o presunto tale, per la verità…) Un tema – detto Corale di Sant'Antonio - di 10 battute suddivise in due sezioni di 5:
e sottoposto ad otto variazioni, cui segue la chiusa.

 
Zhang ha rispettato scrupolosamente tutti i ritornelli, e ha dato una lettura proprio settecentesca (evitando enfasi fuori luogo) di questo lavoro che Brahms usò come ultimo test prima di decidersi al grande passo: entrare nel mondo della sinfonia (la Prima seguirà 3 anni dopo).

 
Arriva adesso Alison Balsom (una bella mammina, non c'è che dire, anche se ieri – peccato – aveva le gambe coperte da un lungo scarlatto, certo per evitare al pubblico ogni distrazione dalla musica) a cimentarsi nel celebre Concerto per tromba di Haydn. Che è in pratica l'unico pezzo classico da concerto che un(a) solista di tromba abbia a disposizione; il che dovrebbe però permettergli(le) di padroneggiarlo alla perfezione. Concerto dalla Balsom già interpretato con Zhang a Berlino tempo fa. Qui invece (1., 2-3.) una sua esibizione ai PROMS 2009, quando ancora la bella Alison non era diventata mamma.

 
Nel primo movimento c'è spazio per una cadenza, normalmente lasciata all'inventiva dell'interprete: la Balsom ne ha una sua propria (vedi youtube) e anche ieri ce l'ha riproposta. Non arriva a toccare il MIb super-acuto (come fa il negretto Wynton Marsalis, qui a 6:05) ma insomma ci accontentiamo!

 
Il tema del bellissimo Andante, in LAb maggiore, ha l'incipit che ricorda quello – poi divenuto famoso come inno nazionale – del Poco adagio cantabile del terzo Quartetto dell'Op. 76, il famoso Imperatore, composto a ridosso del concerto per tromba. E di cui si ricorderà – guarda caso - proprio Brahms al momento di aprire il suo Requiem:
Alison lo espone con grande pathos, forse la parte migliore della sua interpretazione.

 
L'ultimo tempo presenta un tema, pure famoso, nella tonalità base di MIb:
Qui purtroppo non sono mancate un paio di imprecisioni, ma le perdoneremo volentieri. Come la piccola libertà che la Balsom abitualmente si prende: quella di chiudere il concerto (le ultime 8 battute) un'ottava sopra di quanto Haydn ha scritto in partitura. Cosa che è di sicuro effetto, ma insomma…

 
Gran trionfo per lei, che ci regala come bis una sua trasposizione per tromba di Syrinx, che Debussy scrisse per il flauto.

 
Ha chiuso il concertone la decima di Beethoven, come un ammiratore (pro-tempore) di Wagner ebbe bizzarramente a definire la Prima sinfonia di Brahms.

 
Zhang ne ha dato, per me, un'interpretazione assolutamente classica, à la Giulini, come dire, calandosi perfettamente nella rigorosa severità del burbero orso amburghese. Già dallo stacco di tempo dell'introduzione, scandito dai decisi, ma mai enfatici, colpi del timpano della brava Viviana Mologni. Poi ci ha opportunamente risparmiato il ritornello dell'esposizione (che in effetti pochi oggi si ostinano ad eseguire) per condurre l'Allegro con grande pulizia e precisione di gesto.

 
Delicato e sottovoce l'Andante sostenuto, chiuso dalla mirabile cadenza in cui spiccano il corno di Giuseppe Amatulli e il violino di Luca Santaniello.

 
Il terzo movimento, Poco allegretto e grazioso, presenta un tema lungo ed effettivamente aggraziato, che pare il prodotto di una mirabile ispirazione. Poi, se lo si esamina da vicino, si scopre che si tratta di due sezioni, di 5 (ancora!) battute ciascuna, dove la seconda è ottenuta semplicemente rovesciando a specchio la prima!
Insomma, una semplice operazione meccanica che produce un risultato esteticamente brillante! E Brahms era maestro in questi – diciamo pure – trucchi (fiamminghi?) come si può constatare in altri suoi passi famosi, come l'inizio della Quarta sinfonia, una banale sequenza di terze discendenti, ma con qualche inversione di intervalli… Ed era ciò che di Brahms piaceva ad Hanslick, che vi vedeva confermate le sue teorie sulla musica principio e fine di se stessa.

 
Grandiosa l'introduzione del Finale, dove udiamo il famoso richiamo del corno, che cade da mediante a dominante, che Brahms aveva annotato parecchi anni prima, riportandolo su una cartolina postale inviata dalla Svizzera a Clara per il compleanno, il 12 settembre 1868:

Sulla cartolina si legge:

 
Also blus das Alphorn Heut:
Hoch auf'm berg, tief im thal; Grüß ich dich, viel tausend mal!

 
(Così suonò il corno alpino oggi:
dall'alto monte, dalla profonda valle; ti saluto, mille volte)

 
Peraltro il motivo è qualcosa che già si era udito nel teatro musicale:
Come si vede, le note sono proprio poche! Ma di queste ci accontentiamo, quando vengono disposte in modo geniale.

 
Tutti in trionfo alla fine, come si sono ampiamente meritati.

 
A proposito di geni: fra una settimana grande appuntamento verdiano.
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13 gennaio, 2011

Rondò 2011


Come preventivo antidoto contro la melassa diatonica (smile!) che questa sera mi verrà propinata da laVerdi (a base di Haydn e Brahms) ieri sera ho fatto una scorta di musica moderna, in buona parte contemporanea. L'occasione era fornita da Divertimento Ensemble, diretto da Sandro Gorli, che ha inaugurato la sua ottava stagione di Incontri con la Musica – dal primo '900 ad oggi, stagione che si chiuderà mercoledi 8 giugno.  

I concerti sono sempre preceduti da una presentazione, spesso con la presenza degli autori di composizioni in programma. Ieri sera, assente Luca Francesconi, erano ospiti Stefano Gervasoni e Daniele Ghisi, dei quali sono state poi eseguite tre composizioni recenti, recentissime o nuove di zecca, fra le quali è stato per l'occasione incastonato nientemeno che Prokofiev. Il loro fratello maggiore, per così dire, Alessandro Solbiati, dopo aver doverosamente stigmatizzato l'attuale andazzo di tagli e colpi d'accetta alle risorse per la cultura, li ha sollecitati a raccontarci le loro esperienze di compositori di oggi. Quanto ai brani in esecuzione, alcune note sul programma di sala orientavano in qualche modo l'ascoltatore; che, diciamolo francamente, ha sempre qualche difficoltà a districarsi con musica come questa.

Ecco infatti la musica. Ad aggiungersi all'Ensemble, in qualità di solista, il venerabile Salvatore Accardo.

Escludendo Prokofiev, che qui è ospite di riguardo, ma… non fa testo, le altre tre composizioni hanno una comune caratteristica: di avere, se non proprio un programma, almeno un'ispirazione, o connessione – aperta o criptica, o magari solo apparente - con l'esterno. Se nessuno si offende, usando categorie obsolete ed ottocentesche (?) si potrebbero definire dei poemi sinfonici del terzo millennio.

Il primo dei quali, eseguito dall'Ensemble, è Da Capo II di Francesconi, del 2007, per 8 strumenti: Flauto(+Ottavino), Clarinetto, Fagotto, Pianoforte, Percussioni (Vibrafono, Marimba, Glockenspiel), Violino, Viola e Violoncello. A prima vista, parrebbe scoperto il riferimento culturale (smile!) del titolo. In realtà Francesconi già aveva composto un primo brano con quel titolo in tempi non sospetti ('85-86). L'attuale Direttore artistico della Biennale Musica di Venezia ci propone – parole sue – un processo, un meccanismo di trasformazione, in un unico grande "arco" che deve risultare comprensibile come un gesto pittorico. Personalmente lo vedo come un gesto di pittura astratta (smile!) sulla cui immediata comprensibilità ci sarebbe da discutere. Una novità tecnica che si comincia ad apprezzare qui (ma sarà sfruttata al massimo grado nel brano di Gervasoni) consiste nel fare emettere al pianoforte suoni prodotti in modo, diciamo, non convenzionale: appoggiando le mani sulle corde, o direttamente percuotendole con una bacchetta; il che costringe l'esecutore (ieri la bravissima Maria Grazia Bellocchio) ad acrobazie ginniche, oltre che a spostare lo spartito su un improvvisato leggìo dentro la coda dello strumento. Il che ci spiega anche la vera ragione del fatto che il coperchio dello stesso venga tenuto sollevato (smile!)

Segue un classico, la lunga Sonata n°1 op.80 per violino e pianoforte di Sergei Prokofiev. Composta a cavallo della seconda guerra mondiale, di ispirazione quasi cimiteriale, come lo stesso autore ebbe a dire. Accardo è accompagnato dalla Bellocchio ed anzi si sistema quasi addosso a lei, coprendone la figura agli occhi dello spettatore; questa inconsueta e bizzarra dislocazione si spiega con la necessità, per Accardo, di sbirciare lo spartito collocato sul leggìo del pianoforte; spartito che in realtà, come una partitura, reca insieme i due righi del pianoforte sovrastati da quello del violino. Per carità, non è qui il caso di incolpare il famoso violinista di mancata mandata a memoria di una sonata tanto difficile, quanto desueta… ma forse c'era qualche altro sistema logistico per risolvere meglio il problema. Quanto all'esecuzione, Accardo è parso assai compassato, anche in quei momenti che – stando ai ricordi di testimoni auricolari – Prokofiev voleva suonati quasi con ferocia fisica. Grande successo e – siamo alle solite – gente che dopo l'intervallo (allietato da degustazioni di vino offerto dallo sponsor della serata) se ne va alla chetichella.


Tocca ancora all'Ensemble (tutti bravissimi musicisti, non c'è che dire!) eseguire, di Gervasoni, Prato prima presente. Composizione del 2009 per: Flauto, Oboe, Clarinetto, Percussioni, Pianoforte, Violino, Viola e Violoncello. La sottostante filosofia è – per intenderci – quella del Ragazzo della Via Gluck (là dove c'era l'erba – appunto, il prato prima presente - ora c'e una città) cioè di come la civiltà di oggi, per costruire quella di domani, si rapporti con (o non si curi di) quella di ieri. In effetti c'è un tappeto sonoro che può rimandare ad un prato, popolato da insetti che si aggirano nell'erba (magari anche da bambini che ci giocano); sul quale si odono brusche irruzioni di qualche palazzinaro di turno, piuttosto che armoniosi interventi à la Renzo Piano. Naturalmente è un'impressione personale, al limite della battuta; quanto all'assunto dell'opera (…il prato è come la pagina bianca per il compositore: non è mai del tutto bianca, del tutto neutra, del tutto indifferente a ciò che il compositore si permetterà di metterci sopra) è di sicuro intrigante, e lascia trasparire la coscienza – e anche il peso – dell'eredità musicale che un compositore contemporaneo si trova sulle spalle. Quanto al risultato estetico dello sforzo di Gervasoni… credo che per apprezzarlo sarebbe necessario (quanto meno per uno come me) studiare assai!

Chiude il concerto la prima assoluta di una composizione commissionata dall'Ensemble a Daniele Ghisi: De Selby Compendium, che impiega anche il Violino solista, insieme a Flauto, Oboe, Clarinetto(+basso), Fagotto, Tromba, Pianoforte, Percussioni, Violino, Viola, Violoncello e Contrabbasso. Il titolo si ispira ad un bizzarro personaggio letterario, prodotto dalla fertile fantasia di Brian O'Nolan: un misto di filosofo-demenziale, alchimista-pazzo, dottor-stranamore e una-bomber. Il giovanissimo Ghisi ci ha ricavato una specie di bigino in musica, affidando al violino (ancora Accardo, uno dei dedicatari dell'opera) il ruolo del protagonista, e al resto dell'Ensemble quello di descrivere le sue imprese e i suoi vaneggiamenti. Variazioni fantastiche su un tema di carattere cavalleresco: così qualcuno sottotitolò un poema sinfonico ispirato ad un altro bizzarro personaggio, per certi versi antesignano di De Selby... ma è acqua passata.

In ogni caso, come forse si sarà capito, le musiche eseguite qui (non parlo di Prokofiev…) appartengono ad un filone modernista che si potrebbe definire spirituale, in opposizione a quello, tutto materiale, dove il compositore si diverte (smile!) a manipolare suoni, anzi più spesso rumori (yes, mr. Ross!) nei cosiddetti studi di fonologia.

Francamente, è già qualcosa. (Adesso però, trangugiato l'antidoto, non vedo l'ora di avvelenarmi con Haydn e Brahms…)
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