affinità bombarole

rinsaldato il patto atlantico

10 settembre, 2010

Stagione dell’OrchestraVerdi - 1

Ieri sera l'Auditorium di Largo Mahler ha ospitato il primo concerto della stagione. Presentato come un omaggio a Shakespeare per via dei tre brani assortiti - incentrati su Romeo e Giulietta - in realtà ha avuto il suo cardine nel concerto di Prokofiev, il vero pezzo forte della serata.

Che è iniziata con la breve (163 battute in tutto, in RE maggiore) ouverture belliniana dei Capuleti (opera per nulla risalente al genio di Stratford-upon-Avon, peraltro, ma a fonti squisitamente italiane); un'ouverture che non ha certo la complessa strutturazione di quella della Norma, per dire. Forse scritta in tutta fretta, come l'intera opera, del resto, che ha mutuato assai dall'infelice Zaira. Qui serve a scaldare i motori all'orchestra, in vista del clou della serata.

Che arriva con il trentenne Alexander Kobrin, alle prese con il celebre e difficile Terzo concerto per pianoforte e orchestra di Sergei Prokofiev. Su youtube si può ascoltare una registrazione del concerto interpretato dal suo autore, a Londra nel 1932 (primo, secondo, terzo tempo).

Il primo movimento è caratterizzato dall'esposizione di due temi, ciascuno dei quali, proposto rispettivamente da clarinetto e oboe, viene poi ripreso in forma variata dal pianoforte. L'esposizione si chiude con una sezione basata su un motivo discendente (con incipit di metro ditrocheo):

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Arriva ora lo sviluppo, basato inizialmente sulla manipolazione del primo tema e del motivo della chiusa, poi da quella del secondo tema. Una coda tutta in semicrome chiude il movimento, con due pesanti accordi in fortissimo, sul DO.

Il secondo movimento è un tema – che ha una qualche vaga reminiscenza di quello iniziale del primo movimento – seguito da cinque variazioni, più la ripresa del tema a chiudere il tutto.









Inizia in MI minore, quasi come una rozza marcia funebre (o magari come la camminata ciondolante di un ubriaco); ha quindi un che di mahleriano, come confermano i tre incisi del fagotto (ricordano la scala ascendente che apre il secondo movimento della nona) che si intromette nella duplice esposizione del tema da parte di flauto e clarinetto. La prima variazione è in carico al pianoforte che, come dire, cerca di tirar un po' su il morale, introducendo qualche sfumatura di maggiore, ma poi ancora flauto e clarinetto ci riportano all'atmosfera greve del tema, col pianoforte ridotto a fare da sottofondo con un tremolo di biscrome. Ora però si passa in Allegro, per la seconda variazione, introdotta da velocissime quartine in semicroma del pianoforte, col sottofondo delle crome dei corni e delle semicrome dei violini secondi, che suonano dei tritoni (SI-FA) e con la tromba che espone il tema, sul DO#, quasi uno sberleffo. La cosa si ripete due volte, prima che i fagotti e gli archi bassi vi mettano fine, con una scala discendente (al MI) in staccato e pizzicato, rispettivamente. La terza variazione ha come protagonista il pianoforte, che disintegra letteralmente il tema e – qualcuno ha scritto – sembra una pallina che rimbalza vorticosamente sulle pareti di un campo di squash. Due tetri accordi dei fiati paiono proprio sotterrarla! Ecco ora l'Andante meditativo della quarta variazione, protagonista l'incipit del tema, proposto dal pianoforte, poi dai corni, quindi dall'oboe, ancora dai corni, in un'atmosfera rarefatta, caratterizzata dalle liquide crome del pianoforte e da un delicato intervento del clarinetto. Nella quinta variazione (Allegro giusto) è ancora il pianoforte a farla da padrone, con una specie di moto perpetuo accompagnato in modo martellante dall'orchestra. Il tutto sfocia nella riesposizione del tema, ma a valori doppi, dapprima nel flauto, poi nel clarinetto. Ricompaiono ancora le scale ascendenti del fagotto, mentre il pianoforte percorre un moto oscillante per crome puntate, fino a chiudere sul MI.

Il movimento conclusivo, in forma di rondò e in tempo ternario, Allegro ma non troppo, è aperto dai fagotti (raddoppiati dal pizzicato degli archi) che propongono il tema iniziale:




Il pianoforte e poi l'orchestra ne riprendono via via degli incisi, poi sono gli oboi a riproporlo in modo completo, prima che pianoforte e violini espongano il secondo tema:








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Pianoforte, archi e strumentini sembrano rincorrersi con veloci quartine e sestine di semicroma, finchè il pianoforte, secondo i canoni del rondò, ripropone il primo tema (Poco più mosso) sviluppandolo ulteriormente con frequenti battute in fortissimo, per arrivare poi ad una sezione (Meno mosso) in cui vengono presentati due nuovi motivi, il primo, di carattere elegìaco, da oboi e clarinetti, il secondo – in 4/4 più nervoso, con improvvisi scatti verso l'alto – dal pianoforte, poi seguito dagli strumentini:








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Questa sezione continua (tornando a 3/4 e contrappuntando i due motivi) con il pianoforte protagonista, fino alla ripresa, in Allegro, del primo tema, in clarinetti e fagotti, seguiti poi dal pianoforte, dove il solista è chiamato ad eseguire virtuosistici passaggi con note clusterizzate, come questo:

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Si arriva quindi alla coda, con un forsennato rincorrersi fra solista ed orchestra:








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che porta allo schianto finale sulla triade di DO maggiore, che è però un DO vagamente… inquinato (sennò non si era originali!) dai SI di secondi violini, corni e secondo oboe, e dai RE della seconda fila dei violini primi, del primo oboe e del primo clarinetto.

Prestazione di tutto rilievo di Kobrin, uno che – a differenza di altri asiatici (smile!) – pare una statua che muove solo dita e piante dei piedi, tanto è composto e concentrato sulla tastiera. Grandi applausi e chiamate, che lo convincono ad offrire un primo bis (Schumann?) e poi un secondo (il brevissimo tema del settimo Preludio dell'op.28 di Chopin) che è un modo simpatico per salutare tutti.

Nella seconda parte del concerto ecco la scena d'amore della sinfonia drammatica op.17 di Berlioz. È la terza, delle sette parti che costituiscono Roméo et Juliette, che nel suo insieme prevede anche l'intervento di solisti di canto e del coro (non è un'opera, né una cantata, ma una sinfonia con cori, scrive Berlioz nella prefazione). E in effetti il coro – i Capuleti che lasciano la festa - ci sarebbe anche al principio di questa parte (123 battute in Allegretto) ma qui viene omesso per comprensibili ragioni, per cui si comincia con l'Adagio (Giulietta al balcone) che è una lunga preparazione degli archi, con rari interventi dei fiati, alla presentazione del tema di Romeo, il love-theme, come si usa dire, inizialmente esposto dal 4° corno e dai primi violoncelli:


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Poi è tutto un ritornare su questo tema, con variazioni (piccole o grandi) di struttura, di tempo e di volume del suono, insomma, tutte le possibili (kamasutriche…) forme e posizioni che può assumere il rapporto fra due innamorati. Non per nulla tale Wagner – autore del Tristan – riconobbe pubblicamente i meriti del Berlioz autore del Roméo.

Chissà che la buona prova in questo assaggio non porti la direzione musicale a mettere in programma l'intera sinfonia in un prossimo futuro: se lo meritano sia l'opera che... il pubblico!

Chiude il concerto l'ouverture-fantasia Romeo e Giulietta di Ciajkovski, già presentata – con Grazioli sul podio - nella scorsa stagione. Qui, a differenza dell'intimistico Berlioz, abbiamo lo scatenamento delle passioni (= percussioni: grancassa, piatti, oltre agli interventi tempestosi dei timpani). Zhang ne cava un'esecuzione trascinante, accolta da interminabili applausi e ripetute chiamate.

Next week un solenne ed enigmatico Elgar, seguito dal più allucinato dei Rachmaninov.

08 settembre, 2010

Un festival in Brianza

A Besana Brianza si prepara la quarta edizione di Musarte, che avrà luogo dal 25 settembre al 5 novembre 2010. Il tema di questa edizione è il crogiolo culturale che – a cavallo fra il XIX e il XX secolo – caratterizzò l'Europa e naturalmente l'Italia. Una delle figure principali della cultura di quel periodo fu Giacomo Puccini, che è al centro di questa edizione del festival.

Domenica 26 settembre, ore 11, nella Chiesa Parrocchiale San Vito Martire – Barzanò si eseguirà la Messa a quattro voci, detta anche Messa di Gloria, composta da un Puccini 20-22enne, e che ha fornito al compositore spunti impiegati in più di un'opera.

Ma l'intero programma è assai ricco ed interessante, a tutto merito della Città di Besana.

07 settembre, 2010

Il MiTo (?) di Lang Lang

Palasharp zeppo come un uovo per ascoltare (ma forse più ancora per vedere?) Lang Lang. Come (quasi) tutto ciò che arriva oggi dalla Cina, è all'apparenza uguale o meglio dei prodotti nostrani, ma non sai mai se si tratti appunto solo di apparenza o anche di sostanza. Ecco, Lang Lang ti cattura immediatamente l'occhio… forse per distrarre l'orecchio? Tecnica eccelsa (qualche svirgolata si perdona a tutti) ma l'ispirazione non si dovrebbe trasmettere attraverso contorsioni del busto, reclinamenti del capo e chiusure di palpebre, bensì dal modo con cui si toccano i tasti e si premono i pedali. Dopodichè, in una specie di stadio, con pubblico da stadio / festa de l'Unità (pardon, festa democratica, come ricordavano le insegne PD anche dentro il palazzone) va bene tutto, come ci hanno insegnato a loro tempo i tre tenori. E uno stadio, più che un auditorium, è il posto giusto per simili fenomeni da baraccone (in queste immagini pubblicitarie il nostro assomiglia sempre più a Mac Ronay nella macchietta del pianista matto, quindi ha già un futuro anche come comico).

Il ventottenne cinese ha (bis)trattato da grande attore il Concerto per pianoforte più popolare al mondo. Tanto popolare che il pubblico è esploso in un fragoroso applauso dopo il primo movimento, permettendo così ai soliti ritardatari (con posti nelle prime file, quindi probabilmente pure a sbafo…) di percorrere gli 80 metri del parterre e accomodarsi per l'Andantino semplice.

Inutile dire del trionfo finale, con ripetute chiamate, l'intera provvista di un fioraio recata sul palco e la concessione di un bis perfettamente adatto alla circostanza: l'op.53 di Chopin.

Poi la serata – intervallo a luci spente e orchestrali sempre sul palco - prevedeva ancora un Ciajkovski serio (fin troppo) e un Direttore ancor più serio. Così abbiamo potuto ascoltare, dai Trepper Philarmoniker guidati da Bychkov, una Patetica più che dignitosa. Anch'essa tanto popolare da scatenare un applauso interminabile dopo i pesanti accordi di SOL maggiore che chiudono l'Allegro molto vivace. Insomma, per lo spettatore medio era finita così, alla grande… perché mai sorbirsi ancora 10 minuti di Adagio lamentoso? Ecco quindi decine di persone che – scavalcando i vicini di sedia - si avviano all'uscita (per correre a comprare il CD della Patetica, o per non perdere l'ultima salamella della festa democratica?) col povero Bychkov impietrito ad attendere che termini la gazzarra per poter terminare anche lui la sinfonia, cui teneva tanto.

06 settembre, 2010

La Verdi ha aperto la sua stagione alla Scala

Abbandonato il povero Rigoletto mantouano al suo triste destino (a proposito, le critiche che si leggono in giro sono su per giù del tipo: una vera schifezza, però grazie a mamma-RAI per averla fatta… poi ieri pomeriggio una delle mie disgraziatissime figlie ha sentenziato: ecco perché fanno 'sta stronzata, perché non c'è la Ventura con le partite!) si è tornati alla Scala, dove Xian Zhang ha diretto il concerto inaugurale della stagione 10-11 de laVerdi che, come avviene da qualche anno, è ospitato dal massimo teatro italiano. Un concerto con programma assai corposo, che anzi nella iniziale scaletta sembrava proprio di quelli dei tempi di Beethoven: Egmont, Fantasia e Nona Sinfonia! Poi l'Egmont è stato rimosso e il tutto è tornato a proporzioni quasi normali.

In un teatro quasi stracolmo Simone Pedroni, pianista in residence presso laVerdi, apre la serata con il lungo solistico Adagio in DO minore che introduce la Fantasia op.80. Poi arriva l'orchestra, con i bassi a supportare il pianoforte nella transizione a DO maggiore, dove il solista espone quello che sarà il tema cardine dell'opera, derivato da un lied giovanile, e che successivamente verrà ripreso da solisti e coro, quasi fosse un abbozzo miniaturizzato del futuro Inno alla gioia della nona:


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È per ora il flauto a presentarne una virtuosistica variazione, subito imitato dagli oboi e successivamente dai clarinetti, col fagotto a contrappuntarne le crome con veloci semicrome. Infine entrano tutte le prime parti degli archi a preparare la strada ad un Allegro molto, dove il solista e l'orchestra dialogano con continui botta-e-risposta. Il dialogo prosegue in Adagio in LA maggiore, fino all'ingresso del tempo di marcia, in FA maggiore, per una nuova esposizione variata del tema. Un Allegretto, ma non troppo introduce i solisti del coro e poi tutto il coro, che presentano, nel solare DO maggiore, l'inno alla fratellanza di Christoph Kuffner, una pagina breve ma efficace, da cui Beethoven coglierà più di uno spunto per musicare – anni e anni dopo – Schiller. Sarà pure perché il pezzo non è di impervia difficoltà, ma tutti se la cavano dignitosamente.

Ora la Nona, divenuta ormai un architrave del repertorio de laVerdi (anche quest'anno sarà protagonista del concerto di fine anno). Devo dire che la Zhang ha riportato le cose a posto, dopo il diversivo di Marshall della scorsa stagione, tuttavia è parso che l'orchestra fosse ancora colla mente alle recenti ferie: più di un'incertezza, mancanza di buon impasto, soprattutto nel secondo movimento e nel preludio del finale. Magari sulla prestazione non stratosferica ha pesato anche l'ambiente del Piermarini, sotto l'aspetto fisico (il palco è il doppio di quello di Largo Mahler) e sotto quello psicologico (ué, siamo nel più importante teatro del mondo, mica pizza&fichi). I solisti – tutti già ospiti in passato dei concerti dell'orchestra - han fatto il loro dovere, come il coro. Certo, arrivare in un posto che ancora profumava dei suoni della Gewandhaus non è facile per nessuno.

Comunque gran trionfo finale (perché bisogna pur sostenere le nostre squadre…) soprattutto per il coro di Erina Gambarini, e pubblico gratificato con due bis: l'Ave verum corpus e le ultime 90 battute della sinfonia.

Giovedì l'inizio della stagione in abbonamento, con variazioni sul tema Romeo&Giulietta ad incastonare il terzo concerto di Prokofiev.

03 settembre, 2010

Chailly a Rimini

Proveniente da Stuttgart e diretto a Milano per il MI-TO, Riccardo Chailly ha diretto i suoi fantastici di Lipsia nel Concerto inaugurale della Sagra Musicale Malatestiana n° 61, in una Rimini assai rinfrescata da una tramontana che vi insiste da giorni. Concerto tutto dedicato a Robert Schumann, stante la ricorrenza dei 200 anni dalla nascita.

Si sa che Schumann fu un grande campione, come teorico e come pratico, dell'innovazione – avendo peraltro grande rispetto delle tradizioni – e le tre opere eseguite qui a Rimini ne sono prova tangibile. In ciascuna di esse il compositore di Zwickau non manca di impiegare le forme classiche in modo assolutamente originale e personalissimo.

Kit Armstrong apre la serata sedendo al pianoforte per interpretare il fin troppo celebre Concerto in LA minore. Che non ci si stanca mai di ascoltare e che ci regala ogni volta grandi emozioni. Nato come una fantasia, il primo tempo del concerto fatica ad inquadrarsi negli schemi della forma-sonata, tanto è ricco di motivi, cambi di tonalità e tempo. Più tradizionali, per così dire, ma non privi di inventiva, i due movimenti (Intermezzo e Allegro-rondò) aggiunti da Schumann per completare l'opera, anche in omaggio a (e dietro le insistenze di) Clara.

Il californiano Armstrong è appena diciottenne, ma di anni ne dimostra 15, data la taglia minuscola e l'aspetto da fanciullo imberbe. Però già suona da dio, oltre che comporre ed essere pure un sapiente matematico (il che conferma la strettissima relazione esistente fra note e numeri): insomma, pare sia una specie di genio. Suona quasi sempre rivolto verso il direttore e con movenze tanto ispirate da sembrare (speriamo di no, di Lang Lang ne basta uno… smile!) artefatte. Tecnica davvero superlativa, la sua, forse non ancora coniugata a profondità di scavo delle partiture che divora, ma può sempre migliorare col tempo… Concerto tutto suonato, dall'orchestra, con taglio cameristico, quasi mai sopra il piano, e con il primo movimento francamente tenuto a velocità assai inferiore rispetto al metronomo di Schumann (84 minime). Successo caloroso, ma non proprio da delirio, e così, dopo un paio di uscite, il pubblico tace e quindi non merita alcun bis.

Il corno è considerato lo strumento romantico per antonomasia (celebre il suo richiamo posto al principio dell'ouverture weberiana dell'Oberon). Schumann ci ha composto il trascinante Konzertstück, addirittura per 4 corni e Orchestra: era, il suo, un modo di rendere omaggio all'innovazione tecnologica, che in quegli anni aveva portato allo sviluppo dello strumento a valvole (il ventil-horn) che stava rimpiazzando quello naturale. Già la prima pagina della partitura ci dice tutto:






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A dispetto del titolo abbastanza minimizzante (pezzo da concerto) la struttura è tutto sommato quella del concerto classico, con i canonici tre movimenti: il primo Vivace, FA maggiore, in forma-sonata liberamente interpretata, con sezione mediana nella dominante DO; l'intermedio sotto forma di Romanza, piuttosto lento, in RE minore, con un corale in SIb che ritorna (in MI) nel mezzo del Finale, assai vivo, ancora in FA. Si sentono atmosfere, per così dire, renane, che torneranno di lì a non molto nella terza sinfonia. Inutile dire che i solisti sono chiamati a notevoli virtuosismi, con frequenti escursioni nella zona acutissima (fino al LA, per il primo corno). Davvero strabiliante l'esecuzione dei quattro professori della Gewandhaus, accolta da meritatissimi applausi.

Infine la Prima Sinfonia in SIb maggiore, soprannominata Frühling (Primavera). Nick-name più o meno appropriato (potrebbe anche essere il più abusato pastorale…) anche se in qualche modo autorizzato dall'autore. Questa sinfonia è esempio lampante del fervore innovativo di Schumann: a fronte di un modello quasi Haydn-iano (basti considerare l'introduzione lenta – Andante un poco maestoso - all'iniziale Allegro molto vivace) l'opera mostra chiare caratteristiche di teatralità (anche se nulla la lascia assimilare ad un poema sinfonico) rappresentate dalla presenza di una serie di mutamenti repentini di tempo e dall'esposizione di incisi e motivi, se non di veri e propri temi, alieni rispetto alla struttura della sinfonia classica (neanche Mendelssohn e Brahms si prenderanno tante libertà con le forme tradizionali). Un'osservazione viene qui spontanea: si dice che Mahler (con un'operazione speculare a quella di Wagner) abbia portato l'opera nella sinfonia; ecco, forse il boemo trovò ispirazione per questo suo atteggiamento estetico proprio in Schumann, che non a caso fu uno dei suoi compositori più amati (anche fin troppo, come testimoniano i suoi ritocchi all'orchestrazione delle sinfonie del grande Robert, inclusa proprio questa presentata qui da Chailly).

Qualche nota sul contenuto.

Stentoreo l'attacco di trombe e corni in unisono a presentare la fanfara che, in tempo lento, anticipa il caratteristico ritmo dell'incipit giambico del primo tema, subito seguita da una vertiginosa salita e successiva scala discendente dal LA verso l'accordo di RE minore. L'introduzione contiene diverse modulazioni e poi, prima del crescendo che porta all'esposizione, una scala discendente di RE maggiore nei flauti (poi accompagnati dagli oboi) ci ricorda da vicino certi preludi ad arie o cavatine di Rossini o del primo Verdi. L'esposizione rispetta abbastanza i canoni della forma-sonata, con il primo tema in SIb e il secondo nella dominante FA, con tanto di ritornello. Però ci sono passaggi interessanti, come la ripetizione del primo tema sulla sottodominante (MIb), diverse modulazioni (ad esempio sul REb) e il secondo tema che arriva al FA dopo alcune peregrinazioni sul LA e il DO. Lo sviluppo mostra pure evidenti innovazioni: al primo tema trattato con sapienti variazioni si affiancano, in luogo del secondo, nuovi motivi e poi quello dell'introduzione, la fanfara degli ottoni, enfaticamente ampliata e chiusa in RE minore. La ripresa, con il ritorno canonico del secondo tema nella tonalità di impianto (SIb) sfocia in una coda (Animato, poco a poco stringendo) dove il primo tema viene interrotto da un diminuendo – ancora un effetto teatrale – che introduce un nuovo motivo esposto dagli archi e poi dai fiati, concluso con una scala ascendente del flauto, quasi speculare a quella dell'introduzione. Si riaccelera poi, con una fanfara di corni e trombe sostenuti dai fagotti (di cui Brahms si ricorderà nel chiudere la sua seconda – altra sinfonia pastorale) che porta ai secchi accordi della cadenza conclusiva.

Il Larghetto in MIb è forse il movimento più vicino ai tradizionali canoni della forma sinfonica, ma non vi mancano la sorprese. Schumann presenta subito l'unico tema principale, esposto dai violini, il cui incipit anticipa un poco nell'atmosfera quello dell'Adagio cantabile in LA maggiore della Sinfonia scozzese, che Mendelssohn comporrà di lì a poco. Dopo un paio di cadenze, caratterizzate da discese dal quinto al primo grado, è sempre lo stesso tema a tornare, nella dominante di SIb, nella sezione mediana, più mossa e culminante in SOL maggiore, dopodiché i corni riprendono nuovamente il tema nella tonalità di impianto, affiancati subito dagli strumentini. Nella cadenza finale i tromboni anticipano l'incipit del tema del successivo scherzo, prima che il tutto degradi, in pianissimo, di un semitono, chiudendo sul RE (maggiore) di archi e flauti.

RE (minore) che è la tonalità dello Scherzo (3/4) ma l'attacco (salita dal RE) è in SOL, proprio come quello della quinta dell'amatissimo Schubert, che a sua volta si era rifatto al Mozart della K540 (che filiera di civiltà musicale!) Questo movimento è di un'audacia formale davvero incredibile. Dopo l'esposizione del secondo tema, formato da un motivo che – come quello del primo tema - di sdoppia sulle relative SIb e FA maggiore, e il ritorno del primo, ecco un primo Trio (2/4 in RE maggiore, più vivace) che ha un metro anfibraco (semiminima-minima-semiminima) che ricorda chiaramente quello del tema principale dell'Allegro iniziale. Vi compare (ripetuto due volte) un danzante motivo discendente in SIb, che porta ad una teatrale corona puntata sul DO (sottodominante di SOL) con perentorio rullo di timpani; da lì riprende il motivo iniziale del trio, che sfocia in una fanfara di squillanti anapesti di RE maggiore in corni e trombe. Torna lo scherzo, con la riesposizione dei due temi, che porta ad un secondo Trio (dove il tempo - 3/4 - non cambia) costituito da tre sezioni (le prime due ripetute): nella prima gli archi, a canone, espongono un motivo ascendente che scala ben 3 ottave della dominante FA; la seconda è caratterizzata da scale discendenti, a partire dalla tonica SIb, ed ascendenti sulla scala di DO minore, chiuse da una sospensione sulla sopratonica; la terza imita la precedente, portando però a chiudere il trio sul SIb. Ritorna il primo tema dello scherzo, che invece di chiudere con forza, contraddice tutti i sacri dettami, introducendo l'incredibile Coda, costituita dal secondo tema che ora, passando dal SOL, si presenta in RE maggiore, con un diminuendo che lascia tutto sospeso sulla sopratonica MI. Qui una lunga pausa porta alla stupefacente cadenza finale (in 2/4) che dapprima richiama il metro del primo trio e poi, con due successivi gruppetti in quintina di oboi e flauti-clarinetti, si appoggia sull'accordo di SOL maggiore; dal cui SI un Quasi presto, che parte in mezzo-forte, degrada cromaticamente di un'ottava per poi – dopo un unico tocco di timpano - appoggiarsi sul LA, in pianissimo. Corni, fagotti, clarinetti e flauti esalano l'ultimo accordo di RE maggiore.

Una velocissima scala ascendente, che culmina sulla dominante FA, apre il finale della sinfonia, Allegro animato e grazioso, liberamente in forma-sonata. Sono gli archi a presentare il primo tema, di crome (quasi) tutte puntate, in SIb, che si chiude con una serie di anapesti, lasciando spazio al secondo tema, sullo stesso metro, nella relativa SOL minore, subito reiterato in RE minore. Ora, introdotto da un frammento del primo, entra un terzo tema, nella dominante FA maggiore, chiuso da due poderosi arpeggi dei corni, che chiude l'esposizione, da ripetersi. Lo sviluppo, assai breve, presenta dapprima frammenti del terzo tema, fino ad una fanfara dei tromboni, in REb, da cui parte un recitativo dei contrabbassi, con gli altri archi in tremolo, che porta ad una sospensione (Poco adagio) sulla sensibile DO, negli oboi. Seguono tre arpeggi dei tromboni (il primo dal solo) FA-LA-DO, LA-DO-MIb e LA-DO-MIb-SOL, su cui il flauto solo esegue una teatrale cadenza che reintroduce il primo tema, riproposto interamente dall'orchestra. Il secondo tema ricompare nel clarinetto, seguito dagli archi, ora però in DO minore e subito reiterato in SOL minore. Il terzo tema torna ora, ma nella tonalità d'impianto (SIb) con i forti arpeggi dei corni e quindi (Poco a poco accelerando) ci si avvia alla coda, dove i tromboni tornano ancora in primo piano con due interventi grandiosi, prima della conclusiva cadenza di minime in staccato degli archi, che dalla mediante precipita fino alla tonica, due ottave più in basso, prima delle due vertiginose scale ascendenti che preparano gli accordi conclusivi.

Nessuno più dei professori della Gewandhaus ha dietro le spalle tanta tradizione interpretativa di questa sinfonia (come di tutto Schumann, del resto); tradizione instaurata da Felix Mendelssohn (figuriamoci!) che ne diresse la prima assoluta nel 1841. Ecco, Riccardo Chailly ne fa ampiamente tesoro e ci propina un'esecuzione davvero coinvolgente, dalla prima all'ultima battuta. Doveroso menzionare il bellissimo suono dell'orchestra (disposta in formazione alto-tedesca, con i secondi violini in prima fila e violoncelli e contrabbassi al centro-sinistra): proprio il suono tedesco, un poco oscuro negli archi e tagliente negli ottoni.

Trionfo annunciato per tutta la compagine, già pronta a traslocare alla Scala, per i due concerti del MI-TO.

29 agosto, 2010

La stagione della “Verdi” inizia il 5/9 alla Scala

Domenica 5 settembre, dopo i due concerti di apertura del MI-TO con Chailly e la Gewandhaus, la Scala ospita il concerto inaugurale – fuori abbonamento – della stagione 2010-11 dell'Orchestra Verdi. A propinarci un'autentica abbuffata beethoveniana salirà sul podio Xian Zhang, la cinesina di ferro, alla seconda stagione di direzione musicale dell'Orchestra, dopo quella d'esordio, davvero lusinghiera.

La stagione in abbonamento (dal 9 settembre) comprenderà poi ben 38 concerti (2 in più della precedente) ripetuti su tre turni (normalmente giovedi-venerdi-domenica) oltre ad un ciclo cameristico, al barocco e ad interessanti monografie. Fanno spicco nell'agenda l'integrale delle sinfonie di Schumann e quella (ottava esclusa) delle sinfonie di Mahler, per celebrare le rispettive ricorrenze.

27 agosto, 2010

La scomparsa di Christoph Schlingensief

La scomparsa di una persona è di per sé notizia grama. Uno dei campioni del Regietheater tedesco è morto di un cancro diagnosticatogli anni fa.

A Bayreuth lo ricordano come un grande per un Parsifal che era – a dir poco – da codice penale.

Pace all'anima sua.

25 agosto, 2010

Le inaugurazioni di Riccardo Chailly

La leggendaria Orchestra del Gewandhaus di Lipsia (che ancora conserva gelosamente i cromosomi di tale Mendelssohn) guidata da Riccardo Chailly sarà a breve protagonista di due inaugurazioni di festival: dapprima – il 2 settembre – aprirà la fase culminante della Sagra Musicale Malatestiana n° 61; il giorno dopo sarà alla Scala per inaugurare il MI-TO 2010.

Adriatico quindi ancora in evidenza, sul fronte musicale: dopo il ROF-31, ecco la Sagra riminese, che già dal 4 agosto ha aperto i battenti per proporre una serie di quattro appuntamenti bachiani, e che vedrà la sua fase culminante concertistica tra il 2 e il 19 settembre. Dopo il concerto inaugurale saranno ospiti del festival – di livello rimarchevole, a conferma di una tradizione che si è ormai consolidata dall'ultimo dopoguerra - Constantinos Carydis, con la Mahler Chamber, Semyon Bychkov con la Filarmonica della Scala, Ion Marin con la Filarmonica ceca e Kent Nagano, con l'Orchestra bavarese. I concerti si tengono al (vecchio) Palacongressi, in attesa che il nuovo (ubicato proprio di fronte) venga inaugurato a fine settembre.

Il MI-TO – dal 3 al 24 settembre – arriva quest'anno alla quarta edizione, con un'agenda ricchissima di eventi, fra i quali ovviamente spicca la musica, con ospiti di altissimo livello. Oltre a Chailly, saliranno sui vari podi, fra gli altri: Maazel, Bychkov, Salonen, Tilson Thomas e si esibiranno solisti prestigiosi come Pollini, Zimmermann, Lang Lang, Accardo. Ma l'offerta è davvero corposa (c'è ad esempio una Terza di Mahler, aggiunta specialmente per il MI-TO al programma stagionale dell'Orchestra Verdi).

Fa piacere che – in tempi di vacche magrissime per la cultura e la musica in particolare – manifestazioni come queste continuino ostinatamente a vivere.

23 agosto, 2010

Il ROF-2010: Stabat Mater



Lo Stabat Mater ha chiuso ieri sera il ROF XXXI, un’edizione che forse non entrerà negli annali, ma di cui – dati i tempi – penso ci si possa accontentare.  

In un Teatro Rossini stracolmo e con il palcoscenico invaso dall’orda di musicanti, è toccato ancora a Michele Mariotti (profeta-in-patria, una volta tanto) di guidare i suoi bolognesi, i quattro solisti e il coro di Paolo Vero lungo i 10 numeri di questa straordinaria composizione del Rossini maturo, ormai auto-pensionatosi a Parigi. Dove si trovano tracce dell’intera civiltà musicale occidentale, dai fiamminghi a Bach, da Pergolesi a Mozart; e dove si prefigurano future e grandi tappe della medesima civiltà, dal Requiem di Brahms all’ipertrofico Stabat Mater di Dvorak, alla Messa di Verdi.

Un’occhiata alla disposizione degli esecutori: orchestra in layout moderno, ma con scambio di leggìi fra violoncelli e viole, portate in prima fila, a destra di Mariotti. Solisti in foreground, proprio sul proscenio. L’ambiente è ancora delimitato dalle scene del second’atto di Sigismondo, che ha chiuso sabato la sessione operistica del festival.  

1. Introduzione – Stabat Mater. La tonalità d’impianto è SOL minore (su cui pure si concluderà l’opera) cui si arriva dopo che violoncelli e fagotti hanno aperto con una scala ascendente di RE maggiore. L’introduzione, tutta in staccato e sincopi, che Mariotti attacca con gran cipiglio, ci porta nel clima mesto, ma agitato dello Stabat, intonato prima dal coro (bassi, poi tenori, soprani e contralti) a canone e poi dai quattro solisti, che entrano contemporaneamente. Una breve sezione centrale è nella relativa SIb maggiore, dove è Antonino Siragusa a presentarsi in primo piano. Subito lo accompagnano le due soliste e poi il basso, nel dum pendebat, poi ripreso dal coro, che su un poderoso accordo di sesta porta al Filius, dove il SOL minore riprende il sopravvento, per la nuova esposizione dello Stabat. Rientra il coro, sul Juxta crucem, scandito su SOL ff ribattuto dell’orchestra, fino al ritorno della scala di RE di violoncelli e fagotti, che porta al dolorosa, cantato sotto voce, e poi al lacrimosa, per chiudere con il motivo dell’introduzione, negli archi, e i due perentori accordi di SOL minore.  

2. Cujus animam. Principia in LAb minore, ma tosto il maggiore si fa largo, con ritmo marziale, zum-pà-pparà-pà/zum. Ecco, qui il pericolo è che l’orchestra suoni come una banda del pignataro che marcia per una strada di paese. Pericolo che il bravo Mariotti scongiura alla grande, rispettando l’agogica dolce prescritta da Rossini. Adesso tocca ancora a Siragusa esibirsi in questa parte famosa e difficile, dove si passa continuamente da maggiore a minore. Poi la sezione nella relativa FA minore, quindi la ripresa nella tonalità principale, e la coda, con quel gruppetto che fa da trampolino per l’impervia salita alla sottodominante, il REb acuto, sull’ultimo poenas incliti, che Siragusa stacca alla grande, senza apparire impiccato, come viceversa gli era capitato, per molto meno, nel Sigismondo. Efficacissimo poi Mariotti nell’esecuzione della stupefacente cadenza finale.

3. Quis est homo. Altra perla orchestrale, l’incipit largo e misterioso dei corni, in MI maggiore, e poi l’improvviso erompere della scala ascendente, che introduce nel Qui est homo Marina Rebeka (sarà una piacevole conferma, questa giovane lèttone) poi affiancata da Marianna Pizzolato (ancora zoppicante per i postumi dell’incidente di venerdi in Cenerentola) sul Qui non posset (Rossini prescrive in effetti un secondo soprano, ma la parte è di fatto sempre sostenuta dal contralto, data l’estensione limitata al SOL#). Le due se la cavano egregiamente in questo brano assai virtuosistico, prima che i corni re-introducano la bellissima cadenza iniziale.

4. Pro peccatis. È uno dei pilastri dell’opera, e tocca a Mirco Palazzi di… impersonarlo. Si parte in LA minore, per poi modulare a maggiore (il procedimento si ripete due volte). Palazzi regge bene l’impegno, voce calda e mai forzata, salvo alla fine, quando peraltro bisogna passare sopra il fracasso orchestrale.

5. Eia Mater. Sul RE minore di base (con una fugace modulazione alla relativa FA maggiore) il coro dialoga ancora col basso. Qui Palazzi conferma le sue buone doti, a dispetto di una voce non proprio profonda, che qui fatica un poco a passare, nei toni gravi. Perfettamente a suo agio invece sui due FA di Fac ut ardeat cor meum.

6. Sancta Mater, istud agas. È di fatto un quartetto, dove tenore, soprano, basso e contralto entrano in sequenza. La tonalità è LAb maggiore, con escursione sulla relativa FA minore e poi sul DO minore, all’ingresso del basso (Fac me vere) e del contralto. I quattro solisti fanno qui sfoggio di affiatamento e precisione negli attacchi, senza mai lasciarsi prendere la mano (anzi la voce) e ricorrere ad effetti troppo melodrammatici. 

7. Fac ut portem. È indicata come cavatina, in MI maggiore, introdotta da un attacco, dolce, dei corni, che tornano più volte, con il loro nobile arpeggio. È assegnata al soprano secondo, e quindi è la Pizzolato ad esibire grande cantabilità e portamento.     

8. Inflammatus et accensus. Mariotti toglie le briglie agli ottoni, con trombe e tromboni a scandire i pesanti accordi di DO minore e i corni, invero tracotanti, negli incisi discendenti, prima che la Rebeka stacchi il SOL forte, sul primo Inflammatus, per poi passare subito al sotto voce, ben eseguito, sul secondo. Arriva il coro (In die judicii) a ribattere ostinatamente il DO, fino all’inizio della sezione nella relativa MIb maggiore, dove la Rebeka canta Fac me cruce custodiri, contrappuntata dal coro. Si torna a DO minore e poi, sul successivo Fac me, a DO maggiore, dove la solista lèttone stacca assai bene (senza urla sguaiate) i due consecutivi DO acuti, prima che tutta l’orchestra chiuda con una fracassona cadenza da puro melodramma (un po’ come sarà la conclusione in FA del Sanctus verdiano). Davvero impressionante! Qui termina la fatica dei quattro solisti: da adesso padrone della scena sarà il coro.

9. Quando corpus. L’orchestra tace, solo le voci restano protagoniste di questa grande polifonia, probabilmente l’unico numero dell’opera che davvero si rifà alla tradizione della musica religiosa. Si potrà discutere sulla scelta di affidarlo al coro e non ai solisti, ma uomini e donne di Paolo Vero mostrano di meritarsi alla grande questa preferenza e questo onore. Principia in SIb, per poi passare alla relativa SOL minore. Un susseguirsi di piano e forte che mette a dura prova i cantanti, che se la cavano a meraviglia.  

10. In sempiterna saecula, Amen. Il SOL minore – tonalità di base dello Stabat - torna a farla da padrone in questa colossale fuga in Allegro, davvero una superba conclusione per quest’opera che, nata quasi per caso e per far un favore ad un ammiratore ecclesiastico, è invece un autentico capolavoro. Il motto iniziale, la scala ascendente di violoncelli e fagotti, torna ancora nell’Andantino moderato, per l’Amen. Prima che arrivi la strepitosa cadenza finale, degna in tutto e per tutto di accompagnare il sipario che cala su un melodrammone (nella fattispecie, il ROF XXXI).

In verità… il sipario non cala ancora, poiché il pubblico è in delirio: urla selvagge e battimani ritmati che costringono, più che convincere, Mariotti a concedere un bis, riproponendo l’ultimo travolgente numero, col coro che ancora si supera. Il maestro riceve anche un affettuoso omaggio dai suoi, che fanno tremare il tavolato del Rossini.


Ancora tutti in trionfo e poi, quasi controvoglia, ci si alza per guadagnare l’uscita, in questa tiepida serata di fine-festival.

21 agosto, 2010

Il ROF-2010: Cenerentola

Ier sera quarta ed ultima rappresentazione de La Cenerentola in un'affollatissima Adriatic Arena (una volta cattedrale-nel-deserto, ora circondata e soffocata da nord da edifici costruiti e costruendi) nella ripresa dell'allestimento di Ronconi.

Una regìa da lungo tempo apprezzata, che tornava per la terza volta al ROF. Prendendosi, come unica libertà rispetto all'originale di Ferretti-Rossini, di re-introdurre nella trama un pizzico – ma poco-poco, la cicogna che trasporta al ballo Cenerentola - della magìa di Perrault, da cui gli autori l'avevano invece accuratamente depurata, convinti che il pubblico moderno (dell'anno di grazia 1817) faticasse a digerirla (Ferretti stesso scrisse della delicatezza del gusto romano, che non soffre sul palcoscenico, ciò che lo diverte in una storiella accanto al fuoco). Evidentemente a noi (del terzo millennio) invece un poco di magìa non dispiace affatto… salvo però quando la si trova già nell'originale, chè allora applaudiamo a chi la toglie di mezzo - si veda l'Alcina di Carsen. (Come dice Wotan? Wandel und Wechsel liebt, wer lebt!)

In compenso la protagonista Marianna Pizzolato è una Cenerentola che più realista di così si muore: pare la Concettina, moglie della guardia-giurata Vito Catozzo (famosa macchietta di Faletti al Drive-in) cientoquaranta-pè-cientoquaranta, praticamente 'na scfera… Simpaticamente stridente il confronto con le due sorellastre (al secolo Manon Strauss Evrard e Cristina Faus) che hanno fisici da modelle (ma la voce purtroppo non altrettanto nobile). Ieri sera poi, nel primo atto, dovendosi destreggiare sulle cataste di mobili di cui Ronconi ha riempito il palco, la povera Marianna è incappata in una piccola caduta: lì per lì è parsa una cosa prevista dal copione, ma nell'intervallo è stato annunciato che la protagonista si era procurata una seria distorsione ad una caviglia, e avrebbe continuato la recita, ma con qualche handicap di carattere scenografico. Ed infatti lei è rientrata con la caviglia destra abbondantemente fasciata ed imbragata in uno stivaletto ortopedico (una piccola vendetta della scarpina di vetro di Perrault, bandita dagli autori?) zoppicando vistosamente. E così è apparsa a noi come una Cenerentola ancor più patetica e quindi simpatica. Però la voce è davvero bella, piena e calda, le manca solo un pizzico di potenza in più per essere quasi perfetta. Per lei un gran trionfo lungo l'intera serata.

Don Ramiro era Lawrence Brownlee, la cui vocina ha una potenza direttamente proporzionale alla sua stazza fisica, da peso-piuma. Peccato, perché intonazione, espressione ed acuti sono apparsi eccellenti.

Paolo Bordogna ha trionfato come Don Magnifico: sia sotto l'aspetto vocale che attoriale, una vera macchietta, perfettamente aderente al personaggio.

Nicola Alaimo, nei panni di Dandini, ha ricevuto un'autentica ovazione dopo la cavatina d'esordio. Per il resto: una prestazione vocalmente discreta, e ottima dal lato della presenza scenica.

Alex Esposito è stato un dignitoso Alidoro, che ha ben retto l'impatto con la nobile e difficile aria del primo atto, composta da Rossini in un secondo tempo, a rimpiazzare quella originale scritta in sua vece da Luca Agolini.

A proposito del quale, perfino la Strauss Evrard ha avuto la sua messe di applausi, dopo l'esecuzione dell'aria scritta appositamente per Clorinda.

Tutti insieme efficaci nei concertati; uno su tutti il sestetto del second'atto, con quell'inizio in versi di italica Stabreim: Questo è un nodo avviluppato / Questo è un gruppo rintrecciato / Chi sviluppa più inviluppa / Chi più sgruppa più raggruppa dove Rossini raggiunge vette davvero eccelse.

Sempre all'altezza della situazione il coro di Paolo Vero.

Yves Abel ha guidato l'Orchestra del Teatro Comunale di Bologna in modo pulito, pur senza suscitare entusiasmi.

Come sempre, applausi a scena… cangiante durante le due (principali) mutazioni di ambiente ideate dal duo Ronconi-Palli.

Al termine gran trionfo per tutti, con parecchi minuti di applausi, e fragor di tavolato: uno spettacolo ancora e sempre godibilissimo, al di là del livello non stratosferico degli interpreti. Insomma, ci voleva un allestimento vecchio di 12 anni e dai tratti assolutamente tradizionali per riscattare le regìe - più strampalate che interessanti - delle due novità di questo Festival.

Festival che chiude oggi il programma operistico, con l'ultima del Sigismondo. Domani lo Stabat Mater metterà il definitivo sigillo, e poi si guarderà al n° 32, i cui titoli sono di tutto rispetto: Mosè, Adelaide e Scala (più un Barbiere in forma di concerto).