affinità bombarole

rinsaldato il patto atlantico

09 giugno, 2010

Torino chiude con Manfred

L'ultimo spettacolo del cartellone 2009-2010 del Regio-TO, prima della tournée in Oriente, è Manfred. 10 recite, di cui 5 al Carignano (per via della co-produzione con lo Stabile) e 5 al Regio. Sul podio Gianandrea Noseda.

Interessante proposta, perché trattasi di un'opera che, pur non essendo un capolavoro assoluto, non merita neanche il disinteresse che la circonda, specie in Italia, dove l'ultima significativa presenza fu quella dell'edizione di Carmelo Bene a Santa Cecilia e alla Scala, più di 30 anni fa.

E per l'occasione – fra l'altro ricorrono proprio in questi giorni i 250 anni dalla nascita di Schumann - viene presentata con una nuovissima traduzione italiana del testo di Byron, predisposta da Enzo Moscato (lo stesso Carmelo Bene aveva curato la traduzione per il suo spettacolo). Si tratta ovviamente sempre di riduzioni del testo originale, in vista del loro impiego con la musica del genio di Zwickau.

La quale prevede una corposa ouverture (dura 12-13 minuti e occupa quasi metà delle pagine della partitura) poi 4 numeri musicali per la prima parte, 7 numeri per la seconda parte e infine 4 numeri per la terza. Quanto ai parlati, la partitura di Schumann fornisce indicazioni piuttosto precise per ciò che si deve recitare, o cantare, sui numeri musicali, lasciando per il resto agli interpreti di decidere quanto o quanto poco del testo di Byron presentare. Insomma, nell'insieme abbiamo una specie di Singspiel, piuttosto spurio, dato che il protagonista si limita a recitare, da solo o su sottofondo musicale, e dove le parti cantate sono riservate a personaggi, per così dire, minori, o al coro. Il tutto per una durata che supera di poco – o di tanto, a seconda dei casi - l'ora.

A Torino dovremmo vedere una rappresentazione scenica (regìa di Andrea De Rosa) con attori e cantanti/coro che circondano il recitante Valter Malosti, nel ruolo del protagonista (ruolo che originariamente era stato affidato, en travesti, a Frédérique Loliée).

Il poema di Byron è di quelli tipici di certo velleitarismo romantico: esposizione di problemi e drammi esistenziali di cui si fatica a comprendere le ragioni (risvolti autobiografici a parte); eroismo a buon mercato di un protagonista con complessi di superiorità, ammirazione per la grandiosità della natura, evocazione di spiriti, maghe e folletti, desiderio di autodistruzione… insomma ci sono tutti gli ingredienti per una storia a tinte fosche e buona come materia per le analisi del dottor Freud.

Manfred è anche - un pochino - la scimmiottatura del Faust, a cominciare dalle proporzioni ridotte quanto all'ampiezza materiale (403 versi per la parte prima, 594 per la seconda e 478 per la terza) e per la non eccelsa consistenza filosofica, drammatica e poetica del soggetto. Che francamente viene riscattato proprio dalla musica del grande Robert, anche lui un romantico, ma di quelli che facevano sul serio, producendo arte sopraffina e – caso mai – impazzendo per davvero, e non per affettazione. (Da parte sua, anche Ciajkovski ha contribuito assai alla fama di Manfred, con la sua Sinfonia op.58).

L'ouverture – che è talvolta eseguita in concerto - è in realtà un compendio dell'intero dramma, quasi un poema sinfonico. Dopo l'introduzione lenta si presenta, in MIb minore, un tema agitato, che ben rappresenta la personalità di Manfred. Esso si sviluppa poi nella relativa FA# maggiore, per introdurre il tema elegiaco, femminile, legato ad Astarte, l'amore proibito, origine di tutti i complessi esistenziali del protagonista. Da qui in poi, secondo i canoni della forma-sonata, i temi si sviluppano, si intrecciano, si confrontano e scontrano, fino a quando il tema di Astarte, scivolato nella tonalità di impianto, conduce ai lenti accordi di MIb minore della mesta conclusione.

Siamo ora nel castello di Manfred, alle pendici delle Alpi bernesi, dove il nostro manifesta tutta la sua insoddisfazione esistenziale e il desiderio di avere pace nel completo oblìo, di se stesso innanzitutto, e dell'universo in generale. A conseguire il quale oblìo Manfred chiama a raccolta tutti gli spiriti possibili ed immaginabili, a lui asserviti (in base a quale megalomanìaco potere, lo sa solo Byron…) Fatto sta che gli spiriti - un poco a fatica, per la verità – si fanno vivi e chiedono a Manfred cosa lui voglia da loro.

Ecco quindi il N°1, Gesang der Geister, il canto degli spiriti. Nella partitura schumanniana ne sono previsti 4 (dei 7 dell'originale) che rappresentano i 4 elementi fondamentali (aria-contralto, acqua-soprano, terra-basso, fuoco-tenore) e che purtroppo deludono Manfred: possono dargli qualunque cosa, ricchezze, potenza, onori, ma non ciò che egli chiede. E nemmeno da morto! Chè l'anima umana è immortale e l'oblìo le è negato. Come contentino, Manfred chiede che almeno uno degli spiriti si materializzi sotto una qualche forma.

E qui abbiamo il N°2, Erscheinung eines Zauberbildes, solo 29 battute musicali dove il violino descrive la comparsa di una magica figura, sotto forma di una bellissima creatura femminile, alla cui vista Manfred va in estasi (e si arrapa un pochettino, diciamolo pure…) prima che l'immagine svanisca nel nulla, lasciandolo con un palmo di naso… anzi, propriamente svenuto!

Nel successivo N°3, Geisterbannfluch, l'anatema degli spiriti, quattro voci di basso (in Byron è una sola voce) lanciano – insieme, a due, un singolo - il loro anatema su Manfred: tu sarai il tuo proprio inferno!

Ora Manfred si risveglia sui monti della Jungfrau, di cui ammira la bellezza imponente; si ode il suono di una cornamusa di pastori: oh, come vorrebbe Manfred essere lo spirito di un suono, una voce, un'armonia, un incorporeo godimento! Arriva un cacciatore di camosci che lo vede sull'orlo di un precipizio, nell'atto di buttarsi di sotto per farla finita, e lo trattiene, per portarlo nella sua baita. Tutto ciò è scritto in Byron e solo in piccolissima parte rappresentato nel N°4, Alpenkuhreigen, danza degli alpeggi, che chiude la prima parte del dramma, costituito da un assolo del corno inglese. Siamo dopo il Berlioz della fantastica e prima di Wagner, ma non può non venire subito alla mente il pastorello del Tannhäuser:











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La seconda parte si apre con un delicato e pastorale interludio orchestrale (N°5) in FA maggiore, che ben descrive il paesaggio alpestre dove Manfred è tornato.

In realtà, nel poema di Byron, è premessa una scena - spesso espunta – del colloquio fra Manfred ed il cacciatore di camosci, nel rifugio di quest'ultimo. Manfred fa qui un primo, vago accenno all'amore proibito, allorquando scambia per sangue il vino che il cacciatore gli offre: Dico è sangue! il mio sangue; l'umore puro e caldo che scorre nelle vene dei miei padri e nelle nostre quando noi eravamo giovani ed avevamo un cuore solo, e ci amavamo come non avremmo dovuto amarci.

Manfred mostra poi tutto il suo stupido complesso di superiorità nei confronti dell'uomo normale, e se ne torna fuori, nel luminoso mezzogiorno – di cui appunto al N°5 - ad evocare un altro spirito: quello della Maga delle Alpi.

Il N°6, Rufung der Alpenfee, è musicalmente un quadretto delizioso, in LA maggiore, dove il primo violino e il flauto meravigliosamente descrivono le iridescenze della cascatella da cui appare la maga. L'introduzione – significativamente – richiama da lontano il tema di Astarte, e si capisce subito perché: Manfred confessa qui l'origine del suo peccato e delle sue miserie: Astarte, appunto. Che non viene ancora nominata (lo sarà più tardi) ma descritta come una creatura i cui lineamenti si assomigliavano a quelli di Manfred: occhi, capelli, tratti ...la sua voce, insomma una sorella, con la quale Manfred ebbe evidentemente un rapporto incestuoso, che portò alla morte – di crepacuore - della donna (l'aspetto autobiografico è qui scoperto, avendo Byron intrattenuto rapporti sospetti con la sorellastra, che causarono – si disse - il fallimento del suo matrimonio e la sua definitiva fuga dalla Gran Bretagna). La maga si offre di aiutarlo, purchè lui si sottometta ai suoi voleri, ma Manfred è uno che non piega la schiena, ed anche la maga sparisce, mentre Manfred ancora riflette sul suo peccato.

Ora siamo tornati sulla vetta della Jungfrau ed altri spiriti si palesano: sono le sorelle del destino (tre, come le Norne) e la Nemesi. Tutte dirette alla casa di Ariman, loro sovrano. Qui abbiamo il N°7, Hymnus der geister Arimans, in un maestoso RE minore, dove il coro degli spiriti inneggia al supremo potente, assiso sul suo fiammeggiante trono.

Arrivano le sorelle, Nemesi e poi Manfred, subito riconosciuto dagli spiriti, che lo ammoniscono e minacciano, in quanto mortale (N°8, di sole quattro battute).

Di fronte al (solito) atteggiamento sprezzante di Manfred (N°9, sole tre battute) lo vorrebbero proprio fare a pezzi. È la prima sorella del destino a salvarlo, lodandone le qualità! Nemesi, col permesso di Ariman, gli chiede cosa desideri, e Manfred risponde: evoca Astarte.

Nel N°10, Beschwörung der Astarte, Nemesi opera l'incantesimo che richiama Astarte alla presenza di Manfred. Anche qui la musica richiama scopertamente il tema della donna amata. Dato che Astarte non parla, Nemesi chiede ad Ariman di obbligarla a farlo.

Nel N°11, Manfreds Ansprache an Astarte (la musica, invero emozionante, in violini e flauti, richiama sempre il tema di Astarte) abbiamo il surreale colloquio fra i due ex-amanti maledetti. Per la verità parla quasi solo Manfred, rievocando la sua colpa e il castigo che lo perseguita. Parlami! continua ad implorare, finchè Astarte risponde, chiamandolo per nome. E solo per dirgli che l'indomani la sua vita mortale avrà fine. Parlami! insiste Manfred, ma Astarte si limita ad un paio di addio e scompare, sui tenui accordi del suo FA#.

Manfred non ha altro da chiedere ad Ariman ed allora, ripartendo dal FA# di Astarte, in SI minore, l'orchestra si avvia a chiudere la seconda parte del dramma ribadendo l'inno al grande spirito fiammeggiante. Gli accordi finali sono in SI maggiore, con ritardata scarica di timpano.

L'ultima parte si apre con Manfred nel suo castello, mentre si gode un momentaneo e strano stato d'animo di calma e serenità, per lui stesso inspiegabile quanto effimero: sono le 13 battute del N°12, dove si sente sempre un alone di Astarte. Nel poema di Byron entrano anche un paio di servitori di Manfred, ignorati sia da Schumann che da chi mette in scena l'opera. Vediamo invece arrivare l'Abate di SanMaurizio, che cerca di aiutare Manfred a pentirsi e ricevere il perdono di Dio. Troppo tardi, ripete Manfred.

Nel N°13, Abschied von der Sonne, c'è l'addio di Manfred al glorioso astro che tramonta: ed io lo seguirò mormora. Un ultimo sguardo al firmamento, alla luna, al notturno e solitario splendore della natura, poi il ritorno dell'Abate che fa ancora un disperato tentativo.

Ma ormai tutto precipita. Nel N°14 appare il démone di Manfred, per portarselo via, finalmente. Manfred lo sfida e lo irride, l'Abate cerca di esorcizzarlo. Altri spiriti appaiono e scompaiono.

Nel N°15, Klostergesang, Manfred saluta l'Abate, con una gelida stretta di mano, poi – mentre il coro intona un Requiem, del tutto assente nel testo di Byron, e flauto e clarinetto ci ricordano Astarte - pronuncia le ultime parole: non è così difficile morire. E mai morte fu accompagnata da un così celestiale MIb, che trasfigura in modo maggiore la chiusa in minore dell'ouverture:

07 giugno, 2010

Tutti i guai della lirica

"Butterfly è un capolavoro perché racconta una storia violenta, sconvolgente e moderna di turismo sessuale, non perché fa venire «un groppo in gola» alla Clerici."

Questa lapidaria affermazione si trova in un articolo di Alberto Mattioli, che se la prende con una trasmissione RAI-TV (che personalmente non ho visto) condotta dalla Clerici sulla prossima stagione dell'Arena.

Insomma, un elogio senza mezzi termini del Regietheater, quella branca dell'arte moderna che consiste nel reinventare capolavori del passato, stravolgendone a volte totalmente la natura, per renderceli – così si proclama – ancora digeribili; e una implicita – ma neanche poi troppo - condanna degli ammuffiti Zeffirelli che purtroppo ancora infesterebbero le nostre scene, e che sarebbero – così par di capire – i principali responsabili del disamore pubblico verso il teatro musicale. Insieme ai loro ignoranti tirapiedi tipo-Clerici.

E come esempio di ignoranza – nella trasmissione della Clerici, appunto - si cita "Carmen che canta metà Habanera ai toreri, segno che «gli autori» non conoscono nemmeno la trama dell'opera".

Che invece la modernissima Emma Dante – per la cui Carmen la Scala ha speso milioni - ha dimostrato di conoscere perfettamente, vero?

04 giugno, 2010

Stagione dell’OrchestraVerdi - 34

Ancora Xian Zhang per il terz'ultimo concerto de laVerdi.

In omaggio alle sue origini, Zhang ci propone in apertura – e in prima italiana - un pezzo della sua conterranea ed amica Chen Yi, intitolato Ge Xu (il richiamo onomatopeico alla nostra religione è del tutto casuale). Si tratta di melodie popolari del sud della Cina, luoghi dove Chen e famiglia furono spediti dalla Rivoluzione Culturale a sperimentare – loro cittadini e borghesi – un po' di dura vita contadina (oggi certe cose si scimmiottano in TV, nelle varie isole…) Canzoni e antifone cantate in occasione di riti pagani: e nell'orchestrazione si sente in effetti – e non a caso, credo - qualche lontana reminiscenza del Sacre stravinskiano. Un innesto di materia prima orientale su basi tonali occidentali, fatto con molta sapienza. E soprattutto con misura (neanche 10 minuti, smile!)

L'Orchestra (con viole in prima fila, anche per Beethoven) si misura quindi con Schubert e la sua Incompiuta (il cui numero d'ordine varia a seconda dei cataloghi, fra 7 e 8). Zhang tiene un approccio cameristico, intimistico, ben coadiuvata da oboi e flauti (primo tema) e violoncelli e poi violini (secondo). Salvo poi far esplodere suoni poderosi nel primo accordo fortissimo-sforzato e poi nel grande crescendo dello sviluppo e della ripresa.

Per l'Andante con moto la nostra cinesina – che dirige qui a memoria - abbandona la bacchetta sul leggìo della spalla e usa le sole mani, à la Gergiev, come a sottolineare la grande tranquillità e serenità di questo straordinario movimento di sinfonia, che per puro miracolo non rimase sconosciuto e perduto al mondo per colpa di umane stupidità. Altra musica purtroppo restò nella penna di Schubert, cui il destino impedì di vivere abbastanza per farcene dono:














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Infine l'Eroica beethoveniana, ultima sinfonia dell'intero ciclo ad essere presentata in questa stagione, che volge ormai al termine (la prima fu la Settima, nel concerto inaugurale alla Scala del 6 settembre scorso).

Nell'ambito di una meritoria iniziativa torinese, chi abbia interesse ad approfondire i contenuti della terza può farsi accompagnare da Giorgio Pestelli.

Zhang la attacca speditamente, evita – direi a ragione - il ritornello dell'esposizione e poi ci dà dentro con lo sviluppo, dove troviamo il famoso passo in cui Beethoven si diverte a ingannarci con una (voluta) dissonanza, fra il tremolo dei violini (dominante-sottodominante) e il tema principale (triade di tonica MIb) esposto dal primo corno:












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Zhang ottiene un grande effetto dal pianissimo di quelle due misure, cui segue il fragoroso scoppio sugli accordi di dominante, che portano alla ripresa, travolgente davvero, fino alla conclusione, secca e priva di enfasi.

Nella susseguente Marcia Funebre, efficacissima la resa del passaggio in DO maggiore (che Beethoven sigla scrivendo proprio Maggiore in testa ai righi, quasi a convincere un qualche esecutore distratto o incredulo!) da parte di oboe e flauto, spalleggiati da tutta l'orchestra, fino ai pesanti accordi MI-DO (anticipazione di quelli, sulla tonica di MIb, che caratterizzeranno la cadenza finale della sinfonia) da cui gli archi partono per la ricaduta negli abissi del DO minore del tema principale.

Lo Scherzo viene affrontato con grandissima leggerezza dagli archi, che creano il tappeto sonoro su cui oboe, poi flauto e successivamente clarinetto adagiano il tema principale, prima dello scoppio dell'intera orchestra. Eccellenti i tre cornisti nell'impegnativo Trio (dove i primi due debbono rispettivamente scalare il MIb acuto e scendere a quello grave) che riceveranno speciale menzione, con gli strumentini, alla fine.

Eccellente la resa del Finale, che Zhang attacca senza pausa alcuna allo Scherzo. Il prometeico tema (cardine dell'intera sinfonia) emerge quasi a fatica, negli strumentini, dall'introduzione, ma poi si fa largo in modo perentorio e a volte poderoso. Efficace in particolare la resa del tema in SOL minore, che porta all'emozionante esposizione del tema principale – dolce, in violini e flauto – in DO maggiore. Ma la tensione non cala mai, fino alla fine, con quel misterioso contrappunto fra archi e strumentini che introduce il travolgente Presto, dove ancora i corni sono impegnati allo spasimo, seguiti da tutta l'orchestra, fino al pesantissimo dialogo, in ff, fra violini e fiati, che si rimpallano tremendi accordi fra tonica e dominante, per poi chiudere con l'intera scala ascendente di MIb e i due definitivi schianti.

Un autentico trionfo per l'Orchestra e per Zhang, richiamata più volte da un pubblico in delirio.

Il penultimo concerto metterà vicini il violino di Beethoven e il titano di Mahler!

03 giugno, 2010

Gianandrea da Sesto

In attesa di vederlo all'opera nel prossimo Manfred a Torino, ecco un ritratto del Maestro sestese, che non dimentica la sua città, dalla quale pur vive ormai quasi perennemente lontano.

Il Diario del Nordmilano (ex-Diario di Sesto) pubblica in questi giorni un ritratto-intervista di Gianadrea Noseda:



(click sull'immagine per ingrandire)





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Sesto come una sinfonia (la Stalingrad, immagino) di Shostakovich e come un corno: questi i paragoni che il Maestro fa della sua città. Che ne va giustamente orgogliosa.

01 giugno, 2010

Ecco il salvatore

"Mi occupo di morte e sofferenza perché mi interessano. Ho visto molta gente che soffre, e credo che ciò sia uno dei temi più interessanti oggi in Europa. Viviamo nella paura, ma dobbiamo capire che c'è anche un sollievo, che ci viene parlando delle nostre paure".

XYZ (*) ammette di temere morte, dolore e sofferenza quando si tratta della sua famiglia. Ma dal momento che questa è una paura cui nessuno può sfuggire, lui ha voluto occuparsi artisticamente della cosa. Lui intende aiutare la gente a venire a patti con la propria mortalità.

Oh, my god! (in slang: minchia!)

(*) XYZ è tale Calixto Bieito, ndr.

29 maggio, 2010

Dalla radio torna un po’ di Oro nel Reno alla Scala

Come poteva prevedersi, l'ascolto elettronico ha restituito ciò che il live aveva tenuto nascosto. Microfoni vicini all'orchestra e – soprattutto – infilati sotto i costumi dei cantanti restituiscono un suono (artefatto, si sa) simile a quello dei dischi, o CD o DVD. E soprattutto non trasmettono le immagini (smile!)

Certo, il timbro sgradevole della voce del Fasolt di Martirossian non può essere rimosso (forse nemmeno in studio) ma almeno le voci arrivano chiare all'orecchio. Cosa che in teatro, e in un teatro enorme come la Scala, accade solo se la materia prima è solida, cosa che poco si applica alle voci di questo Rheingold.

Visto che siamo in tempi di decreti e proteste anti-decreto, bisogna segnalare la differenza di trattamento riservata alla protesta – assai radicale, proprio da Cobas e piuttosto pesante nelle forme e nelle parole – dello scorso mercoledì 26, che fu oscurata dalla trasmissione cinematografica, e quella – più urbana nelle forme e dal freddo e burocratico linguaggio sindacalese – di questa sera, regolarmente andata in onda su Radio3. Lissner non ha perso l'occasione, alla fine, per ripetere che la Scala è diversa da ogni altra Fondazione: il decreto Bondi, par di capire, andrebbe anche benissimo se applicato a tutti tranne che al teatro milanese. Peccato che i fragorosi buh indirizzati anche stasera alla regìa siano lì a dimostrare come certe presunte superiorità di allestimento siano pura millanteria.

28 maggio, 2010

Stagione dell’OrchestraVerdi - 33


Xian Zhang è salita ieri sul podio per un tour-de-force beethoveniano: due sinfonie, per proseguire l'integrale nella stagione, precedute dalla più celebre ouverture del genio di Bonn.
Si parte infatti con la Leonore-3, scritta nel 1805 in occasione della presentazione della seconda versione dell'opera, ridotta da 3 a 2 atti. Orchestra con le viole sul proscenio e un organico che è quasi il massimo per Beethoven (verrà poi smagrito, in ottoni e archi, per le due sinfonie). Ai timpani – parte estremamente impegnativa qui, ma anche nelle due sinfonie in programma - la bravissima Chieko Umezu.
Se si esclude una piccolissima svirgolata dei corni al termine dell'esposizione, si è trattato di una prestazione davvero eccellente, di un'orchestra compatta e con una precisione rimarchevole, che Zhang ha guidato con grande piglio e sicurezza. Teatrale davvero l'uscita di Alessandro Ghidotti per suonare in modo impeccabile – da dietro la quinta di destra – i due richiami di trombetta in SIb che nel Fidelio anticipano l'arrivo del ministro.
Strepitosa la Zhang nell'interpretare passaggio dal LA in f al LAb in fff al culmine del crescendo finale, prima della chiusa: un impercettibile respiro (del resto previsto da Beethoven, che ha omesso ogni segno di legatura) che ha veramente ottenuto un effetto straordinario (neanche Karajan…):








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È un climax che riascolteremo anche verso la fine della quarta: (SOL-SOLb). Meritatissimi gli applausi scroscianti per tutti, con speciale menzione per tromba e flauto.
Poi la ancora settecentesca Prima sinfonia, dove Beethoven muove i primi passi nel campo di cui diventerà ben presto (già con l'innovativa seconda) il dominatore ed innovatore incontrastato. Zhang ne dà un'interpretazione asciutta, omettendo (come farà per la quarta) il ritornello dell'esposizione nel tempo iniziale e staccando tempi sufficientemente rapidi.
Dopo la pausa, si chiude con la Quarta sinfonia, che certa esegesi semplificatoria (quella che divide le sinfonie beethoveniane fra pari e dispari) colloca fra le leggere, o pastorali, o disimpegnate. Ma basterebbe ricordare l'incipit dello scherzo per definirla eroica!









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Zhang tiene un piglio toscaniniano e cava dalla sinfonia tutto il brio e la positività che la contraddistinguono. Dopo lo scherzo, che già mette a dura prova l'orchestra, attacca il finale senza un millisecondo di sosta e rispettando in pieno il folle metronomo beethoveniano. Una cosa travolgente, che impegna allo spasimo l'intera orchestra e chiede speciali virtuosismi ai fiati (flauto e fagotto in particolare). Travolgente quindi anche il successo decretato da un pubblico che ha quasi esaurito la capienza dell'auditorium. Buon segno davvero.
E prossimamente musica cinese (in omaggio alla Kapellmeisterin!) ma solo come antipasto a grandi opere ed immortali.

27 maggio, 2010

La sabbia del Reno alla Scala

Sì, perchè che di oro - in questo Reno scaligero – se ne setaccia proprio pochino.

Dico subito che una rappresentazione in forma di concerto o magari, come si usa oggi, semi-scenica, oppure con sole proiezioni didascaliche ad accompagnare voci e orchestra, avrebbe sortito risultati complessivamente migliori. A costi di un ordine di grandezza più bassi (questa antifona vale per Lissner e per Bondi allo stesso tempo).

A proposito di Bondi, il poetico ministro, col suo decreto che è la perfetta anticipazione della manovra 3montiana di macelleria sociale, è riuscito nell'impossibile impresa di far mostrare a tutto il mondo (la recita di ieri era diffusa sui circuiti internazionali) una Scala che pareva caduta in mano ad un manipolo di extraparlamentari d'altri tempi, con sipario alzato, alle 20 in punto, su uno striscione con la scritta Decreto infame e proclami declamati al megafono, fra scrosci di applausi intercalati a qualche timida contestazione. L'orchestra peraltro non ha intonato bandiera rossa, forse non tutti sono uniti in quel tipo di protesta, non certo Barenboim, che è arrivato a manifestazione sindacale chiusa.

A chi il Rheingold conosce a fondo, questo allestimento non solo non ha arrecato alcun valore aggiunto (né particolari emozioni) ma anzi ne ha parecchio tolto. A chi non lo conosce ha presentato un minestrone incomprensibile che temo avrà contribuito ad alimentare perplessità, se non disistima, verso Wagner. Bel risultato davvero! Tutti i buoni propositi espressi dal team di regìa, e pubblicati sul programma di sala e sul sito del teatro, sono stati accantonati. Magra consolazione: la stessa fine han fatto anche i propositi cattivi!

Meno male che almeno Barenboim – partitura sul leggìo - ha fatto qualcosa per tenere in piedi la baracca. In particolare evitando eccessive rumorosità che sarebbero state a dir poco deleterie, tenuto conto delle voci non certo potenti che cantavano sul palco. Ma con la conseguenza di propinarci un Rheingold piuttosto timido o – per usare un termine politically-correct – di stampo lirico. Tranne il piccolo Fasolt-Youn, quasi perfetto (il suo fratello Fafner-Riihonen ha voce inversamente proporzionale alla gigantesca mole) dal loggione si faticava a correttamente comprendere le parole di quasi tutti gli altri, e in Wagner ciò è particolarmente penalizzante. Ciò indipendentemente dalla bontà del canto e dell'interpretazione, buona in Loge-Rügamer e Mime-Ablinger, discreta in Wotan-Pape e Alberich-Kränzle, sufficiente poco più o poco meno in tutti gli altri/e.

Al maestro mi sento peraltro di rimproverare una esasperante lentezza nel tempo staccato per il Wie liebliche Luft di Froh-Jentzsch, invero insopportabile. Nelle transizioni alle scene 3 e 4 e poi nel finale, Barenboim ha ecceduto forse fin troppo col fracasso, ma bisogna pur capirlo, dopo interi quarti d'ora di un Wagner tenuto a livello cameristico, per non soffocare le voci!

L'orchestra ha discretamente suonato, anche se gli otto corni (ce n'era anche un nono di riserva) non hanno reso al meglio il dispiegarsi degli armonici al principiare del mondo e le tubette e il trombone contrabbasso han faticato a superare lo sbarramento sonoro nella cadenza conclusiva, un RE bemolle terrificante, quanto informe. Impeccabili davvero gli strumentini, oboe e clarinetto su tutti.

In totale, un altro mezzo passo falso in questa stagione scaligera di sedicenti produzioni da far storia. Peraltro salutato da un pubblico (folto, ma non da esaurimento) con grandi applausi, anche per gli inutili, anzi disturbanti quanto incolpevoli danzatori, salvo stentorei buh per la sola povera Fricka-Soffel, trasformata - suo malgrado per l'occasione - in parafulmine di tutte le critiche. Cassiers non si è fatto vivo, forse è già tornato nelle Fiandre, dopo aver incassato l'ultima rata della lauta quanto immeritata parcella.

25 maggio, 2010

Le note di regia del Rheingold di Cassiers

Il sito del Teatro ha da qualche giorno completato la pubblicazione di materiale (parte del programma di sala) a corredo e supporto della rappresentazione.

Oltre al libretto, nella nuovissima traduzione del professor Franco Serpa (con tutto il rispetto, ce n'era proprio bisogno, dato che apporta piccole e poco significative modifiche a quella - quasi perfetta, celebre e di pubblico dominio - del grande Guido Manacorda?) vengono presentati due articoli relativi alla concezione del Ring (e in particolare del Rheingold) del regista Guy Cassiers.

Il primo, di Michael P. Steinberg, della Brown University nel Rhode Island, è intitolato Proiezione e interazione: verso una nuova concezione drammaturgica del Ring. Attribuisce alla regìa di Cassiers nientemeno che l'apertura di un nuovo fronte interpretativo del Ring, una quinta era nella messinscena del capolavoro wagneriano, dopo quelle da lui etichettate come 1.storia del mito (1876-1944, la conservazione delle idee originarie di Wagner che – secondo Steinberg – presentavano il mito come allegoria della storia della Germania imperiale contemporanea a Wagner) 2.mito (1951-1975, legata alle innovazioni di Wieland, che tendevano – sempre secondo Steinberg - a depurare la messinscena da ogni e qualunque riferimento storico, anche per far dimenticare la compromissione col nazismo) 3.storia (1976-1980, legata sostanzialmente alla regìa di Chéreau, che presentava un Ring profondamente calato nella storia tedesca, da Guglielmo a Weimar, depurandolo dei riferimenti ai miti) e 4.neo-mito (dal 1980 in poi, dove si recupera, secondo Steinberg, il mito, ma senza perdere i contributi che Chéreau aveva apportato in fatto di regìa dei personaggi, delle loro relazioni ed interazioni).

Ecco, il Ring di Cassiers, stando a Steinberg, introduce un paradigma del tutto nuovo. Ohibò, stiamo a sentire: si torna a Chéreau, ed alla sua concezione secondo cui nulla, nemmeno il mito, è fuori dalla storia. Ma invece di mostrare uno svolgersi storico determinato (anni 1870-1945) come fece il francese, ci presenta la storia dell'oggi (globalizzazione e suoi annessi-connessi) legata alla stratificazione dell'eredità storica da noi accumulata, che condiziona la nostra esistenza odierna e prepara quella futura.

Proiezione ed interazione sono gli strumenti che Cassiers usa per raggiungere il suo obiettivo. Proiezione intesa come meccanica riproduzione di immagini, o ombre, ma anche come esternazione di esperienze interiori. Il Ring proietta i suoi contenuti sul pubblico: Wagner fu maestro nella proiezione del suono (l'orchestra sprofondata e i suoi suoni che si amalgamano con le voci, prima di raggiungere l'orecchio dell'ascoltatore). Cassiers si propone di fare lo stesso con le immagini, impiegando le moderne tecnologie. L'interazione consiste nella reazione del pubblico alle proiezioni (sonore e visive) che lo colpiscono, e al suo coglierne – singolarmente e collettivamente – gli stimoli. E diversi soggetti e diversi pubblici – Milano e Berlino - potranno avere reazioni diverse.

In sostanza, queste tecniche consentono di mantenere una relazione costantemente oscillante fra passato e presente, fra un passato, da un lato, che è fissato e trascorso, ma sempre variabile nella sua ricostruzione, e un presente, dall'altro, che è sempre tormentato e carico di tensione in relazione alle scelte d'azione che presenta e agli esiti per il futuro che contiene.

Come pratico esempio di immanenza storica del Ring si cita la brama per l'oro, che sarebbe esplosa ai tempi di Wagner e che oggi permea la nostra società, con forme e manifestazioni sempre diverse…

L'altro contributo è dello studioso belga Erwin Jans, e reca il titolo: Il Ring: nella Twilight zone. Il Ring descrive in sostanza un mondo – proprio come il nostro! - in continua transizione, dove nessuno è al sicuro e dove ciascuno cerca il suo posto al sole, dove sistemi di potere si confrontano e rapporti di forza si modificano. Il tutto all'ombra di un fato inesorabile, che offusca la libertà. Abbiamo ancora un libero arbitrio? Siamo ancora capaci di scegliere le nostre azioni? Oppure esse sono decise altrove? Siamo ancora i fautori delle nostre vite? Le nostre azioni hanno qualche effetto? I nostri atti non sono forse strangolati in una rete fatale? La velocità e l'incomprensibilità che caratterizzano oggi gli sviluppi tecnologici, sociali ed economici possono essere definite, con assoluta serietà, "tragiche". Il mondo non è più nelle nostre mani. Il mondo ci accade.

Secondo Jans, Cassiers intende, con la sua messinscena, confrontarsi e proporci il confronto con la realtà dell'oggi, caratterizzata dai fenomeni di globalizzazione: la dichiarata fine della storia e della politica; il flusso di informazioni e immagini; il ruolo del linguaggio e della retorica; la virtualizzazione della realtà; la società dei consumi; la confusione ideologica; la minaccia del fanatismo e del fondamentalismo; la ricerca di sicurezza e spiritualità. In sostanza: il crepuscolo della società borghese.

Scrive ancora Jans: Nella visione di Guy Cassiers, il Ring racconta la crisi di identità e la collocazione incerta dell'individuo nel disorientante processo di globalizzazione. Poi va ancor più sul politico, laddove afferma testualmente: Il Ring è l'analisi critica della società capitalistica della metà dell'Ottocento e della sua classe media. Ma poi, prendendo atto dello spostamento di Wagner su posizioni, diciamo così, conservatrici, muove una velata critica, mutuata da G.B.Shaw, per la simpatia che Wagner sembrò mostrare per Wotan, più che per il rivoluzionario Siegfried…

Sempre più chiaramente: La messinscena di Guy Cassiers tiene in seria considerazione l'analisi sociale del Ring e la traspone all'inizio del XXI secolo, in un mondo in cui il capitalismo è divenuto globale e senza alternative.

Dopodichè si passa a proporre paralleli fra le vicende del Ring e la globalizzazione: il Walhall costruito con l'oro rubato ai Nibelunghi, così come le grandi fortune di oggi sono ottenute impoverendo milioni di individui: lavoro minorile, clandestini sottopagati, traffico di vite umane, e così via; ecco le mani invisibili che portano l'oro al Walhalla. Non mancano i riferimenti alle rivolte americane del 1992 e alle banlieu parigine del 2005, assimilati alla sete di vendetta di Alberich.

Ora Jans entra nel merito della regìa di Cassiers e pone l'accento sulla sua interdisciplinarietà: luci, coreografie, balletti, funzionali al progetto di decostruzione dei personaggi nelle componenti di corpo, immagine e voce. Dove ogni componente racconta una parte della storia, e dove sarà lo spettatore a ricomporre il quadro, secondo la sua personale percezione.

Infine Jans riassume i significati delle quattro scene del Rheingold. Nella prima le ninfe rappresentano, per Alberich, una realtà virtuale, come quella delle webcam, che può solo creare frustrazione. Nella seconda abbiamo la rappresentazione della decadenza del mondo degli dèi: L'identità degli dei si è disintegrata in pure idee da un lato (i cantanti) e potere fisico, animale dall'altro (i danzatori). Questa scissione della loro identità condurrà alla fine alla morte degli dei, che sembrano figure di sogno catturate fra la vita e la morte. I Giganti sono rappresentati da enormi ombre, anche questa una manipolazione della realtà, che serve a minacciare ed intimorire la controparte. Nella terza scena abbiamo il regno del Grande Fratello. La quarta scena vede il mondo che cade a pezzi, mentre gli dèi salgono al Wahlall sopra un arcobaleno costituito da una grande massa di numeri e lettere proiettati in continuo movimento, stretti l'un l'altro e che richiamano la Borsa e i corsi azionari.

Conclude Jans con considerazioni già lette e udite, del tipo: ambizione, brama di potere, avarizia, amore, desiderio, invidia, disperazione, lealtà… il Ring abbraccia tutto lo spettro delle emozioni umane. E con richiami a moderni fenomeni di alienazione, frustrazione, individuazione di nemici cui imputare le proprie sfortune, ricerca di redentori cui affidare il proprio futuro, etc.

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Che dire? Tante idee, alcune interessanti, altre stantìe, altre banali. E soprattutto si tratta di vedere poi all'atto pratico se e come il Konzept sia stato realizzato sulla scena. Le reazioni – da quelle dei soloni della critica a quelle degli amatori in forum e blog – non sembrano, ad oggi, entusiaste.

24 maggio, 2010

No, non è la RAI…

…ma è la BBC!

Da noi, e non solo in RAI, i 150 anni dalla nascita di Mahler passano quasi inosservati: qualche sinfonia qua e là, ma nessuna speciale programmazione, né cicli sinfonici o liederistici. Chissà, forse si aspetta il 2011 per i 100 anni dalla morte…

La BBC – che a differenza della RAI le sue orchestre sinfoniche le valorizza, invece di chiuderle – sta trasmettendo l'intero ciclo delle sinfonie del boemo. Proprio da poco si è conclusa, da Manchester, la monumentale Ottava, eseguita dalla BBC Philharmonic, con quattro cori (tre della Hallé e uno di Birmingham) sotto la direzione di sir Mark Elder.

Invece qui, alla Scala poi, due "resurrezioni" sparite nel nulla.