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31 ottobre, 2023

Orchestra Sinfonica di Milano – Mahler-Festival#6

Il sesto concerto del festival era interamente dedicato (così come il quarto) al Mahler arrangiatore di partiture altrui, nella fattispecie la ri-orchestrazione delle quattro Sinfonie di Robert Schumann. Dopo la Terza interpretata dall’Orchestra Spira Mirabilis, ecco le prime due suonate da un’altra prestigiosa orchestra milanese, quella dei Pomeriggi Musicali, guidata dal giovane newyorkese James Feddeck, che dal 2020 ne occupa la posizione di Direttore Principale.

Uno dei capitoli del nuovo libro Tutto Mahleruscito proprio in occasione e in relazione al Festival, è dedicato dal curatore Gastón Fournier-Facio alla presentazione (da lui tradotta in italiano) che David Matthews predispose per l’uscita del CD delle quattro sinfonie schumanniane riorchestrate da Mahler e incise da Riccardo Chailly con la Gewandhaus di Lipsia.

Vi si legge che nella Prima Sinfonia (la Primavera) oltre a modifiche difficilmente percepibili da un ascoltatore meno che preparatissimo, c’è invece un macroscopico intervento di Mahler, proprio nelle prime 5 battute e riguarda le parti dei corni e delle trombe in SIb (la tonalità d’impianto) che suonano la fanfara di apertura. In realtà qui Mahler non fa che ripristinare l’idea originaria di Schumann, che poi, insoddisfatto della resa del passaggio, aveva attuato un suggerimento di Mendelssohn per porvi rimedio.

Nella versione pubblicata e normalmente eseguita (prima ma anche dopo l’intervento di Mahler) la prima parte della fanfara (suonata all’unisono) percorre una melodia che parte dalla mediante (REb) per poi risalirvi dalla tonica SIb, passando per la sopratonica DO. Quindi: REb/SIb-DO-REb. La seconda parte della fanfara inizia una terza sopra ed è armonizzata per quinte, ottave e terze, partendo dalla dominante FA, per poi ripetere il percorso della prima parte. Quindi: FA/SIb-DO-REb (in rosso gli interventi di Mahler):

Viceversa, la versione originale di Schumann percorreva la melodia esattamente una terza sotto, partendo dalla tonica: SIb/SOL-LA-SIb, poi REb/SIb-DO-REb. Ebbene, Schumann ascoltandola alle prove (dirette da Mendelssohn con gli strumenti senza valvole) si accorse che il SOL e il LA della prima parte uscivano malissimo. E così il Direttore suggerì all’Autore l’idea di innalzare di una terza quelle note.

Ascoltiamo le due versioni: dapprima quella pubblicata (Bernstein, 11”-22” e 23”-35”) e poi quella originale (Chailly, 2”-9” e 10”-18”). Non facciamo caso all’agogica, che è affare dei Direttori, ma la differenza è lampante! Da un punto di vista estetico (ma qui parlo per me) aveva ragione il primo Schumann, che prevedeva una perfetta simmetria fra le due sezioni (percorso tonica-tonica e poi mediante-mediante); simmetria che viene a mancare nella versione pubblicata (mediante-mediante e poi dominante-dominante-mediante) per riallinearsi in vista del passaggio a RE minore, dove Mahler potenzia assai le trombe (si confronti Bernstein, 37”-43” e Chailly, 20”-24”) per poi modificare anche il rullo di timpano (dominante LA al posto della mediante FA di Schumann).

Altri interventi di Mahler riguardano il potenziamento del suono (ad esempio i violini all’inizio del secondo movimento) o la sottrazione di suono (tipicamente degli ottoni) quando rischia di coprire altri strumenti (tipo i fagotti). Interventi sulle dinamiche sono infine percepibili nello Scherzo e poi nel Finale, con crescendi e diminuendi del tutto assenti in Schumann (ma questi sono interventi simili a quelli che molti Direttori fanno comunque nell’interpretare il testo scritto).

Quanto alla Seconda Sinfonia, abbiamo sempre piccoli o piccolissimi interventi di Mahler volti ora a mattere in evidenza, ora a dare meno peso a qualche strumento, per aumentare (secondo lui…) la chiarezza dell’esposizione dei temi. Un esempio lo troviamo precisamente all’inizio della Sinfonia: Schumann lo affida alle due trombe accompagnate dai due corni e da un trombone: in questa esecuzione di Herreweghe si vedono bene (fino a 35”) i due corni… Mahler cancella (qui Chailly, fino a 37”) i corni e il trombone, lasciando soltanto le due trombe in primo piano.

Poi abbiamo ancora interventi su agogica e dinamica, che Mahler tende sempre a… complicare, rispetto alle indicazioni abbastanza scarne e statiche di Schumann. Un intervento sull’armonia è invece presente (anche se può facilmente sfuggire) nelle ultime battute della Sinfonia (qui Herreweghe da 35’39”) da confrontare con Chailly, da 6’56”).           
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Auditorium non certo esaurito, ma comunque abbastanza popolato e soprattutto da un pubblico che non ha lesinato prolungati applausi alla compagine milanese, che ha mostrato tutto il suo valore, nei singoli come nell’insieme.

James Feddeck (lo vedevo-sentivo per la prima volta…) mi ha fatto un’ottima impressione: a partire dalla misura e parsimonia della sua lettura, mai prendendosi gratuite libertà; gesto sobrio e senza inutili gigionerie, quindi molto efficace (mi ha ricordato il suo connazionale Trevino, che vedremo sabato prossimo, impegnato con la Quinta mahleriana); e infine grande empatia con gli orchestrali, a testimonianza di un rapporto ormai solido e di una comunità di intenti fra podio e Musikanten.

Bella serata davvero, anche dal punto di vista meteorologico, dopo i disastri della scorsa notte!

29 ottobre, 2023

Orchestra Sinfonica di Milano – Mahler-Festival#5

Dopo tre ospitate ad altrettante Orchestre italiane, è tornata sul palco - insieme al Direttore Emerito Claus Peter Flor - la padrona di casa in un Auditorium ancora pieno come un uovo a dimostrazione del successo che il Festival sta riscuotendo, in particolare fra i giovani, numerosi anche oggi in sala.

In programma c’era oggi la colossale, smisurata Terza Sinfonia, che ci porta, come scriveva il compositore nelle note esplicative (poi ritirate), dalla Terra al Cielo, o anche per-aspera-ad-astra, o ancora, volgarmente, dalle-stalle-alle-stelle! Un programma non diverso da quello individuabile in altre Sinfonie mahleriane, a partire dalla Seconda (dalla-morte-alla-resurrezione). Ma in senso lato presente anche nella Quinta Sinfonia: due movimenti iniziali apparentati dal carattere funebre seguiti da uno di natura giocosa e da un altro di tono lirico prima del finale in gloria. E pure la Settima pare ispirata a questo schema: due tempi estremi, il primo cupo, l’ultimo trionfalistico ed esilarante, inframmezzati da due serenate e da uno spettrale scherzo.

Ma in realtà in termini di struttura musicale dell’opera, parrebbe l’invenzione dell’acqua calda, poiché la Sinfonia stessa, come genere musicale, si andò strutturando così fin da Haydn, come minimo: quattro movimenti, di cui i due esterni più robusti (in Allegro, tipicamente) e i due interni più contemplativi (Andante) e leggeri (Minuetto o poi Scherzo).

La novità di Mahler (in buona parte mutuata dal suo idolatrato – e riorchestrato – Schumann) risiede principalmente nell’abbandonare il principio (Hanslick-iano, potremmo definirlo) di costruzione dell’edificio sinfonico con materiale musicale puro per impiegare invece una tecnica tipicamente teatrale (incluso quel teatro in miniatura che è il Lied…) Approccio non poi troppo diverso da quello di Ciajkovski, ma portato da Mahler alle estreme conseguenze.

Ecco allora che le Sinfonie di Mahler assurgono nientemeno che ad interpretazioni dell'intero mondo, dove troviamo esplicitata in suoni e secondo la visione dell'Autore ogni possibile problematica legata all'esistenza e ai suoi misteri. 
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L’esecuzione odierna non ha mancato l’obiettivo, grazie alla rigorosità che Flor ha impiegato nella sua direzione, che nulla ha trascurato e nulla ha stravolto: dal poderoso attacco degli otto corni (in palcoscenico erano nove…) capitanati dalla coppia Ceccarelli-Amatulli; alle leziosità del Minuetto, con Santaniello protagonista; al mirabile assolo della cornetta-da-postiglione di Alessandro Rosi (dislocato come richiede Mahler fuori dal palco, ma uscito alla fine a raccogliere meritatissimi applausi) alla corposa e calda voce di Anke Vendung in Nietzsche e poi nel Wunderhorn insieme alle piccole di Maria Teresa Tramontin e alle ragazze di Massimo Fiocchi Malaspina; per finire con l’apoteosi del tema beethovenian-parsifaliano che ci ha accompagnato verso il trascendente.

Grandissima emozione, sfociata in lunghi, liberatori applausi e ovazioni per tutti.

L’amore dei tre Re alla Scala


Con più di tre anni di ritardo (causa Covid) sulla data originariamente prevista, è approdato alla Scala L’amore dei tre Re di Italo Montemezzi. Superstiti delle cancellate recite del giugno 2020 sono: il regista Àlex Ollé (Fura dels Baus) e due interpreti del dramma: Giorgio Berrugi e Giorgio Misseri.

 

Opera che ebbe un buon successo nel 1913 (proprio alla Scala con Serafin, e al MET per molti anni a partire da Toscanini) e che tornò alla Scala per altre tre produzioni nell’anteguerra (‘26, ’32 e ’37) e due nell’immediato dopoguerra (‘48 e ’53, come documenta l’Archivio storico). Poi alla Scala è caduta quasi nel dimenticatoio, se è vero che viene riproposta solo oggi, a distanza di 70 anni! In Italia e nel mondo viene ancora rappresentata, ma con il contagocce, e una qualche ragione di ciò ci dovrà pur essere: forse che Montemezzi non era… Strauss?! 

 

Il libretto, derivato per sottrazione dal testo del dramma in versi di Sem Benelli del 1910 è un velleitario miscuglio di classicismo, romanticismo e verismo, con una scrittura dannunziana: il finale ci ricorda Romeo&Juliet, Adriana Lecouvreur e pure il Trovatore (più la Cena dello stesso autore, che Giordano musicherà anni dopo…)

 

Quanto ai personaggi della vicenda medievale, siamo allo standard più rigoroso del melodramma ottocentesco: soprano e tenore che trescano alle spalle del baritono marito di lei; e basso padre-padrone del baritono che alla fine punisce tutti quanti (compreso, involontariamente, il fig!io).

 

I tre Re sono in realtà altrettanti signorotti o cavalieri medievali, due dei quali (Avito e Manfredo) amano sul serio e perdutamente la bella Fiora (che riama il primo ma viene ovviamente sposata al secondo) mentre il terzo (Archibaldo, padre di Manfredo) più che amarla (ma forse un po’ di libidine per lei la conserva…) la sorveglia come un pitbull e, coltala in flagrante adulterio con… lui non sa chi (essendo cieco) la fa secca senza complimenti. Poi per individuare il traditore cosparge le labbra della morta di veleno e così il povero Avito, che viene a baciarne il cadavere, fa una brutta fine, sotto gli occhi del rivale Manfredo. Il quale peraltro, da persona sensibile, saputo dal rivale che Fiora amava costui e non lui, si immola a sua volta baciando la salma. Suo padre arriva e lo prende per il fedifrago caduto finalmente in trappola, per poi scoprire che invece si tratta del proprio figlio! Pace e Amen…

 

Le variazioni fra il testo del dramma e il libretto si possono così riassumere (qui una minuziosa comparazione fra i due testi): nell’Atto primo vengono cassati buona parte dei ricordi del vecchio Archibaldo, disceso come invasore dal barbaro Nord e stabilitosi nel Sud cristiano, nella cui civiltà è cresciuto il figlio sognatore, oltre che guerriero a sua volta, Manfredo; poi parte del suo colloquio con il servitore Flaminio, dove emergono le circostanze che hanno portato alla situazione attuale; ancora una buona parte dell’incontro fra i due amanti Fiora e Avito (dove si scimmiotta Tristan, come succederà anche nell’atto secondo…) con le accuse che Fiora porta all’amato-amante, suo promesso, per non aver impedito che lei fosse data in pegno ad Archibaldo e in moglie al figlio Manfredo; poi tagli allo scontro fra Archibaldo e Fiora, sospettata di tradimento, dove emerge una malsana attrazione-repulsione del vecchio per la giovane e bella nuora!; infine tagliato pesantemente anche l’incontro tra padre e figlio, dove il primo avverte il secondo dei sospetti sulla moglie fedifraga e il secondo non sa spiegare questa severità e questi sospetti (!?)

 

Nell’Atto secondo sono tagliati: l’intera parte iniziale, con gli avvertimenti di Flaminio, guardia del castello, ad Avito (che smania per rivedere Fiora) per suggerirgli prudenza; e poi il lungo incontro fra Archibaldo e Manfredo, dove nel figlio comincia ad emergere qualche dubbio su Fiora, alimentato dai sospetti del padre; ancora buona parte dell’incontro fra Manfredo e Fiora, dove il giovane esterna il suo disagio di fronte alla freddezza della moglie (!); tagliata anche parte del nuovo incontro fra Fiora e Avito (sempre Tristan…); infine parte di quello fra Archibaldo e il figlio, a omicidio compiuto, dove emerge l’abissale distanza fra la cruda e barbara natura del padre e la cristiana carità del figlio.

 

L’Atto conclusivo vede la totale sostituzione della scena iniziale, presso la camera ardente di Fiora, dove nel dramma compaiono dapprima una madre con la figlioletta e poi un militare e un fabbro: rimpiazzata da un coro e dalle invocazioni funebri del popolo. Tagliato infine parte dell’incontro padre-figlio, con la rabbia del primo per la natura cristiana del secondo (!)

 

Come si vede, differenze non da poco, che danno al libretto un taglio meno crudo rispetto al dramma originale, anche se va riconosciuto a Benelli di aver agito con plausibile buonsenso, per preservare per quanto possibile l’integrità del soggetto e nello stesso tempo stringerne i tempi, che nell’opera sono davvero serrati (tre atti per 100 minuti in tutto).   


Quanto alla musica, va inoltre riconosciuto a Montemezzi l’intento di coniugare verismo a wagnerismo (niente numeri chiusi, se si esclude l’iniziale esternazione di Archibaldo; misurato impiego di larve di Leitmotive) pur con risultati altalenanti. Le parti più interessanti sono quelle di natura sinfonica (introduzione degli atti e brevi transizioni fra le diverse sezioni dell’opera) dove il contemporaneo Strauss fa capolino qua e là (massimamente poi nelle ultime battute del dramma).

 

Per ciò che attiene alle voci, proprie del verismo sono le parti assai impervie di tenore e soprano, appena più abbordabili quelle di baritono e basso. Limitato in quantità e difficoltà l’impegno del coro.   


Insomma, un onesto né-carne-né-pesce, che forse non meritava né il successo in anteguerra, né il successivo dimenticatoio… Prendiamolo per quello che è e ringraziamo la Scala per avercelo riproposto dopo 14 lustri!

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Intanto una domanda: l’intera opera dura 100 minuti: ora, perché mai fare un intervallo di 25 minuti prima del terz’atto di 23 minuti? Perfida risposta: lo impone l’appaltatore dei bar!!! Che – di questo passo – imporrà un intervallo anche per Rheingold, Salome, Elektra e… (Pare che siamo sulla buona strada che riconduce al lontano passato, quando a teatro si andava per mangiare, bere, spettegolare e… amoreggiare, con sporadiche pause di attenzione per ciò che accadeva in palcoscenico.)

Comincio dall’allestimento di Ollè per elogiarlo senza riserve: pieno rispetto di spirito e lettera del libretto, ambientazione cupa come si addice a questo nerissimo dramma. Scena (Alfons Flores) con una base praticamente fissa: foresta di catene che pendono dall’alto fino al suolo (sono la metafora della prigione in cui si svolge il dramma); nel primo atto un separè del palco ci mostra la camera da letto dove Fiora e Avito amoreggiano, che diventerà camera ardente nel terz’atto. Nel secondo atto dallo stesso pavimento emergono due scale e un ripiano che rappresentano la terrazza e la torre del castello: una delle scale, dalle quali si sale verso il ripiano, verrà spostata in alto nel terzo atto, a rappresentare la scala da cui si scende dal castello alla cripta sottostante, dov’è composta la salma di Fiora.

I costumi (Lluc Castells) sono piuttosto generici: una tunica chiara per Fiora e giacconi/cappotti scuri per gli altri. Le luci (Marco Filibeck) creano in realtà… il buio in cui è immerso psicologicamente l’intero dramma.

Assai curata la gestione dei personaggi, singoli e in gruppo. Una curiosità, un dettaglio ma significativo: prima di mostrarci l’atto con cui Archibaldo cosparge di veleno la bocca della defunta Fiora, Ollè fa chinare il vecchio sul cadavere per poi baciarne proprio la bocca. Un’invenzione gratuita? Al contrario, ci conferma i sospetti (annacquati nel libretto rispetto al testo originale) sulla possibile libidine del suocero per la nuora!  
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Purtroppo, note non altrettanto liete sul fronte musicale. A partire dalla direzione di Steinberg, che ha forse calcato troppo la mano in chiave verista, con qualche fracasso di troppo che a volte ha coperto le voci.

A proposito delle quali cito subito la positiva prestazione di Chiara Isotton, che ha scatenato il suo vocione, proprio verista, persino con eccessiva foga: quando riuscirà a tenerlo a briglia potrà raggiungere qualsiasi traguardo, poiché il timbro della voce è di grande purezza, il volume sfida ogni vastità ambientale e nel portamento sa cavarsela assai bene.

Per il resto niente di trascendentale: ad Evgeny Stavinsky (Archibaldo) bisogna concedere l’attenuante della chiamata quasi all’ultimo minuto, così gli darò una sufficienza politica: voce piuttosto cavernosa e timbro non proprio purissimo, caratteristiche non troppo edificanti, come già avevo avuto modo di constatare da qualche anno… quindi i miglioramenti tardano…

Roman Burdenko è stato un Manfredo dignitoso, ma non più: la voce non è di quelle che ti colpiscono per colore, timbro e potenza. Il LAb del finale (ammesso ci fosse) è stato coperto alla grande da Steinberg!      

Fra il sufficiente e il discreto l’Avito di Giorgio Berrugi, voce abbastanza potente (ha già fatto Siegmund!) ma dal timbro non proprio pulitissimo. Meglio di lui Giorgio Misseri, sia pure in un ruolo (Flaminio) di assai minore importanza.  

Gli altri comprimari come da… contratto sindacale. Onesta la prestazione del Coro di Malazzi, davvero un impegno minuscolo, il suo.   

Pubblico non oceanico, che ha tributato applausi a tutti, ma per un tempo… limitato (nessuna uscita finale a sipario chiuso, per dire).

Ecco, adesso per altri 70 anni con Montemezzi siamo a posto! 

28 ottobre, 2023

Orchestra Sinfonica di Milano – Mahler-Festival#4

Altra Orchestra ospite per il quarto appuntamento del Festival Mahler: la Spira Mirabilis, la cosiddetta orchestra-senza-direttore (e senza confini, aggiungerei) che per l’occasione si è cimentata nella Terza Sinfonia di Schumann, la Renana, nella versione orchestrata da Gustav Mahler (il che spiega il suo inserimento nel Festival). Nei due giorni scorsi l’Orchestra l’ha già eseguita (come rodaggio…) nella sua terra di nascita modenese, precisamente a Formigine e San Possidonio.

Uno dei capitoli del il nuovo libro Tutto Mahler, uscito proprio in occasione e in relazione al Festival, è dedicato dal curatore Gastón Fournier-Facio alla presentazione (da lui tradotta in italiano) che David Matthews predispose per l’uscita del CD delle quattro sinfonie schumanniane riorchestrate da Mahler e incise da Riccardo Chailly con la Gewandhaus di Lipsia. Vi leggiamo che i principali interventi del compositore boemo riguardano le parti di trombe e timpani (soprattutto tagli nei due movimenti esterni) e poi interventi su molti passaggi, volti a sottrarre o aggiungere strumenti per ottenere nuove o più trasparenti sonorità.

In generale gli interventi di Mahler rischiano di sfuggire ad un ascoltatore non preparatissimo, e solo un minuzioso ascolto comparato fra lo Schumann originale e quello… mahlerei può mettere in chiara evidenza le differenze. Va infine aggiunto che molti esperti tendono oggi a rivalutare proprio il barbaro originale di Schumann (un po’ come è accaduto a Musorgski, liberato dalle incrostazioni di Rimski…) 

Ma queste disquisizioni su Schumann-Mahler in fondo contano poco di fronte all’incredibile realtà della Spira Mirabilis, che è la più netta smentita alla tesi proposta da Fellini nel suo Prova d’orchestra! Certo, capita spesso (e per fortuna!) che un’intelligenza singola arrivi più in alto o più in là di un’intelligenza cooperativa: i Mahler, Walter, Furtwängler, Karajan, Bernstein, Abbado, etc. ne sono prova lampante, ma… è altrettanto vero che la cooperazione fra individui di pari diritti e autonomia può ben tener testa ad una tradizionale organizzazione verticale ed aziendalista.

Ne abbiamo proprio avuto conferma qui: ascoltando una compagine che sa creare grandi esecuzioni con il contributo non solo materiale ma anche intellettuale di tutti.

Dove tutti significa anche ciascuno, e così anche le consuetudini riservate al Direttore o al Solista di concerto qui si estendono a tutta la compagine che, finita la Sinfonia, esce tutta insieme di scena e poi tutta insieme rientra (e non una sola volta!) per ringraziare degli applausi del pubblico.

Personalmente rimpiango solo di non essermi potuto trattenere (Scala incombente!) più a lungo per assistere al consueto congedo dei musicisti dal pubblico, invitato a commentare, chiedere, scambiare impressioni sull’opera eseguita e sulla vita dell’Orchestra.

Resta comunque la sensazione di aver vissuto un’esperienza (almeno per me) unica nel suo genere.

27 ottobre, 2023

Orchestra Sinfonica di Milano – Mahler-Festival#3

Dopo la Filarmonica della Scala, ecco un’altra prestigiosa Orchestra presentarsi in Auditorium per il terzo appuntamento del Festival Mahler: la Santa Cecilia, guidata da Manfred Honeck, che ha presentato a Milano lo stesso programma previsto per Roma il 25-26-28 ottobre.

Programma che affiancava il Beethoven dell’Eroica al Mahler di alcuni Lieder dalla raccolta Des Knaben Wunderhorn, interpretati da Christoph Pohl, che ha rimpiazzato l’indisposto Matthias Goerne.

Des Knaben Wunderhorn è una sterminata collezione di vecchie poesie e filastrocche popolari tedesche – risalenti prevalentemente alla guerra dei 30 anni (1618-1648, culminata con la Pace di Westfalia) - pubblicata nei primi anni dell’800 (1805-1808) da Achim von Arnim e Clemens Brentano. Si articola in tre volumi che contengono complessivamente quasi 700 poesie, inclusi 134 Kinderlieder. Dentro ci troviamo un po’ di tutto: fatalismo, disperazione, antimilitarismo, ingenuità, fanciullaggini, ma anche sana saggezza, sarcastica critica del potere e delle stupide convenzioni sociali.    

Verso la fine dell’800 Mahler musicò 9 canti per voce e pianoforte, e successivamente altri 15 (in tre tranche di 5, 8 e 2) per voce e orchestra, tre dei quali sono poi divenuti altrettanti movimenti di sinfonia (seconda, terza e quarta). Di questi 15 Lieder la Universal Edition di Vienna ne ha pubblicati 12 in due volumi (6+6), escludendo quindi i tre elevati da Mahler al rango di movimenti di Sinfonia (Urlicht, Seconda Sinfonia, 4° movimento; Es sungen drei Engel, Terza Sinfonia, 5° movimento; e Das himmlische Leben, Quarta Sinfonia, 4° movimento).

Qui abbiamo ascoltato sette di questi 15 Lieder (cinque dei quali ci erano stati proposti proprio un anno fa, dalla coppia Bostridge-Mariotti) e precisamente:

Rheinlegendchen. 2° del Volume II U.E. (genere: favola). É una delicata melodia campestre (una ballata, come era definita) su un testo che racconta un’improbabile storia di un anellino, buttato nel fiume da un mietitore, e che arriva sulla tavola del re, dentro al pesce che lo ha ingoiato. Così una bella ragazza di corte lo riporta al contadinello.  

Wo die schönen Trompeten blasen. 4° del Volume II U.E. (genere: antimilitarismo). Un giovane innamorato bussa alla porta della sua amata, che lo fa entrare, ma poi piange udendo cantare l’usignolo. Lui la rassicura: sarai mia, ma prima devo proprio andare in guerra, sui verdi prati, dove squillano le belle trombe. È là la mia casa.

 

Das irdische Leben. 5° del Volume I U.E. (genere: fatali ritardi). Il bimbetto si lamenta ripetutamente: ha fame. La mammina cerca di calmarlo, assicurandogli ora che il grano è già stato mietuto, ora macinato, quindi impastato e infine infornato. Ma quando il pane esce dal forno, il bambinello è già nella bara…   

 

Urlicht. Dalla Seconda Sinfonia. (genere: fede religiosa). Lo abbiamo ascoltato proprio nel primo concerto del Festival. L’umanità vive in miseria e dolore. Ma l’Uomo viene da Dio e Dio gli fornirà un lumicino per ritrovare la strada verso la vita beata del Paradiso.


Des Antonius von Padua Fischpredigt. 1° del Volume II U.E. (genere: dissacrazione). Sant’Antonio predica ai pesci, che seguono il sermone con il massimo interesse (proprio a bocca aperta, si potrebbe dire); la predica è piaciuta assai e ognuno se ne torna contento alle proprie… poco edificanti occupazioni. (Peraltro, non è ciò che accade al 98% dei frequentatori delle nostre chiese?) Anche questa musica l’abbiamo ascoltata da poco: è stata impiegata da Mahler, senza voce e con notevoli ampliamenti, come Scherzo della Seconda Sinfonia.


Revelge. 6° del Volume I U.E. (genere: antimilitarismo). Un tamburino morto resuscita per guidare i compagni, morti come lui, alla vittoria… per poi tornare a fare il morto, sotto le finestre dell’amata. Pare che Mahler abbia confessato di aver avuto l’ispirazione per la musica di questo Lied - un breve inciso del quale compare nel Finale della Quinta sinfonia - durante una lunga seduta sul… WC! Ma qui Fantozzi non avrebbe proprio nulla da eccepire!


Der Tamboursg’sell. 6° del Volume II U.E. (genere: antimilitarismo). Un altro, povero tamburino, un disertore in questo caso, viene condotto al patibolo, e saluta tutti i commilitoni con un atroce sberleffo: me ne vado in ferie, lontano da voi. Buona notte!

 

Pohl – gran bella voce, chiara e con ottima proiezione - non ha fatto rimpiangere l’indisposto Goerne e ce li ha porti con grande sensibilità e pathos, ben coadiuvato dai ceciliani in gran forma, il che gli ha garantito calorosissimi applausi e diverse chiamate.

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E la gran forma dei ceciliani (insieme all’indiscusso prestigio di cui godono) è poi risaltata nell’esecuzione invero impeccabile dell’Eroica che, dal romanticismo disincantato, rassegnato e pessimista del Wunderhorn, ci ha portato in quello volitivo, razionale e incrollabilmente positivo di Beethoven.

 

Honeck (per i miei gusti) ha forse ecceduto di sostenutezza nell’iniziale Allegro con brio (compensandola con l’omissione del da-capo dell’esposizione…) ma per il resto la sua è stata una direzione da elogiare: in particolare nella Marcia funebre e nel finale Allegro molto, dove hanno brillato in particolare gli ottoni (con Allegrini e i suoi corni già in bella evidenza nel Trio dello Scherzo).

 

Successo travolgente, con innumerevoli chiamate, ovazioni e interminabili applausi ritmati: insomma, altra serata da incorniciare! 

26 ottobre, 2023

Orchestra Sinfonica di Milano – Mahler-Festival#2


Attesissimo e graditissimo ritorno sul podio di colui che per un intero lustro (2000-2005) guidò l’Orchestra milanese: Riccardo Chailly, che però si è portato dietro la Filarmonica scaligera per eseguire la Prima Sinfonia, in un programma già presentato a Ferrara proprio domenica scorsa e che sarà replicato domenica prossima a Rimini (come si vede, la Romagna si fa un baffo delle alluvioni e dei criminali ritardi del Governo!)

L’antipasto della serata è un’opera che forse non è nemmeno (tutta farina del sacco) di Mahler: un Preludio Sinfonico di contestata attribuzione, e del quale molti esperti tendono ad assegnare la paternità ad un compositore che il Mahler 16enne per la verità idolatrava. Parliamo di Anton Bruckner, del quale Mahler era tifoso al punto da trascriverne per pianoforte la sterminata Terza Sinfonia proprio mentre la stessa faceva una fine invereconda alla prima esecuzione.

Il brano in questione è stato suonato nell’arrangiamento/ricostruzione di Albrecht Gūrsching. Sono poco più di sei minuti di musica accattivante, piuttosto arcigna (DO minore!) ma tutto sommato godibile che forse, chissà, ci racconta qualcosa sui primi vagiti di Mahler. 

Ma il piatto forte era Il Titano, pretenzioso sottotitolo che Mahler affibbiò a quello che lui stesso definì poema sinfonico, ispirato appunto al romanzo di Jean Paul. Che alla prima di Budapest fece la stessa fine – un autentico disastro, con tumulti di folla inferocita - della Terza di Bruckner a Vienna! Ma il nostro, nonché ritirarsi in buon ordine e chiedere scusa, rilanciò alla grande, cassando un ingiudicabile movimento con trombetta obbligata (Blumine) ed elevando il suo pretenzioso poema sinfonico nientemeno che al rango di Sinfonia in quattro movimenti!

Beh, oggi possiamo tranquillamente sostenere che i progenitori del buzzurro Orban di musica non capissero proprio nulla… o per caso non siamo noi di bocca troppo buona, ormai assuefatta a tutto?

Sia come sia, l’esecuzione è stata, ma proprio a dir nulla, stre-pi-to-sa! Ovviamente a partire dall’interpretazione di Chailly, che ha letteralmente cesellato, ma proprio una-per-una, le 1707 (+ ritornelli) battute della partitura, cavandone ogni recondito segreto.

Va da sé che poi sono gli strumentisti a suonare, e ieri (credo complice l’acustica della sala, meno dispersiva di quella dell’enorme bomboniera del Piermarini) davvero hanno fatto giungere alle nostre orecchie suoni di purezza e trasparenza assoluta (archi), Naturlaute come immagino li intendesse Mahler (legni) e abbaglianti luminosità (ottoni), il tutto supportato alla grande (ove richiesto) da arpa e percussioni.

Insomma, anche chi ascoltava quest’opera per la 176ma volta alla fine ha dato in escandescenze, tributando a tutti interminabili ovazioni da stadio.

Orchestra Sinfonica di Milano – Mahler-Festival#1

Ieri sera in Auditorium ha preso il via il tanto atteso Mahler Festival. Un’impresa non da poco, un record per l’Italia: tutta la produzione di Mahler interpretata, oltre che dall’Orchestra di casa, anche dalle principali Orchestre italiane.

Ogni concerto è preceduto da un’introduzione di Gaston Fournier-Facio, che ieri ha anche presentato il nuovo libro (di cui è curatore) uscito proprio per festeggiare questo avvenimento unico in Italia: opera cui hanno collaborato con speciali contributi i principali musicologi italiani (16 studiosi - viventi e non - che hanno al loro attivo almeno un volume dedicato a Mahler, più Riccardo Chailly che oggi è un’autorità in campo interpretativo, oltre ad aver tenuto la guida de laVerdi per un lustro).    

Prima del concerto la Presidente Ambra Redaelli ha sottolineato l’importanza dell’iniziativa (fortemente voluta e realizzata dal Direttore Generale e Artistico Ruben Jais per festeggiare i 30 anni dell’Orchestra e i 25 del Coro Sinfonico) e ha presentato Marina Fistoulari Mahler, nipote del compositore, che ha voluto simbolicamente dedicare il concerto a tutti i bambini vittime di guerre e violenza.

L’onore dell’apertura è spettato al Direttore Residente Andrey Boreyko - coadiuvato da Massimo Fiocchi Malaspina (Direttore del Coro) e dalle due voci di Valentina Farcas (soprano) e Bettina Ranch (mezzosoprano) - che è tornato sul podio per dirigere la Seconda Sinfonia, opera emblematica nella produzione mahleriana come nella vita dell’Orchestra, se è vero che lo stesso compositore usava dirigerla in tutte le occasioni… promozionali e che laVerdi eseguì (con Chailly) nel 1999 ad inaugurare l’Auditorium appena ristrutturato, e poi nel 2022 (con Flor) per festeggiare il ritorno in vita del Teatro Lirico milanese. 

Esecuzione di alto livello sotto tutti gli aspetti: la direzione di Boreyko ha appropriatamente sottolineato i caratteri magniloquenti dei due movimenti estremi (Morte-Resurrezione) e quelli più lirici e religiosi dei tre movimenti interni.

Serata davvero emozionante, chiusa dal gran trionfo che il foltissimo pubblico ha tributato a tutti i protagonisti. 

19 ottobre, 2023

Il Grimes di Carsen-Young trionfa – per pochi intimi - alla Scala

La serata di ieri ha visto l’esordio in una Scala purtroppo spopolata (e andando ulteriormente spopolandosi nei due intervalli) del Peter Grimes di Britten in una nuova produzione affidata al celebrato Robert Carsen e alla direzione musicale della navigata australiana Simone Young.

A mo’ di introduzione a questo commento e per una mia personale interpretazione del soggetto dell’opera rimando a queste mie note scritte ormai parecchi anni fa.

Parto dalla prestazione musicale, che definirei di alto livello sotto tutti gli aspetti. La Young ha saputo cavar fuori da questa difficile ma affascinante partitura tutto il meglio, con una direzione vibrante, senza un attimo di caduta di tensione. Direzione coadiuvata da un’orchestra in gran forma, che ha messo in rilievo tutta la brutalità del rapporto fra la folla (strepitoso qui il Coro di Malazzi) e il diverso (un efficace Brandon Jovanovich, che mi ha ricordato più Vickers che Pears…) Ma anche la varietà di atmosfere create dai sei Interludi, dove protagonista è la Natura, caratterizzati ora da grande lirismo (la calma del mare) o dalle esplosioni dei fenomeni più estremi (burrasche e tempeste).

E poi concertazione fra buca e palcoscenico che non ha avuto sbavature, cogliendo ogni sfumatura delle personalità dei singoli e della cieca propensione all’odio della folla del Borgo. Nicole Car è stata la trionfatrice della serata, una Ellen quasi perfetta nei suoi slanci di comprensione (e di amore?) per il bistrattato e complessato Peter e nei suoi rimproveri al popolo per i suoi pregiudizi e per la sua assurda sete di giustizia (o di vendetta). Memorabili i suoi accorati appelli alla ragionevolezza (Peter); le sue amorevoli cure per il piccolo apprendista; la sua delusione e frustrazione per il precipitare delle cose verso il baratro. Il tutto supportato da una voce calda e penetrante, e da una grande espressività nel portamento.

Brandon Jovanovich è stato un Peter di grande spessore, voce da Heldentenor (magari a Britten non sarebbe piaciuta al 100% – stessa sorte capitò a Vickers) e perfetta immedesimazione nel ruolo di questo corpo estraneo in una società ostile. Carsen ne ha accentuato i tratti più crudi persino dell’espressione del viso, illuminandolo dal basso nelle sue esternazioni più drammatiche.        

Il Balstrode di Ólafur Sigurdarson mi ha un pochino deluso (e qui magari anche Carsen ci ha messo lo zampino): per me eccessivamente cinico e persino venale. E così forse il baritono islandese (ma è una battuta per giustificarlo…) ha voluto esagerare anche in qualche sguaiatezza di troppo nel canto.

Assai centrate ed efficaci le figure delle tre donne che animano il Cinghiale: la navigata Auntie di Margaret Plummer e le due (apparentemente?) svampite nipotine (Katrina Galka e Tineke Van Ingelgem).

Peter Fose è un solido Swallow, giudice dall’atteggiamento autoritario nell’iniziale interrogatorio di Peter, ma anche disposto a difenderlo in occasione del sopralluogo alla baracca del pescatore. Leigh Melrose se la cava assai bene come il furbacchione Keene, che fa favori a tutti (dalla Sedley a Peter) pur di cavarci qualche penny… Come lui anche l’Hobson di William Thomas, l’estremista Boles di Michael Colvin e il Reverendo Adams di Benjamin Hulett.

Onesta prestazione, infine, quella di Natascha Petrinsky, la ricca pettegola, prevenuta e ficcanaso Nabob Sedley. I due rappresentanti del Coro, Eleonora De Prez e Ramin Ghazawi da parte loro hanno diligentemente compitato le lillipuziane parti della Fisherwoman e del Fellow Lawyer (due versi a testa in tutto nel second’atto). Così come vanno segnalati gli altri nove coristi impegnati in piccole parti che emergono dalla folla indistinta.  
Insomma, un cast bene assortito e benissimo supportato dalla buca e dal Coro.
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Carsen ha messo in opera una delle sue migliori regìe: innanzitutto per l’assoluta fedeltà alla lettera (oltre che allo spirito) del testo, sia nella rappresentazione dell’atmosfera generale del soggetto, che nella resa di ogni singolo dettaglio dello stesso. Il suo drammaturgo Ian Burton a sua volta non ha proprio inventato nulla di strano

La scena di Gideon Davey (responsabile anche dei costumi, un poco attualizzati, ma non troppo…) è assai scarna, con una macrostruttura praticamente fissa, che viene poi arricchita di volta in volta da poche suppellettili. Una passerella sopraelevata ne circonda tre dei quattro lati, per accogliere gruppi o singoli personaggi.

Come sempre efficacissime le luci (di Carsen che ne è maestro, coadiuvato qui da Peter vanPraet): addirittura sfacciata la fiaccolata finale con torce abbaglianti puntate verso la sala! Will Duke ha predisposto alcuni video, prevalentemente centrati sul volto straniato di Peter, o su qualche passaggio di nuvole o vaghi riferimenti marini.

Una particolare curiosità riguarda il trattamento dei sei Interludi che costellano l’opera (due per atto). Britten li vorrebbe suonati a sipario chiuso (ci sono dei cambi-scena…) ma Carsen ci mette del suo per animarli. Così Il primo (Alba) che, senza soluzione di continuità con il Prologo, deve introdurre la vita di un nuovo giorno al Borgo, è genialmente supportato da una folla di pescatori e donne che occupano la passerella sospesa, tutti indaffarati a rammendare o sistemare reti da pesca. Il secondo (Tempesta) a metà del primo atto, viene invece animato da coreografie (di Rebecca Howell) che evocano il terrore per la burrasca imminente e poi ci mostrano il cambio-scena fra l’esterno e l’interno del Cinghiale. Il terzo Interludio (Domenica mattina) compare all’inizio dell’atto secondo, dopo l‘intervallo, che già ha consentito di predisporre il cambio di scena (siamo di nuovo all’aperto). Ecco, qui forse Carsen ha voluto strafare (cambierà idea all’inizio dell’atto terzo…) e ci mostra un’appendice del cambio scena, con spostamento di panchine ed altre attività assai prosaiche. Il quarto Interludio (Passacaglia) copre il passaggio dall’esterno all’interno della dimora di Peter. Qui Carsen ci mostra questa trasformazione facendo intervenire pescatori che trainano funi e spostano in avanti la parete di fondo, per creare l’angusto spazio del rifugio nel quale arriveranno Peter e il suo nuovo garzone. All’inizio del terz’atto (il cambio-scena è avvenuto nell’intervallo) l’Interludio (Chiaro di luna) viene invece eseguito (e direi proprio correttamente) a sipario chiuso. L’ultimo Interludio (la nebbia) è assai breve e segue l’assurda caccia che la folla (aizzata dalla Sedley) ha cominciato a dare a Peter, che si vede comparire (accompagnato poi da voci lontane e dal sordo suono della sirena) per dare sfogo a tutta la sua disperazione.  

La scena finale, anziché nella piazza del Borgo, ci riporta al Prologo, e vi vediamo Peter che giura sulla Bibbia, proprio come all’inizio. Qui certo siamo lontani dal libretto originale, ma (forse) Carsen ci vuol dire che, morto un Grimes, se ne fa un altro… (?)
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Successo pieno e applausi per tutti, incondizionatamente. Peggio per chi non c’era… ma ci sono ancora cinque possibilità di riscatto.
 

14 ottobre, 2023

Orchestra Sinfonica di Milano – Stagione 23-24.3

Il terzo appuntamento della stagione principale dell’Orchestra Sinfonica di Milano ha un sapore tutto… astronomico! Sul podio un altro Direttore Ospite, l’iberico Jaume Santonja, alla sua quinta apparizione in Auditorium, dove esordì quasi quattro anni orsono.

Il primo dei due brani in programma (apparentati da legami estetici e… spaziali) ci porta in realtà al cinema: trattasi infatti della Suite dalle musiche da film della saga Star Wars, di John Williams.

Lo sterminato panorama musicale che ha accompagnato i diversi episodi della serie spazia da quel 1977 che la vide nascere, per proseguire poi con le successive uscite del 1999, 2002, 2003(TV), 2005, 2008(TV), 2014(TV), 2015, 2016, 2017, 2018(TV), 2019 e 2022(TV). Un ampio collage di musiche della saga (arricchito da… illustri contributi) si può ascoltare in questa performance di John Axelrod al Concertebouw nel 2017. Per chi volesse approfondire l’intricata tessitura di questa gigantesca tela suggerisco un dettagliato studio scaricabile da web.

Nel 1977 l’Autore pubblicò una prima versione della Suite in 3 movimenti, poi arricchita nel 1997 di altri due, che è entrata nel repertorio di molte orchestre ed è così strutturata:

1. Main Title
2. Princess Leia's Theme
3. The Imperial March (ediz. 1997)
4. Yoda’s Theme (ediz. 1997)
5. The Throne Room & End Title

Eccone una recente, eccellente esecuzione al Teatro Massimo di Palermo.

Si sa che Williams si sarebbe ispirato per le musiche di Star Wars anche a Holst e al suo The Planets (vedi sotto), in particolare alla sezione di Mars; e poi anche a Korngold, antesignano della musica da film a Hollywood. A me invece, ascoltando il Main Title, è sempre saltata alla mente un’analogia (non dico un plagio e nemmeno una citazione, ma certo una reminiscenza) nientemeno che di Bruckner (primo tema della Quarta sinfonia)!

La seconda sezione del tema principale (che ritorna un paio di volte) è di ispirazione più lirica:

Per il resto questo primo numero della Suite presenta altri motivi di diverso carattere prevalentemente guerresco.

Il Princess Leia's Theme è tutto incentrato sul meraviglioso motivo esposto inizialmente dal corno solo:

… e poi splendidamente sviluppato da altri strumenti in assolo e dal crescendo del pieno orchestrale, prima di sfumare sul MI sovracuto del primo violino, sul tappeto degli archi e l’arpeggio… dell’arpa.

The Imperial March è interamente pervasa dal pesantissimo, enfatico, minaccioso e martellante motivo principale, più volte reiterato:

Ascoltandola è impossibile non ritrovarci chiare atmosfere mutuate da Mars, il primo numero della Suite di Holst.

Yoda’s Theme presenta un motivo principale (a) assai languido e nobile, esposto inizialmente dai corni e più volte ripreso da altri strumenti e dall’orchestra. L’atmosfera crepuscolare è interrotta una volta dall’irruzione di un motivo (b) più gaio e brillante:

The Throne Room & End Title chiude in bellezza e grandiosità la Suite (come i titoli di coda…).

La fanfara iniziale introduce il marziale motivo principale (a) presentato dalle trombe e reiterato dall’orchestra; segue poi un contrastante e cantabile motivo (b) negli archi, successivamente arricchito da un controsoggetto (b’) nei corni, che porta all’enfatica reiterazione del motivo (b). Il motivo (a) viene ora riproposto con espressione lamentosa dall’oboe, poi raggiunto da corno inglese e flauto, quindi dagli archi. Qui compare una reminiscenza (!) della wagneriana Giustificazione di Brünnhilde… Ancora il motivo (b) e il (b’) tornano in primo piano, dopodichè il Main Title prende il centro della scena. Si va verso la conclusone, con (b’) che rifa’ capolino, e poi ecco la chiusura solenne e bombastica.
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Trascinante l’esecuzione, con le abbaglianti sonorità degli ottoni in particolare evidenza, che il pubblico (pochi ma buoni e soprattutto giovani !) ha apprezzato assai, applaudendo alla fine di ognuna delle cinque parti della Suite. 
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Il secondo brano in programma è appunto The Planets, anche questa una corposa Suite che Gustav Holst compose durante gli anni della Grande Guerra (qui un mio stringato inquadramento dell’opera). In Auditorium la si era sentita più di 12 anni fa con Wayne Marshall.

Ascoltandola subito dopo Star Wars si scoprono molto chiaramente le radici della musica di John Williams!

Un ruolo limitato ma significativo hanno I Giovani di Milano, il coro (ieri la parte femminile) diretto da Maria Teresa Tramontin, che compare (ma fuori scena…) nel conclusivo e mistico Neptune. Ieri le ragazzine con la Maestra erano sistemate nel foyer dell’Auditorium, con una pianola elettronica a supportarle. Alla fine hanno fatto il loro trionfale ingresso in sala, accolte da un grande applauso, poi esteso per parecchi minuti a tutti i protagonisti di questa eccellente esecuzione.
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