Con
più di tre anni di ritardo (causa Covid) sulla data originariamente prevista, è
approdato alla Scala L’amore
dei tre Re di Italo Montemezzi. Superstiti delle
cancellate recite del giugno 2020 sono: il regista Àlex Ollé (Fura dels Baus) e due
interpreti del dramma: Giorgio Berrugi e Giorgio Misseri.
Opera
che ebbe un buon successo nel 1913 (proprio alla Scala con Serafin, e al MET
per molti anni a partire da Toscanini) e che tornò alla Scala per altre tre
produzioni nell’anteguerra (‘26, ’32 e ’37) e due nell’immediato dopoguerra
(‘48 e ’53, come documenta l’Archivio storico). Poi alla Scala è caduta quasi
nel dimenticatoio, se è vero che viene riproposta
solo oggi, a distanza di 70 anni! In Italia e nel mondo viene ancora
rappresentata, ma con il contagocce, e una qualche ragione di ciò ci dovrà pur
essere: forse che Montemezzi non era… Strauss?!
Il
libretto, derivato per sottrazione dal testo del dramma in versi di Sem
Benelli del 1910 è un velleitario miscuglio di classicismo, romanticismo e
verismo, con una scrittura dannunziana: il finale ci ricorda Romeo&Juliet, Adriana Lecouvreur e pure il
Trovatore (più
la Cena dello stesso autore, che Giordano musicherà anni dopo…)
Quanto
ai personaggi della vicenda medievale, siamo allo standard più rigoroso
del melodramma ottocentesco: soprano e tenore che trescano alle
spalle del baritono marito di lei; e basso padre-padrone del
baritono che alla fine punisce tutti quanti (compreso, involontariamente, il
fig!io).
I
tre Re sono in realtà altrettanti signorotti o cavalieri medievali, due dei
quali (Avito e Manfredo) amano sul serio e perdutamente la bella Fiora (che
riama il primo ma viene ovviamente sposata al secondo) mentre il terzo
(Archibaldo, padre di Manfredo) più che amarla (ma
forse un po’ di libidine per lei la conserva…) la sorveglia come un pitbull e,
coltala in flagrante adulterio con… lui non sa chi (essendo cieco) la fa secca
senza complimenti. Poi per individuare il traditore cosparge le labbra della
morta di veleno e così il povero Avito, che viene a baciarne il cadavere, fa
una brutta fine, sotto gli occhi del rivale Manfredo. Il quale peraltro, da
persona sensibile, saputo dal rivale che Fiora amava costui e non lui, si immola
a sua volta baciando la salma. Suo padre arriva e lo prende per il fedifrago
caduto finalmente in trappola, per poi scoprire che invece si tratta del proprio figlio! Pace e Amen…
Le
variazioni fra il testo del dramma e il libretto si possono così riassumere
(qui una minuziosa comparazione fra i due testi): nell’Atto
primo vengono cassati buona parte dei ricordi del vecchio Archibaldo, disceso come
invasore dal barbaro Nord e stabilitosi nel Sud cristiano, nella cui civiltà è
cresciuto il figlio sognatore, oltre che guerriero a sua volta, Manfredo; poi parte
del suo colloquio con il servitore Flaminio, dove emergono le circostanze che
hanno portato alla situazione attuale; ancora una buona parte dell’incontro fra
i due amanti Fiora e Avito (dove si scimmiotta Tristan, come succederà anche
nell’atto secondo…) con le accuse che Fiora porta all’amato-amante, suo
promesso, per non aver impedito che lei fosse data in pegno ad Archibaldo e in moglie al figlio
Manfredo; poi tagli allo scontro fra Archibaldo e Fiora, sospettata di tradimento,
dove emerge una malsana attrazione-repulsione del vecchio per la giovane e
bella nuora!; infine tagliato pesantemente anche l’incontro tra padre e figlio,
dove il primo avverte il secondo dei sospetti sulla moglie fedifraga e il
secondo non sa spiegare questa severità e questi sospetti (!?)
Nell’Atto
secondo sono tagliati: l’intera parte iniziale, con gli avvertimenti di
Flaminio, guardia del castello, ad Avito (che smania per rivedere Fiora) per
suggerirgli prudenza; e poi il lungo incontro fra Archibaldo e Manfredo, dove nel
figlio comincia ad emergere qualche dubbio su Fiora, alimentato dai sospetti
del padre; ancora buona parte dell’incontro fra Manfredo e Fiora, dove il
giovane esterna il suo disagio di fronte alla freddezza della moglie (!);
tagliata anche parte del nuovo incontro fra Fiora e Avito (sempre Tristan…);
infine parte di quello fra Archibaldo e il figlio, a omicidio compiuto, dove
emerge l’abissale distanza fra la cruda e barbara natura del padre e la
cristiana carità del figlio.
L’Atto
conclusivo vede la totale sostituzione della scena iniziale, presso la camera
ardente di Fiora, dove nel dramma compaiono dapprima una madre con la
figlioletta e poi un militare e un fabbro: rimpiazzata da un coro e dalle
invocazioni funebri del popolo. Tagliato
infine parte dell’incontro padre-figlio, con la rabbia del primo per la natura
cristiana del secondo (!)
Come
si vede, differenze non da poco, che danno al libretto un taglio meno crudo rispetto
al dramma originale, anche se va riconosciuto a Benelli di aver agito con plausibile
buonsenso, per preservare per quanto possibile l’integrità del soggetto e nello
stesso tempo stringerne i tempi, che nell’opera sono davvero serrati (tre atti
per 100 minuti in tutto).
Quanto
alla musica, va inoltre riconosciuto a Montemezzi l’intento di coniugare
verismo a wagnerismo (niente numeri chiusi, se si esclude l’iniziale
esternazione di Archibaldo; misurato impiego di larve di Leitmotive) pur
con risultati altalenanti. Le parti più interessanti sono quelle di natura sinfonica
(introduzione degli atti e brevi transizioni fra le diverse sezioni dell’opera) dove il contemporaneo Strauss fa capolino qua e là (massimamente poi nelle
ultime battute del dramma).
Per
ciò che attiene alle voci, proprie del verismo sono le parti assai impervie di
tenore e soprano, appena più abbordabili quelle di baritono e basso. Limitato
in quantità e difficoltà l’impegno del coro.
Insomma,
un onesto né-carne-né-pesce, che forse non meritava né il successo in anteguerra,
né il successivo dimenticatoio… Prendiamolo per quello che è e ringraziamo la
Scala per avercelo riproposto dopo 14 lustri!
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Intanto
una domanda: l’intera opera dura 100 minuti: ora, perché mai fare un intervallo
di 25 minuti prima del terz’atto di 23 minuti? Perfida risposta: lo impone l’appaltatore
dei bar!!! Che – di questo passo – imporrà un intervallo anche per Rheingold, Salome,
Elektra e… (Pare che siamo
sulla buona strada che riconduce al lontano passato, quando a teatro si andava per
mangiare, bere, spettegolare e… amoreggiare, con sporadiche pause di attenzione
per ciò che accadeva in palcoscenico.)
Comincio dall’allestimento di Ollè per
elogiarlo senza riserve: pieno rispetto di spirito e lettera del libretto, ambientazione
cupa come si addice a questo nerissimo dramma. Scena (Alfons Flores) con
una base praticamente fissa: foresta di catene che pendono dall’alto fino al
suolo (sono la metafora della prigione in cui si svolge il dramma); nel primo
atto un separè del palco ci mostra la camera da letto dove Fiora e Avito
amoreggiano, che diventerà camera ardente nel terz’atto. Nel secondo
atto dallo stesso pavimento emergono due scale e un ripiano che rappresentano
la terrazza e la torre del castello: una delle scale, dalle quali si sale verso
il ripiano, verrà spostata in alto nel terzo atto, a rappresentare la scala da
cui si scende dal castello alla cripta sottostante, dov’è composta la
salma di Fiora.
I costumi (Lluc Castells) sono piuttosto
generici: una tunica chiara per Fiora e giacconi/cappotti scuri per gli altri.
Le luci (Marco Filibeck) creano in realtà… il buio in cui è immerso
psicologicamente l’intero dramma.
Assai curata la gestione dei personaggi,
singoli e in gruppo. Una curiosità, un dettaglio ma significativo: prima di
mostrarci l’atto con cui Archibaldo cosparge di veleno la bocca della defunta
Fiora, Ollè fa chinare il vecchio sul cadavere per poi baciarne proprio la
bocca. Un’invenzione gratuita? Al contrario, ci conferma i sospetti (annacquati
nel libretto rispetto al testo originale) sulla possibile libidine del suocero
per la nuora!
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Purtroppo, note non altrettanto liete sul
fronte musicale. A partire dalla direzione di Steinberg, che ha forse calcato troppo la mano in chiave
verista, con qualche fracasso di troppo che a volte ha coperto le voci.
A proposito delle quali cito subito la
positiva prestazione di Chiara Isotton, che ha scatenato il suo vocione,
proprio verista, persino con eccessiva foga: quando riuscirà a tenerlo a
briglia potrà raggiungere qualsiasi traguardo, poiché il timbro della voce è di
grande purezza, il volume sfida ogni vastità ambientale e nel portamento sa
cavarsela assai bene.
Per il resto niente di trascendentale: ad
Evgeny Stavinsky (Archibaldo) bisogna concedere l’attenuante della
chiamata quasi all’ultimo minuto, così gli darò una sufficienza politica:
voce piuttosto cavernosa e timbro non proprio purissimo, caratteristiche non
troppo edificanti, come già avevo avuto modo di constatare da qualche anno…
quindi i miglioramenti tardano…
Roman Burdenko è stato un
Manfredo dignitoso, ma non più: la voce non è di quelle che ti colpiscono per
colore, timbro e potenza. Il LAb del finale (ammesso ci fosse) è stato coperto
alla grande da Steinberg!
Fra il sufficiente e il discreto l’Avito
di Giorgio Berrugi, voce abbastanza potente (ha già fatto Siegmund!) ma
dal timbro non proprio pulitissimo. Meglio di lui Giorgio Misseri, sia
pure in un ruolo (Flaminio) di assai minore importanza.
Gli altri comprimari come da… contratto
sindacale. Onesta la prestazione del Coro di Malazzi, davvero un impegno
minuscolo, il suo.
Pubblico non oceanico, che ha tributato applausi
a tutti, ma per un tempo… limitato (nessuna uscita finale a sipario chiuso, per
dire).
Ecco, adesso per altri 70 anni con
Montemezzi siamo a posto!