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consulta e zecche rosse

25 marzo, 2023

laVerdi 22-23. 21

Dedicato interamente a Vienna il 21° concerto della stagione principale dell’Orchestra Sinfonica di Milano. Sul podio il sempre brillante Giuseppe Grazioli. Vienna sinfonica, come recita il titolo del concerto, che coniuga tre celeberrime Ouverture di operette con due brani (uno ancora leggero e l’altro più… impegnato) di un viennese che trovò fortuna in America.

Nel programma della stagione la locandina prevedeva una sequenza di brani che aveva la prima parte occupata da quelli, diciamo… leggeri e la seconda dalla Sinfonia di Korngold. Grazioli ha poi deciso di invertire quest’ordine, e non senza qualche buona ragione.

Si è quindi aperta la serata con il pezzo forte (in tutti i sensi) del programma, la Sinfonia in Fa diesis maggiore, che Eric Wolfgang Korngold compose (1947-52) dopo essersi di fatto congedato dal mondo della musica-da-film, che aveva contraddistinto la sua lunga e fortunata parentesi hollywoodiana. 

E forse proprio la sua compromissione con la musica (considerata dai puristi) poco seria fece sì che la critica accogliesse la Sinfonia con indifferenza, se non con disprezzo. Solo molti anni più tardi Rudolf Kempe la riportò alla luce, ma anche successivamente è rimasta parecchio in ombra, giudicata un tardivo e anacronistico ritorno alla Vienna di inizio secolo, o al massimo un maldestro tentativo di seguire strade già ampiamente battute nel ‘900 da altri (Shostakovich, ad esempio).
Recentemente il famoso Alex Ross (a beneficio dei benpensanti: è felicemente sposato da 17 anni con un maschio, il regista Jonathan Lisecki) dopo averla ascoltata a NY dai Berliner di Kirill Petrenkone ha dato invece - in un fulminante articolo comparso sul NewYorker - un giudizio lusinghiero. Sostenendo che i numerosi richiami (almeno sette, sparsi nei movimenti della Sinfonia) a musiche da film non solo non sono un segno di passatismo o di banalizzazione della musica seria, ma anzi mostrano come possano arricchirne i contenuti di spunti innovativi, pur mantenendosi prudentemente all’interno del sistema tonale.    

La Sinfonia – significativamente dedicata da Korngold al Presidente Roosevelt e con lui a quell’America che lo aveva accolto a braccia aperte e fatto… ricco - ha la struttura classica in quattro tempi ed un organico tardoromantico, irrobustito da percussioni moderne, pianoforte e celesta.

Il movimento iniziale è di difficile decifrazione, sul piano formale. Personalmente sono propenso a distinguervi tre macro-sezioni, legate alla presenza-assenza di accidenti in chiave: abbiamo una prima parte (con relativo gruppo tematico) che presenta in chiave i 6 diesis (FA#); seguita da una che non presenta alcun accidente; e poi da un’ultima che alterna i sei diesis al nessun accidente.

Apre in tempo Moderato, ma energico. Il metro muta spesso da 4/4 a 3/4, saltuariamente a 2/4, a testimoniare un procedere quasi ansiogeno. Siamo in FA#, sul cui terreno si muove la prima sezione del movimento, caratterizzata da frequenti schianti (marimba e pianoforte) ad intercalare una frase irregolare del clarinetto, cui subentra poi l’orchestra che risponde creando un’atmosfera di grande concitazione, animata ulteriormente da interventi dei corni.

Spariscono ora i 6 diesis in chiave: un significativo salto di tritono, che sottolinea il passaggio ad una sezione cantabile che si anima poco a poco fino ad un nuovo spettacolare, cinematografico ingresso dei corni, che lasciano poi spazio ad una nuova oasi di relativa serenità, protagonista il flauto.

Subentra una sezione in tempo Allegro, 4/4 con ritmo assai marcato dalle semiminime di quasi tutta l’orchestra (i celli invece percorrono ondeggianti e veloci semicrome) dove spiccano ancora perentori interventi dei corni. Abbiamo ora un progressivo ed eroico crescendo con agitati interventi di archi e fiati, culminante in un passaggio feroce dove tornano ripetuti schianti dell’orchestra.

Improvvisa calma e il clarinetto propone una lunga melodia che conduce al prepotente ritorno dell’atmosfera che aveva aperto il movimento. Atmosfera che si consolida con il ritorno ai 6 diesis in chiave: questa ripresa si carica di vitalità (ancora possenti entrate dei corni) abbandonando ancora i diesis.

Che ritornano per la coda conclusiva, protagonista ancora il clarinetto, in un’atmosfera progressivamente rasserenata, FA# maggiore.

Segue lo Scherzo (in seconda posizione come era diventato d’uso dopo la Nona). Forma abbastanza tradizionale: Scherzo-Trio-Scherzo-Coda. Lo Scherzo (Allegro molto) non ha accidenti in chiave (quindi è vagamente in DO) ed è in tempo pari (12/8): sono le terzine a dargli il caratteristico ritmo ternario; al suo interno c’è una parentesi in MI (3/2) dove spicca un’eroica – e proprio cinematografica – perorazione dei corni, poi ripresa anche dai violini. Il Trio (6/4) è canonicamente più tranquillo, la celesta ne impreziosisce la cullante melodia discendente. Ha una conclusione in LAb, che porta al ritorno dello Scherzo (incluso l’intermezzo dei corni, in MI). Dopo il quale inizia la sezione di coda conclusiva, culminante in un generale, fortissimo accordo di DO maggiore.  

Il lungo Adagio che segue evoca atmosfere lugubri e funeree, forse legate agli anni della guerra, che al tempo della composizione ancora lasciava i suoi strascichi di dolore e pietà. E non a caso in chiave c’è un bemolle: RE minore, è la tonalità del dolore sgorgante dalla nobile melodia che si dipana in orchestra, imperniata su un semplice motivo (discesa di quarta RE-LA e risalita di seconda LA-SI) che la farà da padrone fino alla fine, anche trasposta di grado. Il caldo suono del corno dà inizio allo sviluppo del tema, che poi esplode enfaticamente, quindi percorre un cammino dolente, dove udiamo due lamenti del corno che conducono al progressivo arenarsi della melodia.

Qui inizia un lungo percorso, aperto da ottavino e celesta con liquidi rintocchi, che poi si intensificano per velocità e forza, passando da semiminime a crome, poi sempre più veloci. L’atmosfera si fa incandescente, poi torna dolente, con la ricomparsa del tema principale e momenti di calma alternati ad altri strazianti sfoghi dell’orchestra (corni imploranti e salite all’acuto dei violini) chiusi da due lamenti del corno, ripresi dai violini e dall’ottavino.   

Verso la fine ecco uno squarcio dove il motivo principale si emancipa temporaneamente (passando per LA e SOL) a RE maggiore, prima di esplodere dolorosamente e ripiegarsi ineluttabilmente al minore, sul quale il movimento si chiude. 

Il Finale, come quello di tante sinfonie ottocentesche ispirate ad un programma per-aspera-ad-astra, è in Allegro e in tonalità maggiore, quasi Korngold volesse mettersi alle spalle gli orrori degli anni bui succeduti all’Anschluss (quelli forse evocati nell’Adagio): del resto proprio i 5 anni in cui si protrasse la composizione furono quelli della ripresa generale dopo la WWII, quando tutto il mondo provava a dimenticare il passato e a guardare con ottimismo al futuro.

Il movimento inizia curiosamente in SOL maggiore, per poi proseguire in RE maggiore, ancora in SOL per raggiungere il FA# d’impianto della Sinfonia soltanto per le ultimissime 28 battute!

La prima sezione, dopo una brusca e dissonante introduzione, proprio da musica-da-film, presenta un motivo in SOL maggiore che parrebbe… Shostakovich, pimpante e giocoso; segue poi un rumoroso passaggio con note ribattute, che conduce alla seconda sezione.

Qui siamo in RE maggiore e ascoltiamo inizialmente una melodia più distesa, che però poi si anima, ancora con note ribattute, e sfocia in un ritorno del primo tema, enfatico, nei corni, il che riporta anche la tonalità a SOL maggiore.

Inizia qui un corposo sviluppo, dove i temi delle due sezioni si confrontano e scontrano, fino ad arrivare ad un’oasi di calma, dove il flauto fa scivolare la tonalità di un semitono, da SOL a FA# maggiore. Il primo tema si incarica di portare la Sinfonia alla sua brillante conclusione. 
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Che dire? Propenderei per dar ragione ad Alex Ross: siamo di fronte ad un lavoro tutt’altro che velleitario e retrogrado: qualcosa che non sfigura affatto nei confronti dei Prokofiev o degli Shostakovich, che a quell’epoca difendevano strenuamente, contro gli assalti di Darmstadt, tutto ciò che di buono esisteva del vecchio mondo… E oggi molta musica si schiera con loro.

L’esecuzione (penso sia il primo incontro dell’Orchestra con la Sinfonia) è stata di gran livello e Grazioli ha mostrato di padroneggiare da par suo un oggetto assai ostico per gli esecutori e di non facile digestione per il pubblico, soprattutto per la gran parte di esso che probabilmente era al suo primo incontro con l’opera, come testimoniano gli applausi scrosciati alla conclusione di ciascun movimento, cosa invece inusuale per una Sinfonia di repertorio.

Applausi comunque assolutamente meritati.        
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Ecco quindi la seconda parte del Concerto, quella evidentemente più accattivante per il pubblico. Aperta ancora da Korngold, del quale viene eseguita Straussiana, in pratica la sua ultima opera (1953), un chiaro omaggio alla grande famiglia che a fine ‘800 aveva portato walzer, polke e mazurke in paradiso. Si tratta di un godibilissimo pot-pourri di motivi che echeggiano - nei tre generi musicali – stilemi ed atmosfere degli Strauss. La presentazione dell’editore Schott ci informa che il brano contiene riferimenti ad opere poco conosciute di Johann Strauss jr, come Fürstin NinettaCagliostro in Wien e Ritter Pasman.
 
Il breve brano (circa 7 minuti) si apre a ritmo di Polka, con gli archi che richiamano la famosa Pizzicato Polka, che i fiati poi arricchiscono di una gaia e saltellante melodia in FA maggiore. Ecco poi il turno della Mazurka, nella dominante DO maggiore, tempo grazioso, che poi si anima provvisoriamente, prima di portarci – tornando a FA maggiore - al Walzer. Che è costituito da due sezioni, la prima più pomposa (dove un attacco ricorda Frühlingstimmen), la seconda più distesa (cantabile). La sola prima sezione viene ripetuta per passare poi direttamente ad una coda sfrenata di 20 battute che chiude brillantemente il brano, accolto co gran calore.
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Franz von Suppé è il secondo autore della serata, con l’Ouverture da Dichter und Bauer (Poeta e Contadino). Che si apre con una solenne e perentoria fanfara in RE maggiore che chiude la frase sulla dominante LA:
…per poi riprenderla e siglarla in gran pompa. A questo punto si fa silenzio e il violoncello solo canta la sua famosa melodia, vagamente ricordando nientemeno che l’analogo passaggio della rossiniana Ouverture del Tell!


La melodia del violoncello è intercalata e impreziosita da graziosi interventi dei legni; poi, proprio come in Rossini, ecco esplodere l’Allegro strepitoso in Sib maggiore, che si apre con l’anticipazione della ripida discesa del successivo climax. Per ora abbiamo due rumorosi passaggi (in RE e FA minore) in Allegro, che fanno crescere la tensione fino al trionfale climax in Sib:


L’atmosfera si fa più rarefatta e subentra ora una sezione in Allegretto, occupata da una serena melodia di walzer esposta da clarinetti e primi violini:


Melodia che si sviluppa in un controsoggetto in RE maggiore che ricade subito sul Sib. Si torna in Allegro e l’atmosfera ridiventa mossa, con un crescendo orchestrale che culmina nella riproposizione di questa intera sezione, cioè la melodia cantabile dell’Allegretto e il successivo crescendo in Allegro. Il quale ora sfocia però nella riproposizione dell’esuberante tema discendente del climax. Di qui si apre una frenetica coda che porta alla fragorosa conclusione.

Ora gli applausi scrosciano copiosi e rumorosi e Grazioli fa alzare alcuni protagonisti dell’esecuzione, commettendo però un’imperdonabile dimenticanza, ahilui: il violoncello di Mario Shirai Grigolato!
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Tocca poi all’Ouverture di Die lustige Witwe (La vedova allegra) di Franz Lehár. In realtà l’operetta – un successo straordinario, amata e citata anche da Mahlernacque senza un’Ouverture, ma con la semplice Introduzione dell’Atto I. Dopo la replica n°400 il compositore ne raccolse i motivi principali in questo travolgente pot-pourri che viene di norma eseguito solo in concerto.    
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Chiude in bellezza la serata l’Ouverture dal Pipistrello (Die Fledermaus) di Johann Strauss Jr. Che, a differenza della precedente, ha una struttura sinfonica di prim’ordine, come ho cercato di riassumere in queste note sull’intera opera. 

Inutile dire dello strepitoso successo, ricambiato con il bis della sezione finale.

17 marzo, 2023

laVerdi 22-23. 20

Accostamento testa-coda (anzi coda-testa) per il concerto di questa settimana, diretto da Vincenzo Milletarì, il giovane Direttore pugliese che torna sul podio dell’Auditorium dopo poco più di un anno dal suo esordio con l’Orchestra Sinfonica di Milano. Auditorium ieri sera al centro di una zona praticamente in stato d’assedio, con ingenti forze di Polizia e Carabinieri a controllare una, peraltro incruenta, manifestazione di gruppi antifascisti: il che può spiegare almeno in parte la scarsa affluenza di pubblico.  

Nella prima parte un brano quasi nuovo di zecca (è in prima esecuzione in Italia) di Fazil Say, intitolato Anka Kuşu (una specie di Fenice persiana) per pianoforte a 4 mani e orchestra. Ad interpretarlo i dedicatari fratelli olandesi Lucas e Arthur Jussen, da quest’anno Artisti in Residenza qui a laVerdi.
Il Concerto, commissionato dai Münchener Philharmoniker, dalla Sinfonietta Amsterdam, dal Mozarteum e dalla BSO, che i due fratelli eseguirono in prima assoluta a Monaco di Baviera venerdi 14 gennaio dello scorso anno (52° compleanno del compositore) prevede un organico orchestrale assai ridotto (solo quattro fiati…) dove prevalgono le percussioni, ed è strutturato nei classici tre movimenti:

1. Adagio misterioso – Andante tranquillo – Allegro drammatico:

Le note acute del pianoforte si stagliano sullo sfondo degli archi, poi il pianoforte attacca una cullante melodia, sempre caratterizzata da sonorità liquide, che progressivamente acquista spessore e – appunto – drammaticità. Il ritmo si fa incalzante, sincopato, si odono pesanti interventi delle percussioni. Ancora folate del pianoforte contrappuntate da larghe risposte dell’orchestra, poi ecco l’improvviso silenzio e il rallentamento che porta alla secca chiusura con un unico colpo di timpano.           

2. Scherzo: Allegro assai:

Le quattro mani dei pianisti attaccano un sincopato dal sapore jazzistico, nel quale si inserisce un impertinente  intervento dell’ottavino; si fa viva l’orchestra con interventi degli archi e dei flauti; poi l’atmosfera si fa progressivamente più sfumata, fino a sfociare, come accaduto al movimento iniziale, in una brusca chiusura.

3. Introduzione - Allegro assai – Adagio – Allegro ma non troppo:   

Ancora un’atmosfera jazzistica, con spettrali rintocchi del pianoforte e interventi più distesi e ritmati dei fiati. Una serie di singole note ascendenti crea un momento di pausa di riflessione, dove gli archi preparano il terreno per la sezione conclusiva del concerto. Aperta dal pianoforte che progressivamente anima il tempo e aizza le risposte dell’orchestra. Nuovo diradarsi del suono e quindi la ripresa con il pianoforte che trascina l’orchestra in una repentina e inopinata chiusura.

Ecco, un brano di indubbio fascino, che il pubblico ha lungamente applaudito con i due vulcanici interpreti, che ci lasciano non con uno, ma con due encore.
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Seconda parte con uno dei pezzi forti dell’Orchestra, che lo conosce come le proprie tasche, la Sinfonia dal Nuovo Mondo. E magari potrebbe anche suonarlo innestando il… pilota automatico. Ma in realtà il pilota ieri c’era e come: Milletarì ha confermato tutto ciò che di buono si dice di lui, con una direzione che ha messo in luce tutte le perle di questa partitura (un vero gioiello il Largo, con il corno inglese della bravissima Paola Scotti).

Gran trionfo per lui e per tutti, con chiamate ripetute e meritati applausi alle prime parti e alle sezioni dell’orchestra. Fuori, ancora camionette e blocchi stradali delle Forze dell'Ordine… così va il mondo. 

16 marzo, 2023

L’immaginifico E.T.A. alla Scala

Les Contes d’Hoffmann è tornata dopo 11 anni al Piermarini (l’ultima volta con la regìa di Carsen) in una nuova produzione affidata a Davide Livermore e concertata da Frédéric Chaslin (coppia già presentatasi su questi schermi tavolati meno di due anni orsono con un’appena passabile Gioconda). Ieri sera la prima delle sei rappresentazioni, in un teatro non proprio affollatissimo.

La principale curiosità di ogni nuova messinscena dei Contes è sempre la stessa, ormai da parecchi decenni: cosa ci viene propinato delle infinite versioni ricostruzioni della partitura, lasciata incompiuta dal povero Offenbach, venuto a mancare proprio sul più bello?

L’Archivio del Teatro ci informa che le ultime quattro produzioni scaligere (1961, 1995, 2004 e 2012) avevano impiegato la famigerata e adulterata versione Choudens, approntata da quell’Ernest Guiraud che già aveva bistrattato assai la povera Carmen. Con alcune aggiunte e varianti (diverse per il 2012, come si deduce dal confronto dei libretti pubblicati) prese dalla versione Alkor-Bärenreiter curata da quell’altro stupratore seriale di partiture che rispondeva al nome di Fritz Oeser. Qui però c’è qualcosa che non torna nell'archivio: poiché la prima versione dell’edizione Alkor-Bärenreiter-Oeser fu pubblicata nel 1976, poi nel 1980, quindi non poteva essere impiegata nel 1961!

Il libretto (disponibile online) per questa produzione avverte trattarsi integralmente dell’edizione Bärenreiter-Oeser. Quindi, un passo avanti? Mah, mica tanto, poiché vengono ancora ignorate le più recenti edizioni di Schott, curate dalla coppia Michael Kaye – Jean-Christophe Keck, che se non altro si avvalgono di nuovi ritrovamenti di materiale avvenuti negli ultimi anni. Il valore di queste edizioni non risiede nell’impresa impossibile di indicare una soluzione univoca, ma nel mettere a disposizione dei responsabili della messinscena – con l’ausilio di veri e propri flow-chart - le possibili scelte da eseguire secondo criteri se non oggettivi almeno plausibili perché basati su evidenze documentali: onde evitare che direttori e registi in cerca di facile notorietà assemblino il prodotto finito in modo del tutto arbitrario e incoerente, se non addirittura scriteriato, come troppo spesso accade di vedere.

Chaslin, qualche mese addietro, aveva dichiarato di presentare in Scala la versione Choudens integrata con parti della versione Oeser (come era nelle produzioni del ‘94, ‘05 e '12) cosa che pare smentita dalla dicitura presente sulla prima pagina del libretto pubblicato dal Teatro, che cita esclusivamente Oeser. Ma poi, nella stessa intervista e in un’altra rilasciata di recente, dichiarava di aver fatto – come sempre del resto - una scelta, diciamo così, ancor più tradizionalista: riferirsi all’edizione Choudens con le sole aggiunte di Guiraud e Gunsbourg, ignorando quindi Oeser. Insomma, lui stesso non ce la racconta mai giusta…

Per di più, in entrambe le interviste, si abbandona a pesanti accuse rivolte alle più recenti sedicenti edizioni critiche. Lui non fa nomi, ma dal contesto si dovrebbe dedurre che ce l’abbia con quelle curate da Kaye-Keck, dei quali viene persino messa in dubbio la buona fede!

Dopodichè scopriamo però che il direttore francese sta per predisporre a sua volta - e la pubblicherà fra qualche tempo – indovinate un po’ che cosa? La sua edizione critica dei Contes!  Che, a suo dire, porrà la parola fine a un secolo di diatribe! Ahi ahi ahi, qui gatta ci cova… siamo alle solite (e miserelle) guerricciole fra primedonne.

Quindi? Mah, non resta che accettare supini (e se no?) ciò che passa oggi il convento scaligero e affidarsi a fonti webbiche (tipo questa) per avere un’idea di cosa di diverso avremmo potuto godere. Coscienti ovviamente che nessuna delle ricostruzioni circolanti (ed anche di prossima immissione sul mercato, caro Chaslin) potrà mai essere definita come autentica, salvo che Offenbach non si presenti in qualche seduta spiritica per farcelo sapere. Ammesso poi che lui stesso, in questi 140 anni trascorsi nell’aldilà, si sia fatto idee chiare in proposito!
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L’opera è programmaticamente a sfondo fantastico (quindi anche onirico, ovviamente) e come tale si presta per sua natura ad interpretazioni fantastiche e pure… fantasiose, senza che ciò debba sollevare scandali o accuse di dissacrazioni o adulterazioni. [Le vere adulterazioni sono quelle perpetrate fin dall’origine sulla partitura, purtroppo non punibili in assenza di denuncia della parte lesa…]

Livermore quindi va sul sicuro e ne cava uno spettacolo più appariscente che affascinante, direi, ma pur sempre plausibile e godibile.

Trovate non proprio rivoluzionarie, come l’ambientazione moderna (smartphone e selfie a volontà) che ci sta tutta, dato il soggetto; o come lo sdoppiamento del protagonista, evidentemente volto a mostrarci l’Hoffmann della vita normale, piuttosto incolore (dentro una specie di baule-sarcofago, poi… gondola; oppure alle prese con una bistrattata macchina da scrivere) dall’Hoffmann sognatore di imprese dongiovannesche (Niklausse: Notte e giorno…) Oppure il nano da circo, con livrea e cilindro, che fa da guardaspalla armata al cattivone di turno. O le numerose comparse che forse rappresentano le visioni e gli incubi del protagonista. Livermore riunisce ovviamente i quattro tenori comprimari (Andrès, Cochenille, Frantz e Pitichinacchio) in un unico personaggio… en travesti: una servettona armata del classico piumino spazzapolvere.

Scenografia piuttosto spartana, arricchita però da effetti di teatro d’ombre mobili (silhouette) per sottolineare i caratteri onirici di alcune scene. Olympia è una ragazza in carne ed ossa rivestita di plastica e bachelite delle quali si libera per mostrare a noi il trucco di Spalanzani e la creduloneria (indotta dagli occhiali magici) di Hoffmann. A casa di Antonia ci sono un pianoforte e seggiole da teatro accatastate agli angoli (perché nessun violino? Lo prevede la didascalia, ma soprattutto In orchestra sale un assolo dello strumento). La madre di Antonia esce dal quadro e si aggira per casa. A Venezia c’è il coinvolgimento del pubblico: la platea viene infatti ricoperta d’acqua da un enorme velo che accompagna le note della barcarolle. Giulietta e Nicklausse, invece che in gondola, ondeggiano su un’altalena (fermandola a tempo con i piedi per mantenerne l’oscillazione in sincronia con i 6/8 della musica!) Poi torna il baule-sarcofago dal quale emerge il gondoliere… Hoffmann secolare. La chiusura dell’atto (visto che nessuno ha ancora capito quale dovrebbe essere secondo Offenbach…) viene presentata con un’autentica sparatoria, dove non è chiaro chi muore e chi sopravvive. Poi nel finale, al ritorno in taverna, il baulone torna sarcofago, ad ospitare lo stesso Hoffmann cui Stella porta il mazzo di fiori che Lindorf aveva sequestrato ad Andrès nel Prologo.

La  morale della favola è da Livermore risolta facendo riconsegnare all’Hoffmann secolare le parti di copione che erano state affidate ai vari protagonisti e comparse; copione che viene quindi restituito all’Hoffmann sognatore, che lo getterà al vento al calar del sipario.

Ecco: uno spettacolo di buon livello professionale che si lascia godere, grazie al collaudato team di Livermore: Giò Forma, Gianluca Falaschi, Antonio Castro e Compagnia Controluce. Per tutti loro applausi convinti e meritati all’uscita finale.
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Vengo ora ai suoni, dove le cose sono andate così e… cosà. Parto dal basso, cioè dalla buca: Chaslin (che già non mi aveva entusiasmato con la Gioconda) non mi ha particolarmente impressionato (a fronte della sua auto-decantata conoscenza del soggetto). Parliamoci chiaro: nei Contes di strumentazione originale di Offenbach non c’è praticamente nulla, è tutta farina (o fuffa) del sacco di Guiraud-et-altri. Ergo sarebbe dovere, non solo diritto, del Kapellmeister di turno di metterci un po’ del suo, ammesso che ne abbia. Invece, Chaslin ci propina un’interpretazione piatta (o stucchevolmente bandistica, a tratti); di quelle che normalmente si definiscono da routinier (per noi prosaici: battisolfa). L’Orchestra suona come sa, ma non può inventare molto di sua iniziativa (altrimenti a che serve il concertatore?) Il Coro di Malazzi è sempre sui suoi standard, e anche ieri ha avuto gli applausi che si merita.

Grande Vittorio Grigolo, osannato a scena aperta e alla fine: una prestazione eccellente, tenuto conto della parte invero massacrante riservata al protagonista. Che invece lui ha portato a termine senza nemmeno apparente sforzo. Scenicamente poi, perfetto, ecco.

Nei quattro cattivoni, Luca Pisaroni non ha per nulla fatto rimpiangere il forfettario Abdrazakov: voce potente ma mai sguaiata e gran portamento scenico. Anche per lui meritati consensi.

Le quattro deuteragoniste femminili (mi) hanno tutte abbastanza bene impressionato, a partire da Eleonora Buratto che, avendo cantato nonostante un’indisposizione, è però riuscita a cavarsela alla grande, con solo piccoli… accorgimenti onde evitare sorprese dalla gola. La bambola di Spalanzani è Federica Guida, che ha potuto esprimersi al meglio dopo essersi liberata della… bachelite, e ha comunque superato bene gli impervi ostacoli dei sovracuti e picchiettati che abbondano nella sua parte. Francesca Di Sauro è stata una convincente Giulietta, anche se la voce di mezzosoprano non è proprio da soprano drammatico, come vorrebbe la tradizione. La migliore di tutte (selon moi) è stata Marina Viotti, una Musa-Nicklausse quasi perfetta, vocalmente e scenicamente.

Discorso a parte per Stella (l’accademica Greta Doveri): in questa edizione dell’opera lei non dovrebbe proprio cantare, ma qui le si è dato il contentino di aggiungere la sua voce al coro finale: e va bene così…

Tutti gli altri comprimari su livelli più che dignitosi. Doveroso però citare il quadriforme François Piolino, applaudito protagonista dell’aria (Jour et nuit) nell’atto di Antonia.
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Tirando le somme: una produzione con luci e ombre che il non oceanico pubblico ha accolto abbastanza benevolmente, ma senza eccessivi entusiasmi (Grigolo escluso). Insomma: forse la Scala qui poteva fare qualcosa di più e meglio.

11 marzo, 2023

laVerdi 22-23. 19

Un altro Direttore sempre più lanciato avrebbe dovuto far ritorno sul podio dell’Auditorium: si tratta di Robert Trevino, che però ha dovuto dare forfait quasi all’ultimo, per motivi di salute. Così al suo posto abbiamo potuto conoscere da vicino il Petrenko… minore, Vasily (che non è parente del più celebrato Kirill).

In programma un Requiem (relativamente) moderno: quello che Benjamin Britten compose in memoria delle vittime della WWII.

Un’opera che è un’accusa al concetto stesso di guerra (Britten non per nulla era obiettore) integrando i poemi secolari di Wilfred Owen, intellettuale-soldato britannico della WWI, con i religiosi testi biblici.

Un’opera quanto mai di attualità in questi giorni, con una guerra che imperversa alle porte di casa nostra facendo massacri e disastri, e della quale non si vede la fine, nemmeno all’orizzonte più lontano. Un verso di Owen al proposito (Britten lo ha fatto seguire al Recordare…) è drammaticamente illuminante sulla schizofrenia umana, laddove il poeta chiede al suo cannone di colpire il nemico senza pietà, ma gli augura di essere subito dopo distrutto dall’Onnipotente! [Anche oggi si sostiene che ogni guerra giusta è sempre l’ultima!]   

La precedente esecuzione de laVerdi risale al settembre 2011, alla Scala, e in quella occasione scrissi qualche nota esegetica sull’opera, che ho poi rielaborato e pubblicato qui.
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Orchestra spezzata in due, come volle Britten: sulla destra del Direttore e di chi guarda c’è l’ensemble da camera; il resto del palco è occupato dall’orchestra grande e dal coro adulto (diretto da Massimo Fiocchi Malaspina) davanti al quale è dislocata Heather Engebretson, il soprano che canta quasi esclusivamente con il coro (o sola). I ragazzi, con la loro maestra Maria Teresa Tramontin, e l’organo (di Eugenio Fagiani) che li accompagna, sono invece dislocati remotamente, in galleria. Al proscenio i due soldati protagonisti della parte secolare del Requiem: il tenore Gwilym Bowen e il baritono Robert Bork.

Auditorium non proprio esaurito, ma popolato da un pubblico che alla fine ha lungamente applaudito tutti i protagonisti, chiamati a tornare alla ribalta per 4-5 volte e accolti con battimani ritmati e ovazioni.

Successo assolutamente meritato, nel quale vanno accumunati tutti quanti. Volendo proprio fare i fiscali, per quanto mi riguarda darei il massimo voto a Petrenko, una direzione, la sua, davvero autorevole: gesto preciso, secco, attacchi come rasoiate, massima attenzione alle dinamiche e all’equilibrio fra strumenti e voci; poi a Heather Engebretson, voce penetrante e ben intonata. Poi il tenorino Bowen, cui forse manca solo qualche decibel; e infine il baritono troppo… basso Bork, voce potente ma non proprio gradevolissima.

Va da sé che la base di questa ottima torta è costituita dall’Orchestra e dai Cori, invero impeccabili, per non dire perfetti nel decifrare e svelarci questa partitura che definire ostica e difficile è ancora poco.

05 marzo, 2023

Vita scaligera da Bohème

Ieri la prima dell’antica Bohème scaligera, figlia del secolare Franco Zeffirelli, il cui allestimento compie proprio in questi giorni i 60 anni di ininterrotta presenza (23 stagioni!) al Piermarini: un vero record, a proposito di musei! Oggi è resuscitata da Marco Gandin e affidata ad una bacchetta coreana, di una ragazzina che sta di casa a San Francisco, quella di Eun Sun Kim.

Giusto quindi festeggiare queste ricorrenze irripetibili, ma…

Per rinfrescarmi la memoria avevo guardato in rete una recita fra quelle rimaste storiche, questa del 1979.

Ora, non voglio certo fare il passatista e proporre confronti improponibili (anche perchè sarebbero inevitabilmente impietosi!) fra i cast di 45 anni fa e quello di oggi.

Faccio invece qualche commento sul pubblico. Siamo proprio in un’altra epoca storica: allora si andava alla Scala come (e più che) a SanSiro. Come cartina di tornasole si osservi e si ascolti (nel video citato) ciò che accadeva in ciascuna delle prime tre chiusure di sipario: chiamate ripetute e un’autentica bolgia, urla selvagge e belluine, pubblico in delirio, insomma una partecipazione emotiva generale e al calor rosso.

Ieri sera, negli stessi momenti? Una sola uscita, quattro applausetti di circostanza e ciao. Pochi bravo! e qualche urletto soltanto alle uscite finali.

Quindi: siamo cambiati noi (in peggio o in meglio?) o si poteva fare qualcosa (o molto) di più per celebrare degnamente le due irripetibili ricorrenze?

04 marzo, 2023

laVerdi 22-23. 18

Altro gradito ritorno in Auditorium per il 18° Concerto della stagione principale dell’Orchestra Sinfonica di Milano: è quello di Alondra de la Parra, Direttrice principale Ospite, che ci presenta musiche di Martinsson e Stravinski.   

Del 67enne svedese Rolf Martinsson (al suo terzo appuntamento come Autore qui in Auditorium) viene eseguito (in prima italiana) Soundscape, Concerto per corno e orchestra, sottotitolato A Walk in Colours (una passeggiata a colori): un lavoro assai recente, co-commissionato anche da laVerdi e presentato in prima assoluta il 20 marzo del 2022 a Saarbrücken con lo stesso solista-dedicatario dell’opera.

Che è Felix Klieser (già passato qui in Auditorium più di tre anni fa) famoso per essere uno che suona con i piedi… ma proprio divinamente!

Martinsson fa parte di quella corrente di pensiero musicale che, pur apprezzando l’opera di Schönberg (cui ha dedicato più di un lavoro) non ne ha pedissequamente seguito le orme… seriali, mantenendo prudentemente la sua produzione nell’ambito del diatonismo, per quanto modernizzato, ecco.

Il programma di sala reca una succinta descrizione del brano predisposta dallo stesso Autore, che qui mi permetto di integrare con qualche annotazione derivata dal primo ascolto (e in totale ignoranza della partitura…)

Il Concerto è strutturato in cinque sezioni, all’interno di un unico movimento: inizia in modo drammatico, con un’introduzione tempestosa dell’orchestra e con il solista che espone uno stentoreo motivo basato su note che richiamano il nome dell’interprete (F-E-E-Ess-E, svedese per FA-MI-MI-MIb-MI); segue una sezione lenta, caratterizzata da una specie di recitativo del solista, con intervento del corno inglese; le frasi del corno si dipanano su ampi intervalli e con moto ascendente; il dialogo con l’orchestra si fa sempre più serrato, fino ad un climax con secchi interventi dei timpani e una chiusura in diminuendo su trilli del violino; ecco poi la parte centrale, tranquillo, che ha ispirato il sottotitolo dell’opera (panorama sonoro): il corno espone frasi musicali più calme, per gradi congiunti, si odono tocchi di xilofono e sommesse risposte orchestrali; segue una lunga aria che alterna la voce solitaria del corno a risposte anche brusche dell’orchestra e in particolare del clarinetto; dopo un ultimo crescendo, ecco il corno preparare il ritorno ciclico all’iniziale atmosfera drammatica, dove solista ed orchestra si scontrano in un fitto dialogo: il corno si lancia in un passaggio spiritato, poi ecco la stretta finale, grandiosa davvero, ma che poi si perde, calmandosi progressivamente: dopo l’ultimo intervento del solista, sono gli archi a sfumare il suono fino ad esaurirsi del tutto.

Che dire, al primo ascolto? Sono 25 minuti di musica coinvolgente, dove la tensione non cala mai e l’attenzione dell’ascoltatore è catturata ininterrottamente.

Il sempre sorridente Felix, oltre alla tecnica sopraffina, mostra anche di non temere le prove più faticose: tutto il Concerto è praticamente una serie di interventi in assolo del corno, che lui sciorina quasi in souplesse. Poi ringrazia per le ripetute chiamate, i consensi e gli applausi che il pubblico gli tributa, offrendoci proprio lo stesso bis suonato qui nell’ottobre del 2019, la trascrizione per corno solo del rossiniano Rendez-vous de Chasse.
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Il clou della serata è uno dei brani musicali più famosi e controversi dell’intera musica occidentale, Le Sacre du Printemps di Igor Stravinski.  

Molti di noi (non propriamente teen-agers) hanno avuto la fortuna di incontrare questa apparentemente barbara accozzaglia di note al cinema, grazie al grande Walt che ce lo propinò – in modo non proprio rigoroso, more-Stokovski, e insieme a musica più civilizzata - in un cartone animato

A proposito di civiltà e cultura, uno dei modi per avvicinare i giovani, anzi i bambini dell’asilo (altrimenti sarebbe già troppo tardi) alla cosiddetta musica seria sarebbe di usare gli strumenti multimediali – oggi davvero stratosferici, rispetto a quelli dei tempi di Fantasia – per coinvolgerli emotivamente, ma anche razionalmente, nell’apprezzamento per l’arte musicale. Tutto sta ad inventare un modello di business sostenibile: possibile che tutte le teste d’uovo del marketing non ci arrivino?

Mi permetto di consigliare vivamente a tutti di ascoltare (almeno i primi 76’ di) questa fulminante dissertazione tenuta nel 1973 ad Harvard dal sommo Lenny Bernstein, che fa comprendere anche ad un neofita i segreti di questa musica. Lo stesso Bernstein qui ci guida alla scoperta dell'opera. E qui ce la fa ascoltare in tutta la sua gloria. Poi la insegna al pianoforte ad un giovine di belle speranze… Il quale, anni e anni dopo, a sua volta ce la racconta e dirige.

Da parte mia ripropongo un bigino derivato da un mio commento ad un’esecuzione di qualche anno fa qui in Auditorium.

Prestazione – è il minimo che si possa dire – stre-pi-to-sa dell’Orchestra, dal primo violino al… guiro. Merito ovviamente anche dell’eclettica Direttora, che ormai da anni mostra di saper padroneggiare questo mostro con autorità e sicurezza. Pubblico letteralmente in delirio!