Il Direttore Musicale è stato protagonista di una 3-giorni dedicata a
quello sterminato lavoro mahleriano che va sotto il nome di Terza Sinfonia.
Ieri sera un Piermarini non proprio stracolmo ma alla fine osannante ha ospitato l’ultima
delle tre esecuzioni.
Questo lavoro è ancor oggi oggetto di diatribe tra chi, continuando a riferirsi al programma extramusicale
che - ahilui - lo stesso compositore aveva originariamente esplicitato (in non
meno di 8 versioni diverse e persino contraddittorie!) ne disconosce la qualità
estetica, liquidandolo come velleitario e vuoto prodotto di Kapellmeister-Musik
(musica-da-direttore-d’orchestra); e chi invece gli riconosce alto valore estetico in quanto... etico. Personalmente propendo per una
via di mezzo: che si tratti di un gran bel minestrone, che ti appaga la vista,
ti riempie lo stomaco e, quindi, ti concilia con la vita e ti permette di
vedere il mondo con un certo ottimismo, dimenticando per qualche ora tutto
quanto di negativo e fastidioso circonda l’umana esistenza.
Che sia un minestrone (in
senso buono, per carità) lo attesta la nutrita serie di ingredienti (dei quali
una lista certo incompleta si può leggere in questo mio commento ad una ormai
lontana esecuzione de laVerdi) che Mahler
raccoglie in giro per il mondo (musicale) per cucinarlo. E pensare che in
origine ci doveva essere pure... l’ammazza-caffè
(un settimo movimento, tematicamente legato al quinto) poi risparmiatoci per
diventare l’epilogo della sinfonia successiva (siamo al concetto di...
meccano).
E al proposito mi permetto,
ma sì, una provocazione: é vero o no che oggi nessuno si scandalizza se un regista o
un direttore propongono un Boris
costruito (a proposito di meccani!) a partire dai due ben distinti Boris originali? E che nessuno obietta
più di tanto se nel DonCarlo si
ripristina l’espunto (per trovar posto nel Requiem)
Lacrymosa? E qualcuno ha forse gridato allo
scandalo quando si è presentato un Macbeth
del ’47 con il coro Patria oppressa
del ’65? E così via rimescolando... Ora, perchè un Direttore che si voglia
distinguere non prova a proporre questa Terza con aggiunto il finale originariamente immaginato dal compositore? E ancora, cosa che sarebbe davvero epocale, che si
aspetta a presentare in prima assoluta mondiale un’opera inedita di Mahler, dal
titolo 4. Symphonie / Eine Humoreske? Fine della
provocazione.
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Ricapitolando, possiamo
ascoltare la terza del boemo secondo le di lui originarie (e infine ritrattate)
indicazioni programmatiche, con le quali vorrebbe spiegarci nientemeno cosa gli raccontano le diverse
manifestazioni del creato. Un interminabile poema sinfonico che parte dalle montagne
del Salzkammergut per arrivare fino a… Dio! Transitando - magari in un giorno di festa,
tipo 1°maggio - per il Prater di Vienna, con le sue bande peripatetiche al seguito di variopinti cortei;
camminando (a piedi nudi sull'erba…) attraverso prati e boschi (di Boemia?); ascoltando particolari storielle del bosco (viennese?) con tanto di passaggio di consegne (Ablösung im Sommer) dal defunto cuculo
all'usignolo, cerimonia disturbata dalla languida melopea della trombetta di
uno svogliato postiglione; meditando poi su notturni complessi freudiani
(pardon, nietzschiani); ascoltando angeli che cantano con accompagnamento
infantile, onomatopeicamente bombarolo; fino ad arrivare al creatore. Il rischio qui è di restare
delusi, proprio come capita al sommo Quirino
Principe:
Oppure
ascoltarla come fosse soltanto nulla più e nulla meno che... musica! Che in fondo è proprio l’approccio
che lo stesso Mahler, ordinandoci alla fin fine di ignorare tutti i programmi
da lui stesso proposti, ci invita a praticare: abbandonarsi al rapsodo.
E in
effetti non si può negare che questa sia musica che ha una sua inequivocabile narrativa: dapprima ci porta nel bel
mezzo del weltlich Getümmel - proprio ciò che
nel Lied originariamente pensato a chiudere la Sinfonia viene dichiarato come
bandito lassù, dove si vive la vita
celestiale - il gran casino e fracasso (materiale e morale) del nostro
mondo, carico di ipocrisia, retorica, qualunquismo, volgarità, sguaiatezze e banalità:
come trovare un solo tema nobile nell’iniziale
Kräftig? Un movimento in forma-sonata di dimensioni inaudite, estenuante
e a un certo punto persino insopportabile (la ripresa che arriva dopo 25 minuti, quando una normale sinfonia è
ben oltre la metà del suo cammino!) che è specchio fedele delle mostruosità
sesquipedali che già la civiltà di fine ‘800 aveva creato, in tutti i campi.
Poi abbiamo due movimenti (un Menuetto più uno Scherzo, il che già la dice lunga sull’ipertrofia della narrazione
musicale di Mahler) che ci portano fuori città, quasi a passare un distensivo
week-end, lontani dal logorio della vita
moderna. Della quale per la verità qualche lontana eco ci raggiunge anche
lì, con squilli di cornette, marcette meno sguaiate, ma non certo sublimi, e
rumorosi scoppi che ci risvegliano di soprassalto. Quindi (nel Misterioso, con l’aiuto determinante di
una parola autorevole abbinata a musica da balera vestita di seriosità) Mahler
comincia a far filosofia, per indurci a meditare sui concetti di terreno e di eterno. E ancora (nel Lustig,
sempre esplicitamente) per indicarci ingenuamente la salvezza dai nostri
peccati.
Infine, nel colossale Langsam (grazie a Beethoven, Wagner e
Verdi, tre che di buona musica ne
sapevano qualcosa...) ecco che Mahler ci porta faticosamente, proprio in modo
estenuante, quasi fosse una musicale via-crucis
(o il parsifaliano percorso verso il Gral) dentro una specie di luminoso nirvana. Interessante al proposito
notare la differenza fra la conclusione della Terza e quella della Seconda:
quest’ultima chiude in MIb maggiore (tonalità quanto mai liturgica!) con una secca croma
di tutta l’orchestra, compresi i due timpani che devono martellarla in fff, un perentorio schianto che evoca
tutto tranne che... l’eternità. Nella Terza invece il poderoso accordo
dell’intera orchestra di RE maggiore (tonalità trionfale ma anche pastorale) si
prolunga nell’ultima battuta su una semibreve
con corona puntata (teoricamente in
eterno, quindi, e per sicurezza Mahler aggiunge un esplicito Lange) mentre i due timpani, dopo una
serie di precedenti proterve martellate, suonano solo per una minima, poi tacciono, a conferma che...
non c’è una porta che ci vien sbattuta in faccia.
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Chailly?
Beh, lui di Mahler ne mastica fin da bambino, poi ha potuto seguire quello che Abbado
portava di peso alla Scala, quindi sperimentarlo dal vivo con un’orchestrina
giovane come laVerdi, ancora
studiarlo e dirigerlo nella seconda patria musicale del boemo, lassù
in mezzo ai tulipani; infine perfezionarlo a casa di
Mendelssohn, non so se mi spiego. Insomma: un pedigree di tutto rispetto, per
non dire quasi unico al mondo.
Per
ieri mi permetto di dargli due voti separati: un bel 9 per le dinamiche, davvero
quasi perfette: enfasi e fracassi quando e solo se necessari, ma soprattutto arte
di cesello nelle molte sezioni dove l’espressività deve farla da padrone
(passaggi dove archi e strumentini nulla avevano da invidiare allo Strauss del
Rosenkavalier, per dire...); non più di 7 invece - ma qui è davvero questione
di gusti - per l’agogica: la partitura Universal
indica come durata complessiva circa 90 minuti; Chailly (qui al Concertgebouw) già va
lungo di quasi 10 minuti; ma ieri finisce (al netto della pausa dopo il Kräftig) per avvicinare i 110! Insomma, più di un quarto d’ora mi pare un
ritardo eccessivo, ecco: vuoi vedere che a Chailly l’avanzare degli anni faccia
l’effetto che fece già a Celibidache,
o a Knappertsbusch, o a Klemperer? In ogni caso, la sua lettura
è stata assolutamente coerente, distribuendo l’extra-time in modo quasi
equanime nei 6 movimenti.
L’immane
Orchestra, disposta insolitamente con violini secondi al proscenio rimpiazzati
al loro posto dalle viole, sempre concentratissima. Alcune galeotte quanto
indesiderate acciaccature dei corni, un paio di note rimaste nella coulisse del
trombone (peraltro superbo) non inficiano certo una prestazione sontuosa (anzi
a volte piccole imperfezioni ti confermano che a suonare sono esseri umani con
un’anima e non freddi robot). I cori (signore e... signorini/e) di Casoni hanno ben meritato nella loro
filastrocca a sfondo mistico. Gerhild Romberger ha prestato la sua voce ben tornita a
tale Nietzsche e poi ha dialogato da
par suo con i cori.