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consulta e zecche rosse

29 dicembre, 2017

laVerdi 17-18 – Concerto n°10


Da oggi e fino al prossimo lunedi sera laVerdi offre ben quattro esecuzioni della Nona beethoveniana, tradizionale appuntamento di Capodanno in Auditorium. Quest’anno, dopo averci regalato la sua appassionata lettura dell’altro chiodo fisso delle stagioni dell’Orchestra (il Requiem verdiano) è ancora Elio Boncompagni a salire sul podio per quello che sarà il suo ultimo appuntamento della stagione che si concluderà a giugno ’18.

Questa sera la sala di Largo Mahler è stata letteralmente presa d’assalto (e tutto lascia prevedere che lo sarà nelle tre successive repliche) da un pubblico che ha seguito l’esecuzione di orchestra, coro e solisti in quasi (tossi e raffreddori permettendo) religiosissimo silenzio, per esplodere poi, sulla conclusiva scalata di RE maggiore, in un autentico boato di liberazione, come nessun altro evento musicale sa forse suscitare in corpi e anime. Orchestra stranamente orfana di entrambe le sue spalle, peraltro ben guidata da Danilo Giust: signore in rosso e papillon pure rosso per i maschietti.    
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L’approccio di Boncompagni è stato assolutamente conservativo, sia nella scelta dei tempi (abbastanza... toscaniniani, ecco) che in quella dei contenuti (niente da-capo nella ripresa dello Scherzo). Si è trattato, almeno per me, di un’esperienza più che positiva.

Mediamente all’altezza dei rispettivi compiti almeno tre dei quattro solisti: Cinzia Forte, Stefanie Irányi e Carlo Allemano. Il basso Simon Schnorr, purtroppo per lui, un po’ sotto la sufficienza, per l’eccessivo vociferare. Certo lui ha l’attenuante di essere arrivato all’ultimo momento a sostituire l’indisposto titolare Sebastian Holecek, oltre che quella naturale di dover aprire il canto con quel micidiale recitativo O Freunde! Sempre sui suoi standard il Coro di Erina Gambarini, che Beethoven chiama, insieme ai solisti, ad un impegno proibitivo, superato in assoluta brillantezza!

Alla fine il solito bis con la ripetizione della sezione finale dell’Inno schilleriano.
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Personalmente il momento che sempre mi emoziona di più all’ascolto della nona è quello che arriva quando violini secondi e viole fanno emergere suoni paradisiaci da questi apparenti scarabocchi:


E c’è n’è proprio bisogno, in tempi che ci riservano ogni giorno miserabili spettacoli di inciviltà e di incultura... che c’è poca speranza che anche il 2018 potrà ahinoi evitarci. E allora: un buon anno nuovo in musica, a chi la fa e a chi l'apprezza.

21 dicembre, 2017

laBarocca è tornata con GesùBambino


In vista del Natale, è tornato dopo qualche tempo l’appuntamento con laBarocca di Ruben Jais per il colossale Messiah di Händel. Così come fatto in passato, il Direttore ha presentato in-toto la Prima Parte (che tratta propriamente della Natività) accorpando poi in una sola le successive due Parti (Resurrezione e Secondo Avvento). In complesso due blocchi di circa 60 minuti, abbastanza equilibrati anche rispetto alla... concentrazione richiesta allo spettatore.

Cast interessante, con il soprano Deborah York, che tornava qui dopo 5 anni (allora in Bach); il contralto (o controtenore che dir si voglia) Filippo Mineccia; il tenore Cyril Auvity e il baritono Renato Dolcini. Tutti assai ben preparati e convincenti, così come il collaudato Ensemble vocale di Gianluca Capuano.

Prima parte tenuta da Jais con approccio assai sostenuto, seconda più... vivace. Immancabile bis dell’Hallelujah con auguri natalizi, che il foltissimo pubblico ha accolto con grande entusiasmo.


18 dicembre, 2017

Faust (con chiassata) a Roma


La terza recita della Damnation all’Opera di Roma è stata ieri teatro di una clamorosa contestazione, durante e alla fine del Quadro I. Di questo colorito episodio sono in grado di riferire qualche dettaglio sfuggito al pubblico, dato che casualmente mi trovavo proprio nello stesso palco di platea dove sedeva, ad un posto di parapetto, davanti a me, la solitaria contestatrice.

Trattasi di signora diversamente giovane, francese (di Marsiglia), melomane incallita e abituale frequentatrice del Costanzi, che prima dell’inizio aveva intrattenuto i compagni di palco sciorinando una dongiovannesca lista di frequentazioni di teatri europei (ultimo, Valencia per un DonCarlo col Topone). Spazientita già alla vista del povero Faust michielettiano, affetto da mille complessi, aveva cominciato a dimenarsi emettendo sordi mugugni; ma poi, di fronte alla scena dello smutandamento del protagonista da parte dei tre bulli compagni di classe, ha cominciato ad inveire con termini irripetibili (pur se in lingua gallica, ma erano dei vaffa... e peggio). Devo dire di essere personalmente e rispettosamente intervenuto, a gesti e parole, suggerendole di rimandare le contestazioni a più tardi, evitando di disturbare la recita in corso. Cosa che lei ha fatto, a dir il vero.

Peccato che due minuti dopo, chiusa la Rácóczy, Gatti abbia abbassato la bacchetta per permettere al pubblico di applaudire (meritatamente) l’orchestra (in effetti la marcia è un pezzo di grande effetto e fa quasi da ritardata ouverture all’opera). Apriti cielo! La nostra non vedeva l’ora di poter riprendere la sua rumorosa e lunga lista di improperi, suscitando qualche sporadico fischio di altri contestatori, subito subissato dagli applausi dei più. Qualcuno dalla platea le ha gridato di andarsene, cosa che lei ha fatto davvero, all’inizio del Quadro III... per rientrare poi nel palco solo alla fine della recita (?!)
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Ora, io non voglio certo giustificare le sue intemperanze, davvero maleducate, ma per una come lei che evidentemente conosce il testo di Berlioz a memoria, il biglietto da visita del regista dev’essere stato proprio insopportabile. Ciò mi dà modo di affrontare subito il tema regìa, sul quale mi ero già laconicamente espresso dopo visione televisiva, parlando sostanzialmente di eccesso nel voler strafare da parte di Michieletto.

Il peccato originale della sua impostazione, secondo me, non sta certo nell’aver contestualizzato il soggetto ai giorni nostri, ma di aver palesemente cambiato i connotati al Faust ante-Mephisto (per così dire). In effetti, tutto ciò che il regista ci mostra dopo l’entrata in campo del diavolaccio è perfettamente compatibile con il soggetto di Berlioz(Goethe) che si allontana manifestamente dalla realtà sensibile per inoltrarsi su un territorio di pura speculazione e di metafisica. Dove Faust è tornato giovane e come tale torna anche a provare sentimenti e desideri (e anche a commettere errori) tipici di un giovane, uscendo dallo stato di totale indifferenza per la vita (e di tentazione al suicidio) cui l’aveva portato – attenzione però – l’eccesso di attaccamento morboso alla cultura e non un passato di disgrazie familiari (il padre alcolizzato, la madre morta prematuramente) e di umiliazioni da bullismo patite a scuola, come si inventa il regista di sana pianta!

Per un attimo mi era venuto di pensare che l’idea di Michieletto - mostrarci anche all’inizio dell’opera un Faust adolescente e non maturo - fosse derivata dalla lettura delle Memorie che Berlioz stesso ci ha lasciato, pubblicate in due volumi, e in particolare da quanto si legge nel Capitolo 40, titolato Variété de spleen. L’isolement. Lì troviamo sorprendenti riferimenti ai primi due e al quarto Quadro della Damnation, ma addirittura la prefigurazione dei desideri di Faust! Dunque, Berlioz racconta di quando, ancora studente sedicenne a Côte-Saint-André (suo paese natale, al centro della pianura fra Lione e Grenoble) si trovò un mattino a leggere, sdraiato sull’erba all’ombra di una quercia, un romanzo (di un francese) ambientato a Posillipo. In quel momento arrivarono alle sue orecchie canti di una processione propiziatoria del raccolto, con versi quali Sancta Maria, ora pro nobis, Sancta Magdalena, ora pro nobis (che ritroviamo pari-pari nella cavalcata verso l’abisso del Quadro IV dell’opera). Ma soprattutto la vista delle Alpi maestose all’orizzonte gli provocò un irrefrenabile desiderio di andare di là, verso l’Italia, verso Napoli e Posillipo, dove la sua immaginazione, eccitata dalla lettura del romanzo, gli faceva balenare alla mente passioni, felicità, segreti, amori, la gran vita! (pare proprio Faust...) E invece lui si ritrovava lì, a rotolarsi a terra, stringendo ciuffi d’erba e... margheritine (!)

Ecco il senso di isolamento, che lo colse allora e che sarebbe tornato a coglierlo più volte in futuro. Qui Berlioz fa sfoggio anche di ardite nozioni chimiche, paragonando i moti del suo animo e del suo corpo ad un processo termodinamico: una ciotola d’acqua ed una di acido solforico messe sotto una campana di vetro da cui viene aspirata l’aria, creandovi il vuoto; l’acqua va in ebollizione e viene assorbita dall’acido; quella poca che resta, per reazione esotermica, diventa un blocco di ghiaccio. Una simile reazione viene provocata, dal senso di isolamento, nel corpo del compositore: nel suo petto si crea un vuoto che fa evaporare il cuore; il resto del corpo si surriscalda, mentre la vita sembra sfuggire verso i quattro punti cardinali. Tuttavia non c’è desiderio di morte, nè di suicidio, al contrario cresce un desiderio di vita e di felicità, da soddisfare con immensi, furiosi e divoranti godimenti. Solo dopo arriva lo spleen, che è il blocco di ghiaccio che rimane al termine della reazione chimica; l’effetto è di creare nel soggetto che lo subisce la più grande indifferenza verso l’intero universo (Quadri I e II...)

Ora, dal passo citato emerge chiaramente la personalità di un ragazzo dotato di una straordinaria carica positiva, che gli deriva da attività intellettuali (la lettura di libri, caratteristica del Faust di Goethe come di quello di Berlioz) e non la personalità nichilista di una povera vittima di eventi nefasti. Per Berlioz, e quindi per il suo Faust, lo spleen, che porta all’indifferenza per ogni cosa e all’idea del suicidio (poi scongiurato da un richiamo religioso) arriva dopo una fase di grandi slanci vitali e non a fronte di una serie interminabile di disgrazie e vessazioni come quelle che colpiscono il povero Faust di Michieletto.
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Le Mémoirs contengono poi (secondo volume) la Terza lettera a Humbert Ferrand, dove troviamo un riferimento dettagliatissimo alla Marcia ungherese che Berlioz impiega per chiudere il Quadro I. Essa viene composta in un battibaleno a Vienna, alla vigilia della tappa ungherese del viaggio del compositore nell’Impero austro-ungarico. Nella capitale magiara (Pest, ai tempi non ancora gemellata con Buda...) il compositore ha in programma un concerto, e non gli par vero di infilarci, come brano di chiusura (sempre in grande, il nostro!) la sua freschissima trascrizione del motivo musicale più popolare laggiù (come poteva essere in Francia la Marsigliese!)

Ebbene, smentendo tutte le preoccupazioni e i timori (per le accuse di lesa-maestà) della vigilia, la marcia ha un successo di portata storica, il pubblico va in delirio, la interrompe con manifestazioni di giubilo, la si deve ri-eseguire e alla fine Berlioz è letteralmente portato in trionfo, promosso sul campo eroe nazionale!

E non per nulla la Rácóczy, ricordo di una sua grandiosa impresa, viene infilata da Berlioz nel Quadro I, appositamente ri-ambientato in Ungheria!

Michieletto? Ce la propina come colonna sonora dello smutandamento del suo povero Faust da parte dei tre bulli suoi compagni di classe! Beh, diciamolo francamente: come non comprendere – pur senza giustificarle – le escandescenze della babbiona marsigliese...
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I quadri (il cui titolo appare sul grande schermo) che Michieletto sovrappone alle scene di Berlioz sono tutto sommato rispettosi (esclusa, come ripeto, la rievocazione del passato di Faust) del soggetto originale, pure interpretato in modo... originale!

Ad esempio la premonizione (Faust preparato ad un’operazione al cervello – cui non sopravviverà - su un lettino di ospedale durante la ninnananna di Méphistophélès e il coro di gnomi e silfidi) che vediamo nel Quadro II è una efficace trovata per chiarirci che Faust è ormai vittima del suo diavolo interiore, che alla fine lo perderà.     

Non mancano anche immagini poetiche, come quella dei due bambinetti che impersonano Faust e Marguerite nel Quadro III, in bilico sull’asse di equilibrio nel tentativo di congiungersi, e che vengono sul più bello scaraventati a terra dall’irruzione del bieco Méphistophélès; e poi, poco dopo, la mela che lo stesso Méphistophélès (= serpente di un Eden di cartapesta destinato a crollare miseramente) fa calare ad interporsi fra le bocche dei due amanti, vicinissimi a scambiarsi un estatico bacio.

Ma a proposito di baci, ecco invece uno dei non pochi momenti di caduta-di-stile del regista: il bacio vero, e proprio sulla bocca, che si scambiano Faust e Méphistophélès, puerile quanto becera, e credo controproducente, propaganda pro-matrimoni-gay. E poi la scena di un mezzo stupro consumato dallo sbifido diavolo sulla povera Marguerite (?!) o i nudi (peraltro ipocritamente castigati nel... bottom) infilati un po’ a caso.

Strampalate (anche se evidentemente sono conseguenza del suo... peccato originale) mi sembrano altre trovate del regista: la figura del padre alcolizzato di Faust, che compare in scena infilandosi nello stesso letto del figlio (talis pater...) e che poi scopriamo essere l’indossatore della pelle di topone (no, non Placido, haha!) che serve a supportare la filastrocca di Brander (peraltro efficacemente presentata, tipo-sanremo).

E poi il mistero della chiave, che compare fin dal secondo Quadro sulla bara della madre di Faust, poi è portata da Marguerite sull’asse di equilibrio dove salgono i piccoli alter-ego; quindi ancora protagonista – in centinaia di esemplari – quando il diavolo ne butta un’intera scatola ai piedi della povera ragazza, che invano cerca quella giusta per aprire la porta che la condurrebbe da Faust, per salvarlo. Chiave giusta che poi lei trova, ma in ritardo, e che poserà sulla bara di Faust alla fine. Ora, rileggendo parola per parola il testo di Berlioz, l’unico appiglio per una possibile spiegazione di questa criptica trovata è la frase che Méphistophélès pronuncia per indurre Faust a firmare il patto con lui (ultimo Quadro) in risposta al ragazzo che lo implora di salvare Marguerite: È ancora in mio potere aprirti questa porta! Ma sarà così? E quanti hanno una spiegazione più convincente?
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Il coro, anzi i cori: nella Damnation troviamo contadini, soldati, studenti, folletti, diavoli e angioletti. La loro gestione in scena sarebbe assai complicata (anche se ad un regista come Michieletto non dovrebbero mancare spunti per trovate sorprendenti...) e forse questa è la ragione per cui il regista ha deciso di presentare il coro in-forma-di-concerto (!)

Ecco, vengo alla musica. Gatti su tutti, mi sentirei di dire, per come ha saputo tirar fuori le bellezze e pure le... stranezze del sempre ostico Berlioz. L’orchestra mi pare abbia risposto bene: apprezzabili soprattutto i passi più delicati, in pianissimo, che sottolineano le scene oniriche dell’opera.

Quanto alle voci, rispetto all’ascolto radio-tv le cose sono andate un filino meno bene (ma è normale che il microfono-in-bocca di cui vengono dotati i cantanti per le riprese falsi irrimediabilmente la resa). Mantengo un giudizio largamente positivo solo su Alex Esposito, retrocedendo a sufficiente+ la Veronica Simeoni (con il limitato, nei tempi di canto, s’intende, Goran Jurić) e a sufficiente- Pavel Černoch.

Per tutti, comunque (team registico escluso, poichè non-pervenuto sul palco alla fine) grandi applausi e ovazioni, in un Costanzi piacevolmente affollato. Quindi, una trasferta (per quanto mi riguarda) tutto sommato proficua.

16 dicembre, 2017

laVerdi 17-18 – Concerto n°9


Sul podio de laVerdi torna il violista-direttore Maxim Rysanov, per dirigervi un concerto (quasi) tutto mozartiano.

L’eccezione è il pezzo che apre la serata, Fratres del compositore estone Arvo Pärt, brano di cui viene eseguita qui una delle innumerevoli versioni succedutesi negli anni (a partire dal 1977): quella per archi e percussioni.

Ad un ascolto passivo si rimane piacevolmente coinvolti dalla nobile spiritualità del brano, la cui agogica resta immutata per tutto il tempo (circa o poco più di 10') e dove la dinamica ha un picco poco dopo la metà del percorso. Sempre al primo ascolto si noteranno il continuo bordone di violoncelli e contrabbassi (una quinta vuota grave LA-MI) e i reiterati interventi delle percussioni (clave / tomtom o grancassa coperta) sempre sul primo, terzo e quarto tempo di due battute di 6/4 ad anticipare la melodia degli archi alti (e poi dei celli); cosa che si ripete precisamente per nove volte, semplicemente mutando le altezze dei suoni (la prima nota parte da MI e poi, nelle successive riprese, scende di terza minore o maggiore, quindi: MI-DO#-LA-FA-RE-SIb-SOL-MI-DO#).

Quanto alla melodia (escludendo quindi le due battute affidate alle sole percussioni) essa si snoda su 6 battute suddivise in due blocchi di 3: nel primo blocco viene esposto il tema, a sua volta creato per arricchimento successivo (4 note nella prima battuta in 7/4, 2 note in più nella seconda in 9/4 e altre 2 note in più nella terza in 11/4); il secondo blocco di 3 battute ripresenta il tema in forma cancrizzante, dove cioè in ogni battuta le note si succedono in sequenza retrograda rispetto all’originale:

Il tutto ci dà l’impressione di un imperturbabile fluire sonoro che trasmette oniriche sensazioni di pace.

E invece, guarda un po’, dietro tutto questo c’è nientemeno che una costruzione scientifica, un’invenzione di Pärt, basata su ciò che lui ha battezzato tintinnabuli. In parole povere, la melodia principale viene accompagnata, nota per nota, da una nota (tintinnabuli, appunto) di una triade caratteristica del brano (nel nostro caso: LA minore, LA-DO-MI). Le note tintinnabuli stanno in altezza sopra o sotto la nota della melodia e possono essere solo due note della triade: quella più vicina o la seconda più vicina a quella della melodia, evitando però consonanze e aspre dissonanze. Ecco qui un esempio preso dalla partitura (battuta 5):

In questo caso (e per l’intero brano) la melodia è suonata da due strumenti a distanza di una decima (MI-DO# sulla prima nota della battuta) e i tintinnabuli sono posti sempre ad altezza intermedia fra quelle delle due note di melodia, secondo la regola esposta. Quindi sulla prima nota (MI-DO#) ecco comparire un LA, che è la nota della triade di LA minore più vicina alle note di melodia DO# e MI (qui il LA è scartato perchè consonante e il DO è scartato per non creare dissonanze con il DO#). Sulla seconda nota (RE-SIb) abbiamo il MI, che permane anche sulla nota successiva (DO#-LA). Segue il DO (su SIb-SOL) e così via.

Proviamo a seguire l’esecuzione di questa versione 1983-1991, diretta da un compatriota dell’Autore, il più giovine rampollo della gloriosa famiglia Järvi:

0”  primo intervento percussioni
13”  prima esposizione tema (parte 1) dal MI
46”  prima esposizione tema (parte 2)
1’16”  secondo intervento percussioni + tema dal DO#
2’33”  terzo intervento percussioni + tema dal LA
3’49”  quarto intervento percussioni + tema dal FA
5’06”  quinto intervento percussioni + tema dal RE
6’19”  sesto intervento percussioni + tema dal SIb
7’35”  settimo intervento percussioni + tema dal SOL
8’53”  ottavo intervento percussioni + tema dal MI
10’21”  nono intervento percussioni + tema dal DO#
11’59”  intervento percussioni di chiusura

Insomma, Pärt ha inventato un metodo compositivo che tende a garantire sempre una stabilità (ed una gradevolezza) armonica; al contrario, per dire, del metodo seriale, che tale stabilità e gradevolezza esclude di fatto.

Per le nostre orecchie (beh no, parlo per me) molto meglio questo Pärt... E ieri sera Rysanov e l’Orchestra ci hanno offerto un’esecuzione invero coinvolgente, dosando perfettamente l’arco delle dinamiche, dal pianissimo iniziale, al limite dell’udibilità, al forte dell’apice sulla sesta ricorrenza, al nuovo pianissimo che chiude il brano.
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Poi, tutto Mozart, come detto. Si parte con la celeberrima Concertante K364 per violino e viola, in cui Rysanov (rientrato in... maniche di camicia) è affiancato dal violino dell’Artista residente Domenico Nordio. Una coppia strepitosa, che ci delizia con quel continuo botta-e-risposta che caratterizza i tre movimenti del brano. Un’Invenzione di Bach corona la loro prestazione, accolta trionfalmente. 
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Dopo la pausa, ancora Nordio nel Quinto Concerto per violino, il più noto ed eseguito dei 5 composti da Mozart, chiamato turco per quel passaggio - appunto, da turcheria – incastrato nel Menuetto finale. Ma anche il primo movimento contiene una... stranezza, con una sezione in Adagio calata inopinatamente nel bel mezzo dell’Allegro aperto.

Nordio ne dà una lettura esemplare, ben supportato da Rysanov e dall’Orchestra, meritandosi a sua volta ovazioni ripagate ancora con Bach.
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Si chiude in bellezza con la K543, la prima del trittico sinfonico con cui Mozart diede l’addio a questo mondo... Rysanov – sempre senza bacchetta – l’affronta col dovuto cipiglio, non risparmia nessun da-capo, nemmeno nel Finale, e i ragazzi (guidati ieri da Dellingshausen) rispondono da par loro. 

Insomma, una serata da incorniciare per chiudere il 2017. A cavallo di Capodanno tornerà l’immancabile Nona.     

14 dicembre, 2017

Chénier in corpore vili


Ieri sera terzo appuntamento per l’opera che ha inaugurato la stagione scaligera, in un Piermarini discretamente affollato.

Dedico l’apertura alla Direzione d’orchestra, che secondo me merita in pieno tutte le lodi che ha ricevuto già dalla sera di SantAmbrogio: Chailly evidentemente non scherzava quando esaltava le qualità di questa musica, che anche ieri lui ha saputo valorizzare al meglio. E l’Orchestra gli ha risposto in maniera adeguata, facendo risaltare la brillantezza della strumentazione di Giordano, senza mai peraltro recar danno all’udibilità delle voci. Non sarà certo un capolavoro assoluto, lo Chénier, ma se viene suonato come si deve il suo figurone lo fa, eccome! E a ciò contribuisce anche la mancanza di soluzione di continuità nel fluire musicale, che fu fortemente voluta dal compositore e che Chailly ha fatto rigidamente rispettare, riportando l’opera alla sua vera natura di dramma, che i tradizionali e pur meritati (dagli interpreti) applausi a scena aperta finiscono per svilire a mera vetrina di gorgheggi privi di sostanza.

Anna Netrebko ha sciorinato la sua voce nobile e ciò è bastato a fare di lei la protagonista della serata. Se la sua presenza scenica fosse pari alla qualità del canto, farebbe forse dimenticare anche Callas, Tebaldi, Stella e tutte le altre interpreti del ruolo di Maddalena (perlomeno da 60 anni a questa parte)!

Il maritino azero (uno dei pochi islamici che persino i leghisti non demonizzano) Youssef Eyvazov è ancora abbastanza acerbo per poter aspirare all’empireo; la sua voce mi vien di definirla secca (in opposizione a morbida...) e quindi per ora finisce (selon moi) alla ghigliottina in quel limbo dove son finiti prima di lui altri cantanti che la Scala ha provato ad inventare quasi dal nulla a SantAmbrogio in anni recenti: Storey e Rachvelishvili, tanto per non far nomi ma cognomi... Limbo da cui gli auguro di uscire in fretta, ma dipende solo da lui, i mezzi naturali non gli mancano di certo, solo vanno meglio disciplinati, il che richiede tanto... olio di gomito.  

Luca Salsi è un buon baritono, ma più in là di così - nelle lodi - non mi sentirei francamente di andare: solida presenza scenica, voce robusta ma (stesso rilievo fatto al tenore) non gestita al meglio, direi, con alcune vociferazioni e sguaiatezze che rischiano di trasferire il verismo in... osteria.

Chi invece è credibile sotto ogni punto di vista è un... Incredibile: Carlo Bosi infatti non si smentisce, da splendido caratterista qual’è, capace di calarsi alla perfezione in ogni personaggio di contorno gli venga affidato: voce sempre squillante e bene impostata, eccellente presenza scenica; come e cosa pretendere di più?

Nei panni della Bersi Annalisa Stroppa (al suo secondo SantAmbrogio consecutivo) se la cava dignitosamente, mettendo in evidenza, sul piano scenico, la sua evoluzione (stando perlomeno a Illica) da servetta a... ehm, puttanella. Vocalmente, la sua parte (a differenza della Suzuki di un anno addietro) è quantitativamente e qualitativamente circoscritta, ma la lei la disegna con efficacia e sensibilità. Con qualche decibel in più salirebbe ulteriormente in classifica... Altrettanto valido Gabriele Sagona (anche lui tornato dopo il 7 dicembre 2016): voce di buona corposità ed emissione sempre ben controllata che gli ha permesso di proporre un convincente Roucher, ruolo peraltro già da lui sostenuto anni fa a Napoli. Mariana Pentcheva è una brillante Contessa, e la giovane Judit Kutasi si cala efficacemente nella parte di... sua nonna (!) la strappalacrime Madelon. Meritevole di elogi anche Francesco Verna, che incarna con appropriatezza scenica e voce ben passante quel mezzo invasato del sanculotto Mathieu. Agli altri comprimari darò un cumulativo voto di ampia sufficienza, ecco.

Benissimo al solito il coro di Casoni, sia negli impegni separati della componente maschile che di quella femminile e nei turbinosi episodi promiscui in piazza e nel tribunale.
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Sulla regìa mi sono già favorevolmente espresso dopo visione RAIca, e qui non posso che confermare quella positiva impressione. Devo quindi complimentarmi con il regista che, a differenza di altre sue esperienze scaligere, e anche in forza degli stretti vincoli imposti dal soggetto, non si è permesso – per fortuna, aggiungo io - di inventare alcunchè. Cosa che non gli ha impedito di allestire uno spettacolo di alto livello, il che a sua volta ha contribuito a valorizzare i contenuti musicali dell’opera.

L’attenzione con la quale Martone ha predisposto la sua messinscena è attestata anche da alcuni (apparentemente) trascurabili dettagli, che il regista ha curato in modo quasi maniacale, mettendo riparo anche a problemi che Illica, nella sua foga narrativa, ha creato con le sue minuziosissime didascalie. Mi limito a citare un paio di esempi.

L’Abatino, quando nel primo quadro ragguaglia i presenti sul clima politico che si respira a Parigi dovrebbe, secondo il libretto, gustare della marmellata, offertagli dalla Contessa: dapprima assaggiandola timidamente, poi affondandovi platealmente e avidamente il cucchiaio. Atto che potrebbe lasciare perplesso lo spettatore, che nulla sa del contenuto della tazza. Allora il regista opta per una soluzione forse più banale, ma certo più efficace, facendo sorseggiare all’Abatino una tazza di caffè (o the, o cioccolata, plausibimente).

Altro esempio riguarda un particolare del terzo quadro: dopo il drammatico incontro-scontro con Maddalena, Gérard promette di far di tutto per salvare Chénier e subito scrive un biglietto che consegna a Mathieu perchè lo recapiti a Dumas (il Presidente del Tribunale); peccato che Illica si dimentichi quasi del tutto di questo particolare e che quindi lo spettatore, oltre a non poter proprio immaginare a chi è destinato lo scritto, fatichi poi a decifrare il cenno di assenso fatto da Mathieu a Gérard. Di più, del biglietto si perde totalmente traccia. Ebbene, Martone trova la soluzione anche a questa evidente sbavatura del libretto: lasciando lo scritto in mano a Gérard, che lo consegna poi personalmente a Dumas al momento di accusarsi di aver falsificato le prove contro Chénier.

In altri casi il regista propone scenari improbabili, anche se lo fa con evidente intento didascalico. Ad esempio il letto che compare in scena nel terzo quadro, nel locale del tribunale: pezzo d’arredamento che lì è del tutto fuori posto, ovviamente, ma serve a mostrarci Gérard convalescente dalla ferita infertagli da Chénier alla fine del quadro precedente, e poi a far da teatro verista alla minaccia di stupro (però con lei... consenziente, obietterebbe cinicamente l’avvocato difensore) di questo Scarpia-ante-litteram ai danni di Maddalena.

Non mancano anche trovate di carattere volutamente più sarcastico che didascalico: in apertura del secondo quadro Mathieu (secondo Illica) si lamenta della polvere che ricopre il busto di Marat e si mette subito a spazzolarla via. Martone lì ci mostra una cittadina che scopa il tetto dell’edificio che sovrasta il busto, facendovi piovere sopra la polvere, che poi sarà la ex-servetta Bersi a rimuovere con tanto di piumino.

Ma a parte queste piccole curiosità, tutto l’insieme funziona assai bene, sia nelle scene di massa (villa Coigny, piazza di Parigi, tribunale) come in quelle di carattere intimistico o drammatico, dove i movimenti di gruppi o dei singoli sono studiati sempre con appropriatezza e totale aderenza al libretto.

Insomma, una regìa per la quale l’aggettivo tradizionale è – perlomeno per quanto mi riguarda - un grandissimo complimento.
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Ieri sera applausi convinti e reiterati per tutti. Ai quali personalmente mi sono associato e mi associo. 

13 dicembre, 2017

Il Faust in versione Michieletto


Tempo addietro si usava l’espressione andare in super-allenamento per descrivere ciò che accadeva ad atleti che, esagerando con i ritmi di preparazione fisica, finivano per compromettere poi le loro prestazioni, anzichè migliorarle.
   
Ecco, dopo aver visto (in TV, per ora) il risultato, mi sentirei di usare questa espressione per descrivere ciò che dev’esser successo a Damiano Michieletto nella preparazione di questa gara messinscena della berlioziana Damnation che ieri ha aperto la stagione all’Opera di Roma.

Se si volesse censire, catalogare, descrivere, commentare e criticare tutta la montagna di idee, di trovate, di intuizioni e di stranezze di cui il regista ha infarcito il suo spettacolo si riempirebbe una Treccani! Sì, perchè, se è vero come è vero che Berlioz si prese, rispetto a Goethe, mille libertà, allora Michieletto, rispetto a Berlioz, se ne è prese un milione. Ottenendo il risultato di dar piena ragione a chi (Berlioz per primo) ha sempre ritenuto e ritiene che la Damnation sia opera per l’orecchio e non per l’occhio.

E devo dire che (pur con le cautele da usare a fronte di un ascolto non dal vivo) Daniele Gatti – insieme al cast, ovviamente - l‘orecchio (per lo meno il mio) lo ha pienamente gratificato.

10 dicembre, 2017

Faust in versione Berlioz apre le danze a Roma


Lasciato spazio (noblesse oblige) al SantAmbrogio meneghino, anche il centro-sud sta aprendo la stagione 17-18. Ieri sera il SanCarlo ha ospitato la pucciniana Fanciulla (non disprezzabile, almeno all’ascolto radiofonico) mentre l’Opera di Roma si appresta ad inaugurare il suo cartellone con una proposta non meno intrigante dello Chénier milanese: La damnation de Faust, affidata alla coppia Gatti-Michieletto, o Michieletto-Gatti, per chi dà più importanza a ciò che il regista si inventerà, rispetto a ciò che il musicista ha composto 170 anni orsono e quindi è già noto a (o notabile da) tutti. Allestimento che si trasferirà poi a Valencia (2018, con Roberto Abbado sul podio) e più in là al Regio di Torino, teatri co-produttori.

La natura stessa dell’opera (légende dramatique, la sottotitolò l’Autore) ha fatto sì che tradizionalmente – a partire proprio dalla prima, all’Opéra-Comique, domenica 6 dicembre, 1846 – essa sia stata proposta in forma di concerto, e solo sporadicamente in versione scenica. Lo stesso Berlioz (piuttosto narcisisticamente, o forse per sfiducia nei registi, chissà...) riconobbe che “la musica ha ali talmente ampie che i muri di un teatro non le permettono di espandersi completamente”. Da qui la curiosità particolare che si riversa sul regista, atteso al varco su opposte sponde, da fan e detrattori. Già ovviamente si conosce l’approccio di fondo di questo allestimento, ma come al solito sarà meglio fare i santomaso...

Intanto val la pena notare (per stigmatizzarlo) il taglio che il Teatro ha dato alla presentazione-video dello spettacolo. Parlano i due responsabili, prima Gatti e poi Michieletto. Chiunque si aspetterebbe che il Direttore dica qualcosa sulla musica di Berlioz, sulla sua grandezza e magari anche su qualche sua magagna... Invece Gatti che fa? Un maldestro pistolotto psico-socio-politico sui problemi dell’uomo moderno, schiavo del cosiddetto progresso e delle tecnologie, che gli precludono la possibilità di provare empatia (parole sue) per il resto dell’umanità. Insomma, un discorso da Regisseur, che spiega il suo Konzept di ciò che verrà messo in scena. Musica? Nemmeno una parola, una virgola, che dico, un accenno anche remoto (???!!!) Poi arriva il vero regista e spiega con grande efficacia ciò che ha ideato per lo spettacolo, che effettivamente si preannuncia coinvolgente ed accattivante.   
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L’opera nacque negli anni-40 dell’800 come completamento e riadattamento della primissima fatica del giovine Berlioz: Huit scènes de Faust (qui l’unica incisione conosciuta) che risale al 1828. La lista sottostante riporta le relazioni fra quel primo abbozzo (titoli fra parentesi) e la stesura definitiva della Damnation:

Prémière Partie

Scène I Plaines de Hongrie
Scène II Ronde de paysans (2. Paysans sous les Tilleuls)
Scène III Une autre partie de la plaine – Marche hongroise

Deuxième Partie
Scène IV Nord de l’Allemagne  
   Chant de la Fête de Pâques (1. Chants de la Fête de Pâques)
Scène V Méphistophélès et Faust
Scène VI La cave d’Auerbach à Leipzig
   Choeur de buveurs
   Chanson de Brander (4. Ecot de joyeux compagnons, histoire d'un rat)
   Chanson de Méphistophélès (5. Chanson de Méphistophélès, histoire d'une puce)
Scène VII Bosquets et prairies du bord de l’Elbe – Air de Méphistophélès
   Choeur de Gnomes et de Sylphes, songe de Faust (3. Concert de Sylphes)
   Ballet des Sylphes
Scène VIII Final
   Choeur de soldats (7b. Choeur de soldats, Joyeuse insouciance)
   Chanson d’étudiants 

Troisième Partie
Scène IX Tambours et trompettes sonnant la retraite (7b. Choeur de soldats)
   Air de Faust
Scène X Méphistophélès et Faust
Scène XI Marguerite
   Le roi de Thulé, chanson gothique (6. Le Roi de Thulé, chanson gothique)
Scène XII Une rue devant la maison de Marguerite
   Evocation
   Menuet des Follets
   Serenade de Méphistophélès (8. Sérénade de Méphistophélès, effronterie)
Scène XIII Chambre de Marguerite
Scène XIV Trio et Choeur

Quatrième Partie
Scène XV  Romance de Marguerite (7. Romance de Marguerite - 7b. Choeur de soldats)
Scène XVI Forêts et cavernes - Invocation à la Nature
Scène XVII Récitatif et chasse
Scène XVIII Plaines, montaagnes et vallées - La course à l'abîme
Scène XIX Pandemonium
   Epilogue sur la terre
   Dans le Ciel
   Apothéose de Marguerite
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Balza subito all’occhio come nella composizione giovanile manchi totalmente la presenza di Faust, che invece nella Damnation entra in scena già all’ottava battuta. Inoltre le Huit Scènes appaiono come una serie di squarci scarsamente connessi fra loro, anche se la sequenza è sostanzialmente rispettosa di quella del testo del Faust-I al quale Berlioz (come più tardi Gounod) si ispirò; sequenza che invece la Damnation non rispetta completamente, come si deduce dallo stesso elenco sopra riportato.

Va anche aggiunto che Berlioz rimaneggiò più o meno ampiamente le parti riprese dalla composizione giovanile: un esempio eclatante è l‘ultima delle Huit Scènes, la Serenata di Mefistofele, che vi è accompagnata dalla sola chitarra, del tutto assente nella Scena XII della Damnation, dove la voce è supportata dalla piena orchestra. Altro esempio è il Canto della festa di Pasqua, che nelle Huit Scènes prevede due cori (Angeli e Discepoli) mentre nella Damnation al coro dei Cristiani si aggiunge la voce di Faust, che poi chiude la scena con un recitativo.

Quanto alle voci, Faust è un tenore lirico, Marguerite un mezzosoprano (Berlioz peraltro la indicò come soprano) e Méphistophélès un basso o baritono, laddove nelle Huit Scènes aveva una tessitura decisamente più alta, da baritenore, se non proprio da tenore lirico.

Quanto alla fedeltà al testo di Goethe (tradotto da Gérard de Nerval) Berlioz se ne occupò relativamente, o proprio per nulla; e di proposito, come lui stesso spiegò, sostenendo come assurdo il solo pensare di mettere in musica l’intero dramma di Goethe; per cui tanto valeva prenderlo solo come base di riferimento e ispirazione. Ecco quindi che il finale di Berlioz vede Faust irrimediabilmente perduto (da cui il titolo dell’opera); e l’apertura viene disinvoltamente quanto arbitrariamente trasportata in Ungheria, solo ed esclusivamente (lo ammette candidamente lo stesso compositore nella prefazione alla partitura) per avere il pretesto di infilarci un trascinante pezzo di bravura orchestrale, la celebre Marcia di Rácóczy...
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In attesa dello spettacolo romano, come termine di paragone (a futura memoria) si può proporre questa produzione belga de La Monnaie (2002) con Kaufmann e Pappano.

Martedi 12 la prima, ripresa in diretta (19:00) da Radio3 e in differita (21:15) da RAI5.

09 dicembre, 2017

laVerdi 17-18 – Concerto n°8


Romeo and Juliet tengono banco nell’ottavo concerto all’Auditorium, diretto da uno dei Direttori Principali Ospiti de laVerdi, Patrick Fournillier, arrivato già al suo quarto dei cinque concerti stagionali. In programma tre celebri brani che l’Orchestra conosce a menadito per averli quasi stabilmente in repertorio; il che è di per sè una garanzia di qualità.

Si va per via temporale a dente di sega, partendo dal tardo ‘800 dell’Ouverture di Ciajkovski (versione 1880) costruita sui tre temi: di Frate Lorenzo (un corale dal taglio religioso); della faida Capuleti-Montecchi (violenti strappi dell’intera orchestra) e – ovviamente – dell’amore sbocciato fra i due rampolli delle famiglie rivali (il famoso tema sbudellante reiterato in varie forme). Un brano di grande effetto che è sempre un piacere riascoltare. Fournillier non risparmia proprio nulla del romanticismo magari un po’ mieloso del russo, ma ottiene così applausi calorosi da una sala abbastanza gremita.
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Si retrocede quindi di quasi mezzo secolo, al Roméo di Berlioz, di cui viene eseguita la scena d’amore, ovviamente escludendo la parte iniziale cantata dal doppio coro dei ragazzi Capuleti reduci dal ballo e attaccando dall’Adagio. Musica sublime che il francese Fournillier evidentemente ha nel sangue, e ce la sa quindi proporre con grande delicatezza e sensibilità, proprio con il più autentico esprit-de-finesse...
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Chiude la serata un salto nel ‘900 (ogni volta che sento questa musica non posso esimermi dal manifestare una mia convinzione: è la musica più grande del secolo scorso!) Si tratta di Prokofiev e di un assemblaggio di brani dal suo Romeo e Giulietta. Forse lo ripeto per la settima volta, ma se anche si pescassero random 5-6-7-10 brani dai numeri del balletto e li si suonasse poi in sequenza casuale, ne uscirebbe sempre ed invariabilmente qualcosa di mirabile. Fournillier ce ne propone una decina, ma verrebbe voglia di ascoltare anche gli altri 42!

Si spiega così l’accoglienza trionfale riservata a Maestro e Professori.


07 dicembre, 2017

Chénier in TV


RAI1 ogni tanto ne combina una giusta, a livello di programmazione, e anche quest’anno ci ha permesso di godere la prima di SantAmbrogio senza dover chiedere prestiti in banca per potervi assistere dal vivo. Sulla qualità delle riprese (audio e video) mi pare che qualcosa sia migliorato rispetto al passato (sui conduttori un po’ meno...)

Detto ciò – e rimandando all’audizione dal vivo i giudizi su cantanti e suonatori – è possibile commentare per ora la messinscena che (pur con il filtro della regìa televisiva) penso si possa valutare anche senza andare materialmente a teatro.

Partiamo da un fatto abbastanza scontato: un soggetto come questo, per mille ragioni, è praticamente impossibile da ri-ambientare (o ri-concettualizzare) sia a livello spazio-temporale, che a livello di relazioni fra i personaggi. Sostituire a Chénier ghigliottinato dal terrore di Roberspierre, per dire, un Mejerchol'd fucilato dal terrore di Stalin (solo perchè a noi un po’ più vicino) farebbe semplicemente ridere. Così come trasformare la lotta politica fra giacobini e girondini in una guerra fra moderne cosche mafioso-camorristiche (corleonesi vs casalesi). O anche ambientare il classico triangolo amoroso in un paesino siciliano, scimmiottando la Cavalleria...

E quindi il buon Martone – che con i suoi Oberto e Beffe scaligeri si era preso libertà per me eccessive - ha dovuto fare buon viso e restare allo scenario originale, cosa che di per sè farà magari venire l’orticaria a qualcuno che non può soffrire i musei, ma peggio per quel qualcuno. A me l’allestimento – che ha fatto tesoro delle minuziose ed efficacissime didascalide di Illica - non è per nulla spiaciuto e vi ho ritrovato tutto ciò che ci si può aspettare precisamente leggendo il libretto. Ed anche sbirciando la partitura – qui faccio una piccola invasione nel campo musicale – che Chailly ha presentato proprio come Giordano la pensò e la fece pubblicare, cioè come un continuo flusso sonoro (tipo Wagner, per intenderci) e senza soluzioni di continuità. In ciò assecondato dalle scene girevoli della Palli, che consentono rapidi mutamenti di quadro. Ben fatti i costumi (di ricchi&poveri) ideati dalla Patzak così come assai efficace l’impiego delle luci da parte di Mari. Anche il Corpo di Ballo della Schiavone ha avuto modo di distinguersi nella scenetta delle Pastorelle.

I tre protagonisti hanno mostrato diverse qualità, diciamo così, attoriali: Salsi è stato decisamente quello che (mi) ha convinto di più, anche perchè il suo è un ruolo così poliedrico e sanguigno (veramente... verista) che di per sè si presta (se il cantante non è proprio una cariatide) a grandi effetti scenici e drammatici. Eyvazov ha un fisico da armadio (il futuro è da Pavarotti, a parte la voce...) che non pare proprio il più confacente  a quello dello smilzo poeta francese, e per di più – per non correre troppi rischi sul piano musicale – canta quasi sempre volgendo lo sguardo al Direttore, con grave danno alla scioltezza di movimenti e di espressioni. Ma peggio ha fatto la signora Eyvazov (haha!!) che ha proprio cantato come una bambolotta (dal faccione purtroppo gonfiatosi pericolosamente in questi ultimi tempi) piuttosto rigida e quasi priva di reazioni proprie.

Più sciolti gli altri comprimari, dei quali citerò la Stroppa, Sagona e Bosi per tutti. Ben guidati dal regista i movimenti delle masse, esemplare al proposito la scena del processo.


Per ora è quanto basta, in attesa di mettere il dito.

06 dicembre, 2017

En attendant Chénier (2)


Il 7 dicembre è ormai alle porte e chi è interessato anche ai contenuti dell’opera – oltre a quelli dei décolleté e déchappé (volgarmente detti: lati A-B) della fauna che popolerà il Piermarini - si prepara (o dovrebbe farlo...) all’evento con una qualche forma di ripasso della lezione, per non farsi cogliere poi di sorpresa dagli avvenimenti.

Mentre ai neofiti di Chénier il sempre semiserio Amfortas ha pensato bene di proporre un autentico decalogo, io provo a dare una mano - per prender confidenza con l’opera - a coloro che sono sprovvisti di CD e DVD (recenti o vintage) affidandomi a registrazioni del tubo (nel senso di presenti in internet, non di fatte con l’organo riproduttivo maschile...)

E fra le numerose offerte disponibili in rete ho scelto quella che da molte parti è considerata tuttora come di riferimento: Vienna 1960, il leggendario vonMatacic sul podio e un trio da favola sul palco, Corelli (il più grande di tutti gli Chénier?) Tebaldi e Bastianini. Come era usanza a quei tempi (ma lo è spesso ancora oggi) le pseudo-arie (o romanze che dir si voglia) dei protagonisti (che secondo partitura mai si chiudono con le classiche cadenze per strappare l’applauso a scena aperta, ma si concatenano direttamente alla scena successiva... un po’ à-la-Wagner) vengono regolarmente interrotte dopo il momento-topico, proprio per lasciare spazio alle esternazioni del pubblico. (Chailly ha dichiarato che farà di tutto per evitare che ciò accada, in modo da rispettare la continuità drammaturgica dell’opera, come voluta dall’Autore.)

Illica, oltre a corpose parti di testo che Giordano ha cassato senza pietà, ha infarcito il libretto di lunghe e meticolose didascalie, che non solo rappresentano (per chi le volesse seguire) preziose indicazioni di regìa, ma spesso dicono cose – anche di una certa rilevanza - che il testo cantato non include, e così: o l’ascoltatore se le legge prima, oppure si perde ciò che vi si trova scritto, e non sono proprio cosette trascurabili. Ad esempio, il nome con cui la donna sconosciuta (Maddalena) si firma nell’ultima lettera a Chénier (Speranza) è solo citato nella didascalia che ci descrive Roucher mentre legge silenzioso la missiva: così noi non lo veniamo a sapere; ma così poco dopo ci sfugge la ragione dell’eccitazione di Chénier (che corre via per armarsi) quando la Bersi gli comunica che la donna che sta arrivando per incontrarlo si chiama proprio... Speranza! Nel terzo quadro è solo la didascalia ad informarci di contenuto e destinatario di un biglietto che Gérard ha scritto per il Presidente Dumas, per proclamare l’innocenza di Chénier; biglietto di cui poi si perdono le tracce. Esemplare infine l’ultimissima annotazione: mentre la musica chiude il dramma, Gérard si dispera leggendo – ma senza recitarla e quindi tenendocela nascosta – la negativa risposta di Robespierre al suo estremo appello per la grazia, risposta che cita addirittura Platone (pure lui mandava a morte i poeti...)  

Il primo quadro, ambientato in una residenza nobiliare di campagna appena fuori Parigi nei giorni immediatamente precedenti lo scoppio della Rivoluzione, ha lo scopo di presentarci i tre protagonisti del dramma: innanzitutto Gérard che, essendo un personaggio inventato, viene impiegato da Illica-Giordano per impersonare simbolicamente la Rivoluzione medesima nella sua storica evoluzione, dai sacrosanti presupposti alla (inevitabile?) degenerazione in dittatura/terrore; quindi naturalmente Chénier, che entra in scena in tono dimesso, per poi sparare quel po’ po’ di Improvviso che ne caratterizza la personalità visionaria (e come tutti gli inguaribili visionari, lui così resterà fino alla fine, senza tentennamenti e senza ripensamenti); infine Maddalena, personaggio storico – incontrato da Chénier in carcere - che gli Autori manipolano però a loro vantaggio, trasformandola da cinica approfittatrice - quale fu in realtà - in eroina pronta a tutti i sacrifici, ma esclusivamente in nome dell’amore, di null’altro.

Al contorno si muove tutto il bestiario dell’establishment nobilastro che la Rivoluzione cercherà (senza riuscirci del tutto) di mandare in pensione diviso in due tronconi ben distinti e separati: capoccia da una parte e resto del corpo dall’altra.

Dopo una breve (solo 16 battute) e concitata introduzione, ecco apparire (40”) Gérard, che ci introduce al costume dei tempi, raccontandoci ciò che accadeva su un lussuoso divano, fra cicisbei e vecchie babbione. Ma l’atmosfera si incupisce (1’45”) all’arrivo del vecchio padre di Gérard, di cui apprendiamo la miserevole condizione esistenziale, cantata dal figlio che poi sbotta (3’49”) nella sua feroce imprecazione (T’odio, casa dorata!) contro quel mondo pieno di cinismo e vuoto di umanità, sfogo che culmina (4’38”) nella terrificante profezia (È l’ora della morte!) dell’imminente avvento del redde-rationem.

Senza soluzione di continuità (4’53”) l’atmosfera cambia, rasserenandosi non appena l’obiettivo della cinepresa (Illica e Giordano sono unanimemente indicati come precursori del cinema) si sposta su Maddalena, che fa il suo ingresso in scena presentando subito il suo animo sensibile, contrappuntata dalle parole di ammirazione di Gérard (5’18”, Quanta dolcezza ne l’alma tetra per te penetra) che immediatamente chiariscono l’attrazione che il servo ha per la padroncina, attrazione che sarà uno dei pilastri portanti dell’opera.

Ma la scena ritorna ad animarsi (5’56”) quando la Contessa padrona di casa si informa da Gérard sui preparativi per la festa e poi (6’35”) rimprovera la figlia di non essersi ancora abbigliata a dovere. Maddalena (con la servetta Bersi che le fa il verso) si lamenta (6’45”) della scomodità di gonne e cappelli e decide (8’25”) di vestirsi più... sobriamente.

Arrivano gli ospiti (8’40”) e l’atmosfera si ravviva nuovamente, mentre la Contessa (9’11”) comincia a scambiare complimenti tanto fatui quanto ipocriti con gli invitati. Fra i quali il romanziere Fléville (10’30”) che sfoggia il ridicolo termine persiflaggio (francesismo per canzonatura) e presenta altri due ospiti: il musicista Fiorinelli e il giovin poeta Chénier.

Ma ora al centro dell’attenzione ecco l’Abate (11’22”) che porta ferali notizie da Parigi, divorando a quattro palmenti una tazza di marmellata: il Re inetto, consiglieri incapaci, il Terzo Stato che incombe e atti di violenza... Il romanziere (12’40”) impiega tutta la sua prosopopea per invitare i convenuti a dimenticare queste disgrazie e a godere dell’imminente primavera. L’atmosfera (13’29”) si fa rarefatta e idilliaca, per accogliere (14’46”) un coro danzato di pastorelle!

Ma adesso è il momento di occuparci di Chénier (17’21”) che la Contessa tira in ballo chiedendogli di far parlare la sua Musa, ma ottenendone un malinconico diniego. Al che la padrona di casa se ne va dal musicista italiano che (18’05”) comincia a strimpellare qualcosa al clavicembalo. Maddalena, che evidentemente è stata colta da improvviso interesse per Chénier, scommette con le amiche che riuscirà a schiodare il poeta dalla sua apatia e così (18’30”) lo invita a declamare un’egloga.

Chénier (19’01”) si schermisce ancora, paragonando i capricci della poesia a quelli dell’amore. All’udire quella parola (19’23”) Maddalena e le amiche scoppiano a ridere e la padroncina di casa spiega (19’50”) scimmiottando il tono aulico del poeta, il contenuto della scommessa: Chénier avrebbe poeticamente tirato in ballo l’amore, quella stessa parola che gli altri rozzi invitati le avevano rivolto senza alcuna poesia!

Chénier è punto sul vivo e ribatte quasi con severità (20’24”): l’Amore è una cosa terribilmente seria ed ora ve ne darò dimostrazione. L’Improvviso (21’08”) – l’aria-romanza Un dì all’azzurro spazio che è divenuta simbolo dell’opera – mette finalmente in primo piano il tenore, impegnandolo in un lungo e articolato percorso: una prima frase che dal SIb d’impianto sale (21’08”) al SOL (dominante di DO) sulla parola firmamento; una seconda, che partendo dalla dominante MIb torna alla tonica fino al SIb acuto (T’amo, 22’27”); poi una seconda esternazione (22’43”) dove Chénier condanna l’ipocrisia della religione e le ingiustizie del potere, chiudendo con una specie di anatema (le lacrime dei figli!) Altra accorata dichiarazione, di simpatia per Maddalena, che gli era parsa subito l’unica persona sensibile in quella casa; qui (23’37”, Ecco la bellezza della vita!) ascoltiamo in orchestra un tema che tornerà ancora nel corso dell’opera a impersonare l’amore; ma poi il comportamento offensivo della giovane lo aveva profondamente ferito; e così il poeta, partendo ancora dal MIb sale nuovamente al SIb acuto (25’01”) implorando: Amor, divino dono, non lo schernir del mondo anima e vita è l’Amor!

La chiusa, sulla mediante RE (25’25”) dovrebbe direttamente portare, dall’Andante della romanza, all’Allegro vivo del successivo perdonatemi! di Maddalena e della fuga precipitosa di Chénier. Come si può notare, il Direttore invece si ferma dopo l’accordo di SIb per dar modo al pubblico di sfogare (per 65”) il suo entusiasmo.

Alla ripresa (26’30”) la Contessa invita tutti a perdonare la figlia capricciosetta e a godere di una meritata gavotta, la cui leziosa melodia irrompe (26’46”) a rasserenare l’atmosfera. Ma è presto disturbata (27’17”) da voci cupe e minacciose che provengono da lontano e si avvicinano rapidamente: è una torma di diseredati che (27’51”) lamenta le sue miserevoli condizioni di vita; e che presto irrompe nella lussuosa residenza, guidata ed introdotta (27’51”, Sua grandezza la miseria!) da Gérard. 

La Contessa lo licenzia sui due piedi, facendo allontanare quella feccia introdottasi in casa sua; e allora Gérard (28’05”) togliendosi la livrea, scaglia contro lei e tutta la nobiltà la sua filippica, proclamando la decisione di unirsi ai diseredati per combattere la loro battaglia; trascina con sè (28’36”) anche il vecchio padre che cercava di scusarsi con i padroni. È la Contessa invece (29’10”) che si scusa per Gérard con gli ospiti (L’ha rovinato il leggere!) e poi, dopo aver ipocritamente vantato le proprie virtù di persona caritatevole, come nulla fosse torna (30’01”) ad invitare i presenti alle danze! Così la gavotta (30’17”) riappare in primo piano a chiudere questo prologo al dramma. Ma è - attenzione! - una chiusura in SI minore...
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Il secondo quadro ci mostra uno spaccato (non proprio verosimile al 100%, specie negli aspetti di turbinosa animazione delle strade e dei locali pubblici) della Parigi sotto il Terrore giacobino: vediamo quindi in scena protagonisti minori (Mathieu) e maggiori (Robespierre, ma solo di riflesso) della vita di quei giorni, insieme a figure che in realtà scenderanno in piazza solo più avanti, dopo la decollazione dei due protagonisti e del capintesta giacobino, sotto il Direttorio: Incredibili e Meravigliose. In questo ambiente matura il nuovo e decisivo incontro fra Chénier e Maddalena (sorpresi poi da Gérard) che li porterà infine al patibolo.

Come il primo, anche questo secondo quadro (31’09”) inizia con 16 battute introduttive, prima che compaia (31’26”) il sanculotto Mathieu, rivoluzionario fanatico di Marat, del quale spolvera il busto eretto in una piazza. Ora l’attenzione si sposta sulla servetta Bersi, che ha cambiato vita con la Rivoluzione (che per altro mostra di odiare) e che si sente spiata da Incredibile (una spia di Gérard, appunto) con il quale innesca un battibecco per poi (32’24”) raccontare le sue esperienze di vita nel nuovo corso rivoluzionario. Passa un carro che reca condannati alla ghigliottina, accompagnato in sottofondo (33’48”) dal ça ira, il celebre canto rivoluzionario.

Incredibile (34’17”) ha anche osservato Chénier (sul quale ora si sposta l’inquadratura) che sembra in ansiosa attesa di qualcuno(a). Per ora chi arriva (35’11”) è un suo amico, Roucher, che gli ha portato un passaporto e lo invita ad allontanarsi da Parigi, dove è in grave pericolo. Chénier gli risponde attaccando  (35’54”) una nuova aria-romanza (Credo a una possanza arcana) in cui accetta il suo destino di poeta e di amore. Sogna una donna angelicata, che gli parla con voce ardente, dicendogli Credi all’amor! (dal SIb acuto) e poi confessa all’amico di ricevere strane lettere, precisando (38’48”): Scrive una donna misteriosa ognora! Queste sue parole sono sottolineate dal tema dell’amore (comparso nell’Improvviso).

Chénier ora mostra all’amico l’ultma lettera ricevuta e Roucher (39’23”) crede di decifrarne la provenienza: a scrivere dev’essere una Meravigliosa (donna di facili costumi, almeno secondo... Illica). Chénier (40’57”) vede tutto il suo castello di poesia e di amore crollare miseramente al suolo (Ah, mio bel sogno, addio, ancora dal SIb acuto).

Il poeta sembra convinto a lasciare Parigi, mentre uno stentoreo motivo dei corni (41’22”) che poi sottolinea l’intera scena, annuncia il passaggio dei membri dell’Assemblea (Robespierre compreso) fra cui Gérard. Qui abbiamo un complesso concertato con tre linee di canto parallele (indicate su colonne affiancate nel libretto): Chénier-Roucher-Mathieu / La folla / Incredibile-Gérard. Mentre i primi tre personaggi e la folla osservano e/o acclamano i rappresentanti del popolo, Gérard e Incredibile (42’22”) si scambiano informazioni sulla donna (Maddalena) che Gérard ha incaricato lo spione di rintracciargli. E Incredibile (43’43”) lo rassicura: la sera stessa la vedrà.

Roucher (43’52”) scorge le Meravigliose e le indica a Chénier: le disinibite donne parigine arrivano (44’19”) giusto dopo il passaggio dei politici e la loro sfilata è accompagnata da una musica leggera e svolazzante, come i loro abiti trasparenti... Fra esse Bersi, che chiede a Roucher di trattenere Chénier: lei è spiata da Incredibile, che poi si presenta e la invita al bar (per scoprire dove si trova Maddalena, evidentemente). Mentre Chénier è sempre più desolato (45’32”) e se ne vorrebbe andare (O mio bel sogno, addio!) Bersi ritorna (sempre spiata da Incredibile) e annuncia a Chénier (45’51”) l’arrivo di Speranza (qui ancora il tema dell’amore fa capolino).

Un breve intermezzo strumentale (46’37”) accompagna l’accensione dei lampioni in strada e il passaggio di pattuglie della Rivoluzione, cui segue quello del solito Mathieu (47’17”) che canticchia la Carmagnola. Incredibile si apposta (48’06”) in attesa di eventi, ed infatti su un ponte sulla Senna compare una figura di donna.

É Maddalena, venuta all’appuntamento con Chénier (48’59”) e piena di paura. Pochi attimi e (49’49”) ecco arrivare anche il poeta, avvolto in un mantello. Maddalena lo chiama per nome, lui si fa riconoscere e chiede a lei da chi sia mandata a parlargli. Maddalena (50’38”) si fa riconoscere sulle parole (Non conoscete amor!) e sulla musica dell’Improvviso! Incredibile ha visto e udito tutto, e corre ad avvertire Gérard; Maddalena (51’02”) crede di aver visto un’ombra allontanarsi, ma Chénier la tranquillizza, suggerendole peraltro di abbandonare quel posto poco raccomandabile. Lui (51’22”) sembra ancora incredulo di aver incontrato la donna dei suoi sogni e così Maddalena (51’41”) attacca un cantabile per raccontargli le sue pene, le ragioni delle sue lettere e per implorare aiuto e protezione.

Adesso (54’19”) - sulle parole di Chénier Ora soave - inizia il grande duetto fra i due innamorati (punteggiato ancora dal tema dell’amore) chiuso in SOLb (accordo di terza - con SIb acuto del tenore – o sesta opzionalmente, delle due voci) da uno stentoreo fino alla morte insiem!

Qui (56’44”) sono doverose almeno due osservazioni: la prima riguarda la durata della nota finale del duetto (...siem) che Giordano (un maniaco del metronomo) fissa precisamente in 17 semiminime a 63, il che significa 16,19”, una bella apnea, bisogna ammetterlo. Ma Corelli/Tebaldi cantano per 5” scarsi (ahi ahi). La seconda ha a che fare con il tempo che, secondo l’Autore, deve separare il duetto dal drammatico altolà di Gérard: si tratta di sole tre crome, pari a 1,43”. Invece il direttore ferma tutti per dar modo al pubblico di applaudire e osannare le due voci per ben 120”!

Finalmente (58’44”) Gérard può irrompere sulla scena, sbarrando la strada ai due amanti con un perentorio Maddalena di Coigny!
  
Chénier affida la donna a Roucher e affronta Gérard (mediocre spadaccino) ferendolo al volto. Gérard, quando riconosce il poeta nel suo feritore, ha un inconscio senso di colpa, avverte Chénier che il suo nome è sulle liste di proscrizione e lo prega di salvare Maddalena. All’arrivo (sulle note dell’inno rivoluzionario) di Incredibile e dei giacobini, Gérard (59’53”) non rivela il nome del suo aggressore. Il sanculotto Mathieu accusa dell’assassinio gli avversari politici, e il quadro si chiude con il grido Morte ai girondini!
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Nel terzo quadro ci troviamo in una sede della Rivoluzione ospitata nei locali del tribunale rivoluzionario, dove gli aspetti politici del processo si mescolano con quelli di carattere patetico e personale: il sacrificio della povera vecchia Madelon e il rapporto triangolare Gérard-Chénier-Maddalena, con la posizione del primo che ondeggia fra l’ubriacatura da potere (le false accuse contro Chénier) e l‘impotente rimorso per tutto il male che da quel potere discende. Alla fine la macchina del fango messa in moto dall’ex-lacchè di Maddalena travolgerà Chénier e, con lui, anche la povera ragazza.

Il quadro si apre (1h00’34”) con sole 7 battute di pesanti accordi dell’orchestra, che introducono il pistolotto di Mathieu ai cittadini e cittadine convenuti per assistere ai processi (sommari) e che nell’attesa vengono invitati a fare donazioni alla Patria, messa in pericolo da nemici interni ed esterni. Gli appelli di Mathieu – sostenuti anche con minacce di ricorso alla ghigliottina - non sortiscono grande effetto, ma ecco che arriva (1h02’47”) inatteso, Gérard, prontamente rimessosi dalla ferita infertagli da Chénier, come lui stesso spiega (1h03’05”) ai cittadini che lo accolgono calorosamente.

Mathieu (1h03’33”) riprende la sua pedante arringa contro i nemici della Patria, ma accorgendosi che la sua pipa si è spenta, passa la parola a Gérard. E costui (1h03’54”) attacca una perorazione (assai più convincente, anche... musicalmente, di quella del sanculotto) della necessità che ciascuno offra qualcosa di superfluo (e non) per aiutare la Rivoluzione che corre gravi pericoli. L’orchestra supporta il suo accorato appello con efficaci interventi, come (1h04’14”) il baluginare di lingue di fuoco che accompagnano il richiamo alla Vandea in fiamme. Servono oro e sangue (1h04’33”) per difendere la Francia!

Le donne presenti (1h05’05”) accorrono a gettare nella grande urna di raccolta oggetti preziosi e denaro, poi ecco (1h05’47”) farsi largo la vecchia Madelon, che è venuta ad offire... il suo ultimo nipotino! Il suo racconto è davvero strappalacrime (pare che Illica abbia quasi costretto il riluttante Giordano a conservarlo, per farlo cantare ad un suo protetto mezzosoprano!) Gérard (1h07’59”) accetta di coscrivere il ragazzetto e qui abbiamo (1h08’36”) un’altra scena commovente: il distacco della vecchia, ormai morente, dal suo piccolo Alberto, accompagnato da una toccante melopea del violoncello.

Terminata la riunione di raccolta fondi il locale si svuota per essere attrezzato a tribunale. La gente fuori riprende (1h09’52”) a danzare cantando la Carmagnola. Ma intanto Incredibile è tornato e annuncia a Gérard (1h10’37”) che la sua preda è nella rete. Ma non è Maddalena, bensì Chénier, che Incredibile ha scovato e preso al Lussemburgo. Gérard però (1h10’52”) è interessato (personalmente) alla donna, e si mostra scettico (1h11’09”) sulla previsione di Incredibile, che Maddalena si faccia viva per cercare l’innamorato. Ma Incredibile, indicandogli i ragazzini-strilloni che percorrono le strade e le piazze parigine gridando ai quattro venti la notizia dell’arresto del poeta, gli spiega (1h11’34”, Donnina innamorata) come Maddalena, sentendo la notizia dell’arresto dell’amato, si precipiterà in strada e cadrà nella loro rete. Gérard a questo punto (1h12’55”) si preoccupa che Maddalena finisca per odiarlo, ma Incredibile gli spiega con sommo cinismo che la donna è fatta d’anima e corpo e lui... si accontenti del corpo! Poi lo invita a scrivere l’atto d’accusa contro Chénier.

Qui (1h13’41”) inizia il lungo monologo di Gérard, combattuto fra due opposti sentimenti: la vendetta personale (oltre che politica) contro Chénier e la consapevolezza di compiere una viltà contro un innocente. A spingerlo al misfatto (1h14’07”) è una fugace apparizione di Incredibile, che risveglia in lui desideri di piacere. Così (1h14’31”) Gérard comincia a stendere l’atto d’accusa (Nemico della Patria?!) Ma ha presto un ripensamento (1h15’28”) e canta una spietata autocritica, ripassando attraverso le fasi della sua esistenza da rivoluzionario, che lo hanno trasformato da puro e disinteressato (1h15’50”, Un dì m’era di gioia passar fra gli odii e le vendette) a servo di un nuovo padrone (1h16’19”). E qui (1h17’02”) l’ex-lacchè a Coigny ricorda il suo iniziale fervore rivoluzionario, che si sta ormai spegnendo; ricorda commosso (1h18’07”, La coscienza nei cuor ridestar de le genti) i suoi alti ideali di fratellanza e amore.

Qui (1h19’13”) dopo il RE tenuto di Tutte le genti amar!, Giordano prevede meno di due battute (5”) strumentali, prima della parte finale dell’esternazione di Gérard. Ma, come da tradizione, il Direttore fa eseguire un accordo pieno di RE maggiore per consentire al pubblico di portare in trionfo (per 55“) il baritono di turno! Il quale riprende poi (1h20’09”) il suo canto per chiudere l’aria-romanza con l’atroce confessione di essere divenuto schiavo delle più basse passioni. Così (1h20’45”) firma l’atto d’accusa e lo consegna a Incredibile, tornato in quel preciso momento, accompagnato dalla sua musica impertinente.

Ma ora si prepara la scena madre di questo quadro (1h21’32”): sta arrivando, come Incredibiile aveva previsto, Maddalena, ammessa da Mathieu alla presenza di Gérard. La donna (1h21’55”) si fa riconoscere, implorando aiuto. Gérard (1h22’16”) risponde che la stava aspettando e poi (1h22’46”) con una lunga esternazione le declama tutti i retroscena della sua infatuazione per lei, fin da quando lei era bambina e giocava con lui, figlio di uno dei suoi servi... Poi ha uno scatto (à-la-Scarpia) e rivela (1h24’12”, ...un pazzo grande e vile) tutta la sua abiezione e la libidine che lo divora. Maddalena prova a reagire, minacciando di uscire in strada a cercare la morte, piuttosto che concedersi a lui. Il quale la blocca e si prepara a prenderla con la violenza.

Ecco che Maddalena (1h25’21”) ha un’improvvisa ispirazione: si concede al porco senza far resistenza, chiedendo in cambio la libertà per Chénier. E Gérard (1h25’53”), tramortito da tanto coraggio, mentre il violoncello recita stupendamente il tema dell’amore, deve ammettere: Come sa amare!

Maddalena attacca adesso (1h26’51”) la sua nobile aria (La mamma morta) in cui ricorda i drammatici momenti della perdita di tutto: tutto, tranne però l’amore, l’unica ragione ormai della sua vita. E sulle parole Ah! io son l’amor! ecco una nuova gratuita pausa di 55” (1h31’23”) che il Direttore inventa – Giordano prevede solo una semiminima prima della successiva frase - per consentire l’applauso a scena aperta al soprano. Che continua (1h32’20”) offrendo il suo corpo a Gérard. Il quale (1h32’51”) è talmente scosso da proprompere in un disperato grido di pentimento e di maledizione contro le degenerazioni della Rivoluzione, dichiarandosi pronto a sacrificare la vita per salvare Chénier. Maddalena implora aiuto, ma la situazione precipita, e Gérard (1h33’44”, Il tuo perdono è la mia forza!) può solo promettere di difendere il poeta.

La folla (1h34’03”) invade la sala del tribunale, sono principalmente donne, popolane, mercatine che, tenute faticosamente a bada da Mathieu, si accalcano per godersi lo spettacolo, raccontandosi gli ultimi pettegolezzi. Ecco però entrare la corte (1h35’00”) per dar inizio al processo. Arrivano anche gli imputati, ultimo Chénier, quasi indifferente e assorto nei suoi pensieri. Maddalena (1h36’22”) esclama: Egli non guarda! Ah, pensa a me! e il tema dell’amore spiega più delle parole i sentimenti che animano i due pur lontani innamorati.

Dopo che Mathieu ha imposto il silenzio, il Presidente Dumas comincia a chiamare gli imputati e per ciascuno il Procuratore Fouquier annuncia la sua accusa. C’è anche una donna (1h37’29”) tale Legray, una giovane madre che ritroveremo nel quarto quadro, e infine (1h37’37”) Andrea Chénier, per il quale viene formulata l’accusa di tradimento! Il poeta reagisce con veemenza (1h37’59”, Tu menti!) e poco dopo attacca la sua aria in LAb (1h38’07”, Sì, fui soldato) per proclamare a tutto il mondo i suoi grandi ideali e il suo amore per la Patria. Chiude la sua perorazione (1h40’26”, Ma lasciami l’onor) sulla dominante MIb, e una sola semiminima dovrebbe precedere la replica di Fouquier, mentre ancora ci si ferma per 45” ad applaudire il tenore.

Il Procuratore chiama i testimoni e Gérard (1h41’11”) si fa avanti, confessando di aver sottoscritto una denuncia falsa contro Chénier. Ma nessuno vuol credergli, anzi tutti lo accusano di tradimento. Lui allora (1h42’15”) esaltando le giovani reclute che si avviano a combattere per la Patria, accusa il tribunale di uccidere i poeti patrioti. Chénier (1h42’41”, O generoso!) è commosso e – mentre fa capolino in orchestra il Tristankkord! - va a ringraziare del suo coraggio Gérard, che gli indica Maddalena. Poi si illumina e si prepara a morir contento, mentre Gérard ancora vuol sperare. Ma tutto è ormai scritto e Dumas (1h43’35”) pronuncia il fatidico Morte!  

A Maddalena non resta che gridare il nome di Andrea e supplicare Gérard di farglielo ancora rivedere un’ultima volta. Il sipario cala accompagnato da un tragico RE minore.
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Il breve quarto quadro chiude il dramma con il sacrificio di Maddalena e l’inutile, estremo tentativo di Gérard di salvarli.

Sono le solite sette battute orchestrali ad introdurre (1h44’20”) il cupo scenario di morte che caratterizza il cortile del carcere in cui sono rinchiusi Chénier e l’amico Roucher. È notte fonda e Chénier ancora scrive versi, gli ultimi, che l’amico lo prega di recitare, dopo aver convinto il carceriere Schmidt di pazientare ancora. E così Chénier (1h45’43”) canta l’ultima sua romanza in SOLb (Come un bel dì di maggio) che è un vero e proprio addio alla vita e contemporaneamente un supremo inno alla poesia! E l’aria chiude (1h48’33”) con le parole darò per rima il gelido spiro d’un uom che muore. Ancora una volta, invece di attaccare quasi subito con la cantilena di Mathieu, ci si ferma (qui per solo 25”) ad applaudire il tenore.

Mathieu, appunto, si ode da lontano (1h48’58”) cantar la Marsigliese, mentre alla prigione arriva Gérard (1h49’30”) con Maddalena, cui è stato concesso un ultimo colloquio. Andrea Chénier, risponde Gérard alla domanda del carceriere su chi sia il condannato. Maddalena (1h49’50”) ricorda a Gérard la sua promessa, di cui scopriamo presto l’oggetto, allorquando la donna (1h50’03”) accenna alla condannata Legray, che dovrà essere liberata. In sua vece lei stessa (1h50’32”) salirà sul carro che reca i condannati al patibolo!

Schmidt si lascia convincere da gioielli e denaro passatigli da Maddalena, che (1h51’32”) benedice il suo destino di morte. Gérard, sempre più addolorato, mentre in orchestra (1h51’50”) si ode un tema wagneriano che ricorda l’amore (di Sieglinde per Siegmund) decide di fare ancora un tentativo, addirittura con Robespierre.

Intanto Chénier si avvicina e l’orchestra (1h52’22”) scoppia in un lungo accordo, che porta al REb con cui inizia il duetto finale fra i due amanti. Chénier (1h52’46”, Vicino a te s’acqueta l’irrequieta anima mia) lo introduce, poi Maddalena – la tonalità vira a FA maggiore - gli risponde confermandogli tutto il suo amore. E gli rivela lo stratagemma che le consentirà di morire con lui. Poi (1h55’20”) mentre la tonalità modula a SIb, lo invita ad un ultimo abbraccio e così i due si abbandonano alla più grande estasi, che ci ricorda l’esaltazione tristaniana al ritrovare Isolde.

La morte si avvicina con l’aurora, la tonalità modula a SOLb per accogliere le ultime esternazioni dei due amanti fino all’estremo (1h58’33”): Amor!

Dal SOLb per enarmonia si sale al SI, mentre il carceriere fa l’appello dei condannati, cui rispondono prima Chénier e poi Maddalena. Che sul SI acuto gridano (1h58’54”) l’ultimo Insiem!

Giordano muta quel SI in mediante di SOL, sulla quale tonalità l’opera si conclude trionfalmente.
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Bene, ora non ci resta che attendere al varco i coniugi Netrebko!