intime gioje

chiuder la prigione e buttar la chiave

31 agosto, 2016

La Rotterdam Philharmonic a Rimini


In una Rimini ancora immune dal grande contro-esodo (spiagge e alberghi tuttora in assetto quasi-ferragostano... vuoi vedere che il PIL sta crescendo?) ha aperto ieri i battenti – in una sala di 1500 posti del Palacongressi piacevolmente gremita di pubblico - la stagione concertistica della 67a Sagra Musicale Malatestiana, ospiti (per un ritorno a tre anni di distanza) la prestigiosa Rotterdam Philharmonic, guidata dal suo Direttore Yannick Nézet-Séguin, e la premiata coppia Renaud&Gautier Capuçon.

Essendo giornata di lutto nazionale, a Orchestra accordata e Direttore sul podio viene osservato un minuto di silenzio in memoria delle vittime del terremoto che ancora sta sconvolgendo zone d’Italia non troppo lontane da qui.

Il concerto è aperto da un’autentica primizia: l’Ouverture di un’opera semi-sconosciuta e rarissimamente rappresentata di Josephus Haydn, L’isola disabitata (libretto del Metastasio) composta sul modello di Gluck (recitativi sempre accompagnati). Una specie di variante molto, molto semplificata ed edulcorata del mozartiano Ratto, con il quale ha in comune la presenza di due coppie che sono protagoniste del quartetto che chiude l’opera con un classico lieto fine.
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L’Ouverture (qui eseguita dal venerabile Harnoncourt con i suoi del Concentus) si apre in SOL minore con un’introduzione di 22 battute in tempo Largo di 3/4 e ambientazione cupa; introduzione che chiude adagiandosi sulla dominante RE. Segue (1’33”) un Vivace assai (4/4, sempre SOL minore) dove viene esposto il tema principale. Dopo un breve ponte ecco che, alla battuta 47 (2’05”) il tema viene riproposto, variato e sviluppato, nella tonalità relativa di SIb maggiore, sulla quale entra poi - a battuta 76 (2’41”) - un controsoggetto, sempre in SIb, di sapore più elegiaco. A battuta 95 (3’13) sempre in SIb, udiamo una nuova variante del tema, che dopo un ulteriore sviluppo torna al SOL minore d’impianto che prepara (battuta 132, 4’00”) la ricomparsa del tema nella sua forma originaria, tema che viene ulteriormente sviluppato e sfocia in una cadenza sulla dominante RE. Essa prelude all’attacco in 3/4 di un Allegretto in SOL maggiore, che si configura come un Trio in due sezioni (entrambe ripetute): la prima (battuta 165, 4’44”) e la seconda (battuta 176, 5’15”) più lunga. Il trio si chiude da battuta 197 (6’27”) con una coda che porta (battuta 214, 7’05”) alla ripresa del Vivace assai (4/4) con il tema in SOL minore, che chiude rapidamente l’Ouverture.  
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Pregevole l’esecuzione dei filarmonici olandesi, schierati qui in organico ridotto di fiati (1 flauto, 2 oboi, 1 fagotto, 2 corni) e invece con ampia sezione di archi, che l’imparruccato Haydn certo non aveva a disposizione quel lontano giovedì 6 dicembre 1779, quando l’opera andò per la prima volta in scena in occasione dell’onomastico del suo “patron” Nicholaus Esterházy.
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Ecco poi il Doppio Concerto di Brahms, interpretato dai due Capuçon: Renaud al violino e Gautier al cello (fra i due corrono meno di 6 anni, e il primo ne ha poco più di 40). I due si sono presentati in abbigliamento da perfetti... baristi (smile!): oltretutto nessuno direbbe mai che siano fratelli, tanto diversi sono i loro aspetti esteriori.

Però, accipicchia, hanno dato gran prova di sè, in questo concerto difficile e ostico per chi lo ascolta e ancor più – immagino - per chi lo esegue. Da incorniciare, in particolare, l’Andante centrale, dove i due solisti sono in grande evidenza e dove i due fratelli hanno saputo cavar fuori dai loro strumenti pregevoli sonorità, sempre ben spalleggiati dall’Orchestra, che il Direttore guida con gesto forse un po’ troppo plateale, ma evidentemente efficace.
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Chiusura magniloquente con la tardo-romantica Seconda Sinfonia di quel gran consumatore di alcool che rispondeva al nome di Jan (Jean) Sibelius. Ispirata dalla natura di Rapallo (evidentemente quel mare fa bene alla fantasia dei musicisti, visto il precedente di Wagner che a Lerici inventò il Preludio del Rheingold) è, con la Quinta, la più eseguita del finnico. Sul suo contenuto ho già espresso un personalissimo parere non proprio... edificante in occasione di una sua precedente proposta de laVERDI con Marshall.

I Rotterdamer e Nézet-Séguin fanno di tutto per farcene apprezzare anche il lato poco... apprezzabile, così ne è uscita un’esecuzione vibrante, carica di chiaroscuri e di contrasti, dove i fiati in particolare (tutti eccezionali poi gli ottoni: corni, trombe, tromboni, tuba) hanno recitato la parte del leone.

Ripetute chiamate finchè il Direttore mima una bevuta con successiva dormita per convincere il pubblico che si è fatto tardi ed è ora di rincasare. Quindi, niente bis, ecco.

21 agosto, 2016

ROF-37 Calato il sipario

 

Ieri sera, con l’ultima, applauditissima recita del Ciro, è calato il sipario su questa 37a edizione del ROF: ancora l‘immensa Ewa Podleś sugli scudi, autentica trionfatrice della serata e, direi, di tutto il Festival; successo anche per la Yende, Siragusa e gli altri comprimari, per il coro di Faidutti e per l’orchestra guidata ancora una volta in modo autorevole da Jader Bignamini. Pubblico ancor più straniero del solito: nella piazzetta antistante il teatro e nel piccolo foyer la lingua italiana era in netta minoranza, sovrastata dal tedesco, dall’inglese e da non meglio precisabili idiomi orientali.

Stando a ciò che i responsabili della Fondazione hanno anticipato, e anche da ciò che un frequentatore sporadico come il sottoscritto può testimoniare, quanto meno il successo di pubblico è stato evidente: teatro e arena sempre al tutto esaurito, accoglienza degli spettacoli dal caloroso al trionfale. Pubblico per l’appunto cosmopolita, ma di un cosmopolitismo del tutto diverso, per dire, da quello che si osserva regolarmente in un teatro come La Scala, dove gli stranieri abbondano, ma si scorge lontano un miglio che sono lì per fotografare e farsi fotografare in un tempio della lirica, mica certo perchè interessati allo spettacolo che si programma quella sera, di cui probabilmente nulla sanno e pochissimo gli importa.

No, qui a Pesaro arriva espressamente e da tutti i continenti un pubblico amante della musica, di Rossini in particolare, un pubblico ancora e sempre affezionato a questo Festival che si è storicamente immedesimato nella Rossini-renaissance. Persone che hanno probabilmente vissuto qui a Pesaro momenti esaltanti e che ci tornano regolarmente come vecchi innamorati per riprovare piacevoli sensazioni e rinnovare ricordi passati. Una coppia di teutonici che si trovava con me nello stesso palco confidava di non aver perso nemmeno una delle 37 edizioni del Festival, e di essere fermamente decisa a continuare così per il futuro, nonostante riconoscesse che non ci sono più le voci di una volta (e uscivano nomi quali Valentini, Ricciarelli, Blake, oltre al sommo Abbado...) Ecco, personalmente mi metto volentieri in questa compagnia.   

Certo, i tempi mutano per tutti e anche il ROF ha ormai da anni cominciato a cambiar faccia e pelle: da esclusivo proponente di edizioni critiche delle opere – anche le più sconosciute o bistrattate – del genio pesarese, si va trasformando in una specie di palestra rossiniana dove si sperimentano nuovi allestimenti dei lavori del grande Gioachino, e dove si presentano voci nuove che affiancano e via via sostituiscono quelle più storiche o già affermate. Tutto ciò comporta un evidente rischio di sovraesposizione: allestimenti spesso velleitari quando non letteralmente adulteranti i soggetti originali; e cantanti, pur promettenti, ma con esperienza ancora limitata, le cui prestazioni possono lasciare insoddisfatti i palati più raffinati.

Che dire? È il classico caso del bicchiere: per qualcuno è mezzo vuoto e quindi da buttare; per altri è ancora mezzo pieno e val la pena tenerselo stretto... (io mi schiero in questa seconda fazione).


La prossima edizione è già sbozzata come programma generale: salvo ripensamenti (peraltro assai frequenti qui) verranno proposte tre opere tutte alla seconda apparizione al ROF; tre opere che si collocano simmetricamente all’interno della produzione di Rossini: la giovanile Pietra di paragone (esordio 2002) la baricentrica Torvaldo e Dorliska (esordio 2006) e la matura Siège de Corinthe (esordio 2000). Con la riproposta dello Stabat Mater si chiuderanno verosimilmente i battenti. Arrivederci quindi al ROF-XXXVIII.

20 agosto, 2016

ROF-37 I 20 anni di JDF dalla piazza

 

Per festeggiare i 20 anni dalla sua prima apparizione (edizione XVII, martedi 13 agosto 1996, nel ruolo di Corradino in Matilde di Shabran, poi sostenuto ancora nel 2004 e 2012) il ROF ha voluto festeggiare il suo beniamino Juan Diego Florez con uno speciale concerto all’Adriatic Arena, nel quale il divo peruviano è stato affiancato da altre voci di casa al Festival (Ruth Iniesta e Marina Monzò  sono subentrate all’allergica Olga Peretyatko) e da Orchestra e Coro del Comunale di Bologna, diretti da Christopher Franklin (tornato per l’occasione a Pesaro dove aveva esordito nel 2003) e Andrea Faidutti.

Non essendo io un amante di questo genere di kermesse, di gala, nè di programmi costituiti da antologie o put-pourri di brani di opere diverse, ed essendo ammiratore sì, ma non fan sfegatato del JDF, ho salomonicamente deciso di non acquistare il biglietto, ma allo stesso tempo di curiosare in questa festa. Come? Approfittando della gentile iniziativa – ormai un’abitudine del ROF – di irradiare il concerto in diretta sul maxischermo installato in Piazza del Popolo. Così ho anche potuto rendermi conto di come il pubblico della strada (o della piazza, nella fattispecie) fruisce di questo tipo di spettacolo.

Com’è naturale, l’impaginazione prevedeva arie o numeri delle 10 opere di cui JDF è stato protagonista nei suoi 20 anni a Pesaro, inframmezzate da qualche sinfonia:

   
Date le circostanze, non mi ci provo nemmeno ad entrare nel merito artistico dell’esecuzione. Dirò invece che, prima dell’inizio della seconda parte, Il Sovrintendente Mariotti ha snocciolato la lunga storia del sodalizio fra il cantante e la città, che vanta il merito di avergli aperto la strada al successo, in quel 1996 quando Florez esordì per puro caso (l’improvvisa indisposizione del titolare del ruolo di Corradino) nella fino allora del tutto sconosciuta Matilde. Così la Citta di Pesaro ha deciso di premiarlo insignendolo della Cittadinanza onoraria. Florez ha speso poche parole per ringraziare, ricordando come Pesaro sia divenuta la sua seconda patria, dove lui ha la sua dimora italiana e dove è venuta al mondo sua figlia. Ha ripetuto il breve indirizzo anche in lingua inglese, a beneficio del pubblico che in larga parte viene da fuori d’Italia, poi è corso a prepararsi per la seconda parte del programma, che alla fine è stato gratificato di un autentico trionfo.
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Piazza del Popolo era occupata per più di metà (tutto il lato est) da 1000 sedie che sono state via via prese d’assalto fin da una buona ora prima dell’inizio; chi non ha trovato posto si è appollaiato sul bordo della fontana, altri hanno stazionato nei pressi, magari appoggiati alle proprie biciclette, o seduti sotto il porticato del palazzo del Governo.

Si ascolta quindi un Rossini contrappuntato da una stereofonica polifonia di voci e suoni provenienti da ogni dove: vagiti di infanti e schiamazzi di bambini, latrati di cani e cagnolini di timbri e razze diversi, tonfi di bicchieri e bottigliette di plastica che rotolano sul porfido, crepitio di sacchetti dai quali spuntano patatine, piadine e focacce. Il tutto mentre frotte di ragazzini in bicicletta prendono il perimetro della piazza per un velodromo, e scorrazzano anche sotto il maxi-schermo. E ancora: mezzi dell’Igiene ambientale che operano nelle vie adiacenti la piazza, dentro la quale circola anche il Trenino del giro panoramico della città. E infine: persone che si alzano per andarsi a rifornire di drink, snack e calippi presso un vicino bar. Paradossalmente, chi ha disturbato meno sono stati gli smartphone e similari diavolerie.

Insomma, pare di essere tornati all’ambiente dei teatri del ‘700 e primi ‘800, dove la gente si recava incidentalmente per assistere allo spettacolo, ma in realtà per mangiare, bere e fare salotto (o anche... peggio!)

Evabbe’, mica si può pretendere dalla piazza un religioso silenzio e una compostezza che del resto non si registrano compiutamente nemmeno a teatro... quindi tutto a posto e ancora complimenti e auguri al grande JDF.

17 agosto, 2016

ROF-37 Ciro da Babilonia torna a Pesaro

 

Ieri sera ecco il redivivo Ciro in Babilonia, tornato presto sulle scene del ROF dopo il tardivo esordio del 2012, ovviamente con lo stesso allestimento di allora, firmato da Davide Livermore. Per le note introduttive sull’opera e i commenti alla regìa rimando a quanto scrissi appunto in occasione della produzione originale, della quale questa ripresa non ha proprio mutato alcunchè, salvo l’aggiornamento di poche immagini filmate in cui appaiono gli interpreti principali.

E fra gli interpreti ha trionfato l’inossidabile Ewa Podleś, la cui voce sembra non risentire del trascorrere degli anni. Certo, la fatica si fa sentire e alla fine si è avvertito lo sforzo sovrumano che la cantante polacca ha dovuto sostenere nella scena XII, per lei davvero massacrante, e poi nel finale concertato. Ma le ovazioni che il pubblico che gremiva il Rossini le ha riservato devono averla ripagata con gli interessi. Il suo non è un Ciro superlativo soltanto nel canto, ma anche e forse soprattutto nell’espressione, nell’immedesimazione dell’interprete con le mille sfaccettature del personaggio, di cui restituisce tutta l’umanità, il pathos e insieme la severa, persino proterva inflessibilità nel punire il truce Baldassare.

Pretty Yende conferma la buona prova dell’esordio: efficace nelle agilità e nei virtuosismi, esibiti con sicurezza quasi sfrontata, ma anche nella cantabilità dei passi più lirici, dove esibisce buon portamento e pregevoli legati. Antonino Siragusa è un Baldassare dignitoso, la voce c’è, chiara e squillante, gli acuti sono raggiunti con evidente sforzo (sappiamo bene come Rossini definisse le emissioni di petto, alla Duprez...) e il risultato nel complesso è più che accettabile.  

Degli altri comprimari dirò bene di Alessandro Luciano, che si conferma, come tenore rossiniano, assai più che una promessa; e meno bene di Oleg Tsybulko, uno Zambri dalla voce piuttosto ingolata e cavernosa. Meglio di lui Dimitri Pkhaladze che non ha sfigurato nella parte del profeta Daniello, impersonata con sufficiente efficacia e voce bene impostata. Il SIb di Isabella Gaudí è uscito sufficientemente pulito e in più, rispetto alla storica interprete del ruolo di Amira (Anna Savinelli, una gran racchia, almeno stando a Rossini) la cantante spagnola vanta una presenza fisica di tutto rispetto!

Il coro di Andrea Faidutti, che Livermore veste in parte con costumi babilonesi e in parte con abiti primo-‘900 (gli spettatori del cinema dove si proietta il Ciro) ha dato come sempre buona prova di sè, nel canto ed anche nella recitazione.

Da ultimo, Jader Bignamini, al suo debutto al ROF e in pratica al suo esordio col Rossini operistico (che io sappia, in precedenza aveva diretto un paio di volte l’Ouverture del Tell e poi, di recente, con laVERDI, un’antologia di brani rossiniani). L’ormai lunga consuetudine sinfonica con l’Orchestra milanese di cui è oggi Direttore Associato (alla Xian) gli permette evidentemente di trattare anche partiture di livello relativamente modesto con la cura e l’attenzione ai minimi dettagli che si riservano normalmente a un Beethoven o a un Mahler. È proprio ciò che emerge da questa sua direzione, dove nulla sembra essere lasciato al caso o “tiratoviaallabellemeglio”. E l’Orchestra del Comunale bolognese (che di per sè, con Mariotti, ha fatto grandi passi avanti) ha risposto da par suo, come complesso e come singoli (corno, violino e viola in primis, ovviamente).

Ora rimane, del cartellone principale del ROF XXXVII, la quarta e ultima serie di recite, col Ciro a chiudere, sabato 20. Venerdi l’omaggio a Florez per i suoi 20 anni di ROF.

16 agosto, 2016

ROF-37 Un Turco e ½ con... brivido finale

 

Ieri sera al Teatro Rossini terza recita de Il Turco in Italia, la nuova produzione (quinta finora nella storia) di cui il ROF ha gratificato questo dramma buffo uscito dalla felice penna di Romani Felice.

Erano appena terminati gli applausi dopo l’aria con coro di Fiorilla e la Scappucci si era seduta alla tastiera per accompagnare il successivo recitativo di Prosdocimo, quando l’Olivetti Lettera-22 del poeta-regista-(Anselmi-Mastroianni) impersonato da Pietro Spagnoli, probabilmente per un brusco e involontario movimento del cantante, è finita direttamente dal proscenio, dove era collocato il deschetto che la reggeva, giù nella buca dell’orchestra, proprio sotto il palco del Sovrintendente! Sul momento si è pensato all’ennesima gag di Livermore, ma poi la cosa si è rivelata in tutta la sua gravità. Per fortuna pare (credo e spero, perlomeno) non ci siano stati danni a persone (prendersi in testa una macchina da scrivere non sarebbe piacevole davvero!) e la recita è potuta riprendere e concludersi felicemente.

Questa seconda delle tre opere del cartellone principale 2016 è stata affidata a complessi strumentali e coristici e a un Direttore (pardon... una Direttora) di serie A2, per così dire e senza offesa per chi milita in A2: la giovane Filarmonica Rossini, il coro Agostini di Fano e la versatile speranza della direzione, Speranza, per l’appunto, Scappucci. In compenso nel cast brillano i nomi del divo Erwin Schrott e della diva, ormai padroncina di casa, Olga Peretyatko-maritata-Mariotti, insieme ai navigati Nicola Alaimo e Pietro Spagnoli, al... navigante René Barbera e al mozzo Pietro Adaini. E la regìa è affidata ad un altro abitué del ROF, Davide Livermore (chissà se ha diviso in due i costi della parcella fra Pesaro e la sua patria di adozione Valencia, co-produttrice dell’opera...)

La signora Mariotti, già deludente alla prima e fischiata apertamente (dicono) alla seconda, aveva accampato scuse più o meno credibili, attribuendo le sue non entusiasmanti prestazioni a non meglio precisate allergie (forse alle critiche? smile!) dando forfait per il gala-JDF di venerdi prossimo, ma decidendo di impersonare stoicamente Fiorilla per tutte le 4 recite. Devo dire che ieri sera si è ampiamente riscattata, pur dando l’impressione di una certa prudenza nella gestione del fiato. Ma almeno l’intonazione mi è parsa a posto, così come il fraseggio e l’espressività del suo canto.

Ho trovato anche Schrott migliorato rispetto dalla prima (udita per radio): emissione sicura e il bel timbro brunito che lo hanno reso famoso. Evidentemente il rodaggio delle due recite precedenti dev’essere servito un po’ a tutti. Accanto a lui ha ottimamente figurato il buffo Geronio di Nicola Alaimo, che alla sua consuetudine con questi ruoli rossiniani ha aggiunto (grazie al regista, indubbiamente) una perfetta resa scenica del personaggio.

René Barbera ha confermato le sue notevoli qualità, voce chiara e squillante, acuti solidissimi (pur ottenuti con evidente sforzo) e perfetta intonazione. Altrettanto dicasi di Pietro Adaini, esordiente al ROF, ma già recente interprete del ruolo di Albazar: una voce che penso possa fare parecchia strada in futuro. Meritevole anche la prestazione di Cecilia Molinari, una Zaida dalla voce calda e ben intonata (contrastante con la barba affibbiatale da Livermore-Fellini, smile!)

Pietro Spagnoli torna al ROF dopo 11 anni e dopo ben 27 (!) dal suo esordio. La parte del poeta Prosdocimo non è proibitiva, ma lui la interpreta in modo perfetto (volo della Olivetti a parte!) anche e soprattutto sotto il profilo attoriale.

La squadra dei musici, che ho irrispettosamente ma simpaticamente definito di serie A2, si è fatta ben valere, a partire dalla Direttora Scappucci, dal gesto essenziale, preciso e mai plateale, oltre che bravissima alla tastiera nell’accompagnare i recitativi. Per proseguire con la Filarmonica Rossini, cui la paterna guida di Donato Renzetti sta evidentemente facendo un gran bene.  E anche il coro di Fano (diretto da Mirca Rosciani) ha dato il suo valido contributo alla riuscita dello spettacolo. Tutti meritevoli del successo tributatogli dal pubblico che gremiva il Rossini.   
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Vengo quindi allo spettacolo di Livermore, dichiaratamente ispirato al Fellini di . Se un limite si può trovare all’idea di fondo è che forse non tutti conoscono (o ricordano nei particolari) il film del grande regista romagnolo, il che rischia di rendere criptiche alcune presenze sulla scena e i relativi comportamenti. Ciò che si vede prima e durante l’esecuzione della Sinfonia è appunto l’introduzione all’ambiente e ai personaggi (anche e soprattutto quelli estranei al libretto, che vivacizzeranno poi le varie scene dell’opera): ci vediamo Prosdocimo nei panni di Guido Anselmi (Mastroianni) che si libra sul mondo e finisce il suo volo nella bomboniera del Teatro Rossini, fatto precipitare giù in platea, preso al lazo dal Sovrintendente Mariotti in persona! Poi vediamo la famosissima scena dell’Harem, con tutte le donne che attorniano il regista e gli fanno premurosamente il bagno, prima di ricomparire via via durante l’opera.

Se dovessimo giudicare l’idea di Livermore dai contenuti del libretto di Romani messi a confronto con quelli del film felliniano, dovremmo concludere che il secondo col primo ci sta come i cavoli a merenda: l’unico labile nesso fra i due soggetti essendo rappresentato dalla carenza di ispirazione che caratterizza Anselmi e Prosdocimo. Per il resto il film è uno spietato scavo nei meandri dell’esistenza del protagonista (cioè di Fellini medesimo), nei suoi ricordi, nelle sue ossessioni e nei suoi sogni laddove, nel libretto, Prosdocimo non solo non è il protagonista, ma è niente più che un pallido collante che tiene insieme vicende a lui del tutto estranee, oltre che semi-farsesche. Certo, sia nel film che nell’opera emergono poi spunti critici nei confronti della società e della civiltà, ma si tratta di due società piuttosto diverse fra loro, non fosse che per i secoli che le separano. E anche l’idea di rappresentare Prosdocimo come un regista non è certo un’invenzione di Livermore. 

In realtà ciò che rende godibile e convincente il suo spettacolo è l’impiego che Livermore fa dell’impianto esteriore del film: il set di produzione, che garantisce sempre e comunque l’animazione della scena e impedisce cali di tensione; la troupe del circo, che diventa il coro nell’opera (dove assume colori sgargianti a contrastare il bianco-e-nero mutuato dal film). Così anche l’indebito ingigantimento del ruolo di Prosdocimo (che, trasformato in Anselmi, finisce per monopolizzare la scena e l’attenzione dello spettatore) risulta in fondo sopportabile e non arreca danni alla sostanza del soggetto del dramma buffo, il cui contenuto essendo per definizione piuttosto... disimpegnato si presta anche a rappresentazioni più o meno distorte: l’importante è che lo spettacolo regga, ed è ciò che credo si possa tranquillamente affermare in questa occasione.

15 agosto, 2016

ROF-37 La Donna del lago di... Strindberg

 

Ma quale Ossian. Ma quale Scott. Ma quale Tottola. Ma quale fiaba romantica a lieto fine... Qui siamo nel bel mezzo di un dramma esistenzialista, come minimo.

Il merito è di tale Damiano Michieletto, che ha capacità inventive imitative straordinarie: ha compiuto un’impresa riuscita più di tre lustri orsono al grande Robert Carsen, che trasformò incredibilmente un soggetto barocco, magico, fantastico, spettacolare e a lieto fine - come l’Alcina di Händel - in un pezzo strindberghiano sull’alienazione.

Certo, La Donna del Lago non è una storia tipo Harmony, il libretto di Tottola e la musica del Gioachino contengono mille sfumature psicologiche che gettano luci contrastanti sui personaggi principali, a partire proprio dalla protagonista, una ragazza sensibile e, perchè no, un tantino complessata (il padre ha in ciò una responsabilità non secondaria). Che le profferte di Uberto non la trovino insensibile è chiaro a tutti, ma è anche altrettanto chiaro come lei resti fedele al suo (primo) amore e addirittura si senta un po’ colpevole della delusione che arreca al sedicente cacciatore o pastore. La sua felicità finale è fuori discussione, il testo di Tottola e la musica di Rossini non lasciano adito al minimo dubbio al riguardo.
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Qui invece ci viene raccontata una storia del... dopo la chiusura del sipario (ergo, per definizione: tutt’altra storia rispetto a quella di Scott e di Tottola, per la quale Rossini compose la sua musica!) Vissero tutti felici-e-contenti? E voi creduloni credete ancora a queste favole?

Sapeste quante volte Elena (controfigura da vecchia: Giusi Merli) ha rimpianto di non aver ceduto alle avances di Uberto: managgia! avrebbe potuto occupare lei il posto di Marie de Guise a Stirling, dove oltretutto era nata e dove avrebbe potuto tornare, lasciando il palazzo diroccato (così almeno ce lo presenta il regista) in cui il padre Duglas l’aveva trasferita dopo aver rotto i rapporti con il Re, del quale era stato nulla di meno che il precettore. E così, invece di essere servita minuto per minuto da stuoli di paggi e ancelle, eccola lì a dover lavare tutti i santi giorni le mutande puzzolenti di quel caprone di Malcom!

E Malcom (controfigura da vecchio: Alessandro Baldinotti)? Credete l’abbia presa tanto bene la scoperta che la sua donna pura-siccome-un-angelo era stata insidiata dal Re: cosa si nascondeva dietro l’apparente magnanimità del gesto finale di Giacomo? E cosa c’era stato veramente fra loro? Davvero soltanto incontri innocenti (come leggiamo nel libretto e ascoltiamo dalla musica) o anche molto, mooolto di più, come ci mostra esplicitamente l’informatissimo Michieletto? Forse questo spiega perchè Malcom (sempre nel dopo) si imbestialisca vedendo la moglie posare fiori freschi davanti al ritratto del Sovrano...

Insomma: una vita, quella che Michieletto si inventa nel dopo, costellata di rimpianti, dubbi, sospetti, ansie, che fanno rivivere ai due i fatti trascorsi (cioè le vicende narrate nell’opera di Rossini) in una luce sinistra e trasformano i ricordi del passato in autentici incubi, in ossessioni esistenziali da far curare dal dottor Freud. I due attempati Elena&Malcom restano quasi in permanenza in scena, talora come semplici spettatori per lo più inorriditi di ciò che avviene nella realtà (del libretto) talaltra addirittura tentando di forzarne il corso, come quando Elena-old spinge la Elena-young nelle braccia di Uberto o quando Malcom-old cerca di aggredire il trionfante Rodrigo! Durante il duettino del primo atto si raggiunge poi il grottesco: abbiamo addirittura in scena le due coppie, Malcom-old/Elena-young ed Elena-old/Malcom-young, che ballano un grazioso walzerino!

Mica male davvero come fedeltà al soggetto che ti abbiamo profumatamente pagato per rappresentarci, caro Damiano! Perchè un conto è cogliere tutte le sfumature e anche le ombre della personalità dei protagonisti, mettendole in giusto risalto, altro è amplificare indebitamente e a dismisura questi aspetti fino a farli assurgere a tema dominante dell’opera, a cui così si cambiano letteralmente i connotati.

Si dirà: e che c’è di strano in un’operazione come questa? Perchè meravigliarsi tanto? In fondo persino il dopo del Barbiere di Siviglia non è proprio un idillio edificante: lo svenevole innamoratissimo Lindoro si rivela essere un Conte accanito donnaiolo e la povera Rosina, promossa a Contessa, nelle trappole ci casca lei, altro che farle giocare... Tutto vero, però lì qualcuno si è preso la briga di scriverci un altro libretto e comporci altra musica, o vogliamo mettere in scena – caro Michieletto - il Barbiere come fosse un flash-back delle Nozze? Dove un Lindoro arrapato cerca di farsela persino con la Berta? E dove Rosina è vittima delle reiterate molestie di un Figaro libidinoso?

E la Natura romantica e poetica (quella di Ossian-Scott) autentico personaggio in musica di Rossini, dov’è finita? L’idilliaco ambiente del lago Katrine, i boschi, le vaste pianure, la dimora umile ma accogliente di Elena (il Felice albergo) che fine hanno fatto? Il tutto è ridotto ad un unico, claustrofobico e vomitevole ambiente (un palazzone diroccato e invaso da sterpaglie) in cui si svolge l’intera vicenda: precisamente l’ambiente più adatto a supportare il pretenzioso Konzept del regista.    

Mamma mia, diciamo la verità: una Donna del Lago così non si era mai vista... ehm, a parte alcune evidenti scopiazzature del team di Michieletto, come i fastosi lampadari che calano dal cielo a nobilitare la reggia (!?) di Giacomo. Idea non solo trita-e-ritrita, ma già applicata proprio alla stessa opera in un allestimento di qualche anno fa (dato anche alla Scala) di Lluìs Pasqual. Confrontare per credere:

E poi, e poi... la foto della cerimonia di fidanzamento con tanto di lampo al magnesio, la parrucca che scopre la vecchia Elena sotto quella giovane, il canneto del Lohengrin scaligero di Guth, il duello alla pistola Rodrigo-Uberto (o Lenskij-Onegin?) con tanto di spari che abbrutiscono l’accordo orchestrale che chiude la scena II del second’atto; e poi altre trovate per le quali Michieletto potrebbe ricevere valanghe di richieste di pagamento di copyright!   

Ora, il bello è che una genialata simile si abbierà molto probabilmente un qualche importante premio, elargito da una claque travestita da paludato simposio di critici musicali. Così è, se gli pare
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Meno male che Rossini c’è! Sì, perchè sul fronte delle note le cose sono andate assai meglio (anche qui non tutto è incantevole, peraltro). Soprattutto grazie alla premiata coppia JDF-Spyres, che personalmente ritengo essere oggi la meglio assortita per impersonare i ruoli dei due tenori: il primo per la nobiltà e la raffinatezza del portamento, perfettamente tagliate sul personaggio di Uberto(-Giacomo) tutto lirismo e passione; il secondo per la strabordante, quasi proterva esuberanza del suo canto di forza, mirabilmente appropriato ad impersonare il rude, spavaldo e bellicoso carattere di Rodrigo. Il terzetto che apre il second’atto, dove con altre coppie tenorili spesso si fatica a distinguere una voce dall’altra, ne è stata la prova più eclatante.

E a quel numero ha dato il suo contributo Salome Jicia, un prodotto dell’allevamento di Zedda. C’è chi si lamenta di scelte come questa (mandare un’esordiente allo sbaraglio in un’occasione così importante) dimenticando però che il ROF (tramite la sua Accademia) si è dato (anche) la missione di formare voci rossiniane, il che giustifica di per sè che a quelle reputate più interessanti venga concessa l’opportunità di presentarsi al grande pubblico. Dopodichè non è sempre detto che le ciambelle escano con il buco, ma nella circostanza mi sentirei di dire che almeno un... forellino ci sia. Il soprano georgiano ha quanto meno sfoggiato uno strumento adeguato, di cui certo è da migliorare l’impiego (ad esempio: gli acuti tenuti di forza escono bene, quelli da eseguire in agilità e virtuosismo fanno invariabilmente cilecca; la cosiddetta ottava bassa lascia assai a desiderare). Insomma, prima di parlare di una novella Colbran ci vorranno barili di olio di gomito... ma insomma le premesse/promesse almeno paiono confortanti.

Varduhi Abrahamyan alla radio mi era sembrata un filino... molle, ma devo dire che dal vivo mi ha fatto migliore impressione: il suo è un Malcom accorato, il portamento è convincente: al contrario della Jicia, lei sembra assai più preparata, peccato che la voce sia proprio deboluccia, ecco.    

Marko Mimica è un Duglas tanto protervo quanto insopportabile: canto perennemente ingolato, voce cavernosa e schiamazzi da osteria. Dignitose le prove dei comprimari Ruth Iniesta e Francisco Brito.  

Il coro di Andrea Faidutti ha evidentemente tratto profitto dalla seconda recita, e ieri sera l’ho trovato in gran forma, proprio senza una sbavatura.

Il Figliolo del Sovrintendente (anche l’Abbado giovine aveva santi in paradiso, quindi nessuno scandalo a sfondo nepotista, per carità...) è sempre più in perfetta sintonia con la sua Orchestra, che ne segue il gesto con precisione quasi robotica. Anche qui la ripresa radiofonica aveva evidentemente appiattito assai le dinamiche, che invece dal vivo sono emerse in tutta la loro varietà di sfumature ed accenti. Se si escludono un paio di impertinenze foniche (una ha quasi coperto una frase di JDF) la direzione di Mariotti mi è parsa assolutamente all’altezza, dovendo il Direttore oltretutto calibrare i suoni degli strumenti fuori-scena (e qui lo richiede Rossini) e quelli del coro, che Michieletto tiene spesso e volentieri rintanato dietro pannelli più o meno fono-assorbenti.


Adriatic-Arena presa d’assalto (non una seggiola vuota) e pubblico osannante, soprattutto per JDF, Spyres e il Kapellmeister di casa.    

11 agosto, 2016

ROF-37 alla radio – 3


Terza ed ultima opera del cartellone principale del ROF-XXXVII è Ciro in Babilonia, una ripresa della produzione del 2012 di Davide Livermore.

Del cast di allora è rimasta la protagonista, una Ewa Podleś per la quale gli anni sembrano non passare mai: aveva già toccato i 60 allora, ma oggi (a giudicare dall’ascolto radiofonico, ma anche dalle ovazioni del pubblico) si direbbe addirittura ringiovanita! Accanto a lei una brava Pretty Yende, che non ha fatto per nulla rimpiangere (pur nella diversità di timbro e tecnica) l’Amira di Jessica Pratt. Antonino Siragusa è un Baldassare un poco in affanno (impietoso è il confronto con lo Spyres del 2012) e tuttavia arriva in fondo senza... rotture. Oleg Tsybulko e Alessandro Luciano si sono onorevolmente difesi (Zambri e Arbace); efficace la prova di Dimitri Pkhaladze nella parte circoscritta ma difficile di Daniello. Isabella Gaudí ha emulato la storica Anna Savinelli nei ripetuti SIb della sua unica aria. Bene il coro di Faidutti, chiamato qui ad una fatica non trascendentale.

Jader Bignamini ha fatto il suo esordio al ROF con una direzione curata e... compassata. Nell’intervista rilasciata a Bossini ha più volte sottolineato il rischio che questa partitura presenta: annoiare il pubblico con tutti quegli interminabili recitativi secchi (parte fondamentale dell’opera settecentesca, ma che oggi a noi fanno venire l’orticaria, diciamolo pure); così per renderceli più digeribili ha dedicato molto tempo con i cantanti nelle prove, oltre a... cassarne una certa parte (mai a sufficienza, peraltro).

Ora le tre opere vengono replicate per tre ulteriori cicli, quindi fino al 20 agosto. Prima la gran festa del 19 con JDF all’Adriatic Arena. A proposito, pare che – forse, chissà – nel 2018 si potrà tornare al glorioso Palafestival: così ha lasciato sperare Mariotti-sr nell’intervista di Pedone, nella quale ha anche gongolato per il successo di pubblico, come sempre costituito per 2/3 da stranieri che accorrono qui dai più remoti angoli del pianeta. Uno dei restanti che si apprestano solo ora a raggiungere la riviera adriatica è... il sottoscritto.

10 agosto, 2016

ROF-37 alla radio – 2


La seconda delle tre opere in cartellone al ROF-XXXVII è Il Turco in Italia, in una nuova co-produzione con Valencia, dove il regista Davide Livermore è di casa.

Nel cast spiccano come protagonisti i nomi di Schrott e Peretyatko. Devo dire che nessuno dei due mi ha entusiasmato: il primo pare un pallido ricordo del baritono di qualche anno fa; la seconda, dopo una partenza discreta (Non si dà follia maggiore) mi è parsa avere parecchie difficoltà, culminate in un Caro padre, madre amata assai insoddisfacente, per intonazione e portamento. Peccato, poichè la signora Mariotti ha una voce molto adatta al ruolo di Fiorilla, un misto di leggerezza e svampitezza. Bene invece il Narciso di Rene Barbera, che conferma le sue brillanti doti di tenorino rossiniano (l’edizione critica lo gratifica della cavatina Un vago sembiante, composta da Rossini per Roma un anno dopo l’esordio scaligero); con lui discreta anche la prestazione di Nicola Alaimo, un Geronio efficace (che canta anche Se ho da dirla, anch’essa assente nella prima stesura e aggiunta per le recite romane). Pietro Spagnoli è un buon Prosdocimo, per quanto Rossini non gli abbia riservato interventi schiettamente solistici. Onorevoli le prestazioni di Cecilia Molinari (Zaida) e di Pietro Adaini, che ha sostituito come Albazar il negretto Segkapane. Dignitosa anche la prestazione del Coro del Teatro della Fortuna Mezio Agostini di Fano (diretto da Mirca Rosciani).

Per Speranza Scappucci (impegnata personalmente anche negli accompagnamenti alla tastiera dei recitativi) è stato un felice esordio al ROF, una direzione alla quale muoverei solo l’appunto di qualche sporadico rilassamento di tempi.

Della regìa di Livermore sappiamo essersi ispirata a... Fellini. L’idea di rappresentare Prosdocimo come un famoso regista che muove a suo piacimento tutto ciò che avviene in scena è tanto infedele rispetto al libretto (dove il poeta è in realtà lui ad essere alla mercè degli avvenimenti) quanto già proposta da altri (vedi Alden in una produzione di pochi anni fa, data anche a Torino). Però pare che il tutto funzioni e che lo spettacolo sia assai piaciuto al pubblico del teatro Rossini. Staremo a vedere.
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Questa sera tocca a Bignamini con il Ciro (sempre di Livermore).              


09 agosto, 2016

ROF-37 alla radio - 1


Ieri sera la conchigliona dell’Adriatic Arena ha tenuto a battesimo il ROF-XXXVII con la nuova co-produzione (marchigiano-vallone) de La Donna del Lago.

Radio3 ha per l’occasione infranto una piccola tradizione: alla voce acuta e simpaticamente impertinente del toscano Giovanni Vitali ha sostituito quelle più pacate (e un filino noiosette) della premiata coppia Pedone-Bossini, coadiuvati in studio dal navigato Barbieri. Il quale ha giustamente fatto valere le proprie competenze sbugiardando il povero Michieletto, reo di aver insinuato (nella sua intervista nell’intervallo) che la parte di Malcom fosse stata da Rossini affidata ad un contralto poichè tratterebbesi di personaggio, diciamo così, privo di nerbo mascolino. Dal che si dovrebbe dedurre che pure Tancredi fosse una mezza-sega (!?)

Avendo tirato in ballo il regista - e in attesa di fare prossimamente commenti motivati da visione diretta – liquiderò per ora l’argomento dicendo che, da quanto riportato, si dovrebbe dedurre che l’idea portante di questa produzione sia figlia del tipico approccio famola strana, si no la ggente poi s’annoja... (e anche: se no come ce la guadagnamo la michetta?)  

Per quanto sia arduo giudicarla dall’ascolto via-etere (o banda) mi sentirei di muovere contenuti apprezzamenti all’esecuzione musicale. Mariotti (anche lui intervistato dopo il primo atto) ha mostrato di avere, sulla carta, idee molto chiare e precise sulla natura di questa musica, che mescola stili (settecento e romanticismo) e colori diversi: che poi l’abbia saputa tradurre in pratica alla perfezione... è altro discorso, ma converrà giudicare dal vivo. Un paio, non di più, i taglietti al libretto, soprattutto nel second’atto.

Quanto alle voci: bene, ma non benissimo, il coro di Faidutti (non sempre preciso, mi è parso, negli attacchi) e su discreto livello medio i cantanti. Su tutti ha giganteggiato Spyres, ma anche la Jicia se l’è cavata abbastanza bene. JDF non è più quello di 20 anni fa (e infatti gli... faranno la festa, smile!) e si difende come può, e come sa, appunto dall’alto della lunga esperienza. La Abrahamyan pare abbia voluto dar ragione a Michieletto (smile!) presentando un Malcom poco... autoritario. Mimica è un Duglas non entusiasmante, meglio di lui i due comprimari Iniesta e Brito.
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Altro giro, altro regalo: stasera il Turco.

01 agosto, 2016

ROF-37 alle porte

 

Siamo entrati in Agosto e fra una settimana precisa prenderà il via a Pesaro il ROF-XXXVII.

Ormai praticamente chiusa la stagione delle novità assolute, il Festival si è trasformato in vetrina di nuovi allestimenti di opere già presentate in passato. Così questa edizione – la prima sotto la Direzione artistica di Ernesto Palacio, succeduto al venerabile Zedda -  propone due nuove produzioni, più la ripresa di una recente prima.  

A Damiano Michieletto è affidata la nuova proposta de La Donna del Lago, assente in forma scenica (fu data in concerto nel 2013) dal lontano 2001, quando vi cantarono, diretti da Gatti, Devia, Barcellona, Alberghini, Workman e tale... Juan Diego Florez. Il quale ricompare anche questa volta, a 15 anni di distanza, come se per lui il tempo si fosse fermato. Accanto a lui il vocione di Spyres (presente già nel 2013). Sul podio, a dirigere i suoi bolognesi, il profeta-in-patria Michele Mariotti.

Davide Livermore (quasi di casa da quelle parti) si incaricherà del nuovo allestimento del Turco in Italia, che torna in scena dopo 9 anni. Il cast pare davvero interessante, con Schrott, Peretiatko-in-Mariotti, Alaimo e il promettente Segkapane. Da seguire anche la Direttora Speranza Scappucci.

La ripresa (dal 2012) riguarda il Ciro in Babilonia: regìa di Livermore (che così passerà presumibilmente in teatro anche le notti del 9, 12, 15 e 18 agosto...) con il ritorno della leggendaria Podles, affiancata da Siragusa e Yende. Sul podio farà il suo atteso debutto al ROF Jader Bignamini.

Per gli amanti delle statistiche, ecco qui la tabella aggiornata delle edizioni del Festival:


Il tradizionale concerto di chiusura quest’anno è dedicato a festeggiare i 20 anni di JDF al ROF: data la presumibile affluenza in massa, le porte a chiudersi sul Festival non saranno quelle del piccolo Teatro Rossini, ma quelle dell’enorme palazzone dell’Adriatic Arena. Resta però invariata la possibilità di godersi lo spettacolo sul maxi-schermo di Piazza del Popolo (20:30).


Le tre prime (8-9-10) al solito su Radio3 alle 20.