Il Festival Verdi 2014 si è aperto con
l’opera più sfigante (stra-smile!)
del cigno di Busseto. Il malcapitato
di turno è però Jader Bignamini, una
specie di Siegfried – ignorante di tutte le maledizioni che incombono sull’opera – che affronta
il drago con la massima disinvoltura e finalmente ne viene a capo vittorioso! Così
è stato anche ieri pomeriggio, in un Regio affollato anche se non proprio esaurito,
alla terza, o meglio, alla 2,5… stante
il degrado della seconda, causa renzite acuta (smile!)
___
Il libretto dell’opera è uno fra i più inverosimili mai prodotti e il povero Piave, che doveva essere proprio messo
male, ne ha parecchia colpa (insieme allo stesso Verdi, va detto) avendo
riciclato in peggio il soggetto – già di per sé ai confini della realtà - dovuto a tale Ángel de Saavedra, aggiungendogli una spruzzatina di Schiller (tanto per gradire): eccone qui una sinossi fin troppo seria (!)
Per carità, il
cosiddetto destino fa parte della
vita quotidiana, non solo dei melodrammi, e non di rado si materializza in modo
crudele. Tanto per restare a Verdi, anche in Rigoletto c’è parecchia forza
del destino, con la maledizione di Monterone che alla fine si abbatte sul
povero giullare attraverso lo scambio di… insaccati operato da
Sparafucile&soreta; e nel Trovatore
è sempre la forza del destino a
portare il Conte a perseguitare un rivale fino a giustiziarlo per poi scoprire
a frittata cotta che si trattava di suo fratello; e che dire del Ballo, dove l’innocente Riccardo viene
risucchiato dal vortice della forza del
destino preconizzatogli da una maga da strapazzo! Non parliamo poi di casi
di travestimenti o di ritrovamenti incredibili, che si ripetono spesso, come in
Boccanegra; o di fatti insignificanti e maledette coincidenze che provocano
drammi immani, come in Otello.
Però a tutto
c’è un limite, perbacco! Nel testo della Forza
di Piave-Verdi (persino più che in quello di Saavedra) c’è un tale cumulo di
situazioni gratuite e del tutto in-plausibili da rasentare (e pure superare) il
grottesco: e chissà che Verdi, proprio rendendosi conto di queste deficienze di
un soggetto di cui peraltro si era innamorato, non abbia deciso di seguire il clichè del Ballo, infilandoci almeno un paio di siparietti da avanspettacolo (del
tutto assenti nel serioso dramma spagnolo) dei quali il finale del terz’atto - mutuato
da Schiller - è solo la punta più evidente. In effetti: È seria la vita, allegra è l’arte. Con
queste parole di Schiller si chiude il Prologo
al dramma da cui Verdi trasse il suo finale terzo!
___
Con il
dramma Don Alvaro o la fuerza del sino,
che era di produzione abbastanza recente (ai tempi di Verdi) Saavedra volle
mostrarci che contro il destino (o la sfiga, per meglio dire) non c’è partita:
la vince sempre lui/lei. Se uno nasce sfigato, non avrà scampo, nemmeno se
fugge in capo al mondo o si isola in un eremo. E poi il destino, quando si accanisce,
colpisce tutti e nessuno risparmia: colpevoli, innocenti, vittime e carnefici; e
trasforma gli esseri umani in strumenti infernali: Yo soy un enviado del infierno, soy el
demonio exterminador… è l’ultima esternazione di Alvaro, prima di gettarsi
nel vuoto!
Il dramma di
Saavedra si struttura in 5 giornate,
che molto alla lontana corrispondono ai 4 atti di Piave, che concentra nel terzo le giornate 3 e 4 dello spagnolo.
La prima giornata, di 8 scene, si apre con
4 di queste (ignorate nel libretto dell’opera) che costituiscono
un’introduzione a ciò che Piave-Verdi ci presentano all’inizio. Scopriamo così,
da chiacchiere di strada nel quartiere Triana di Siviglia (nei pressi del ponte
di barche sul Guadalquivir) che Alvaro
è uno straniero arrivato da poco dalle Indie (America latina) e pare sia figlio
di una principessa Inca; constatiamo che è stimato da tutti (i popolani, quanto
meno) e che è già diventato il miglior torero
(!) di Spagna. Sul fronte Leonora: intanto
scopriamo che ha due (!) fratelli (Carlo e Alfonso) e poi veniamo a sapere che la sua infatuazione per Alvaro
è ormai di dominio pubblico, tanto che il padre (il Marchese di Calatrava) contrario a quell’unione, ha deciso di
trasferirla nella tenuta di campagna di Aljarafe, una trentina di Km a ovest
della città; dove però Alvaro è stato visto recarsi nottetempo più di una volta
e infatti lo si vede in diretta, di sera, mentre si avvia sul ponte che porta
in quella direzione; al che un canonico lì presente si affretta ad andare ad
avvertire il Marchese (ohibò!) In queste prime scene compare (e scompare
immediatamente per non vedersi mai più!) una gitana che canta e suona la
chitarra, tale Preziosilla, la quale un
giorno ha letto la mano di Alvaro, trovandoci cattivi presagi. Gli stessi che sua
madre ha scoperto sulla mano di Leonora (!)
Le 4
successive scene corrispondono più o meno al primo atto del libretto di Piave,
salvo un accenno che il Marchese fa ai due
fratelli di Leonora (Carlo, militare a Barcellona e Alfonso, studente a
Salamanca). Abbiamo quindi la buona notte, il colloquio Leonora-Curra e i
preparativi per la fuga, l’arrivo ritardato di Alvaro, le indecisioni della donna,
l’irruzione del Marchese, il colpo accidentale di pistola che lo fa secco e la
fuga dei due giovani.
La seconda giornata, sempre di 8 scene,
corrisponde genericamente al second’atto del libretto di Piave. Nelle prime due
scene ci troviamo in una locanda ad Hornachuelos
(100Km a nord-est di Siviglia, 50Km a ovest di Cordova, ai piedi della Sierra morena). Uno studente (per Piave-Verdi
sarà Carlo travestito, ma qui il testo non lo dice, quindi dobbiamo pensare che
sia proprio un compagno di Università di… Alfonso) suona la seguidilla con la chitarra e fa ballare
tre coppie (di Preziosilla, come detto, non c’è qui traccia). Poi mostra
interesse alquanto sospetto per un avventore arrivato con Trabuco (il mulattiere-rigattiere) e subito ritiratosi in camera,
senza mangiare. Quindi declina all’Alcalde
le proprie (autentiche?) generalità e il suo ruolo di investigatore privato al
servizio di Alfonso di Vargas, con tanto di visite a Cordova (dove scopriremo
era ospitata Leonora) e Cadice, dove apprenderanno della morte di Leonora e
dove il protettore dello studente, lasciato il fratello a far ricerche di
Alvaro in Spagna, si è imbarcato per inseguire l’assassino del padre nelle
Indie. L’Alcalde impedisce però allo studente
di intrufolarsi nella stanza dell’ospite misterioso… La locandiera, che aveva
irriso lo studente per la sua storia inverosimile, scopre poi che la signora (! Leonora?) se n’è già andata
via. Come si vede, il testo di Saavedra dice-e-non-dice, ci lascia quindi una
notevole suspense sui fatti che
stiamo osservando. È quindi un po’ come un libro giallo, dove anche i
particolari si spiegano solo in un secondo tempo. Non così in Piave, che ci mostra
chiaramente, un paio di volte, Leonora travestita.
Le sei
scene successive hanno come teatro il Convento degli Angeli e corrispondono
(con qualche dettaglio in più) alla parte finale del second’atto del libretto
di Piave: Leonora arriva al Convento, producendosi nel suo drammatico monologo
(e solo qui abbiamo la certezza che l’avventore misterioso nella locanda era
lei, e che aveva origliato i discorsi di Carlo, il che spiega anche la sua
precipitosa fuga e il suo rancore verso Alvaro, che l’avrebbe abbandonata per fuggire
in America; poi è ricevuta da Melitone,
quindi si rivela (grazie anche alla missiva di Padre Cleto di Cordova) al Padre
Guardiano e lo implora di ospitarla nell’eremo. In alternativa, Padre Guardiano
qui suggerisce alla donna, oltre all’opzione-monastero (ripresa da Piave-Verdi)
anche la possibilità di tornare dalla zia
di Cordova (nominata evidentemente da Cleto) presso la quale Leonora ha
vissuto per un anno. La giornata si chiude con l’assenso di Padre Guardiano a
condurre Leonora all’eremo e alla descrizione delle condizioni di totale isolamento
che le verranno colà garantite. I due entrano – sempre da soli, si noti bene – in Chiesa.
La terza giornata (di 9 scene) ci porta a
Velletri, dove infuria la battaglia fra spagnoli e tedeschi (in realtà:
austriaci). Questa giornata corrisponde alle prime due scene del terzo atto in
Piave-Verdi, che l’hanno ripresa abbastanza fedelmente, eliminando particolari
di scarso interesse. Ci troviamo (scene 1 e 2) la partita a carte di ufficiali
spagnoli, cui si aggiunge Carlo che si ritiene imbrogliato al gioco. Nella
scena 3 abbiamo il grande monologo di Alvaro, che ricorda le sue origini e i
genitori incarcerati a Lima: sapremo dal racconto di Alfonso alla fine che suo
padre era il Vicerè che cercò di usurpare il trono, sposando la Principessa
Inca. Poi (nella 4) abbiamo il suo intervento a salvare Carlo dalla furia degli
ufficiali e la proclamazione dell’indissolubile amicizia fra i due (che ancora
non conoscono le rispettive identità). Quindi (scene 5 e 6) abbiamo la
descrizione della battaglia fra spagnoli e tedeschi con il ferimento di Alvaro
e ancora (scena 7) il ricovero di Alvaro e la sua richiesta a Carlo di
conservare e poi distruggere, alla sua morte, ritenuta imminente, le sue carte
segrete. La scena 8 vede Carlo aprire il baule di Alvaro e scoprirvi il
ritratto di Leonora, quindi riconoscere il seduttore della sorella e assassino
di suo padre, sospettare che la donna sia da qualche parte in Italia, e giurare
vendetta, ripromettendosi di uccidere entrambi. Cosa resa possibile dalla
notizia (scena 9) che Alvaro è ormai completamente fuori pericolo.
La
successiva quarta giornata (di 8 scene)
corrisponde alle scene 3-9 del terzo atto (1869) in Piave-Verdi, che però qui
si prenderanno parecchie libertà. Si apre con il drammatico confronto fra Carlo
e Alvaro: il secondo che crede morta Leonora ma viene smentito dal primo, che
l’ha saputa con una zia a Cordova (e però deve constatare che Leonora non è In
Italia con l’amante); confronto che culmina con la richiesta di Carlo - cui
Alvaro cerca invano di opporsi - di battersi a duello, al quale i due si
preparano. Qui Piave-Verdi abbandonano i due e introducono le scene mutuate da
Schiller, ignorando del tutto ciò che avviene in seguito (scene 2-8). La scena
2 ci mostra la piazza di Velletri, dove ufficiali spagnoli commentano
l’andamento della guerra e le decisioni di Re Carlos (pena di morte per chi si
batte a duello); improvvisamente compare Alvaro, disarmato, arrestato e portato
in caserma per aver ucciso Carlo proprio
in duello! Nelle scene 3 e 4 assistiamo ad un colloquio a quattr’occhi fra
Alvaro e il capitano, che gli conferma la più alta stima e gli annuncia che i
suoi ufficiali chiederanno al Re la grazia per lui. Ma Alvaro si dichiara
omicida e (scena 5) esterna tutta la sua amarezza e il suo dolore: Leonora vive
e lui sta per morire come un volgare assassino, avendo tradito oltretutto i propri
genitori, che giacciono in un carcere di Lima. Nella successiva scena 6 torna
il capitano che informa Alvaro dei tentativi (inutili) fatti dai generali di
convincere Re Carlos a graziarlo: Alvaro attende la morte, che considera
meritata. Ma ora succede l’imprevisto (scena 7): i tedeschi sono dentro
Velletri e si deve immediatamente intervenire per contrastarli. Il capitano
lascia libero Alvaro, che (scena 8) impugna la spada e si avvia a combattere:
se non troverà morte in battaglia, allora promette a Dio di abbandonare il
mondo e ritirarsi in un deserto. Quest’ultimo è un particolare non trascurabile:
sapremo da Padre guardiano che Rafael (Alvaro) non arrivò spontaneamente al convento,
ma vi fu portato, gravemente ferito, dal padre elemosiniere; solo dopo le cure e
la guarigione trovò la sua vocazione religiosa!
Eccoci
ora alla quinta giornata (di 11
scene). Qui la trama è macroscopicamente quella che verrà ripresa da
Piave-Verdi nell’atto conclusivo, ma con differenze non proprio marginali. Le
prime due scene ci mostrano Melitone alle prese con la distribuzione del rancio
ai mendicanti-petulanti e poi a colloquio con Padre Guardiano a proposito di
Padre Rafael, che scopriremo essere Alvaro sotto mentite spoglie: è qui che
Padre guardiano precisa che Rafael è lì da circa 4 anni, da quando
l’elemosiniere lo trovò lungo la strada per Siviglia, ferito probabilmente da qualche
brigante. Nella terza scena arriva al convento Alfonso (evidentemente reduce
dalle Indie…) in cerca di quel Padre Rafael che lui sospetta essere l’assassino
di suo padre. Convince il recalcitrante Melitone a condurlo alla cella di
Rafael. Melitone (scena 4) lo annuncia ad Alvaro-Rafael, che si chiede (scena
5) chi possa cercarlo fin lì: qualcuno che gli porta notizie da Lima?
Nella scena 6 assistiamo al drammatico scontro fra Alvaro e
Alfonso, che viene subito al dunque, smascherando il frate e mostrandogli il
volto. Alvaro rimane sconvolto, mentre Alfonso gli dice di averlo inseguito per
5 anni fino in capo al mondo e di aver portato con sé due spade, per il duello nel quale dovranno
battersi. Alvaro cerca in tutti i modi di mantenersi calmo e di non reagire
alle continue provocazioni di Alfonso, che lo offende nei suoi più intimi
sentimenti; poi, di fronte all’ennesimo affronto, si decide al duello. Nella
scena 7 Alvaro e Alfonso si fanno aprire la porta del convento da Melitone, e
si avviano di corsa verso la foresta, proprio in direzione dell’eremo occupato
da Leonora. Melitone (scena 8) cerca invano di avvertirli della scomunica che
pende su chi viola quel luogo, poi decide di avvertire il prelato, mentre si prospetta
una notte tempestosa.
La scena 9 è
ambientata nei pressi della caverna di Leonora, dove i due si preparano al
duello. Alvaro vuole comunicare un segreto ad Alfonso, ma questi lo gela,
rispondendogli che quel segreto lui lo conosce già, anzi… È reduce da Lima,
dove ha scoperto tutto sulle origini di Alvaro, ed ora gliele spiattella
crudelmente, insieme a notizie che Alvaro ignora e che ne aggraveranno i sensi
di colpa. Dunque: il padre di Alvaro era il Vicerè delle Indie spagnole, poi
sposò l’ultima ereditiera degli Inca e cercò di usurpare il trono, ma venne
scoperto; si rifugiò in montagna, fra gli indios, dove fu arrestato. Ma il Re
Felipe lo graziò, mutando la pena di morte in ergastolo; e in una prigione di
Lima venne alla luce Alvaro, che poi crebbe fra gli indios e meditò la sua
vendetta, ma tutto quel che fece fu di venire in Spagna, ammazzare un padre
dopo averne sedotto la figlia. Ma la notizia che si immerge come una lama nel
cuore di Alvaro arriva adesso: il Re, grazie all’intercessione di suo zio, ha
liberato i suoi genitori, che ora sono alla sua ricerca! Alvaro per un attimo
si illude che tutto si possa aggiustare, e implora Alfonso di accettare una
generale riconciliazione, in nome del suo amore per Leonora. Ma Alfonso pensa
solo a vendicarsi di lui; offende ancora il
sangue di Alvaro e così lo scontro è inevitabile: Alfonso cade ferito e implora
la confessione. Alvaro, nonostante il divieto, si slancia alla porta dell’eremo
e chiede aiuto. Leonora, dopo alcuni rifiuti, esce suonando la campanella per
avvertire il convento.
Qui arriva la
scena-madre (10). Leonora esce e ode le voci conosciute di due uomini
egualmente sorpresi di vederla in quel posto: Alvaro, che pensa che lei lo
abbia seguito fin lì per amore; e Alfonso, convinto invece che la tresca fra la
sorella e Alvaro fosse continuata persino in quel luogo sacro! Così Alfonso
morente pugnala Leonora, sotto gli occhi attoniti di Alvaro.
Nell’ultima
scena si compie definitivamente il destino:
di fronte al Padre guardiano e ai frati, inorriditi alla vista di tanto sangue,
Alvaro si auto-accusa di essere un emissario dell’inferno, un demonio
sterminatore. E con ciò si butta dalla rupe più alta, fra la generale
costernazione.
___
Beh,
bisogna ammettere che il dramma di Saavedra ha una sua bella consistenza, e che
tutte le fasi della sua evoluzione sono perfettamente disposte, così come sono
curati al massimo i dettagli ed evitate evidenti incongruenze. Certo, ci sono
casualità un po’ troppo gratuite, come il fatto che Leonora e Alvaro si ritrovino,
convivendovi per 4 anni ma ignorando l’uno la presenza dell’altra, proprio in
uno stesso convento sperduto sui monti fra Siviglia e Cordova, quando la Spagna
di conventi ne conta più che di tori. (Ma vedremo che in Piave-Verdi la combinazione
sarà ancor più smaccata…) Oppure che Carlo venga salvato proprio da Alvaro e
poi viceversa! O che gli austriaci attacchino Velletri 5 minuti dopo l’arresto
di Alvaro. Anche la contemporanea presenza di Leonora e dello studente nello
stesso giorno nella stessa locanda è piuttosto incredibile (anche qui, peggio
sarà in Piave-Verdi, dove lo studente è… Carlo!)
Ma
sicuramente la debolezza di fondo nell’assunto di Saavedra - la tesi
dell’ineluttabilità, e quindi della forza,
del destino – consiste precisamente nella casualità
dell’evento-scatenante dell’intero dramma, che degrada il nobile concetto di
destino a quello prosaico di sfiga: l’accidentalità della morte di Calatravas, ben diversa - per dire -
da quella del Commendatore, deliberatamente voluta da DonJuan. Abbiamo quindi un
dramma dai contorni sesquipedali e dalle profonde implicazioni psicologiche ed esistenziali
che poggia sullo stuzzicadenti di un evento disgraziato. Il quale poi produce
in modo quasi deterministico gli altri tre casi di omicidio di membri della
famiglia Vargas: due per mano di Alvaro, ma anch’essi senza alcuna
premeditazione, anzi in risposta alle vigliacche provocazioni dei due fratelli
(legittima difesa, si potrebbe sostenere…); l’altra ad opera di uno dei
medesimi fratelli, tratto però in inganno dalle apparenze (le incredibili presenze
contemporanee di Leonora e Alvaro al convento).
Poco
giustificabile è perciò il tremendo senso di
colpa che porta Alvaro ad auto-dipingersi come un demonio (nemmeno fosse Jago!)
e a suicidarsi a sua volta. Non è un caso che proprio Verdi, già dopo la prima di Pietroburgo, abbia meditato
sulla gratuità di tutte quelle morti ed abbia successivamente deciso di risparmiare almeno il
quasi-incolpevole protagonista, garantendogli il perdono divino grazie
all’intercessione dell’altra vittima innocente di quell’assurda catena di
fatalità.
Prima di passare a Piave-Verdi va ricordato
come anche Saavedra (in ottemperanza al postulato
di Lavoisier che recita: Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma) abbia tratto ispirazione da altri, primo fra tutti Molière e il suo DomJuan. Si è già detto dell’analogia – premeditazione a parte -
fra l’uccisione di Calatrava e quella del Commendatore (della quale pure il Dom
verrà assolto!) Ma poi vi troviamo, guarda caso, un Carlos e un Alonso (fratelli
di Elvira) che vorrebbero vendicare l’onore della sorella ammazzando il
libertino che l’ha disonorata. Ma, ancora guarda un po’ il… destino, Carlos è stato salvato proprio
dal Dom, che gli ha evitato sicura morte per mano di tre banditi. Così quando
Alonso arriva, riconosce il Dom e lo vorrebbe far secco, ecco che Carlos lo
convince a rimandare la cosa, per gratitudine verso il suo salvatore! Prima ancora
di Molière, troviamo una significativa radice del dramma di Saavedra in Tirso de Molina: nel cui Burlador, il padre ammazzato dal libertino
è il comandante di Calatrava! (A
proposito di trasformazioni.)
Ma eccoci ora alla premiata coppia Piave-Verdi. Come si deduce dal confronto fra il testo originale e il libretto
dell’opera, i nostri intervennero sul soggetto di Saavedra sia per sottrazione che per aggiunta. E vediamo come
entrambe le operazioni abbiano avuto i loro bei pro e contro, tenendo anche
conto delle due (principali) versioni
dell’opera: 1862 e 1869.
Sotto il
primo aspetto i nostri si posero il naturale e lodevole obiettivo di rendere
più concisa e meno dispersiva la trama originale. Una delle principali
semplificazioni fu quella di… ammazzare Alfonso nella culla (!) e lasciare al
Marchese di Calatrava un solo figlio maschio, Carlo, che va invano in cerca di
Leonora e quindi segue, prima a Velletri e poi di nuovo in Spagna, Alvaro in
tutti i suoi spostamenti. Qui però c’è il rischio di cadere in enormi
contraddizioni, chè nella locanda di Hornachuelos (Atto II) lo studente (che
per Piave-Verdi è Carlo travestito) afferma di aver visto il Vargas (cioè…
Carlo per Piave-Verdi) imbarcarsi per le Americhe! Attenzione perché questo particolare
è di grande importanza, in quanto (udito da Leonora) ingenera nella donna l’idea
del tradimento dell’innamorato: quindi Piave-Verdi non potevano ignorarlo. Peccato
però che così abbiano infranto il principio di non-ubiquità, chè Carlo non può
trovarsi contemporaneamente in viaggio per le Americhe e a Hornachuelos prima e
Velletri poi! L’alternativa sarebbe che il Carlo della locanda stia raccontando
un sacco di fregnacce inventate lì per lì (come infatti Preziosilla sospetta): cosa francamente poco degna di un
libretto di Verdi. Fra l’altro (parlando come lo studente di Saavedra) Carlo
afferma di credere Leonora morta la notte della fuga, mentre a Velletri dirà ad
Alvaro che Leonora vive… Ora ci si spiega anche perché nel finale Piave-Verdi
taglino completamente il racconto di Alfonso della sua visita a Lima, con la
rivelazione della libertà ridata ai genitori di Alvaro.
Altro problema
causato dalla soppressione di Alfonso: è ovvio e pacifico che Carlo non possa
morire in duello con Alvaro in quel di Velletri, altrimenti…
buonanottealsecchio! Ma dato che tutto l’atto di Velletri deve restare in
piedi, con quel che segue, che si fa? Qui le due versioni dell’opera divergono;
nella prima il duello avviene, Alvaro ferisce Carlo e crede di averlo ucciso… ma
si sbaglia (ma guarda che destino!) Nella seconda si trova una scusa (anche questa
invero ridicola, ammettiamolo) per scongiurare il duello in modo da tenerlo in
canna per il gran finale al convento. In entrambe si taglia anche tutto il
seguito di avvenimenti italiani come narrati da Saavedra. Vedremo tra poco come
il taglio verrà ricucito, grazie a… Schiller, ma intanto non possiamo non
osservare l’inconsistenza (1869) dell’esternazione (Or che mi resta?) di un Alvaro improvvisamente
colpito da crisi mistica: che caso mai avrebbe avuto un senso proprio dopo
l’uccisione di Carlo, ma così? Nulla di irreparabile è (ancora) accaduto da
giustificare una simile rinuncia al mondo. Abbiamo anche
visto come in Saavedra Alvaro maturi la sua vocazione dopo essere stato ricoverato e guarito in convento, non prima!
Nell’atto
conclusivo Piave trascura un particolare (di poco conto, per carità, oltre che
ininfluente) attribuendo a Carlo un’affermazione (Da un lustro ne vo’ in traccia) che Saavedra mette (plausibilmente) in bocca ad Alfonso: esser passati 5 anni da quando il
fratello di Leonora si è messo alla ricerca di Alvaro. Però questo è plausibile
per Alfonso, che dall’indomani della morte del padre si era messo sulle tracce
di Alvaro, andando fino in Perù, dove aveva raccolto le ultime notizie sui suoi
genitori, ora liberi (circostanza ignorata da Piave, come abbiamo visto). Potrebbe
essere vagamente plausibile anche nella versione 1862 (Carlo gravemente ferito deve
aver il tempo di rimettersi in sesto e così nel frattempo ha perso di vista Alvaro). Ma nella
versione 1869 Carlo è rimasto – dopo il mancato duello - vivo e vegeto a poca
distanza da Alvaro, il che rende inverosimile che abbia poi impiegato 5 anni (guarda
caso, il tempo abbondante per un’andata-e-ritorno a Lima!) per tornare sulle
sue tracce.
Un’altra
(piccola?) forzatura nel libretto di Piave riguarda la frase pronunciata –
sempre nell’atto finale - da Carlo (ad Alvaro): Una suora mi lasciasti che tradita abbandonasti all’infamia, al disonor. Nell’originale di Saavedra Alfonso non la pronuncia,
limitandosi ad accusare Alvaro di seduzione. Lui, come aveva ricordato lo studente,
era convinto che Leonora fosse morta la notte stessa dell’uccisione del padre. E
fra seduzione e seduzione+tradimento+abbandono c’è una certa differenza.
A
proposito del finale, sappiamo che fu da Ghislanzoni-Verdi riscritto in vista della
rappresentazione alla Scala (1869). Alvaro, già omicida (seppur involontario)
del padre, uccide anche l’unico figlio maschio nel duello che questi ha per
tanto tempo inseguito. Però che succede? Che due soli omicidi (nessuno dei
quali premeditato, per di più) invece di tre come in Saavedra parvero a Verdi
motivazione insufficiente a giustificare la disperazione di Alvaro e la sua
auto-condanna a morte in quanto creatura infernale: così, dopo la prima
versione (fedele al testo originale) in cui Alvaro si getta dalla rupe, Verdi
chiese a Ghislanzoni di produrre la seconda e definitiva – e in questo caso più
logica e realistica, va riconosciuto, rispetto a Saavedra - dove il poveraccio
sfigato riceve il preavviso del perdono divino dalla bocca di Leonora morente
e… resta vivo a piangere i morti.
Sul
fronte delle aggiunte al soggetto
originale, cominciamo dal second’atto, dove Piave-Verdi spostano la Preziosilla
da Siviglia a Hornachuelos, nella locanda dove lei fa la sua incredibile lode alla guerra, invitando i presenti
ad arruolarsi per l’Italia, dove anche lei promette di seguirli. Peccato che la
cosa poteva avere magari un senso in una città popolosa come Siviglia, ma
diventa piuttosto incredibile se collocata in uno sperduto paesino di montagna,
affollato sì in quel momento, ma solo da pellegrini diretti al convento, poco
papabili come volontari militari. Vedremo poi come questa corposa presenza
della gitana servirà a giustificare un’altra e ben più corposa (e schilleriana) aggiunta al terz’atto. Qui Piave-Verdi trasferiscono
da Alvaro a Carlo la predizione di malasorte della gitana! Nel libretto
italiano sparisce totalmente ogni risvolto misterioso che in Saavedra
caratterizza la scena nella locanda: riconosciamo chiaramente Carlo travestito
da studente (e dichiaratamente alla ricerca della sorella e del suo seduttore) e
Leonora (che compare di sfuggita) travestita da uomo.
In tema
di aggiunte – sempre nell’atto secondo - una novità piuttosto importante è il coro finale di Padre Guardiano e dei
frati del convento (Maledizione,
maledizion!) Che consente a Verdi di proporci grande musica di grande
effetto, ovviamente (poi sarà ripreso da Leonora nella scena finale); ma si
tratta in realtà di un monito del tutto sproporzionato rispetto all’oggetto,
che è un invito, per quanto severo, del Padre ai suoi frati (a chi altro…?) a
non essere curiosi. Insomma, un cannone per sparare a una mosca! (Molto più
plausibile la maledizione di Monterone a Rigoletto, per dire…)
E veniamo
all’atto terzo, il più martoriato di tutti e per di più rivisto nel 1869
rispetto alla prima versione. Nel suo monologo, Alvaro si dice figlio di un
indio che, sposando la principessa Inca, sognava di liberare il suo Paese dalla
dominazione spagnola, e venne dagli spagnoli arrestato e incarcerato (abbiamo
visto che in Saavedra suo padre era invece il Vicerè spagnolo). Poi tutta la
struttura dell’atto viene rivista, con l’inserzione – voluta da Verdi in
persona - delle scene mutuate da Schiller, che nel suo Wallensteins Lager presenta proprio uno spaccato della vita
quotidiana di una guarnigione boema ai tempi della guerra dei 30 anni, quindi
uno scenario vagamente assimilabile a quello di Velletri. Nella versione
originale dell’opera, dopo che Carlo ha scoperto l’identità di Alvaro abbiamo
le scene schilleriane e
successivamente il duetto Carlo-Alvaro e il duello, il cui esito sembrerebbe
quello di… Saavedra, ma in realtà non è così, anche se Alvaro canta
un’aria-cabaletta (Qual sangue sparsi! e S'affronti la morte, col DO acuto) che chiude l’atto, nella
quale si dice convinto di aver ucciso
il rivale. Nel 1869 la struttura cambia: scompare l’aria-cabaletta finale di Alvaro
e, dopo l’aria di Carlo abbiamo il breve coro dei soldati e quindi il duetto che
dovrebbe portare al duello, duello che però viene impedito in circostanze risibili.
E qui partono le ultime 5 scene da Schiller, i contenuti delle quali sono del
tutto avulsi dal nocciolo del dramma, al quale anzi finiscono per assestare un’insopportabile
caduta di tensione. Vien quasi da sospettare che Verdi abbia - per qualche
ragione, magari legata al teatro che doveva ospitare la prima - voluto impiegare qui uno degli ingredienti classici (anche
per collocazione all’interno degli atti) del Grand-opéra, che contemplava per dopo la metà dell’opera la
presenza di balletti o comunque di simili scene coreografiche.
Ecco
quindi che personaggi che in Saavedra sono marginali e passano come meteore qui invece tornano
miracolosamente in scena e in primissimo piano: si tratta di Trabuco e
Preziosilla, che evidentemente Piave-Verdi hanno mandato (da Hornachuelos!) al
seguito delle truppe spagnole in Italia. Si è già detto come, per giustificare
in parte la loro presenza a Velletri, nel secondo atto era stata messa in bocca
a Preziosilla quella grottesca lode alla guerra e l’intenzione di seguire i
volontari in Italia. In più, ecco comparire a Velletri persino Melitone
(fattosi per l’occasione e pro-tempore cappellano militare? suvvia…) cui Verdi
fece vestire i panni dell’anonimo monaco che nell’ottava scena del Wallenstein
fa un pistolotto a soldati e paesani della guarnigione; e chiese ad Andrea Maffei di aggiustargli all’uopo i
versi già da lui tradotti del dramma di Schiller. Ed ecco qui il risultato:
Non parliamo
poi del Rataplan! che chiude l’atto. Che
già Donizetti e Meyerbeer avevano musicato, ma in opere di soggetto decisamente diverso
(La Fille du Regiment e Les Huguenots) e che Offenbach aveva parodiato nel suo Ba-ta-clan, probabilmente noto a Verdi,
che si trovava a Parigi fino alla settimana precedente l’esordio in scena (al Théâtre des Bouffes Parisiens, 29 dicembre
1855) della chinoiserie musicale dell’allora 35enne semi-sconosciuto violoncellista.
C’è però chi ipotizza che queste apparenti grossolanità, introdotte da
Verdi in un soggetto più che serio, altro non siano che un mezzo – e nemmeno
tanto blando – per satireggiare contro la retorica
della guerra e, con riferimento a
Melitone, della liturgia!
Ma se Dio vuole nell’atto quarto abbiamo la splendida invenzione
dell’aria di Leonora (Pace, pace, mio
Dio!) che da sola riscatta tutte le magagne del libretto!
___
Per quanto riguarda il fronte strettamente musicale, rimando a questo
breve, ma come sempre penetrante, saggio di Michele Girardi. Quanto alla versione originale di Pietroburgo, la si può vedere qui, rappresentata proprio
nella città che ospitò la prima.
___
Torniamo ora
al Regio e a questo spettacolo di Stefano
Poda (una ripresa, in effetti, dalla stagione 2011). Il regista è anche
scenografo, costumista e… lucifero (forse in omaggio alle spending review oggi tanto di moda) e fa un discreto compitino sul
tema, senza inventare chissà quali Konzept
(per quelli bisognerebbe chiamare i Guth e i Carsen, che costano un occhio
della testa!) Quindi vediamo una Forza
quasi coerente (fatte salve le varianti predisposte per la Scala nel 1869) con
quella che Verdi nel 1862 propose ai pietroburghesi, affamati di prodotti di
marca dell’occidente.
Ho scritto quasi perché il regista, dovendo
comunque giustificare la parcella, qualcosa di strano deve pur inventarsi. Ecco
quindi che Leonora, nella scena dell’atto secondo al convento, invece di
presentarsi ai monaci abbigliata da… monaco, si mostra in tutta la sua
femminilità, e fa pure un mezzo spogliarello! Forse il regista qui voleva riempire
di contenuti e razionali quell’altrimenti esagerato Maledizione! Poi, nella scena finale, affinchè nessuno abbia dubbi
sullo svolgersi dei fatti, ecco che Leonora viene pugnalata (due volte, non si
sa mai…) da Carlo davanti a tutti. Sorvolo su altri particolari di poco conto,
come il baule (o valigia) di Alvaro (atto III) che qui diventa un moderno
portafogli, più piccolo della chiave che lo deve aprire (smile!) O il pugnale che piove dall’alto dopo l’accoltellamento di
Leonora, conficcandosi in un cubo posto sotto l’enorme croce che incombe sul
finale. O ancora il pulviscolo luccicante (tipico delle premiazioni di squadre che
vincono coppe o campionati) che scende sulla scena al calar del sipario.
L’aspetto
per me più interessante della proposta di Poda consiste nel rendere seri (quale è il dramma nella sua
essenza) anche i momenti da avanspettacolo che lo caratterizzano; questo
contribuisce a minimizzare gli eccessivi contrasti fra le cupe vicende del
soggetto e i diversivi leggeri che lo inquinano.
Quanto alle
scene, nei primi due atti prevalgono pannellature enormi che chiudono la
visuale, e che sono di quando in quando spostate per creare… movimento (!) Il
terzo atto si apre (sul monologo di Alvaro) con un enorme pendolo (tipo la
mazza sferica di felliniana memoria) che dovrebbe, credo, rappresentare
l’incedere ineluttabile del destino. Nell’atto conclusivo abbiamo l’altrettanto
enorme croce adagiata obliquamente, ad evocare… qualcosa che il regista
dovrebbe spiegarci (smile!) I costumi
dei personaggi principali tendono pericolosamente al… pastrano DDR di triste memoria, ma pazienza. Oltre ai ballerini che
compaiono nelle scene del 2° e 3° atto, vediamo all’opera anche dei mimi che
evocano, ad esempio, le scene di guerra in quel di Velletri.
Sul fronte attoriale, poco da dire: Poda non rischia
nulla, fa cantare i protagonisti (salvo i… morenti, che per forza di cose devono
stare sdraiati per terra) ben piantati di fronte al pubblico e muove il meno possibile
le masse corali (facendo caso mai muovere di più – anche se… al rallentatore - i
mimi).
In sostanza,
un allestimento dignitoso che non farà storia, né nel bene, ma neanche – e questo
è già un merito – nel male.
___
Ho già anticipato
della sicurezza di Bignamini, la cui direzione
è di quelle che ti fanno pensare che il Direttore abbia studiato assai la partitura (cosa che parrebbe ovvia, ma che tale purtroppo
non è): mai un’esagerazione enfatica, mai la buca che zittisce le voci, sempre una
buona intesa fra suoni e canto. Ecco, il Direttore
associato de laVERDI sfrutta al meglio le qualità di un’altra benemerita Orchestra
padana (la Filarmonica Arturo Toscanini)
valorizzandone l’insieme e i singoli, primo fra tutti il clarinetto (forse per affinità… elettive.)
Ottimo il
coro del Regio di Salvo Sgrò, che alla
fine dell’atto terzo, dopo un fulminante Rataplan,
ha ricevuto uno speciale tributo di applausi.
Applausi che
il pubblico ha distribuito – in diversa misura e mescolati a qualche chiaro
dissenso - a tutti, sia a scena aperta dopo i numeri principali, che al termine dello spettacolo.
Roberto Aronica (Alvaro) mi
ha piacevolmente impressionato, reggendo bene sino in fondo una parte
oggettivamente difficile e mettendo in mostra una voce squillante e potente,
che ben si addice alla figura del mezzo-hidalgo venuto dal Perù.
Il suo rivale Luca Salsi (Carlo) ha pure ben meritato,
salvo qualche problema emerso sugli acuti (parlo della ballata dell’atto
secondo): con Aronica ha dato vita in modo efficace anche ai duetti di
amicizia-scontro fra i due.
Molto meno
convincente Virginia Tola (Leonora):
non è un caso che, in mezzo a convinti applausi, già arrivati dopo le due arie, alla singola finale sulla 38enne cantante
argentina siano piovuti dal loggione anche convinti… buh: forse eccessivamente ingenerosi, ma direi proprio non
immeritati, stante l’opacità complessiva della sua prestazione, che non ha
presentato clamorose mende, ma che non si è mai sollevata da un livello di
generale mediocrità, a partire dal poco gradevole timbro della sua voce.
Roberto De Candia
(Melitone) ha forse ecceduto in qualche schiamazzo di troppo (alludo alla scena
del refettorio) ma nel complesso non se l’è cavata male, specie nel suo
tormentone del terz’atto.
Michele Pertusi (Padre guardiano)
è un altro che mi ha sorpreso negativamente: la voce pareva perennemente forzata
per assumere un accento ieratico e severo, col risultato di… risultare innaturale
e stimbrata. Peccato.
Chiara Amarù (Preziosilla)
ha confermato le buone qualità che l’hanno rivelata negli ultimi ROF: anche lei
però, in mezzo a tanti applausi, è stata destinataria di un (peraltro isolatissimo)
dissenso.
Andrea Giovannini
(Trabuco), Simon Lim (Calatrava), Raffaella Lupinacci (Curra), Daniele Cusari (Alcade) e Gianluca Monti (Chirurgo) hanno onorevolmente
completato il cast.
In conclusione,
un caldissimo (parlo proprio di temperatura ambientale) e piacevole pomeriggio.