Anche a
cavallo fra 2013 e 2014 risuona per quattro volte in Auditorium, diretta da Zhang Xian, la Nona
beethoveniana che laVerdi offre ogni
fine d’anno al suo affezionato pubblico. Pubblico che ieri sera, alla seconda
replica, era davvero strabocchevole e che alla fine, prima e dopo il tradizionale bis della coda dell’Ode, ha tributato a orchestra, coro, solisti e direttore una specie di
trionfo non solo per la serata, ma idealmente per tutto questo 2013 che ha
segnato per la Fondazione alcune tappe davvero indimenticabili: dal compleanno
dei 20 anni, alla prestigiosa presenza ai PROMS
fino alla tanto sospirata ed acclamata ottava
mahleriana.
Ed anche
questa esecuzione ha confermato la piena maturità dei complessi strumentali e
corali de laVerdi, entrata ormai a
pieno titolo nel novero delle istituzioni musicali più prestigiose. E un segnale
non insignificante di ciò è la crescita di singoli componenti dell’orchestra, che
si guadagnano via via posizioni di prima parte:
ieri sera ne era esempio palpabile la presenza, sulle due sedie ai lati del podio,
di Nicolai Freiherr von Dellingshausen
(un nome… un programma!) e di Tobia Scarpolini,
che ha guidato splendidamente il pacchetto degli archi bassi nel grande recitativo
del Finale.
Insomma,
almeno qui in Auditorium il 2013 non sarà certo ricordato come annus horribilis, ma mirabilis! Di questi tempi, è già
qualcosa…
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Sulla Nona si
sono scritti i proverbiali fiumi d’inchiostro. Ma in Italia il saggio ancor
oggi - dopo quasi 40 anni - più completo è quello di Massimo Mila (Lettura
della nona sinfonia, purtroppo
difficile a reperirsi tramite i principali canali commerciali) che esplora la
partitura quasi battuta per battuta, mettendone in luce anche le più remote
significanze.
Oggi noi non
ci scandalizziamo della durata di oltre un’ora di una sinfonia, abituati
all’ipertrofia di quelle di Mahler, che almeno in 7 casi su dieci si avvicinano
ai 90 minuti; così come non badiamo alla mancanza del da-capo nell’esposizione
dei temi del primo movimento (A-A e poi B-B invece che il tradizionale A-B con ritornello); e poco
ci curiamo del fatto che il secondo tema, invece che in FA maggiore come da sacri
canoni, sia nella sua sottodominante SIb;
né ci sorprende che il movimento vivace (lo Scherzo)
compaia in seconda anziché in terza posizione. E soprattutto troviamo quasi
normale la presenza di voci e coro, dopo che la cosa era diventata quasi
un’abitudine sin da fine ‘800, sempre grazie a Mahler (per la verità anticipato
isolatamente dal Mendelssohn della Lobgesang).
E il nostro orecchio accetta senza drammi le tremende dissonanze degli accordi
che aprono l’introduzione, nello stesso Finale
della sinfonia.
Ma per il
pubblico e soprattutto per la critica dell’anno di grazia 1824 quelle novità
suonavano come un autentico terremoto che scuoteva dalle fondamenta sacre consuetudini
consolidate ormai da quasi un secolo! E proprio e soprattutto l’ultimo
movimento della Nona fu da subito oggetto di accese discussioni a causa
dell’impiego della voce, che avrebbe – secondo gli schizzinosi à-la-Hanslick – inquinato la purezza
della forma sinfonica con ingredienti alieni e propri di generi completamente
diversi (Lieder, oratori, cantate, messe, opere).
Al proposito, Giovanni Bietti (una delle voci che su
Radio3 ci impartiscono splendide lezioni di musica) nel suo recente Ascoltare
Beethoven ricorda come la Nona sia da sempre oggetto non solo
di critiche, ma anche di ritocchi… fra i quali cita quello famoso di Furtwängler, consistente nel re-instrumentare
l’incipit del Finale, per renderlo
ancor più enfatico e strepitoso di quanto già non sia. Questa è la pagina della
partitura originale (una delle tante edizioni, inclusa quella recente di Jonathan del Mar per Bärenreiter, che
concordano tutte sul contenuto):
Ora, se si
ascolta un’esecuzione del famoso direttore (qui nel 1954) non si può non notare
come alle trombe (clarini, nell’originale
di Beethoven) sia stata di fatto assegnata la stessa parte dei flauti, il che
conferisce al passaggio una spettacolarità perfino eccessiva e al limite del
pacchiano! Oltretutto coprendo quasi completamente il suono dei legni. (Qualcosa
di simile accade poco dopo, al secondo intervento dei fiati, dopo il primo
recitativo degli archi bassi; e poi ancora, al ritorno della fanfara prima
dell’entrata del baritono.)
Ma in realtà
tutto ciò non è nemmeno farina del sacco di Furtwängler, bensì di quello di Richard Wagner, che nel 1873 aveva
scritto un piccolo trattato sull’esecuzione della Nona, in cui precisamente
giustificava la sua decisione di cambiare sostanzialmente la parte delle trombe
in quel passaggio (una terrificante
fanfara dei fiati, parole sue) poiché, a suo dire, come l’aveva scritta
Beethoven era tale da far udire all’ascoltatore soltanto il ritmo di quegli ottoni,
la cui potenza sovrastava la linea melodica dei legni. E siccome, secondo lui,
ciò non poteva corrispondere ai desideri del compositore, ecco la decisione,
che Wagner aveva adottato nelle sue ultime interpretazioni della sinfonia, di
far suonare alle trombe la stessa linea degli strumentini. E nel suo scritto
Wagner riporta precisamente la modifica della parte delle 2 trombe (qui le
prime 5 battute):
Beh, con tutto
il rispetto per Wagner, anche un principiante capisce che una soluzione meno
estrema del problema – soluzione che sia più rispettosa dell’idea del
compositore, quindi non uccida il suono dei legni e non crei effetti pacchiani
- consisterebbe semplicemente nel chiedere alle trombe di suonare un filino più piano rispetto ai legni (dinamica f e non ff, per dire…) Così mi pare
proprio abbia fatto ieri la Xian, e del resto anche tale Charles Gounod (non certo il primo che passava per la strada…) non
aveva risparmiato pesantissime critiche verso quelle scelte di Wagner.
Di avviso
opposto fu Gustav Mahler, che non
solo cooptò tutti i suggerimenti di
Wagner, ma rincarò la dose, conformemente alla sua abitudine-attitudine di
apportare valore-aggiunto (?!) alle
opere altrui (e Schumann ne sa qualcosa…) La sua prima
direzione della Nona a Vienna (domenica 18 febbraio 1900) fu l’occasione per lo
scatenarsi di polemiche furiose fra i critici riguardo alla cosiddetta libertà dell’interprete. Ad esempio, Max Kalbeck difendeva a spada tratta le scelte
di Wagner e Mahler, sostenendo che in fin dei conti la musica esiste soltanto
quando qualcuno (l’interprete) la porta all’orecchio dell’ascoltatore,
viceversa resta solo un ammasso di segni morti sulla carta. (Peraltro non
poteva esimersi dal deplorare il taglio di 8 battute perpetrato da Mahler
all’inizio della ripresa dello Scherzo!)
Sul fronte
opposto della barricata c’era chi, come Robert
Hirschfeld, deprecava l’eccessivo e maniacale gusto del dettaglio, che portava Mahler a mettere
sempre in risalto anche piccoli particolari di puro contorno e riempitivo,
perdendo così la visione d’insieme
dei brani eseguiti. E poi concludeva che se si lascia al direttore la libertà
di re-instrumentare a suo piacere una partitura, magari con il razionale della
limitatezza dei mezzi disponibili ai tempi di Beethoven, allora si sa dove si
comincia ma non dove si va a finire…
In effetti
queste diatribe fra progressisti e conservatori si registrano ancor oggi (pur
se a livello partiture siamo ancora alle quisquilie, se confrontate con le
libertà che si prendono i registi
nelle messeinscena delle opere!) Ma pensiamo cosa succederebbe ad un direttore
che – sostenendo che se Beethoven avesse avuto a disposizione il saxofono (inventato 20 anni dopo la sua
morte!) lo avrebbe di certo impiegato alla grande nelle sue sinfonie -
decidesse di rinforzare la sezione degli ottoni con un paio di sax: sarebbe
portato in trionfo, o accompagnato presso il più vicino psichiatra?
Quanto all’idea
che la musica esista solo sotto forma di onde sonore propagantesi nell’aria
fino a raggiungere i timpani dell’ascoltatore, come la mettiamo col fatto che
almeno un terzo dell’intera produzione di Beethoven fu composto da una persona
quasi totalmente sorda? E non è forse vero che Brahms, disgustato dalle pessime esecuzioni mozartiane dei teatri
del suo tempo (eccettuato Mahler!) ripeteva che quando voleva ascoltare un DonGiovanni come si deve, si metteva
comodo in poltrona a casa sua e apriva la partitura? E forse che per apprezzare
l’Amleto si deve per forza andare a teatro ed ascoltarlo dalla viva voce di
Laurence Olivier? O non si può goderne (almeno fin ad un buon livello) anche
semplicemente leggendone il testo nel
silenzio del proprio studio?
Tornando a
bomba, oggi scopriamo che con Wagner, Mahler e Furtwängler si trova in pieno
accordo anche Aldo Ceccato: che nel
suo libretto Beethoven duemila, dove raccoglie le sue cosiddette attualizzazioni
delle nove sinfonie beethoveniane, propone più o meno la stessa soluzione
wagneriana all’incipit del finale, anzi estendendola in buona parte anche ai
corni (le note piccole sono quelle
aggiunte):
Quanto a
quell’incipit, Massimo Mila da parte sua ce ne fa notare la straordinarietà, in
particolare proprio nelle prime due battute, dove troviamo un chiaro esempio di
politonalità (roba da XX secolo!)
Infatti vi abbiamo la sovrapposizione di due diverse triadi: SIb maggiore e RE
minore. La prima deriva dal SIb di flauti, oboi e clarinetti, dal RE del
secondo corno e dal FA di fagotti, controfagotto e corni 1-3-4. La seconda è determinata, oltre che dai RE e FA
succitati, dai poderosi LA delle trombe e dei timpani, che creano quella
stridente dissonanza con i SIb.
Le due
tonalità rappresentano precisamente gli ingredienti di base dell’intera
sinfonia (i due temi del primo movimento, le tonalità di base dei restanti tre)
e in particolare il passaggio fra il terzo e il quarto movimento è frutto di
una mirabile quanto geniale intuizione di Beethoven: l’Adagio molto e cantabile si chiude sulla triade di SIb maggiore, ma
mettendo in evidenza la mediante RE, negli strumentini. Quindi all’attacco del Finale (che andrebbe eseguito senza
lunghe pause, come testimonia l’assenza di corona puntata alla fine dell’Adagio)
nel nostro orecchio risuona ancora l’accordo di SIb che ci
prepara col suo RE alla tonalità (minore)
su cui poggerà la prima parte del Finale. Orbene, la transizione dal SIb maggiore
al RE minore è ottenuta precisamente in quelle prime due battute del Finale, dove
le due triadi coesistono (e stridono) per un attimo soltanto, quasi che la prima
stia passando idealmente il testimone alla seconda. E uno sguardo
alla pagina di partitura ci mostra anche come tale passaggio di testimone avvenga,
per così dire, dall’alto al basso dei righi di pentagramma, al cui centro si trovano
le note comuni alle due triadi (RE-FA, emesse da strumenti di suono più sordo, come
fagotti e corni) mentre ai due estremi si trovano proprio le note che le differenziano,
emesse da strumenti dal suono squillante o percussivo: SIb, in alto, negli strumentini;
LA, in basso, in clarini e timpani!
Ma al ritorno
della fanfara, prima dell’entrata della voce del baritono, Beethoven va ancora
più in là, aggiungendo anche SOL (violini II), MI (violini II e viole) e DO#
(viole). Mila ci fa osservare che adesso sono addirittura quattro le triadi che
si sovrappongono: SOL minore (SOL-SIb-RE); SIb maggiore (SIb-RE-FA); RE minore
(RE-FA-LA) e infine LA maggiore (LA-DO#-MI). Qui vengono suonate insieme tutte e sette
le note della scala armonica di RE minore, un gigantesco cluster! (Ritroveremo cose simili in
musica non prima del Parsifal e della
Decima mahleriana, per dire…)
È talmente
grande la Nona, che è stata ed è strumentalizzata per mille diversi ed opposti
interessi: basterà ricordarne due. L’esecuzione della coda del Finale in occasione del
compleanno di Hitler, nel 1942, quando proprio Furtwängler, che nessuno ha mai
capito se in quei momenti si sentisse più imbarazzato che onorato, diresse i Berliner davanti ai più alti gerarchi
nazisti, in un tripudio di croci uncinate. 47 anni più tardi, in quella stessa
Berlino, a Natale, toccava a Lenny Bernstein dirigere la Nona nel Concerto della Libertà, per celebrare la
caduta del muro. E – come si ascolta a 1h07’05” nel filmato - invece di Freude, il baritono ed il coro
intonarono Freiheit!
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Segnalo ancora
le lezioni sulla Nona di Giangiorgio
Satragni, pubblicate qualche anno fa in rete dalla Città di Torino nell’ambito della meritoria iniziativa che va sotto il nome dentrolamusica.
Ecco infine
cosa scriveva a proposito della Nona Danilo Prefumo sul numero di aprile 1988 di Musica&Dossier.