Per me, direi di sì (essendosi che è l’unica rappresentazione cui ho assistito - live).
Opera perennemente incompresa e guardata con sospetto: dai verdiani ortodossi e conservatori, in quanto non abbastanza verdiana; da quelli progressisti in quanto non ancora abbastanza wagneriana. Fatta oggetto di diatribe e discussioni: fa i sostenitori del Grand’Opera, cinque atti, Fontainebleau, balletti e lingua gallica, e quelli che giudicano tutto ciò un ciarpame da bruciare. In mezzo, direttori che di volta in volta fingono di fare degli scoop, riesumando pagine di musica, pescandole quasi a caso da un cappello, o stabilendo come verità artistiche incontrovertibili i pettegolezzi raccolti da un amico o da una confidente del Maestro.
Si direbbe che questa diffidenza sia stata confermata ieri l'altro dai più di 170 posti (dico: quasi il 10% della capienza scaligera!) offerti in internet ancora a 3 ore dall’alzata del sipario; e comunque dal desolante spettacolo che presentavano, anche alle 19:30, i numerosi palchi semivuoti e i buchi ben visibili in platea. Sarà per via della crisi, e per le conseguenti difficoltà di agenzie e strutture turistiche (leggi: bagarinaggio autorizzato) a sbolognare ai giapponesini i contingenti di biglietti loro concessi, certo si è che il risultato - indipendentemente dal fatto che il Teatro abbia comunque incassato o meno quei 20 o 30 mila euri - è dei meno lusinghieri. Per la cronaca: per le ultime 4 recite, a gennaio, sono tuttora disponibili in web circa o più di cento posti a serata: brutto segno?
Regia, scene e costumi
Per la verità alla contraddittoria fama del Carlo sembra abbia voluto tener bordone anche la regia (in senso lato, includendovi scene e costumi) del pur intelligente Braunschweig (uno di quei simpatici francesi di nome e ascendente tedesco, tipo il ferrarista Jean Todt, per intenderci): che ha impostato la sua vision su basi essenzial-minimaliste delle scene, per poi concedere ampio spazio alla sfarzosità e sontuosità dei costumi (del solo establishment nobiliare, peraltro). Così si vedono gli ampi (fin troppo) spazi del palco scaligero spesso totalmente vuoti, oppure drasticamente limitati al solo proscenio; altre volte vi compaiono alberi finti o fondali riempiti da gigantografie, da far storcere il naso a marpioni tipo Appia; quando ci sono di mezzo le masse e i cori (frati, nobildonne, grandi di Spagna) lo sfarzo dei costumi si spreca, proprio come in un Grand’Opera che si rispetti. Insomma un nè carne, nè pesce che rischia di scontentare tutti.
La trovata dei due bimbi che compaiono a rappresentare Carlo ed Elisabetta ai tempi di Fontainebleau non sarebbe male - per surrogare sinteticamente la vicenda dell’Atto espunto - ma il loro riapparire qua e là finisce per essere stucchevole e spesso fuori dal contesto; un esempio per tutti: nella scena ad Atocha, è il Carlo-mignon a consegnare al Re, ricevutala da Posa, la spada del Carlo-maggiorenne (?!)
Nel Primo Atto, alla fine della prima parte, Braunschweig - per ricordare a tutti che se un regista c’è e lo si paga, deve pur guadagnarsi la pagnotta - si inventa letteralmente un’inversione di traffico sulla scena. La didascalìa non lascia dubbi: il Re e la Regina debbono transitare in corteo, diretti alla cappella, e Carlo deve guardarli passare, inchinarsi al Re sospettoso, lui e la Regina manifestando emozione. Invece noi vediamo i regali apparire quasi all’improvviso, soli, in primo piano, immobili quali statue di cera ed inginocchiati ad una specie di altare (un prisma marmoreo, che alla fine dell’opera assumerà il ruolo - assai più appropriato - di catafalco) mentre sono Carlo e Posa a muoversi ed uscire di scena, prima che cali il sipario.
Il Filippo che vediamo nell’ultima parte del Primo Atto (non direi sia colpa di Furlanetto) sembra muoversi più come un ottantenne possidente di campagna, scontroso e acido e con qualche gesto più degno di Rigoletto che di un Re, che sarà anche preoccupato, ma che ha - nella storia come nell’opera - un profilo ben più alto. Da qui in avanti però il sovrano tornerà ad assumere gesti ed atteggiamenti consoni al suo ruolo. Come nella scena di Atocha, su cui val la pena dir qualcosa. (Intanto sembra destino che a quasi mezzo millennio di distanza, questo nome sia tornato tristemente a rappresentare gli abissi in cui una civiltà possa precipitare, per mano della religione - cattolica o islamica, poco cambia - quando le gerarchie o i proseliti di detta religione pretendono di usarla a fini politici.)
Braunschweig qui ha intuizioni interessanti, come quella di presentarci i prelati, appollaiandoli su scranni esageratamente alti, ai lati della scena, e facendogli assumere atteggiamenti di noia, di sonnolenza e fastidio: cosa che immagino sarebbe molto piaciuta a Verdi. Poi si inventa, in contrapposizione ai costumi sfarzosi della nobiltà, una plebe vestita come oggi, con copricapi che vanno dal borsalino alla coppola, dalla bustina militare al basco; come a dire: la povera gente, 500 anni fa, non se la passava poi tanto diversamente da oggi (e vice-versa). Il Re compare in primo piano quasi subito, il che priva lo spettatore dell’effetto previsto in partitura (Filippo a comparire dopo l’apertura delle porte della chiesa, che Braunschweig sostituisce con l’alzata del sipario-zanzariera che schermava la scena all’inizio).
Veniamo al Terzo Atto, dove Braunschweig forse dà il meglio: la scena è vuota, solo uno scranno su cui siede Filippo, che canta la sua meditazione. (a proposito mi viene in mente che le precise note del passo “se il serto regal a me desse il poter” sono state usate - con tempo e ritmo ovviamente diversi - da un qualche bontempone dentro una zarzuela o qualcosa di simile.) Significativamente, nella scena successiva con l’Inquisitore, Filippo cede a quest’ultimo il posto a sedere sullo scranno, proprio a simbolizzare come stiano le cose, nei rapporti Stato-Chiesa. Salminen è un Inquisitore ideale (stiamo per ora parlando della presenza scenica): enorme, minaccioso, terrificante, con quella calma che gli deriva dalla consapevolezza del suo potere, oltre che dai novant’anni suonati che il personaggio porta sulle spalle, gli occhi e il passo quasi da cieco.
Un’altra idea interessante del regista è legata allo scrigno di Elisabetta, contenente il cammeo di Carlo: noi lo vediamo subito, al momento della meditazione. Filippo lo apre, ne prende il contenuto, stringendolo nervosamente fra le mani mentre canta “Ella giammai m’amò...”; poi riaprirà lo scrigno (invece di infrangerlo) al momento di mostrarlo ad Elisabetta; infine il cammeo, rimasto abbandonato sullo scranno, verrà raccolto da Eboli al momento di cantare il suo “O don fatal”. Qui devo aprire una parentesi di carattere personale, fra il vergognoso e il ridicolo: essendo che io - pregiudizialmente, lo ammetto - ho sempre guardato ai testi del melodramma italiano come a pure giustapposizioni di parole prive di significato compiuto e puri supporti al gorgheggio, e tratto in inganno dalla plausibilità dello scenario, avevo per non so quanto tempo dato per scontato che il don avesse l’accento forte - dòn - e si riferisse quindi all’infante protagonista del dramma. Non ricordo chi o come mi abbia portato a prendere atto che invece il sostantivo ha l’accento debole/stretto ed è una contrazione di dono (di natura). Imperdonabile, lo so; ma vero, ahimè.
Infine, devo proprio segnalare un particolare che testimonia della minuziosità della regia e dell’attenzione posta dagli interpreti ai dettagli più sottili. Dunque: colpito a morte dal colpo di spingarda esploso da un brigatista che ha dato l’impressione di uscir fuori dalla barcaccia, Posa rincula barcollando, fino ad accasciarsi sul seggiolone di Carlo, seguito dall’infante esterrefatto. Il realismo impone che scorra il sangue, ed infatti c’è un piccolo blob di color violaceo che compare per terra, ma dove? Disgraziatamente proprio dove Carlo si deve inginocchiare, accanto a Posa. Ed allora cosa non ti fa il meticoloso Neill? Con il suo piedino sinistro dà un paio di colpetti alla macchia di sangue plastico, spostandola in una zona da cui sia visibile a tutti, e non solo a chi, come il sottoscritto, guarda dal loggione, provvisto di binocolo da marina. Grandioso!
La conclusione del dramma è suggestivamente sottolineata dall’oscuramento totale della scena, incluse le lucine sui leggìi dell’orchestra, ad accompagnare il diminuendo dell’accordo conclusivo. Dopo il quale si sono ascoltati almeno due secondi di silenzio, speriamo dovuti a sensibilità del pubblico e non a ignoranza di come l’opera si chiude... comunque, appropriati.
Direttore e compagnia
Gatti. Lui conosce a memoria la partitura (e così il neon del suo vuoto leggìo resta evidentemente acceso solo per rendere il direttore meglio visibile a professori e cantanti). Io invece ammetto di non ricordare nemmeno il primo verso del 5 maggio, però un’ultima scorsa alla partitura della premiata Casa Ricordi l’ho data proprio prima di uscire per andare a teatro: posso quindi certificare - ad occhio/orecchio e croce - che il Daniele si sia attenuto a tempi ed agogica originali, inclusi gli ff che Verdi sparge in abbondanza sui righi; ergo: chi accusa questo Carlo di eccessivo bandismo in realtà non dovrebbe prendersela con il direttore, ma con l’autore in persona, assumendosi la responsabilità di voler dare lezioni a tale Giuseppe Verdi da Le Roncole di Busseto.
Ciò che è viceversa difficile non contestare al Kapellmeister (in combutta col regista) è l’inclusione proditoria del Lacrymosa: una lungaggine che spezza la drammaticità dell’azione, oltretutto fatta recitare da Braunschweig come se non ci fosse proprio, col Re che ignora totalmente il cadavere di Posa, senza degnarlo di uno sguardo, non dico di un gesto di compianto. Se qualcuno, per quei 5-6 minuti in più, avesse perso l’ultimo tram che va in periferia, avrebbe diritto di essere indennizzato. Insomma, che sia grande musica lo sappiamo, ma a me è francamente parso come il classico mazzolino di prezzemolo che gli ortolani del mercatino rionale ti buttano nel sacchetto, sopra pomodori e patate, come omaggio. Peccato che qui non eravamo al mercato per approvvigionarci di ingredienti, ma a tavola, con davanti il manicaretto - cucinato da Verdi, dico - da gustare... e quel mazzolino di prezzemolo ha rischiato di rovinare tutto.
Neill deve essere così riconoscente a Gatti per averlo preferito a Filianoti, che canta l’intera opera solo per il direttore. Dico: non distoglie mai lo sguardo dal podio, in nessun caso; il che magari a lui provoca qualche principio di strabismo, ma allo spettatore garantisce una performance musicale davvero rimarchevole!
Di Furlanetto ho detto sulla parte attoriale. Musicalmente sarà consunto quanto si vuole, fatto si è che, insieme a quella del sorprendente Neill, la sua è la voce che arriva meglio fin su ai loggioni! Che gli hanno tributato l’applauso a scena aperta e un’ovazione finale, meritati.
Mayer mi è parso un ottimo Rodrigo, ben calato nel personaggio anche come presenza scenica. Musicalmente l’ho trovato a posto, salvo il volume di voce, sufficiente magari in qualche teatrino di provincia (tipo Heidelberg, sia detto senza offesa) e non in un teatrone come il Piermarini.
Salminen sarà anche troppo wagneriano, non pronuncerà bene l’italico idioma, ma in quella parte ci sta bene assai, e non solo scenograficamente. Il buh che gli è stato riservato - non in scena, ma all’inchino finale - mi è parso gratuito.
Carosi mi è piaciuta, devo dire. Non avendo visto (ma solo ascoltato per radio) Cedolins, fatico a fare paragoni mirati fra le due primedonne. I primi piani che mi ha concesso il binocolo testimoniano anche di notevole portamento attoriale.
Smirnova veniva dopo i (mezzi) trionfi di Zajick e - per me - se l’è cavata dignitosamente. Il buh (l’unico a scena aperta) è stato suo, alla fine del terzo atto, ma direi che un usignolo (o una cornacchia, in questo caso) non faccia primavera.
Gli altri, Lindroos in testa, senza pecche, con menzione per i sei fiamminghi, un pacchetto perfettamente affiatato.
Il coro di Casoni - una cosa che funziona come un orologio in Scala c’è ancora, se dio vuole, e speriamo continui - è stato impeccabile, a dir poco.
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Finito il dramma, tutti i protagonisti in fila - da un estremo all’altro del proscenio, a sipario alzato - a raccogliere l’applauso, ciascuno facendo tre passi avanti, al suo (rigorosamente unico) turno. Qui l’incolpevole Matti si è beccato il suo buh, mentre Stuart ha fatto il classico gesto del centravanti che segna un gol (questo Carlo per lui deve essere davvero come vincere un mondiale) e - come gli altri/e - anche Anna è passata indenne (che il buatore del terzo atto avesse nel frattempo apprezzato qualche suo don?) Furlanetto in trionfo e poi, come di prammatica, la primadonna ha prelevato da dietro le quinte il concertatore, che ha avuto la sua dose di quelli che, asetticamente, si definiscono applausi di stima, o poco più. Gatti, come sua consuetudine, ha fatto 5-6 passi avanti, affacciandosi sulla buca per appludire giù di sotto. Il suo podio, i leggìi e le sedie hanno apprezzato. Ah sì, anche la grancassa. I professori? Quelli, erano già in tram... o tempora, o mores!