affinità bombarole

rinsaldato il patto atlantico

07 agosto, 2013

ROF XXXIV: ottimismo della volontà...?


Smaltita l’indigestione wagneriana (mi verrebbe da dire: l’intossicazione, visto che la maggior parte delle portate arrivateci per radio da Bayreuth sapeva di cibo scaduto, se non proprio avariato…) è tempo di preparare i bagagli per il prossimo ROF. Un festival che si può tranquillamente godere senza prenotare posti 10 anni prima (per poi trovarsi a vedere il capolavoro di Castorf!) e coniugando un’anonima vacanza sull’Adriatico con le note del grande Gioachino. 

Radio3, come è ormai tradizione, irradierà le prime delle tre opere del cartellone principale: a partire da sabato 10 (ore 20) con l’Italiana, per seguire domenica 11 (ore 18) con il Tell e poi chiudere lunedi 12 (ore 20) con la Valigia
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Anche se può prestare il fianco a facili critiche di ipocrisia, retorica e piaggeria, il messaggio che il Sovrintendente del ROF, Gianfranco Mariotti, ha affidato all’opuscolo di presentazione dell’edizione 2013 mi sembra degno di attenzione e di meditazione.

Faccio perciò un’eccezione alla regola di evitare cut&paste quando basterebbe un link e riporto qui sotto il testo di Mariotti.

Virtù contra furore
Virtù contra furore / prenderà l’arme, e fia ’l combatter corto
ché l’antico valore / ne li italici cor non è ancor morto.

Sono i versi di Petrarca che Niccolò Machiavelli pone a epitome e suggello al termine del suo Principe. Riferiti all’Italia, e lo sono, questi versi sono ancora attuali. Declinati in termini moderni, infatti, possono corrispondere a bellezza contro forza (forza economica, politica, militare) ed esprimere così il motivo conduttore che presiede a tutta la nostra storia e anche alla vocazione e al destino del nostro Paese.

Da quanti anni tutti noi, parlando di cultura, ripetiamo invano le stesse cose? Che l’Italia detiene la maggior parte dei beni culturali del pianeta, e che questo è il suo petrolio inutilizzato; che, al contrario, cultura, istruzione, ricerca, formazione e tutela dell’ambiente sono regolarmente marginalizzate; che la cultura non è una spesa, ma un investimento; che la cultura “si mangia” e può produrre ricchezza; che l’istruzione, musicale, scientifica e umanistica, è il fondamento, l’architrave di una nazione civile, lo strumento indispensabile per qualunque programma di crescita e sviluppo. Quante volte siamo tornati, inutilmente, sugli stessi concetti? Allora, dobbiamo avere la chiara consapevolezza che questi discorsi non hanno, e non avranno, alcun riscontro politico. Il problema reale è dunque l’irrilevanza di ogni proposta che riguardi la cultura, al di là della sua validità. È spontaneo attribuire tutto ciò alla sordità della classe politica (come dimostrerebbero i programmi delle ultime campagne elettorali), ma c’è di più e di peggio, ed è il diffuso disinteresse dell’opinione pubblica. L’Italia ha perso il senso della sua identità, della sua storia, del suo legame col passato, forse anche per l’uso distorto e invasivo dei mezzi di comunicazione, in primo luogo delle TV commerciali. Manca all’immaginario collettivo del Paese la coscienza della irripetibilità italiana, il fatto che l’Italia è il più grande produttore di bellezza del pianeta, e riveste questo ruolo, senza interruzione, da quasi tremila anni, ed è chiaro che qui si parla di bellezza non solo ambientale e paesaggistica, ma anche monumentale, pittorica, letteraria, poetica, musicale.

Sappiamo bene che vi sono state nei millenni altre civiltà che hanno contribuito al progresso spirituale dell’umanità: in Egitto, in Mesopotamia, in Cina e soprattutto in Grecia, vera culla della cultura europea. È in Grecia che poesia, letteratura, filosofia, matematica, arti visive, architettura hanno incarnato lo spirito dell’Occidente. Eppure nessuna di queste civiltà ha retto alla prova del tempo: tutte, prima o poi, hanno perduto l’energia creatrice e la forza propulsiva e adesso, direbbe Leopardi, più di lor non si ragiona. Pensiamo a città come Atene, il Cairo, Corinto, Alessandria, Bagdad, Damasco: furono splendide e illustri, ma oggi, a parte le residue testimonianze monumentali, sono diventate città come le altre. Roma no, l’Italia no: per quasi trenta secoli essa è sempre saldamente restata il luogo privilegiato della bellezza nel pianeta, malgrado le guerre, le invasioni, la debolezza politica, le dittature.

Una parentesi sulle dittature. Di regola esse, imponendo una cultura di stato, impediscono la libera espressione artistica come autonoma lettura del mondo. In tempi moderni ne abbiamo avuto due esempi drammatici nella Germania di Hitler e nell’Unione sovietica di Stalin. Nella prima il ministro Goebbels diceva di mettere mano alla pistola appena sentiva parlare di cultura, nella seconda il “realismo socialista” soffocava in partenza ogni voce fuori dal coro. In entrambi i casi si verificò una imponente diaspora di scrittori, scienziati, artisti e musicisti, in fuga verso i paesi democratici. Nello stesso periodo, anche l’Italia ha avuto la sua dittatura, con la fuga all’estero di grandi personalità (come Arturo Toscanini, Rita Levi Montalcini, Enrico Fermi…). Una dittatura non meno oppressiva delle altre, con abolizione della libertà di stampa e della libertà di opinione, carcere e confino per gli oppositori, militarizzazione dei giovani, qualche assassinio di stato, leggi razziali, spirito guerrafondaio e infine il famigerato Minculpop che condizionava tutte le attività culturali attraverso le veline. Eppure, incredibilmente, anche in queste condizioni il Paese, imperturbabile, ha continuato a produrre bellezza. Proprio in questi giorni nella vicina Forlì è stata aperta una mostra dedicata all’Arte italiana dal 1920 al 1940. Essa mostra plasticamente non solo il livello qualitativo, ma anche la dimensione quantitativa del fenomeno. Persino i manifesti dedicati alla goffa retorica di regime attorno al mito della romanità e dell’impero sono bellissimi. E allora?

L’irripetibilità italiana è il frutto della sua storia complessa e inquieta: l’avvicendarsi di papi, monarchi, principi, condottieri, tribuni, tiranni, demagoghi ha fatto dell’Italia il crogiuolo culturale dell’Occidente. Si obietterà che l’Italia è l’ultimo dei grandi paesi europei ad aver raggiunto la dignità di nazione politicamente unita e indipendente: appena un secolo e mezzo fa. È vero, ma il concetto storico di Italia è in realtà antichissimo e ben delineato. Esiste da sempre una precisa koinè italica che accomuna
tutti i popoli della Penisola ed è basata su tre pilastri: la lingua, la religione e la storia. È noto che Metternich, nel 1849, fece infuriare i patrioti del Risorgimento sostenendo che l’Italia era solo “un’espressione geografica”. In realtà l’affermazione non era in sé priva di fondamento: piuttosto il politico austriaco avrebbe dovuto aggiungere a “geografica” anche “storica e culturale”. Del resto, non c’è solo il ricordato Machiavelli a rivolgersi agli “italici cor”. C’è l’esempio di Dante con la sua invettiva: Ahi serva Italia, di dolore ostello…, cui fa eco Petrarca con: Italia mia, benché il parlar sia indarno…, e la geniale sintesi linguistica dantesca: …del bel paese là dove il sì suona…, e quella geografica, ancora di Petrarca: …il bel paese / ch’Appennin parte, il mar circonda e l’Alpe. Di cosa parlano questi spiriti illuminati? Di una terra sconosciuta? Di un regno immaginario? O parlano del nostro Paese, l’Italia? E a chi rivolge Leopardi, qualche secolo dopo, la sua appassionata invocazione: O patria mia, vedo le mura e gli archi… quando l’unità d’Italia è ancora di là da venire?

La particolarità della bellezza italiana non sta solo nei monumenti, nelle cattedrali, nei borghi umbri e toscani, nelle colline marchigiane, nei castelli piemontesi, nelle costiere amalfitane, nelle ville venete, nelle rocche, nei campi disegnati secondo antiche armonie dal genius loci, tutte cose non riproducibili, ma nella storia dell’arte tutta, nel miracolo del Rinascimento, il più impressionante accumulo di genio umano mai raggiunto sulla terra, nell’Umanesimo, che mette l’uomo – il suo gesto, la sua fatica, il suo talento – al centro delle cose, nel Melodramma, di cui l’Italia è la culla e il centro propulsivo, nell’architettura, dai Romani, costruttori di ponti, acquedotti e arene spesso ancora funzionanti, fino a Giò Ponti, Giovanni Michelucci e Renzo Piano, nelle biblioteche, negli archivi, nella rete dei teatri. Nessun altro Paese ha altrettanta possibilità di riassumere nella sua storia la trama del tempo e il divenire della civiltà, di raccontare l’Europa e il mondo attraverso una successione di culture fra le maggiori e più universali (si pensi all’essere il centro della Cristianità) mai fiorite su questa terra. L’Italia è dunque una parte decisiva della coscienza del mondo.

Curiosamente, si può arrivare alle stesse conclusioni anche invertendo il punto di vista, considerando cioè l’atteggiamento degli stranieri, oggi e lungo la storia, nei riguardi del nostro Paese. Pensiamo al Grand tour, il viaggio iniziatico che i rampolli delle nobili famiglie del Nord Europa facevano nel XVIII secolo in Italia per completare la loro cultura. Esso è l’epifenomeno di un’attrazione più antica, complessa e anche contraddittoria che l’Europa ha avuto (e ha) per l’Italia. Nella prima metà del ’500, di fronte al consolidamento dei grandi regni europei (Francia, Inghilterra e Spagna) l’Italia si presentava come una realtà frammentata e disomogenea, caratterizzata da uno straordinario sviluppo artistico e una totale fragilità politica. Nasce di qui la spinta, la voglia di appropriarsi di questa ricchezza diversa, fatta di città libere e ricche, ma militarmente imbelli, sedi di una cultura evoluta e affascinante. Questo motivo correrà lungo i secoli e influenzerà generazioni di moderni viaggiatori, non solo quelli del Grand tour, fino ai giorni nostri.

Cosa affascina così tanto gli stranieri? Quale frutto proibito cercano, a quale carenza vogliono rimediare? Si muove lungo i secoli uno strano sentimento di attrazione-diffidenza per questo paese meraviglioso e pericoloso, infido giardino di delizie, paradiso e luogo di perdizione: anche perché abitato – secondo l’antico stereotipo – da un popolo disordinato e allegro, simpatico e superficiale, accogliente e inaffidabile. Ma in realtà al fondo di tutto c’è una speciale invidia, un’ammirazione incoercibile, un atteggiamento forse inizialmente altezzoso, ma subito contraddetto dallo spettacolo schiacciante della bellezza. Sono in gioco alcuni miti: il mito della classicità (le rovine, i monumenti…), il mito del clima (la luce, il sole, l’amore…), il mito del Rinascimento (l’indiscusso vertice spirituale della storia del mondo). A tutto ciò si aggiunga l’evidenza di un popolo, erede legittimo di tanto patrimonio, che vive da sempre immerso nella grazia e nell’armonia. Ne deriva un sentimento contrastante che, seppure declinato nelle forme più affabili, ritroviamo persino nei più appassionati dei nostri spettatori al ROF.

Allora, tutto ciò detto: la crisi economica è anche una crisi culturale e d’identità, una crisi di saperi, di conoscenze e di competenze. Non si dà crescita né sviluppo possibili senza un consapevole investimento sulla cultura, la formazione, la ricerca, l’istruzione (si pensi che la Germania ha tagliato 80 miliardi di spesa pubblica e ne ha investiti 13 nella cultura!); senza l’orgoglio per la nostra identità e la nostra storia, il legame fra passato e presente che fa inimitabile il nostro Paese. Occorre cioè un moderno umanesimo, che combini il patrimonio storico con una nuova creatività, e individui la cultura non come uno strumento, ma come un fine, un obiettivo in sé. C’è bisogno di una svolta, di un soggetto nuovo. Ciò che occorre è un Ministero della cultura: siamo uno dei pochi grandi paesi d’Europa a non averlo. Non si tratterebbe di accorpare le diverse funzioni oggi disperse fra vari ministeri (beni culturali, istruzione, ambiente, turismo, ricerca…) ma di un soggetto veramente diverso, nuovo, fortemente identitario, che fosse uno dei più importanti dell’esecutivo, e che si facesse carico dei temi legati a un’identità di nazione unica nel pianeta, che ha proprio nella cultura e nell’arte, intrecciate ai beni paesaggistici e ambientali, la sua vocazione storica e la sua cifra caratteristica. Dunque un dicastero fondamentale (come quello della difesa in Israele o dell’industria in Germania) autorizzato anche a operazioni di peso e di grande respiro, come il Beaubourg e la piramide del Louvre a Parigi, o il MoMA a New York. Finora hanno fatto ostacolo forse la paura di un altro Minculpop o la nascita di una cultura di stato, cioè l’occupazione da parte di una forza politica che voglia dettare regole in campo artistico. Ma ormai, nel XXI secolo, è un rischio che si può correre, e che le maggiori nazioni europee hanno corso senza danni. Si tratta davvero di una strada obbligata per il nostro Paese.

Bellezza contro forza, si diceva all’inizio. Ebbene, finora, malgrado le innumerevoli vicissitudini storiche che hanno agitato nel tempo la Penisola, e malgrado la brevità della nostra vicenda unitaria nazionale, la bellezza ha sempre vinto la sua sfida. Perché non dovrebbe vincere ancora?

Gianfranco Mariotti
Sovrintendente

Qui comunque il link alla presentazione completa del ROF-XXXIV.  

Francamente non so quanto l’idea di istituire un nuovo Ministero sia efficace e risolutiva: più che il rischio di farne un Minculpop ci vedo la certezza di creare un nuovo carrozzone clientelare di castaioli. Qualche concreto provvedimento preso dai Ministeri attuali potrebbe invece produrre risultati apprezzabili: penso ad una seria introduzione dell’insegnamento della musica nelle scuole inferiori, a partire da quelle materne; incentivi fiscali a chi produce prodotti multimediali e programmi televisivi di contenuto divulgativo sulla musica classica e lirica, indirizzati ai piccoli e ai ragazzi; priorità di erogazione dei finanziamenti pubblici (tipo FUS) a quelle istituzioni che mettono in atto specifici programmi educativi per gli under-18 (tanto per chiarire: non la farsa scaligera del 4 dicembre!) Insomma, cose anche modeste ma concrete.  
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Colgo l’occasione per contribuire alla… diffusione di cultura allegando un memorabile scritto di Roman Vlad su Rossini, comparso in Musica&Dossier nel Dicembre 1988.

E di seguito un altro studio di Arrigo Quattrocchi uscito sulla stessa rivista nel Luglio 1989.

02 agosto, 2013

Bayreuth 2013: Lohengrin chiude l’indigestione


Un Lohengrin come da copione (essendo ormai alla quarta stagione) ha chiuso – almeno per noi radioamatori - questa scorpacciata wagneriana (in buona parte indigesta) del bicentenario.

Andriss Nelsons non ha apparentemente subito irreversibili danni cerebrali dalla botta in testa patita pochi giorni fa, ed ha quindi confermato la sua qualità di direttore wagneriano, guidando in modo apprezzabile orchestra, coro (sempre o quasi impeccabili) e il cast ormai collaudato di questo allestimento.

Certo Vogt è un Lohengrino ancora da svezzare (per ora è un gradevole Nemorino) e chissà che con qualche trucco (del tipo ingolamenti alla Kaufmann) non possa in futuro contrabbandare qualche parvenza di Heldentenor

La Dasch resta su un livello accettabile (in Scala mesi fa stava allattando e quindi era forse un pochino troppo…  materna) e Petra Lang si è confermata una dignitosa Ortrud. Il suo marito-burattino (Thomas J.Mayer) se l’è cavata alla meglio.

Samuel Youn ormai sta diventando famoso come Olandese, e la parte dell’Heerrufer (che pure non è uno scherzo!) comincia ad andargli stretta.

Gli altri su di una onorevole media.

La regìa con i topi di Neuenfels ormai sta diventando un classico (della serie: l’uomo si abitua a tutto). Quindi anche Castorf ha qualche speranza (smile!)
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Adesso però bisogna assolutamente disintossicarsi dall’oppio wagneriano, e nulla di meglio c’è, alla bisogna, di tale Rossini da Pesaro. 

01 agosto, 2013

Bay…roma 2013: Berluschäuser rimandato senza perdono


Questo Tannhäuser in Italia passerà alla storia per l’unica ragione di essere andato in onda in contemporanea alla camera di consiglio della Cassazione.

Lì non c’era un Papa, ma 5 vecchi decrepiti che tuttavia hanno riservato al povero penitente appena arrivato a piedi dal nord (beh, insomma… da Arcore) lo stesso sdegnato trattamento di cui il pontefice gratifica il pellegrino di Turingia.

Così adesso possiamo tirare un sospiro di sollievo: sappiamo per certo che per almeno 10 degli ultimi 20 anni siamo stati governati da un criminale comune con l’hobby del venusbergunga.
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Tutto è relativo, quindi al confronto con lo scempio del Ring questo Tannhäuser pare venuto da Marte.

Axel Kober dev’essere uno che dirige l’orchestra di Bayreuth come un macchinista dirige un… treno: sicuro che, a meno di non buttarsi a 190 all’ora dove c’è il limite di 80, è matematico che a destinazione ci arrivi, garantito!

Non che il cast – comprendente un paio di… superstiti del Rheingold - sia da incorniciare, tutt’altro! Insomma, un’onesta prestazione da teatro di provincia, di quelle cui normalmente si assiste, per dire, alla Scala (smile!)

La regìa ha avuto la sua razione di buh (ma era scontato, essendo ormai un dejà-vu) proporzionali alla quantità di, ehm, merda riciclata nell’impianto del genietto Baumgarten.

Domani ultima tappa radiofonica del primo giro, con il Lohengrin dei simpatici topolini Dasch e Vogt.

31 luglio, 2013

Bayreuth 2013: un Ring al tramonto


Anche la giornata conclusiva di questo Ring ha confermato il livello medio-basso (ad esser generosi) della prestazione musicale, in particolare delle voci.

Orchestra, coro e Kapellmeister per me non hanno affatto demeritato, ma certo nulla possono per dar voce a chi non l’ha o ne ha una da osteria…

Così un Götterdämmerung più che passabile per ciò che usciva dalla buca si è trasformato in una pagliacciata per ciò che è uscito dalle bocche (coro escluso, natürlisch).

Lance Ryan pare abbia conservato solo il fiato, ma abbia perso tutto il resto che serve per cantare Siegfried. Catherine Foster non poteva miracolosamente e in un sol giorno farsi una voce ad-hoc per Brünnhilde, così abbiamo avuto il comico risultato di una Gutrune (Allison Oakes) che quasi la sovrastava dall’alto della sua… vocina!

Alejandro Marco-Buhrmester è stato un mediocre Gunther: timbro con vibrato sgradevolissimo e intonazione precaria. Attila Jun del personaggio di Hagen ha solo il… nome (smile!)

Così l’unico a cavarsela in qualche modo è stato ancora Martin Winkler, che però canta solo per dieci minuti sì e no, quindi mica poteva sollevare la media. Senza infamia e senza lode la ex-Fricka (qui Waltraute + seconda Norna) Claudia Mahnke. Sufficienti le altre due menagrame e le tre nuotatrici nel petrolio.

A proposito del Ring all’oro nero, eccone l’inventore, recordman da ieri di buh a Bayreuth:


29 luglio, 2013

Bayreuth 2013: Siegfrid…icolo


Davvero modesto questo Siegfried del bicentenario. Si salvano a fatica dal naufragio Petrenko, che stasera ha fatto appena dignitosamente il suo compitino, Martin Winkler che non ha rovinato la… reputazione di Alberich, la Erda di Nadine Weissmann e Burkhard Ulrich, un Mime passabile anche se eccessivamente macchiettistico.  

Lance Ryan è largamente peggiorato rispetto alle recenti esibizioni scaligere, quindi è sceso abbondantemente sotto la sufficienza. Catherine Foster è una Brünnhilde al limite della caricatura e Wolfgang Koch un Wotan in sedicesimo.

Fafner (Sorin Coliban) e l’Uccellino (Mirella Hagen) da minimo sindacale.

Castorf – a sentire i testimoni oculari – ha fatto un po’ di propaganda al vecchio e decrepito socialismo reale, dove lui è felicemente cresciuto: i quattro di Mount Rushmore erano tipicamente effigiati nei rossi distintivi che si vendevano durante la guerra fredda in tutti i Beriozka di oltrecortina.

Mercoledi brucia Wall Street, con dentro tutto questo caravanserraglio.  

28 luglio, 2013

Bayreuth 2013: le Valchirie volano su Baku


Tutti i commentatori sono concordi: per capire l’essenza intima del Konzept di Castorf bisognerà attendere l’ultima nota del Crepuscolo… dopo aver preso diligenti quanto dettagliati appunti durante i tre precedenti drammi. E solo allora (anzi almeno un paio d’ore dopo, per dar tempo al pubblico di riguardarsi gli appunti e finalmente scoprire il significato profondo di questo Ring) il genio ex-DDR nonché ex-stalinista si degnerà di presentarsi al proscenio per raccogliere l’omaggio del pubblico, finalmente edotto ed estasiato.

Intanto ci raccontano che, dopo la vigilia trascorsa in una GasStation con annesso Motel sulla Chicago-SantaMonica, la prima giornata ci ha teletrasportato sul MarCaspio, dove si estrae il petrolio che poi, opportunamente raffinato, diventa il diesel venduto lungo la gloriosa Route66.

Beh, sono indizi già interessanti, prendiamone accuratamente nota. Castorf ha copiato quasi alla lettera un vecchio pozzo di petrolio azero, per farci gli ambienti in cui collocare i Wälsi e le volanti Valchirie:


 










Quanto alla scritta che compare su una parete del pozzo, ci sarà da stabilire se Castorf sia il copiatore o il copiato:




















Scritta che ricorda una particolare ricorrenza azera, oggi festa nazionale: il 20 settembre 1994, giorno in cui il giovane Stato, sgattaiolato via dal disfatto impero sovietico (di cui Castorf era sfegatato ammiratore, si noti bene…) aprì i suoi pozzi al capitalismo occidentale e a tutti i famelici Wotan, Alberich e Fafner che popolano i nostri mercati finanziari!

Insomma, forse siamo sulla buona… autostrada per capire e quindi apprezzare il capolavoro.  
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Dall’etere sono arrivate notizie… confortanti, anche se non proprio strepitose. 

Su tutti Kirill Petrenko, a cui se si perdonano le solite pisciatine di cane (leggi: scarti indebiti di tempi qua e là…) bisogna riconoscere buone qualità di direttore wagneriano.

Bene i due gemelli, Johan Botha e Anja Kampe, e non solo nel grandioso duetto del primo atto, ma anche nelle drammatiche scene del secondo e (per lei) del terzo.

Wolfgang Koch e Catherine Foster magari le note le cantano anche, ma accipicchia, hanno voci più adatte per impersonare i ruoli di Don Wotanni e Zerlhilda (smile!)

Anche Claudia Mahnke ha confermato gli alti e bassi del Rheingold: il suo trionfo sul marito mi è parso piuttosto palliduccio. Come Waltraute… aspettiamola al Crepuscolo.

Franz-Josef Selig sta meglio nei panni di Hunding che non in quelli del Daland di qualche giorno fa: ieri sera ha quasi cantato bene…

Le otto Valchirie (fra cui si è intrufolata… Wellgunde!) han fatto la loro dignitosa caciara e le loro belle risatine ammiccanti agli accoppiamenti dei loro destrieri.
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Prossima tappa di questo Ring unto e bisunto? Si vocifera sia la Berlino post-DDR: mancando il servizio rapido delle Valchirie (tutte licenziate in tronco dai nuovi sfruttatori calati su Baku come locuste) il trasloco richiede precisamente un giorno di tempo…

26 luglio, 2013

Bayreuth 2013: l’Oro del benzinaio


Indovinello: qual è il primo suono che è risuonato nel Festspielhaus mezzo secondo dopo lo spirare dell’ultimo accordo di RE bemolle del Rheingold che ha inaugurato il Ring del bicentenario?

Ecco, c’è chi difende la regìa, e con argomenti inconfutabili. Ad esempio, il testimone oculare Marco Mauceri, di Radio3, dixit: i buh vengono dal pubblico che non capisce (o che non vuol far la fatica di capire) le genialità del regista; è quel pubblico che vorrebbe i soliti luoghi comuni, che si capiscono al volo, come le corna e le pelli. Capirai… Castorf gli ha propinato cose lunari e luoghi davvero fuori dal comune: pompe di benzina e piscinette da cortile!

Ma a noi interessa la musica, poiché lo stesso Wagner ebbe finalmente a scoprire che, senza i suoi suoni, i suoi drammi non sarebbero usciti nemmeno dal suo salotto.

E della musica il principale responsabile è il Kapellmeister. Certo, lui non può rifare la voce ai cantanti, anche perché non è quasi mai lui a sceglierli, però insomma è pagato anche per questo….

Kirill Petrenko
ci ha proposto un Rheingold dignitoso, riuscendo a far suonare tutte le note di Wagner agli strumentisti; avendo un po’ meno successo nel farle cantare ai cantanti (smile!) A lui personalmente rimprovero eccessive libertà nello stacco di tempi (un paio, imperdonabili, proprio nel finale) che gli abbassano il mio voto da discreto a sufficiente.

Il migliore (sempre parlando al relativo, chè di assoluto non ricordo proprio nulla…) è stato alle mie orecchie l’Alberich di Martin Winkler: nella quarta scena si è un poco fatto prendere dall’incazzatura (e ‘tte credo, smile!) sparando un paio di imprecazioni sul rauco, ma per il resto ha tirato fuori in modo dignitoso tutta la complessità di questo personaggio, che a torto è  considerato l’incarnazione del male (mentre, per dire, Wotan su questo terreno lo batte di gran lunga…)

E infatti il Wotan di Wolfgang Koch non mi è per nulla piaciuto, a partire dalla natura della voce  (che, nel teatro musicale, è quasi tutto): che più che caratteristica di un dio, anzi del capo degli dei, pare adatta ad un simpatico Figaro. La sua sortita sul Vollendet das ewige Werk è stata proprio da operetta.

Degna sua emula la moglie Fricka, Claudia Mahnke (prestazione del tutto anonima) che evidentemente ha equivocato sulla natura un po’ rompiscatole e petulante del personaggio. Sua sorella Freia (al secolo: Elisabet Strid) ha fatto un pochino meglio di lei. Sopra la media generale (bassa) anche il gigante buono, Günther Groissböck, mentre il fratello manesco (Sorin Coliban) cantava proprio come un vero… drago (stra-smile!)

Fra Donner (Oleksandr Pushniak) e Froh (Lothar Odinius) faccio fatica a scegliere chi mandare per primo a zappare. Norbert Ernst (che impersona Loge) lo assegnerò ad una mansione meno pesante: la raccolta di pomodori nella piana di Benevento.

Mime, che nel Siegfried avrà qualche difficile gatta da pelare, è Burkhard Ulrich, al quale mi par giusto concedere, appunto, di provarci nella seconda giornata.

Positiva sorpresa la Erda di Nadine Weissmann, cui auguro ugual successo nel più impegnativo confronto col padre delle sue figlie (sempre nel Siegfried).

Le tre Figlie del… pozzo (ultra-smile!) erano Mirella Hagen, Julia Rutigliano e Okka von der Damerau. Se la sono cavata egregiamente, in particolare nel loro accorato appello finale a quel disgraziato di Wotan e al suo sbifido tirapiedi.

Domani la perla delle quattro: qual è il petrolio di miglior qualità?

25 luglio, 2013

Bayreuth 2013: un’apertura poco volante


Non ci fosse il carisma di Thielemann a tenerlo a galla, il baraccone malmesso di Bayreuth (pare che l’edificio stesso del Festspielhaus sia lì lì per cascare a pezzi…) rischierebbe di finire proprio come la nave dell’Olandese: a fondo!

Oltre ad Orchestra e Kapellmeister si è salvato (per me) solo Samuel Youn (che l’anno scorso fu catapultato quasi a sua insaputa nel title-role) insieme al Coro. Forse non sarà poco, ma di certo non è il massimo.

Selig è un Daland ancora e sempre da osteria (farà anche Hunding, così finalmente sarà a... casa sua!) e i due nuovi acquisti di questa edizione (Ricarda Merbeth e Tomislav Muzek, nei ruoli della coppia… disfatta) non mi hanno per nulla entusiasmato. Gli altri nell'anonimato, come lo scorso anno.  





















Da domani, l’Anello di… petrolio.

Ultime da Trash-en-Provence: non c’è limite al… Carsen!


Per il suo ritorno in Provenza dopo 20 anni, Robert Carsen ci ha regalato una sua nuova opera, di una modernità sbudellante.

Ahilui, come gli accade con troppa frequenza, ha commesso un’imperdonabile leggerezza: fare scegliere il testo – e soprattutto la musica – del suo capolavoro ad un perfetto idiota.

23 luglio, 2013

Bayreuth 2013: che anello si fabbrica Alberich?


Già affidare la regìa del Ring a un tale Castorf è come far recitare la Divina Commedia a Borghezio… E queste foto e questi resoconti sommari non lasciano dubbi in proposito.

Anche un bambino riesce a capire al volo il Konzept che si nasconde dietro questa genialissima interpretazione di quella cosuccia da teatrino underground che ha nome Der Ring des Nibelungen: stazioni di servizio con annesso motel, pozzi di trivellazione e, naturalmente, Wall Street. Come no! L’oro di Castorf è quello nero!  

Domanda stupida: dal petrolio, che anello si può ricavare?

Solo di plastica. Insomma: una patacca

(beati noi che per radio ascolteremo solo i suoni…)