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a Trump premio Nobel per l'incapace

28 aprile, 2020

Feste del lavoro


Con i tempi che corrono c’è poco lavoro da festeggiare. Ma almeno, stando a casa, non si rischia l’intubazione, ed è già qualcosa.

Noi possiamo comunque celebrare la festa in musica, ad esempio ascoltando nientemeno che una Sinfonia intitolata alla ricorrenza. Sinfonia (mah, una fantasia, sembrerebbe...) che l’entusiasta Dmitri Shostakovich compose (ma non si sa se entusiasta per la ricorrenza o per la... ricompensa, leggasi la sostanziosa commissione ricevuta dal regime per comporla...) proprio nel bel mezzo della grande crisi del ’29.

Sinfonia, come la seconda, con coro finale (neanche fosse Beethoven!) inneggiante alla presa comunista del potere, palesemente richiamata nel testo cantato, opera di uno - tale Semën Isaakovič Kirsanov - che veniva considerato una brutta, e soprattutto innocua, copia di Majakovski, e proprio per questo assai più gradito dello scomodo originale al regime del baffone georgiano.

Ecco qua i versi che Shostakovich musicò come chiusura in gloria di questa sua non propriamente eccelsa partitura:

ПЕРВОМАЙСКАЯ

Nel primissimo Primo Maggio
Una torcia fu gettata nel passato,
una scintilla si fece falò,
e le fiamme avvolsero la foresta.

Con le orecchie delle ondeggianti conifere
la foresta ascoltò
le voci e i rumori
della nuova parata del Primo Maggio.

Il nostro Primo Maggio.
Nel luttuoso sibilare di pallottole
impugnando baionette e fucili,
il palazzo dello zar fu occupato.

Il palazzo del detronizzato zar:
quella fu l’alba di Maggio,
avanzando in marcia,
nella luce di luttuose bandiere.

Il nostro Primo Maggio:
un futuro di vele,
spiegantesi sopra un mare di grano,
e i passi rimbombanti delle squadre.

Squadre nuove, nuove classi di Maggio,
con occhi fiammeggianti rivolti al futuro.
Fabbriche ed operai marciano alla parata del Primo Maggio,  
raccoglieremo i frutti della terra, è arrivato il nostro momento.

Ascoltate, lavoratori, 
la voce delle nostre fabbriche:
nel radere al suolo la vecchia,
voi dovrete accendere la nuova realtà.

Bandiere che sorgono come il sole,
marciate, che i vostri passi rimbombino.
Ogni Primo Maggio
è una tappa verso il socialismo.

Primo Maggio è la marcia
di minatori armati.
Nelle piazze, o rivoluzione,
marcia con milioni di piedi!

Beh, quanto a retorica ed auto-incensazione non c’è male: solo che oggi assomiglia curiosamente a quella del tanti Bonomi&Bonometti (spalleggiati dai tanti Zaia&Salvini) di turno che inneggiano alla ripresa hic-et-nunc (già anzi in ritardo) del lavoro (...degli altri) per non compromettere il futuro (...il loro, soprattutto). 

Dicono: se non si riparte, si muore di fame invece che di Covid (altra ardita formulazione filosofica: la dignità mia la compro con la vita tua, cruda versione dell’adagio Il lavoro nobilita l’uomo). Orbene, a parte che mi risulta che, di fame, si morisse già ben prima dell’arrivo del Covid, un rapido conto-della-serva ci dice che - con questo tipo di lockdown, appena ritoccato con la riapertura delle scuole e depurato da cervellotiche misure sulla mobilità individuale - potremmo andare avanti per un tempo abbondantemente superiore a quello richiesto per dotarci del vaccino, senza morire di fame... Certo, ci sarebbe da soddisfare solo un trascurabile prerequisito: che il 10% dell’umanità che detiene il 90% della ricchezza ne distribuisse una parte nemmeno troppo cospicua al restante 90%, che potrebbe così salvarsi sia dalla fame che dal Covid.

Poi ci si è messa pure la CEI, blaterando di libertà di culto violata (una variante della filosofia laica di Schauble: ma non sono costoro i difensori ad oltranza della vita?) E allora quell’altra religione che chiamiamo Arte (musicale, nel nostro caso) non avrebbe forse gli stessi diritti costituzionali? A Milano, per dire: il tempio aperto e, ad una galleria di distanza, l’altro sbarrato? 
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Però, già che ci siamo, cerchiamo di decifrare questo lavoro piuttosto inafferrabile, che di sinfonia (come normalmente intesa) non ha molto. Per prima cosa, la presenza del coro conclusivo è di per se discutibile: certo, dopo Beethoven, già Mendelssohn e poi Mahler e ancora Scriabin avevano proposto questa contaminazione di generi, che però Shostakovich spingerà oltre ogni ragionevole limite, chiamando sinfonia ogni genere di patchwork gli venisse in mente di comporre... Nella Terza non solo non troviamo una chiara suddivisione in movimenti (soltanto cinque principali indicazioni agogiche, vagamente riconducibili a quelle caratteristiche della forma classica) ma soprattutto non vi trova posto alcuna coerente narrativa, intesa come esposizione e poi sviluppo, riutilizzo, variazione di temi o motivi musicali. 

Non sarà un caso che Vasily Petrenko, Direttore della Liverpool Philharmonic, con la quale ha inciso l’integrale delle sinfonie di Shostakovich, parli della Terza (e della simile, per certi versi, Seconda) come di un’opera di cui si fatica a comprendere la logica (!) Dopodichè giustifica questa carenza con la (celata) volontà del compositore di prendersi gioco della retorica del regime... Mah, lo Shostakovich della Terza era ancora un ragazzo di 23 anni, pieno di entusiasmo (anche per la rivoluzione) con una movimentata vita sentimentale ed era in piena crescita di apprezzamenti e di... carriera: il disincanto (e la paura di lasciarci le penne) arriverà solo qualche anno dopo, con il colpo basso rifilatogli a tradimento dalla coppia Stalin-Zdanov a proposito della Ledi. 

Seguiamo allora la proposta esecuzione della Sinfonia, diretta dal venerabile Rozhdestvensky
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Intanto, un’osservazione tecnica riguardo l’edizione della partitura che si può scaricare dal sito scorser: sappiamo che Shostakovich indicava sempre meticolosamente il metronomo da seguire, accanto all’indicazione agogica qualitativa (Allegretto, Moderato, e così via); e sappiamo anche che spesso sono nate discussioni e diatribe relative a tali indicazioni, fra chi le considera bizzarre se non addirittura demenziali, e chi incolpa di grossolani errori il copista, l’editore o lo stampatore. Sta di fatto che lo stesso Autore spesso e volentieri eseguì la sua musica contraddicendo clamorosamente le indicazioni metronomiche pubblicate.

La Terza inizia in Allegretto a 100 semiminime (e qui siamo effettivamente nella normalità); ma poi l’indicazione sull’Allegro che segue lascia letteralmente allibiti: 104 minime! Che sarebbe il limite superiore di un Prestissimo. (Del resto 104 semiminime sarebbe altrettanto risibile, visto che Allegro diventerebbe agogica quasi indistinguibile da Allegretto.) Tralascio altri esempi, limitandomi a citare l’indicazione del successivo Andante, tempo ovviamente più lento di un Allegretto: ebbene, qui leggiamo invece 138 semiminime, circa il doppio del normale e tipico di un Allegro... per cui dovremmo concludere che Shostakovich fosse fuori di testa, visto che aveva notato l’Allegretto di apertura a 100 semiminime

Insomma, una gran confusione, che spiega perchè i Direttori (come qui Rozhdestvensky) di solito ignorino quasi del tutto tali indicazioni tecnologiche (quantitative) affidandosi a quelle qualitative, e poi alla propria sensibilità estetica.

[Sul concetto di agogica si potrebbe aprire poi un universo, cominciando col fare distinzione fra la velocità con la quale l’interprete deve suonare un certo brano (la prescrizione dell’Autore) e quella che invece è la velocità della musica percepita dall’orecchio umano. Un banale (estremizzato) esempio: prendiamo una partitura sulla quale il compositore indichi Larghetto (metronomo 50 semiminime): ci aspetteremmo una melodia piuttosto lenta, riposante, tipo Ombra mai fu, avete presente? Ma se il compositore scrivesse in ogni battuta di quel brano 4 semicrome al posto di ciascuna semiminima e l’interprete rispettasse il metronomo, al nostro orecchio il brano farebbe l’effetto di un Prestissimo! Non diversamente, a parità di tempo di percorrenza della distanza, l’agogica di un centometrista longilineo ci apparirà più rilassata di quella di un brevilineo...]
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L’apertura è un poco à-la-Haydn: non proprio con un Adagio, ma quasi: 55 battute introduttive di Allegretto (4/4, come il resto della prima sezione della Sinfonia) dove il primo clarinetto, poi raggiunto dal secondo, espone una delicata melopea, che porta (1’55”, Più mosso) ad un assolo della tromba, poi del corno, su ritmo marziale scandito dagli archi in pizzicato e fra svolazzi dei legni. Qui il tempo accelera progressivamente per raggiungere l’Allegro (2’26”). 

I motivi di questa sezione sono principalmente di carattere nervoso (una delle caratteristiche distintive del compositore) raramente alternati ad espressioni più composte (come ciò che si ode a 3’55”). La spiccata teatralità (o cinematograficità) di questa musica comincia a manifestarsi in diversi momenti topici, come l’accordo tenuto dall’orchestra a 4’27” seguito da un drammatico colpo di timpano, prima di una ripresa più vivace (Più mosso). A 5’38”, Meno mosso, ecco un nuovo passaggio meno nervoso, che prepara (6’22”) il ritorno dell’Allegro, dove un commentatore del video individua una possibile e plausibile reminiscenza di un passaggio (N°21, Allegro) delle Drottningholmsmusiken del settecentesco svedese Johann Helmich Roman.

Si prosegue in un crescendo di convulsioni sfocianti, a partire da 7’47”, in quattro reiterati interventi della tromba, che si staccano sul fondo ribollente dell’orchestra e culminano in altrettanti tutti (esaltati da piatti e triangolo) finchè (8’32”) ecco un altro esempio di teatralità: un lungo rullo di tamburino, che si protrae per 25 battute, fa da unico sfondo agli stentorei interventi solistici dei corni e poi della tromba. Al tacere del tamburino, sono ottavino, oboe e fagotto, poi raggiunti anche dal clarinetto, a prendere la scena con spiritate figurazioni. Quindi torna a farsi viva (9’47”) la tromba, sempre spalleggiata dal tamburino, e poi da due corni; infine il clarinetto ci fa sentire i suoi impertinenti svolazzi, su un marziale tappeto di archi bassi; anche il fagotto (10’27”) lancia un ultimo richiamo: siamo ormai vicini alla conclusione dell’Allegro, protagonisti, ora in pizzicato, celli e bassi, poi il timpano, che preparano - in una specie di misteriosa suspence - il terreno per la prossima sezione. Come si vede, nulla di lontanamente riferibile agli schemi classici di un primo tempo di Sinfonia.

Il successivo Andante attacca (10’53”) con 11 battute introduttive in 4/4 caratterizzate da tre isolati lamenti dei primi violini (affiancati, sul terzo, dai secondi). Un rullo di timpano, chiuso da quattro secchi colpi, dà inizio - con tre schianti dei fiati - al corpo di questa seconda sezione (11’34”) di 100 battute in tempo 3/4. Anche qui è quasi impossibile trovare il bandolo in un susseguirsi, senza logica apparente, di motivi esposti da diverse sezioni dell’orchestra. Dapprima gli archi, dai bassi agli alti, che poi (12’21) ricordano fugacemente il motivo svedese dell’Allegro. Quindi fanno capolino corni e tromboni, poi ottavino e violini, finchè (13’36”, Meno mosso) tocca al flauto esibirsi nella sua lamentosa esternazione. Ecco ancora i violini (14’44”, Lento) con una triste melopea, che si increspa appena, prima di sfociare (15’15”) nella finale cadenza che porta mestamente alla chiusura della sezione.

La successiva sezione della Sinfonia, un Allegro, sempre in 3/4, occupa il posto del classico Scherzo. Essa principia (16’36”) con i soli archi che entrano a canone (dal basso all’alto) per introdurre (rimpiazzati dai corni) spiritate figurazioni dei legni, su un ritmo ostinato (6 crome a battuta) che è una delle caratteristiche somatiche di molta musica di Shostakovich, che evoca sferraglianti locomotive o il martellare dei magli nelle acciaierie. È forse questo l’unico vago riferimento in musica al lavoro, quindi alla sua festa.        

Il brano si sviluppa poi con interventi di tutte le sezioni dell’orchestra e con la comparsa di qualche sincope ad increspare l’insistente monotonia del ritmo. Il quale cambia bruscamente a 18’36”, in corrispondenza di una mutazione del tempo, a 4/4 alla breve. La velocità aumenta leggermente e si instaura un ritmo in piede dattilo (taaa-ta-ta-taaa) o spondeo (leggendolo ta-ta-taaaa-ta-ta): caratteristico di altri macchinari o di altre lavorazioni (compare qui anche il tintinnio dei campanelli). Il ritmo è sostenuto da corni e tromba, con gli archi a disegnare figurazioni puntate. Ecco (19’12”) un intervento dei tromboni, poi si prosegue con l’insistente dattilo finchè una poderosa irruzione dei timpani (19’53”) porta poco a poco, dopo lo stentoreo intervento dei corni (20’15”) al ritorno al ritmo ostinato e regolare, che permane fino a 20’40” (Poco meno mosso).

Adesso l’intera orchestra si lancia in una teatrale perorazione, fatta di successive ondate culminanti in altrettante prese di respiro, fino a sfociare (21’44”, Allegro molto) in una lunga, invero melodrammatica coda appoggiata su un sottofondo di triangolo, piatti (con bacchette) timpani, tamburo e grancassa (par di sentire un certo Mahler... volgaruccio). Da 22’14” (Meno mosso) eroiche e stentoree figurazioni si alternano a precipitose cadute nell’abisso, fino a quando, di tutto questo gran bailamme, resta solo il funereo tappeto di timpani, tamburo e cassa, la quale lascia udire otto lugubri rintocchi, quasi ad evocare un’esecuzione capitale comminata a bastonate.

A questo punto (24’01”) inizia la quarta sezione della Sinfonia, un Andante-Largo in 3/4 di 87 battute che prepara il coro finale del 1° Maggio. È monopolizzato da interventi degli ottoni e degli archi bassi. Dapprima la tuba (con un’interiezione del fagotto) si produce in una discesa dal DO sopra il rigo al SOL sotto il rigo (2 ottave e mezza) chiusa da uno spaventevole colpo di tam-tam; poi (24’32”, Largo) sono celli e bassi a rispondere con tre salite in glissando (LA-FA, LA-SIb, SOL-DO) subito seguiti dalle trombe, nel silenzio generale. Ancora due glissando degli archi bassi, seguiti da una progressione ascendente, suggellata da un nuovo intervento di tam-tam. Sono i tromboni adesso a venire da soli in primo piano, presto raggiunti dalle trombe. Ancora due glissando degli archi bassi, poi un nuovo recitativo dei tromboni. Ora (27’23”) tutti gli archi intervengono, dapprima in glissando, poi a contrappuntare i tromboni, finchè si giunge ad una sospensione cui segue (27’53”) un tremendo schianto generale. Ancora tromboni, tuba e poi trombe chiudono la sezione su un fortissimo SIb, accompagnato da un poderoso cymbal clash

Eccoci quindi al finale (28’33”, Moderato in 4/4). Il coro è introdotto da 5 movimentate battute degli archi sulle quali spiccano note tenute dei legni. A 28’46” attaccano quindi le voci, che espongono le 9 strofe dell’inno. La tonalità, dal DO minore si muoverà verso il trionfalistico MIb maggiore conclusivo: in questa ultima strofa troviamo almeno un paio di arditi salti di tonalità, che inevitabilmente ricordano quello del finale del mahleriano Titan. La sinfonia si chiude con sei battute sul pesante ritmo marziale dell’intera orchestra, al di sopra del quale si staccano gli stentorei squilli della tromba sola, che (anche qui emulando gli scrosci dei corni del finale della Prima di Mahler) toccano per otto volte la dominante SIb, prima dell’ultima battuta, un unisono generale di MIb.
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Che dire? Un lavoro da cui traspare tanta (forse troppa) voglia di fare; un turbinare di idee, magari singolarmente apprezzabili, dove emerge chiaramente il DNA del compositore, ma un po’... accatastate, ecco, senza capo nè coda: un Durchkomponieren senza alcun soggetto, dichiarato o sottinteso che sia. Perchè anche il titolo - 1° Maggio - si applica di certo al coro finale, ma nulla ha a che spartire con tutto il resto dell’opera, che potrebbe benissimo essere la colonna sonora di un film su 6 gennaio, 15 agosto e 2 novembre (!)

23 aprile, 2020

Liberazioni


XXV Aprile in casa... 

Nel caso (disperato) in cui Salvini (Cantare meno 'Bella ciao' dai balconi e lavorare di più) cambiasse idea:


Guarda caso pare che anche lo sbifido invasore che ci tiene tuttora asserragliati in casa sia stato portato qui dalla Germania, che tuttavia non dà propriamente l'impressione di farsi in quattro per aiutarci a fronteggiarlo, facendo in tal modo un gran favore al suddetto Salvini.

Scusate, ma non era proprio un crucco quel tale che inventò questa musica, dalla quale abbiamo (affrettatamente?) tratto l’Inno europeo? 


21 aprile, 2020

In memoriam di un’infermiera


Das Mädchen:
Vorüber, ach, vorüber!
Geh, wilder Knochenmann!
Ich bin noch jung, geh, Lieber!
Und rühre mich nicht an.

Der Tod:

Gib deine Hand, du schön und zart Gebild!
Bin Freund und komme nicht zu strafen.
Sei guten Muts! Ich bin nicht wild,
Sollst sanft in meinen Armen schlafen!

(Mathias Claudius)

La fanciulla:
Via, ah, sparisci!
Vattene, barbaro scheletro!
Io sono ancora giovane; va', caro!
E non mi toccare.

La morte:

Dammi la tua mano, bella creatura delicata!
Sono un'amica, non vengo per punirti.
Su, coraggio! Non sono cattiva,
dolcemente dormirai fra le mie braccia!

(Traduzione di Pietro Soresina)


19 aprile, 2020

Ascese e cadute


Tipo: la Sanità lombarda da Formigoni a Fontana?

Ecco, più o meno: come la città di Mahagonny. Le cui vicissitudini, invece che essere messe in scena tra qualche giorno a Parma e poi a Reggio Emilia (altro personale appuntamento sfumato... a proposito: #iorinuncioalrimborso) si possono oggi seguire in diretta ascoltando i gorgheggi del tenore Matteo Salvini, del castrato Giulio Gallera e del soprano Licia Mattioli. Insomma: nulla di nuovo sotto il sole, direbbe Brecht.

E infatti, corsi-e-ricorsi: il Songspiel e poi l’Opera che ne fu l’estensione videro la luce nel bel mezzo della più grave crisi economica del capitalismo, che mise in ginocchio l’intero pianeta! Ma della quale questa riservata a noi, millantati inossidabili del terzo millennio, promette assai bene di battere tutti i record...

LasVegas, Billionaire e paradisi fiscali, ecco le moderne Mahagonny. Ma dice bene Fatty, alla fine:

Potrai ben parlar dei suoi bei giorni
potrai pure scordarli i suoi bei giorni,
potrai vestirlo d’una linda camicia:
non potrai salvarlo, un uomo morto.

15 aprile, 2020

Per i nati nel terzo millennio


Sono loro che (virus permettendo) potranno constatare se la nostra Liebe Erde fra 50 anni sarà salva o... perduta (per loro, mica lei).


Lascio volentieri a loro di stare alla finestra per godersi la suspence, o invece di agire coscientemente per raggiungere uno dei due opposti obiettivi, rispetto ai quali si può star certi che la Liebe Erde sia del tutto indifferente (fin dai tempi dell’Eden lei non fa che ripetere, agli umani pirlotti, imperturbabile: ahò, so’ ccazzi vostri, mica miei...) 

Così ho pensato fosse meglio tornare un filino indietro nel tempo, precisamente a prima di quel giorno che vide l’inizio del più incredibile spettacolo mai messo in scena. E, per combattere uno degli effetti indesiderati del Covid-19, mi sono riavvicinato a quella mirabile opera d’arte che risponde al nome di Die Schöpfung, che mi ero ripromesso di ascoltare a Bologna fra qualche giorno, obiettivo finito in discarica, con mascherine, guanti usati e tutto il resto.  

Tempo fa (son passati più di sette anni!) avevo scritto alcune brevi note sull’intera opera, in occasione di un’esecuzione delle formazioni di Helmuth Rilling al MITO, prendendone poi in particolare esame l’Introduzione, da Haydn battezzata Die Vorstellung des Chaos (La rappresentazione del Caos) che in sole 58 battute evoca con grandissima sapienza lo scenario preesistente alla decisione divina di creare il... creato. 

Insomma, anche Dio, proprio come noi quarantenati in casa (ma Lui non era minacciato da un coronavirus) si cominciò ad annoiare di un eterno e immutabile tran-tran (il Caos, appunto) nel quale si era rinchiuso chissà perchè, e decise di... ripartire. Anzi, stando a sedicenti cosmo-esperti, di far prendere finalmente un po’ d’aria a quella sua incommensurabile massa che aveva rinchiuso nel suo microscopico appartamento, un vero buco... nero. Poi, qualche miliardo (?) di anni più tardi, scappatogli l’occhio su quel granello di polvere chiamato Terra, decise che era il caso di spedirci, magari camuffato da virus come questa volta, uno dei suoi tanti - peraltro sempre inascoltati - #macheminchiastateaffa’? Mica per niente il vecchio Josephus, nella sua musicale narrazione, si fermò all’Eden, preferendo non incamminarsi su una strada che avrebbe trasformato il suo Oratorio in una... via-crucis.
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Com’è noto, la prima esecuzione dell’Oratorio (domenica 29 aprile 1798) avvenne a Vienna in forma privata, nel sontuoso palazzo del Principe Schwarzenberg. Un anno dopo (martedi 19 marzo 1799) si ebbe la prima pubblica, sempre a Vienna. Ma una particolare prima fu quella di domenica 27 marzo 1808, nella Sala delle Feste dell’Università della capitale austriaca. Haydn era presente ed acclamato dalla folla, ma ormai malconcio (gli resterà poco più di un anno di vita) tanto da dover abbandonare la sala dopo la prima parte dell’Oratorio. Quell’esecuzione (sul podio Antonio Salieri) fu la prima ad essere fatta in pubblico in lingua italiana (anche qui il Principe Lobkowitz l’aveva già fatta eseguire a casa sua tempo addietro).



La traduzione (dal testo tedesco di Gottfried van Swieten) riportata nella versione ritmica dello spartito (stampato da Artaria a Vienna) fu opera di un italiano, Giuseppe (de) Carpani, poeta di corte e grande ammiratore di Haydn, del quale si vantava di essere amico e sul quale scrisse le Haydine, lettere immaginarie recanti aneddoti, ricordi e... pettegolezzi riguardanti il compositore, e diverse notizie proprio relative all’Oratorio. Ne cito una perchè credo si applicherebbe ancor oggi a tanti cantanti e direttori che - convinti di apportare valore aggiunto all’originale - si prendono ogni sorta di libertà: 

L’Haydn era così severo in fatto di pretta esecuzione di questa sua musica, che assistendo ad una prova (...) diede una sonora lezione alla notissima cantante la signora Campi, che, dotata di grande estensione, forza e volubilità di voce, mal poteva di solito frenarsi nella profusione degli abbellimenti. Giunta era la prova ad un passo rimarchevole del primo finale, quando l’Haydn prorompe in un grido, e, sospesa ogni cosa, volgesi bruscamente alla cantante, e le dice: “Cosa sono queste note? Io non le ho scritte. Chi gliele ha consigliate?” (La saputella aveva sostituito ad una semi-breve tenuta un suo ghiribizzo di volatine, che infrascando d’incongrue note il passo, lo stravisavano.) La sbigottita cantante rispose: “Perdoni, sig. maestro. Quelle note ce le ho poste io, perchè mi parea che facessero bene.” “E se facessero bene, soggiunse l’Haydn, le avrei poste io prima di lei. Fanno male, e perciò non le voglio; canti come sta, e ci guadagneremo ambidue.”

Per omaggiare Haydn quel giorno dell’esecuzione in italiano, Carpani, cui era stato assegnato un posto in sala proprio dietro alla poltrona su cui sedeva il vegliardo, portato lì di peso, compose per l’occasione questo breve sonetto, che verrà persino musicato da Salieri: 

   A un muover sol di sue possenti ciglia
      Trar dal nulla i viventi e l’Universo,
      E spinger Soli per cammin diverso,
      E immensa attorno a lor d’astri famiglia;
   E natura sì ordir, che, di sè figlia,
      Si rinnovi ogni istante, e il dente avverso
      Le avventi invan lo Struggitor perverso,
      Se Dio lo volle e il fe‘, qual meraviglia?
   Ma ch’uom l’opra di Dio stupenda e rara
      Eguagliar tenti con pittrici note,
      E la renda al pensier presente e chiara,
   Non possibil cimento a ognun parea.
      Haydn, tu il festi. In te chi tutto puote
      Tanto versò di sua divina idea.    

La versione italiana di Carpani (assai aulica nello stile) fu oggetto, nell’800, di parecchie esecuzioni dell’Oratorio in diverse città italiane, come dimostrano numerose edizioni a stampa del libretto, comparse a Bologna, Cremona, Firenze, Milano, Napoli, Roma, Venezia. (Per curiosità, le edizioni fiorentine suddividono l’Oratorio in due parti, 1+2 / 3.) In tempi recenti non risultano esecuzioni, nè quindi registrazioni, in lingua italiana. 

Un’altra traduzione italiana (apocrifa) compare in un’edizione (del 1805?) della partitura d’orchestra apparsa a Parigi, con testi in francese e italiano. Ne scrisse, in termini assai negativi (chissà perchè?) proprio Carpani in una delle sue letterine su Haydn. Lo stesso testo italiano si trova, aggiunto a penna sotto quello tedesco, su uno spartito dell’Editore Mollo (Vienna, 1800) conservato in Spagna. Esiste una traduzione, in linguaggio più moderno (senza riferimenti all’autore) riportata su programmi di sala della Scala e del MITO. E un’altra ancora sul sito l’Orchestra Virtuale del Flaminio (legato a Santa Cecilia) purtroppo incompleta nella terza parte.

Quanto alla musica, il manoscritto originale pare sia andato perduto, e ci restano le edizioni di Mollo e (più tardi) di Breitkopf. Una versione manoscritta apocrifa è custodita da una Fondazione brasiliana, che l’ha caricata in rete (IMSLP): interessante notare come l’Oratorio vi sia diviso in due parti (1 / 2+3) con indicazione dei tempi di esecuzione (1h10’ + 1h05’ = 2h15’) assai più lunghi degli odierni tempi medi, che stanno poco o tanto sotto le 2h. 

E quindi veniamo al sodo, cioè ad ascoltare questo capolavoro. Il primo suggerimento va (noblesse oblige) a quell’Uomo (assai prima che musicista) che fu Lenny Bernstein. Nel giugno del 1986 (poche settimane dopo il disastro nucleare di Chernobyl) diresse l’Oratorio nella grande basilica barocca incorporata nel monastero benedettino di Ottobeuren, in Baviera, con l’Orchestra e il Coro della Radio locale. Impiegò cinque (e non tre) solisti di canto, fra i quali spiccano i nomi di Kurt Moll (Raphael) e Lucia Popp (Eva). A margine della rappresentazione Bernstein registrò, all’aperto, fra le aiuole su un lato del monastero, e con lo stesso abbigliamento del concerto, un breve pistolotto che meriterebbe di esser mandato a memoria da tutti, ma soprattutto da coloro che reggono (senza merito alcuno, va detto) le sorti di questo nostro granello di polvere. 

Più vicino a Haydn e alla sua terrena vicenda è il secondo suggerimento: che ci porta ad Eisenstadt. Haydn trascorse quasi 30 anni della sua esistenza (dal 1761 al 1790) in questa cittadina a sud di Vienna, dividendo il suo tempo (soprattutto in estate) con il vicino paesetto di Fertőd, distante 40Km in linea d’aria, appena a sud dell’attuale confine che separa Austria e Ungheria. Nelle due località sorgono altrettanti palazzi della famiglia dei Principi Esterházy (in particolare quello di Fertőd intendeva rivaleggiare con... Versailles) della quale Haydn fu (sotto Nicola I) Maestro di cappella.


Purtroppo Nicola I fu uno spendaccione morto pieno di debiti, ereditati dal figlio Antonio che non trovò di meglio - per risanare le sue finanze - che disfarsi anche della sua cappella, Haydn incluso. Ascoltiamo quindi l’Oratorio nella grande sala del palazzo di Eisenstadt, dove Haydn aveva tante volte allietato le ore del suo mecenate con le sue Sinfonie e Quartetti. Lo interpretano - in occasione del 200° anniversario dalla sua scomparsa - Orchestra e Coro austro-ungarici (e tre soli solisti di canto) diretti da uno che (insieme al fratello Ivan) perpetua la tradizione musicale sette-ottocentesca dell’era asburgica: Ádám Fischer (o meglio: Fischer Ádám, come si usa a casa sua).

Non c’è due senza tre? Certamente: ma il tre lo lascio alla libera scelta di ciascuno: in rete, ma son certo anche in molti scaffali casalinghi, c’è ampia disponibilità di questi suoni... celestiali.

09 aprile, 2020

Pasqua con Bach


Prima ancora che un’occasione di (relativo) godimento estetico-spirituale, l’Oratorio di Pasqua di Johann Sebastian Bach può diventare anche un esercizio utile a combattere gli effetti nefasti della quarantena che ci viene imposta dal subdolo coronavirus. In che modo? Semplicemente andando alla scoperta delle circostanze che ne caratterizzarono la gestazione, la nascita e la successiva esistenza: ed è un viaggio che impegna la curiosità e quindi la materia grigia, il cui corretto funzionamento rischia di essere messo in pericolo in questi giorni di clausura forzata. E purtroppo sembra che la quarantena abbia già avuto effetti preoccupanti su qualche mente - forse già malata di suo - che predica riaperture e ripartenze folli fin dalla prossima settimana.

(Nb: il problema della totale ripresa produttiva non sta nelle misure di sicurezza - problematiche ma non impossibili da mettere in atto - dentro fabbriche, cantieri e uffici, dalle 8:30 alle 18:30; ma in quelle, oggi ancora praticamente irrealizzabili, fuori da quegli ambienti, prima e dopo l’orario di lavoro. O pensiamo di contingentare, come si fa per i supermercati, l’accesso a metropolitane, treni pendolari, autobus, pulmini e mezzi di trasporto in generale? Così - ma se proprio tutto va bene, e correndo comunque rischi non da poco - la gente arriverebbe in ufficio o in cantiere o in fabbrica a mezzogiorno e rientrerebbe a casa a mezzanotte... Bella ripresa! Insomma, finchè i contagi non spariscono quasi del tutto e non mettiamo in atto qualche diavoleria coreana, sarà meglio andarci piano con le fughe in avanti della premiata coppia Bonomi&Bonometti.)
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Back-to-business-Bach. In ogni testo riguardante quest’opera (libri sulle cantate, saggi, wikipedia, booklet di CD, etc.) si legge che l’Oratorio di Pasqua, BWV 249, fu in realtà un adattamento (in gergo appropriato: una parodia) di una precedente opera di Bach: la cantata profana (o secolare) Entfliehet, verschwindet, entweichet, ihr Sorgen, BWV 249a. Profana perchè composta nel 1725 per celebrare un evento mondano e non religioso: il 43° compleanno del Duca Christian von Sachsen-Weißenfels.

Il quale aveva evidentemente l’abitudine di auto-celebrarsi a quel modo, se è vero che 12 anni prima aveva ingaggiato lo stesso Bach (allora di stanza a Weimar) per festeggiare il compleanno n°31 con un’altra cantata, inneggiante alla caccia (e al... ducale cacciatore) Was mir behagt, ist nur die muntre Jagd, BWV 208, eseguita di sera, al ritorno del Duca a Weißenfels (una quarantina di Km a sud-ovest di Lipsia) dopo una battuta di caccia.  

Detto di passaggio: bei tempi, quelli dove le persone importanti e ricche si facevano perdonare i propri (magari immeritati) privilegi alimentando da mecenati la più nobile ed alta produzione artistica. Per dire, ce lo vedete oggi un Briatore a farsi comporre da Morricone una cantata per l’apertura di un Billionaire a Wuhan?

Orbene, era il venerdi 23 febbraio 1725 quando la cantata vide la luce proprio a Weißenfels, casa del Duca, nel castello Neu-Augustusburg, che domina imponente quella cittadina. Autore del testo fu Christian Friedrich Henrici, noto con il nick-name di Picander, letterato di Lipsia che fu uno dei più stretti e prolifici librettisti di Bach. Il soggetto tratta di una riunione di quattro pastori (due maschi e due femmine) che lasciano incustodite le loro greggi pur di potersi associare - con canti di gioia e di augurio - ai festeggiamenti in onore del caro Christian.  

Bach era a Lipsia dal 1723 con l’incarico di Thomaskantor (responsabile musicale della Thomaskirche) ed aveva quindi (anche) il compito di impreziosire le festività religiose con opportuna musica di circostanza. Orbene, accontentato il Duca, a Bach restavano sì e no 40 giorni per preparare qualcosa per la Pasqua, che quell’anno cadeva il 1° Aprile. Scartata l’ipotesi di fare il classico pesce (si sarebbe come minimo giocato il posto e la carriera...) il Kantor non trovò di meglio che auto-imprestarsi la musica del compleanno ducale per farci la Cantata di Pasqua (solo anni più tardi rivista, anche nel testo, e rinominata Oratorio). Contando furbescamente sul fatto che la Cantata per il nobile Christian era stata eseguita a Weißenfels e non a Lipsia, dove era quindi sconosciuta al grande pubblico. Così, a parte i 4 recitativi (semplici per non dir banali da musicare) Bach tenne buono tutto il resto, cioè i 5 numeri cantati della 249a e forse la Sinfonia (che però potrebbe aver composto specificamente per la Pasqua, riadattando sue preesistenti composizioni dei tempi di Köthen) e chiedendo poi al suo librettista Picander (ma anche questa paternità è dubbia...) di scrivere testi adeguati alla bisogna religiosa. E il letterato (Picander o chi per lui) fece quindi ciò che appare come un controsenso: scrivere il testo sacro su una musica già composta per finalità profane.   

E tutto sommato la cosa gli riuscì discretamente (ma siamo ben distanti dalle Passioni o dall’Oratorio di Natale!) anche grazie alla relativa vicinanza fra i due scenari: entrambi aventi come sfondo dei festeggiamenti e lodi al festeggiato. Così i due pastori si travestirono da Pietro e Giovanni e le due pastorelle da Madonna e Maddalena! Ecco qui i due testi dei numeri cantati a confronto:

BWV249a
BWV249 
3. Aria a Duetto
(Damoetas, Menalcas)
Fuggite, scomparite, cedete, voi ansie,
non turbate i gioiosi sentimenti!
Risa e scherzi
riempiono i cuori,
la gioia si dipinge sui volti.
(Sylvia, Doris)
Fuggite, scomparite, cedete, voi ansie,
non turbate i gioiosi sentimenti!

5. Aria 
(Doris)
Centomila lusinghe
mi si agitano in petto.
E il piacere,
come mostrano le affettuosità,
non può zittire la lingua.

7. Aria
(Menalcas)
Cullate, o sazie pecorelle,
nel sonno
voi stesse!
Làggiù in quei vasti pascoli,
dove cresce tenera erba,
torneremo a ritrovarvi.

9. Aria
(Sylvia)
Ora vieni Flora, vieni rapida,
respira la brezza occidentale,
come i nostri ameni campi,
così che un fedele suddito
al suo soave Christian
doveri e debiti possa pagare.

11. Aria

Fortuna e salute
ti siano costantemente compagni!
Grande Duca, il tuo diletto
possa ergersi come una palma;
che mai si curva,
ma che invece punta alle nuvole!
Così in futuro, della tua continua prosperità,
possano i tuoi sudditi allietarsi con risa e scherzi.
N. 3 - DUETTO E CORO
PIETRO E GIOVANNI
Venite, affrettatevi e correte, o piedi lesti,
Verso la grotta che ha nascosto Gesù!
Risa e scherzi
Accompagnino il vostro cuore,
Poiché il nostro Salvatore è risorto.
CORO
Venite, affrettatevi e correte, o piedi lesti,
Verso la grotta che ha nascosto Gesù!

N. 5 - ARIA
MARIA, LA MADRE DI GESÙ
Oh anime, le vostre spezie
Non saranno più mirra
Perché solo
Con risplendenti corone d'alloro
Potrà placarsi il vostro struggente desiderio.

N. 7 - ARIA
PIETRO
A poco a poco il mio tormento
Non sarà altro che un sonno leggero
Gesù, attraverso il tuo sudario.
Sì, lì avrò sollievo
E le lacrime del mio dolore
Sì asciugheranno dolcemente sulle mie gote.

N. 9 - ARIA
MARIA MADDALENA
Ditemi, su ditemi,
Ditemi, dove posso trovare Gesù,
Colui che la mia anima adora!
Vieni, su vieni, abbracciami!
Che il mio cuore senza di te
È desolato e afflitto.

N. 11 - CORO

Lode e grazie
Sia per sempre, Signore, il tuo canto di lode!
L'inferno e il diavolo si sono dileguati,
Le loro porte sono state distrutte
Esultate, o lingue liberate,
affinché lo si senta fino in cielo!
Aprite, o Cieli, l'arco splendente,
Il leone di Giuda sì avvicina vittorioso!

Bach rimise poi mano alla Cantata, rinominata Oratorio di Pasqua, in anni successivi. È del 1738 la versione definitiva del verso iniziale: Kommt, eilet und laufet, che ha rimpiazzato due precedenti formulazioni: Kommt, gehet und eilet e Kommt, fliehet und eilet. Ma altri interventi sono databili nei 10 anni successivi. Va anche detto che i quattro nomi dei personaggi biblici (Maria, Maddalena, Pietro e Giovanni) figuravano solo nelle parti manoscritte della Cantata di Pasqua del 1725, mentre sono stati poi sostituiti dalle semplici indicazioni S (soprano) A (contralto) T (tenore) e B (basso). 

La principale fonte di informazioni originali sull’opera è costituita da due faldoni predisposti da Carl Philipp Emanuel Bach e giacenti a Berlino. Vi sono raccolti rispettivamente il manoscritto della partitura (del 1738, 42 facciate) e una serie di parti (vocali e strumentali, 110 facciate) databili a partire dal febbraio 1725 (quindi fin dai giorni della Cantata ducale) per arrivare almeno fino al 1746. Sulla base di questo materiale Breitkopf&Hartel (Wilhelm Rust, 1874) ha predisposto la prima edizione della partitura dell’Oster-Oratorium. Questa è quindi la forma finale del testo dell’Oratorio.

Viceversa mai si è rinvenuto un manoscritto della 249a. Ma allora come si è stabilita la filiazione fra questa e la 249 (Cantata e poi Oratorio?) Ci ha pensato un teologo evangelico, bibliotecario e musicologo, Friedrich Smend, con una ricerca che a metà del secolo scorso ha portato, con la collaborazione dell’organista-musicologo Hermann Keller, alla ricostruzione della Cantata ducale, pubblicata nel 1943 da Bärenreiter e che possiamo ascoltare in rete dai complessi del venerabile Helmuth Rilling. Smend ha operato prevalentemente sui testi: quello della 249a, certamente di Picander (che lo incluse in edizioni a stampa delle sue opere) e quello della Cantata di Pasqua, verosimilmente (ma non del tutto certamente) dello stesso librettista, trovando analogie sufficienti a portarlo a concludere che dietro ci fosse la stessa musica, quella sopravvissuta della Cantata (poi Oratorio) di Pasqua. 

Ma Smend non si fermò qui! Torniamo a Bach: passa poco più di un anno dalla prima pasquale ed ecco che gli arriva una nuova commissione secolare: il Conte Joachim Friedrich von Flemming, signore di Hartau, Golobach, Nödelschitz e Klein-Wölkau, Generale della Cavalleria sassone, Cavaliere di SanGiovanni di Gerusalemme e comandante della Fortezza di Schievelberg (tutto qui?...) è dal 7 maggio 1724 Governatore di Lipsia e per il suo 61° compleanno commissiona a Bach... toh, una Cantata! Ma ormai il furbo Joh.Seb. in fatto di compleanni è un maestro (!) e così - possiamo proprio credere a Smend - riprende la 249a (quella di Sachsen-Weißenfels) e ne impiega i 5 numeri cantati per ricavarci la 249b per Flemming: Verjaget, zerstreuet, zerrüttet, ihr Sterne, che verrà eseguita a Lipsia Domenica 25 Agosto 1726, antivigilia del compleanno del Conte. Anche qui aiutato da quel volpone di Picander, che inventa (o anche scopiazza dalla precedente) il testo della cantata. Che peraltro nessuno si è (ancora) preso la briga di ricostruire in toto (come fatto per la 249a).
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Beh, adesso basta con (f)utili passatempi e ascoltiamo finalmente l’Oratorio di Pasqua. Io dò fiducia a Philippe Herreweghe, uno che viene dalla gloriosa tradizione fiamminga, ergo non può certo deludere!

06 aprile, 2020

La grande Pasqua russa


La Russia in questi giorni ci sta dando una mano a fronteggiare lo sbifido coronato e - salvo qualche nostro acuto malpensante che dietro questo gesto sospetta di chissà quali sinistri cavalli di troia, dai quali uscirebbero al momento opportuno i simpatici cosacchi per abbeverare i cavalli a San Pietro e soprattutto per trascinarci nel Patto di Varsavia - le siamo tutti grati per gli aiuti materiali che ci offre.

Ma, ormai sotto Pasqua, possiamo attingere - e senza pericolo di sorta - alle risorse della grande mamma russa anche per procurarci qualcosa di più immateriale rispetto ai pur necessari respiratori e mascherine.

Così chi vuol passare in casa (tanto in chiesa non può, nonostante le implorazioni del devoto felpato sal Matteo) una Veglia per tutta la notte (scelga pur lui quale notte...) può rivolgersi a Sergei Rachmaninov e ai suoi Vespri per coro a cappella (Op.37), 15 canti della tradizione russa, ma ricchi di influenze balcaniche e bizantine. 

In rete ce n’è una mezza dozzina di esecuzioni (cercare Rachmaninov Vespers...) e davvero ci si può passare un’intera notte, senza tema di addormentarsi. Oppure addormentarsi ritrovandosi in sogno in Paradiso!

Perchè è musica che da sola, anche ignorando il significato dei testi cantati, ti solleva ad astronomiche distanze dalle miserie terrestri; se poi si vuol anche decifrare ciò che viene cantato, ci viene in soccorso il benemerito Teatro Sociale di Como che un anno fa, in occasione di un concerto proprio sotto Pasqua, ha pubblicato alcune brevi note illustrative dell’opera e - soprattutto - la traduzione italiana dei testi.

Quindi buona veglia e... vade retro, virus!