Sono
loro che (virus permettendo) potranno constatare se la nostra Liebe Erde fra 50 anni sarà
salva o... perduta (per loro, mica lei).
Lascio volentieri a loro di stare alla finestra per godersi la suspence, o invece di agire
coscientemente per raggiungere uno dei due opposti obiettivi, rispetto ai quali
si può star certi che la Liebe Erde sia
del tutto indifferente (fin dai tempi dell’Eden lei non fa che ripetere, agli
umani pirlotti, imperturbabile: ahò, so’ ccazzi vostri, mica miei...)
Così
ho pensato fosse meglio tornare un filino indietro nel tempo, precisamente a prima di quel giorno che vide l’inizio
del più incredibile spettacolo mai messo in scena. E, per combattere uno degli
effetti indesiderati del Covid-19, mi sono riavvicinato a quella mirabile opera
d’arte che risponde al nome di Die Schöpfung, che mi ero
ripromesso di ascoltare a Bologna fra qualche
giorno, obiettivo finito in discarica, con mascherine, guanti usati e tutto il
resto.
Tempo fa (son passati più di sette anni!) avevo scritto alcune brevi note sull’intera opera, in occasione di un’esecuzione delle formazioni di Helmuth Rilling al MITO, prendendone poi in particolare esame l’Introduzione, da Haydn battezzata Die Vorstellung des Chaos (La rappresentazione del Caos) che in sole 58 battute evoca con grandissima sapienza lo scenario preesistente alla decisione divina di creare il... creato.
Insomma, anche Dio, proprio come noi quarantenati in casa (ma Lui non era minacciato da un coronavirus) si cominciò ad annoiare di un eterno e immutabile tran-tran (il Caos, appunto) nel quale si era rinchiuso chissà perchè, e decise di... ripartire. Anzi, stando a sedicenti cosmo-esperti, di far prendere finalmente un po’ d’aria a quella sua incommensurabile massa che aveva rinchiuso nel suo microscopico appartamento, un vero buco... nero. Poi, qualche miliardo (?) di anni più tardi, scappatogli l’occhio su quel granello di polvere chiamato Terra, decise che era il caso di spedirci, magari camuffato da virus come questa volta, uno dei suoi tanti - peraltro sempre inascoltati - #macheminchiastateaffa’? Mica per niente il vecchio Josephus, nella sua musicale narrazione, si fermò all’Eden, preferendo non incamminarsi su una strada che avrebbe trasformato il suo Oratorio in una... via-crucis.
___
Com’è noto, la prima esecuzione dell’Oratorio (domenica 29 aprile 1798) avvenne a Vienna in forma privata, nel sontuoso palazzo del Principe Schwarzenberg. Un anno dopo (martedi 19 marzo 1799) si ebbe la prima pubblica, sempre a Vienna. Ma una particolare prima fu quella di domenica 27 marzo 1808, nella Sala delle Feste dell’Università della capitale austriaca. Haydn era presente ed acclamato dalla folla, ma ormai malconcio (gli resterà poco più di un anno di vita) tanto da dover abbandonare la sala dopo la prima parte dell’Oratorio. Quell’esecuzione (sul podio Antonio Salieri) fu la prima ad essere fatta in pubblico in lingua italiana (anche qui il Principe Lobkowitz l’aveva già fatta eseguire a casa sua tempo addietro).
Per omaggiare Haydn quel giorno dell’esecuzione in italiano, Carpani, cui era stato assegnato un posto in sala proprio dietro alla poltrona su cui sedeva il vegliardo, portato lì di peso, compose per l’occasione questo breve sonetto, che verrà persino musicato da Salieri:
Tempo fa (son passati più di sette anni!) avevo scritto alcune brevi note sull’intera opera, in occasione di un’esecuzione delle formazioni di Helmuth Rilling al MITO, prendendone poi in particolare esame l’Introduzione, da Haydn battezzata Die Vorstellung des Chaos (La rappresentazione del Caos) che in sole 58 battute evoca con grandissima sapienza lo scenario preesistente alla decisione divina di creare il... creato.
Insomma, anche Dio, proprio come noi quarantenati in casa (ma Lui non era minacciato da un coronavirus) si cominciò ad annoiare di un eterno e immutabile tran-tran (il Caos, appunto) nel quale si era rinchiuso chissà perchè, e decise di... ripartire. Anzi, stando a sedicenti cosmo-esperti, di far prendere finalmente un po’ d’aria a quella sua incommensurabile massa che aveva rinchiuso nel suo microscopico appartamento, un vero buco... nero. Poi, qualche miliardo (?) di anni più tardi, scappatogli l’occhio su quel granello di polvere chiamato Terra, decise che era il caso di spedirci, magari camuffato da virus come questa volta, uno dei suoi tanti - peraltro sempre inascoltati - #macheminchiastateaffa’? Mica per niente il vecchio Josephus, nella sua musicale narrazione, si fermò all’Eden, preferendo non incamminarsi su una strada che avrebbe trasformato il suo Oratorio in una... via-crucis.
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Com’è noto, la prima esecuzione dell’Oratorio (domenica 29 aprile 1798) avvenne a Vienna in forma privata, nel sontuoso palazzo del Principe Schwarzenberg. Un anno dopo (martedi 19 marzo 1799) si ebbe la prima pubblica, sempre a Vienna. Ma una particolare prima fu quella di domenica 27 marzo 1808, nella Sala delle Feste dell’Università della capitale austriaca. Haydn era presente ed acclamato dalla folla, ma ormai malconcio (gli resterà poco più di un anno di vita) tanto da dover abbandonare la sala dopo la prima parte dell’Oratorio. Quell’esecuzione (sul podio Antonio Salieri) fu la prima ad essere fatta in pubblico in lingua italiana (anche qui il Principe Lobkowitz l’aveva già fatta eseguire a casa sua tempo addietro).
La
traduzione (dal testo tedesco di Gottfried van Swieten) riportata
nella versione ritmica dello spartito
(stampato da Artaria a Vienna) fu
opera di un italiano, Giuseppe (de) Carpani,
poeta di corte e grande ammiratore di
Haydn, del quale si vantava di essere amico e sul quale scrisse le Haydine, lettere immaginarie recanti
aneddoti, ricordi e... pettegolezzi riguardanti il compositore, e diverse
notizie proprio relative all’Oratorio.
Ne cito una perchè credo si applicherebbe ancor oggi a tanti cantanti e
direttori che - convinti di apportare valore aggiunto all’originale - si prendono
ogni sorta di libertà:
L’Haydn era
così severo in fatto di pretta esecuzione di questa sua musica, che assistendo
ad una prova (...) diede una sonora lezione alla notissima cantante la signora
Campi, che, dotata di grande estensione,
forza e volubilità di voce, mal poteva di solito frenarsi nella profusione
degli abbellimenti. Giunta era la prova ad un passo rimarchevole del primo finale,
quando l’Haydn prorompe in un grido,
e, sospesa ogni cosa, volgesi bruscamente alla cantante, e le dice: “Cosa
sono queste note? Io non le ho scritte. Chi gliele ha consigliate?” (La saputella
aveva sostituito ad una semi-breve tenuta un suo ghiribizzo di volatine, che infrascando
d’incongrue note il passo, lo stravisavano.) La sbigottita cantante rispose: “Perdoni,
sig. maestro. Quelle note ce le ho poste io, perchè mi parea che facessero bene.”
“E se facessero bene, soggiunse l’Haydn,
le avrei poste io prima di lei. Fanno male, e perciò non le voglio; canti come
sta, e ci guadagneremo ambidue.”
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Per omaggiare Haydn quel giorno dell’esecuzione in italiano, Carpani, cui era stato assegnato un posto in sala proprio dietro alla poltrona su cui sedeva il vegliardo, portato lì di peso, compose per l’occasione questo breve sonetto, che verrà persino musicato da Salieri:
A un muover sol di
sue possenti ciglia
Trar dal nulla i viventi e l’Universo,
E spinger Soli per cammin diverso,
E immensa attorno a lor d’astri famiglia;
E natura sì ordir,
che, di sè figlia,
Si rinnovi ogni istante, e il dente
avverso
Le avventi invan lo Struggitor perverso,
Se Dio lo volle e il fe‘, qual meraviglia?
Ma ch’uom l’opra di
Dio stupenda e rara
Eguagliar tenti con pittrici note,
E la renda al pensier presente e chiara,
Non possibil
cimento a ognun parea.
Haydn, tu il festi. In te chi tutto puote
Tanto versò di sua divina
idea.
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La versione italiana di Carpani (assai aulica nello
stile) fu oggetto, nell’800, di parecchie esecuzioni dell’Oratorio in diverse
città italiane, come dimostrano numerose edizioni a stampa del libretto,
comparse a Bologna, Cremona, Firenze, Milano, Napoli, Roma, Venezia. (Per
curiosità, le edizioni fiorentine suddividono l’Oratorio in due parti, 1+2 /
3.) In tempi recenti non risultano esecuzioni, nè quindi registrazioni, in lingua italiana.
Un’altra traduzione italiana (apocrifa) compare in un’edizione (del 1805?) della partitura d’orchestra apparsa a Parigi, con testi in francese e italiano. Ne scrisse, in termini assai negativi (chissà perchè?) proprio Carpani in una delle sue letterine su Haydn. Lo stesso testo italiano si trova, aggiunto a penna sotto quello tedesco, su uno spartito dell’Editore Mollo (Vienna, 1800) conservato in Spagna. Esiste una traduzione, in linguaggio più moderno (senza riferimenti all’autore) riportata su programmi di sala della Scala e del MITO. E un’altra ancora sul sito l’Orchestra Virtuale del Flaminio (legato a Santa Cecilia) purtroppo incompleta nella terza parte.
Quanto alla musica, il manoscritto originale pare sia andato perduto, e ci restano le edizioni di Mollo e (più tardi) di Breitkopf. Una versione manoscritta apocrifa è custodita da una Fondazione brasiliana, che l’ha caricata in rete (IMSLP): interessante notare come l’Oratorio vi sia diviso in due parti (1 / 2+3) con indicazione dei tempi di esecuzione (1h10’ + 1h05’ = 2h15’) assai più lunghi degli odierni tempi medi, che stanno poco o tanto sotto le 2h.
E quindi veniamo al sodo, cioè ad ascoltare questo capolavoro. Il primo suggerimento va (noblesse oblige) a quell’Uomo (assai prima che musicista) che fu Lenny Bernstein. Nel giugno del 1986 (poche settimane dopo il disastro nucleare di Chernobyl) diresse l’Oratorio nella grande basilica barocca incorporata nel monastero benedettino di Ottobeuren, in Baviera, con l’Orchestra e il Coro della Radio locale. Impiegò cinque (e non tre) solisti di canto, fra i quali spiccano i nomi di Kurt Moll (Raphael) e Lucia Popp (Eva). A margine della rappresentazione Bernstein registrò, all’aperto, fra le aiuole su un lato del monastero, e con lo stesso abbigliamento del concerto, un breve pistolotto che meriterebbe di esser mandato a memoria da tutti, ma soprattutto da coloro che reggono (senza merito alcuno, va detto) le sorti di questo nostro granello di polvere.
Non c’è due senza tre? Certamente: ma il tre lo lascio alla libera scelta di ciascuno: in
rete, ma son certo anche in molti scaffali casalinghi, c’è ampia disponibilità
di questi suoni... celestiali.
Un’altra traduzione italiana (apocrifa) compare in un’edizione (del 1805?) della partitura d’orchestra apparsa a Parigi, con testi in francese e italiano. Ne scrisse, in termini assai negativi (chissà perchè?) proprio Carpani in una delle sue letterine su Haydn. Lo stesso testo italiano si trova, aggiunto a penna sotto quello tedesco, su uno spartito dell’Editore Mollo (Vienna, 1800) conservato in Spagna. Esiste una traduzione, in linguaggio più moderno (senza riferimenti all’autore) riportata su programmi di sala della Scala e del MITO. E un’altra ancora sul sito l’Orchestra Virtuale del Flaminio (legato a Santa Cecilia) purtroppo incompleta nella terza parte.
Quanto alla musica, il manoscritto originale pare sia andato perduto, e ci restano le edizioni di Mollo e (più tardi) di Breitkopf. Una versione manoscritta apocrifa è custodita da una Fondazione brasiliana, che l’ha caricata in rete (IMSLP): interessante notare come l’Oratorio vi sia diviso in due parti (1 / 2+3) con indicazione dei tempi di esecuzione (1h10’ + 1h05’ = 2h15’) assai più lunghi degli odierni tempi medi, che stanno poco o tanto sotto le 2h.
E quindi veniamo al sodo, cioè ad ascoltare questo capolavoro. Il primo suggerimento va (noblesse oblige) a quell’Uomo (assai prima che musicista) che fu Lenny Bernstein. Nel giugno del 1986 (poche settimane dopo il disastro nucleare di Chernobyl) diresse l’Oratorio nella grande basilica barocca incorporata nel monastero benedettino di Ottobeuren, in Baviera, con l’Orchestra e il Coro della Radio locale. Impiegò cinque (e non tre) solisti di canto, fra i quali spiccano i nomi di Kurt Moll (Raphael) e Lucia Popp (Eva). A margine della rappresentazione Bernstein registrò, all’aperto, fra le aiuole su un lato del monastero, e con lo stesso abbigliamento del concerto, un breve pistolotto che meriterebbe di esser mandato a memoria da tutti, ma soprattutto da coloro che reggono (senza merito alcuno, va detto) le sorti di questo nostro granello di polvere.
Più vicino a Haydn e alla sua terrena vicenda è il
secondo suggerimento: che ci porta ad Eisenstadt. Haydn trascorse quasi 30 anni della sua esistenza (dal
1761 al 1790) in questa cittadina a sud di Vienna, dividendo il suo tempo (soprattutto
in estate) con il vicino paesetto di Fertőd,
distante 40Km in linea d’aria, appena a sud dell’attuale confine che separa
Austria e Ungheria. Nelle due località sorgono altrettanti palazzi della
famiglia dei Principi Esterházy (in
particolare quello di Fertőd intendeva
rivaleggiare con... Versailles) della quale Haydn fu (sotto Nicola I) Maestro di cappella.
Purtroppo Nicola I fu uno spendaccione morto pieno di debiti, ereditati dal
figlio Antonio che non trovò di
meglio - per risanare le sue finanze - che disfarsi anche della sua cappella, Haydn incluso. Ascoltiamo
quindi l’Oratorio nella grande sala del palazzo di Eisenstadt, dove Haydn aveva
tante volte allietato le ore del suo mecenate con le sue Sinfonie e Quartetti.
Lo interpretano - in
occasione del 200° anniversario dalla sua scomparsa - Orchestra e Coro austro-ungarici
(e tre soli solisti di canto) diretti da uno che (insieme al fratello Ivan) perpetua la tradizione musicale sette-ottocentesca
dell’era asburgica: Ádám Fischer (o meglio: Fischer Ádám, come si usa a casa sua).
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