affinità bombarole

rinsaldato il patto atlantico

04 luglio, 2019

Berlioz tempestosamente ricordato a Ravenna


Lo scorso 8 marzo, oltre che la stucchevole festa della donna (la quale poi per altri 364 giorni rischia che le facciano la festa per davvero...) ricorreva il 150° anniversario della scomparsa di tale Louis-Hector Berlioz. Pochi se ne sono ricordati e fra questi, meritoriamente, il Ravenna-Festival, che ha voluto dedicare alla memoria del vulcanico compositore il concerto di ieri sera, protagonista - noblessse oblige - la prestigiosa ONF, guidata dal suo Direttore musicale, Emmanuel KrivineConcerto funestato (forse Berlioz avrebbe detto arricchito!) dalle intemperanze di Giove pluvio, tonante e fulminante (come si vedrà). 

A Berlioz si è arrivati con un percorso retrogrado, iniziato da un autore che - almeno nell’immaginario collettivo - starebbe quasi agli antipodi del lunatico francese: Johannes Brahms, del quale abbiamo ascoltato le splendide Variazioni su un tema di Haydn, ultimo test attitudinale (1873) cui il burbero amburghese si sottopose in vista della sua tanto attesa e reclamata discesa in campo nell’arena sinfonica (1876). Insomma, una composizione che valse ad ottenere a Brahms il passaggio dell’esame (al pianoforte) con la severa Clara (Wieck, maritata Schumann) e a convincerlo a fare finalmente sul serio con la Sinfonia in DO minore.    

Il tema originario (Chorale in honorem St. Antonii, scritto per organico di banda) è quasi certo che non sia di Haydn: si è scoperto infatti che doveva essere un canto di pellegrini boemi ripreso da Ignatz Joseph Pleyel. Certo è invece che Brahms ne ha fatto un impiego magistrale: le otto variazioni che seguono l’esposizione del tema (tutte sempre nel SIb di impianto, cinque in modo maggiore e tre – 2-4-8 - in minore) ne sviluppano tutte le potenzialità, o ne derivano altri motivi a mo’ di reminiscenza. Nel Finale (tempo di passacaglia, ecco un altro chiaro richiamo al glorioso passato, ma anche anticipazione del futuro... quarta sinfonia!) Brahms inventa ancora una nutrita serie di (piccole) variazioni, su un motivo di basso ostinato di 5 battute, tenuto inizialmente (per 9 volte) dai soli contrabbassi, ma che poi passa ai violoncelli, alle viole e quindi emerge in primo piano nei corni e ancora (in minore) negli oboi, poi nei flauti e di nuovo nei corni, per tornare (in maggiore) a corni e violoncelli, prima della trionfale e conclusiva ripresa del tema.

Esecuzione mirabile dei nazionali di Francia, che si sono così meritati grandi applausi da un pubblico non proprio oceanico, ma più caldo del caldo asfissiante che gravava (fino a quel momento almeno) anche qui sulla riviera romagnola. Ma già qualche lampo penetrato dal plexiglas del cupolone faceva presagire il peggio.
___
Per compiere l’avvicinamento a Berlioz, la prima parte della serata è stata completata dal sesto dei poemi sinfonici di Franz Liszt, Mazeppa, ispirato a Byron (1819) ma soprattutto a Hugo (1828) il cui poemetto è stampato in testa alla partitura. Il soggetto tratta delle vicissitudini di questo giovane ukraino (Ivan Stepanovič Mazepa-Koledinsky) che, avendo occupato il posto di un notabile polacco... ehm, nel di lui letto, fu legato nudo come un verme ad un cavallo alimentato ad alghe marine (!) e poi spedito via al galoppo. Morto per sfinimento il cavallo e moribondo lui, Mazeppa fu però rimesso in sesto da una banda di Cosacchi ed eletto a loro condottiero! Naturalmente c’è chi ci vede l’allegoria dell’Artista (sempre un po’... scapestrato) che vince ogni ostacolo per raggiungere nobili traguardi.

Ecco qui Gianandrea Noseda dirigerlo con la BBC Philharmonic (sua antica dimora).
___
L’Introduzione è in 6/4, RE minore, e dopo uno schianto dell’orchestra che evoca il nitrito del cavallo che scatta via con Mazeppa in groppa, vi compaiono continue folate degli archi (il galoppo) e semiminime prima ascendenti e poi discendenti (le salite e discese percorse dal destriero nella sua folle corsa); si odono anche scoppi come di tuono e fulmine (o sono altri nitriti del cavallo imbizzarrito...) Insomma un’atmosfera da tregenda! Che a me ricorda irresistibilmente l’incipit di Walküre! E forse non è un caso che Wagner, già amicissimo (prima di diventarne genero) di Liszt, con il quale scambiava continuamente notizie su progetti e idee, si sia ispirato a Mazeppa (che era in gestazione a Weimar proprio quando Wagner vi transitò fuggendo da Dresda e diretto a Zurigo) per aprire la prima giornata del suo Ring. Che, fra l’altro, è nello stesso RE minore e in un tempo (3/2) simile, anche se a scansione diversa, a quello del poema sinfonico.

L’Introduzione è seguita (1’08”) da una lunga sezione, caratterizzata dal tema principale che evoca la cavalcata di Mazeppa, dapprima esposto dai tromboni, poi (2’10”) dalle trombe. Una transizione (3’22”) porta all’esposizione (3’37”) di una variante lenta del tema principale. Essa viene riproposta a 4’48”, e conduce poi attraverso un ponte di preparazione (5’26”) all’esposizione del tema principale in modo maggiore (5’45”) e con fiero cipiglio. A 6’19” il tema torna nei tromboni e successivamente (7’15”) negli archi. A 8’20” troviamo una lunga transizione, in cui compare (9’31”) smozzicato, l‘incipit del tema principale: è il momento della fine della corsa: cavallo e... soma si accasciano sfiniti.  

Ma sappiamo che Mazeppa viene salvato ed eletto a capo dai cosacchi. E a questo punto ecco la sezione conclusiva del lavoro, che Liszt aggiunse in un secondo momento e che può (secondo le indicazioni dell’Autore) anche essere eseguita separatamente da ciò che la precede! Si tratta della marcia tartara, aperta (10’24”) da fieri squilli di trombette, che consta a sua volta di due sezioni: la prima (11’10”) esposta a piena orchestra, dal carattere smaccatamente eroico, e la seconda (12’03”) che presenta un tema squisitamente orientale, nei legni, magari proprio cosacco... Il tutto viene ripetuto (12’46”) con formale da-capo.

A 14’21” il tema cosacco si appesantisce, assumendo caratteristiche quasi minacciose (15’06”) ma preparando così il trionfale ritorno (15’37”) del tema principale, in modo maggiore, che a sua volta conduce alla secca conclusione.
___
Krivine non ha certo risparmiato enfasi e retorica (come del resto si addice a kermesse di questo genere) e altri segnali atmosferici hano tutto sommato contribuito a sceneggiare la... sceneggiata di Liszt, anche questa accolta da lunghi applausi.
___
Fu proprio Franz Liszt, in un lungo scritto del 1855 (Berlioz und seine Harold-Symphonie) a magnificare la qualità della composizione che ha chiuso (rocambolescamente, per la verità) il concerto: Harold en Italie, propostoci dalla splendida viola imbracciata da Antoine Tamestit, che guarda caso si era esibito nello stesso brano con la Santa Cecilia (e Gardiner) proprio lo scorso marzo. Qui invece vediamo la Sinfonia eseguita meno di un mese fa dalla ONF con Krivine (a casa loro) e con la loro prima viola (Nicolas Bône) nella parte di Harold.

Le cronache (e le stesse Mémoirs del compositore) ci raccontano che l’opera fu in pratica commissionata all’inizio del 1834 a Berlioz da Niccolò Paganini, che desiderava così portare al pubblico le preziosità di una viola Stradivari recentemente venuta in suo possesso. Berlioz - come sempre esagerato - pensò ad una specie di cantata con orchestra, coro e viola solista intitolata Les derniers instants de Marie Stuart, e addirittura rese pubblica la notizia, prima di venire disilluso proprio da Paganini, che mai e poi mai si sarebbe abbassato a fare da comprimario in qualcosa di così sesquipedale. Berlioz per tutta risposta invitò allora la star internazionale a comporsi il concerto da sè! (Cosa che Paganini effettivamente farà, ma senza grande successo).

Così Berlioz si buttò a capofitto su Byron e sul suo Child Harold's Pilgrimage per trarne questa sinfonia-a-programma, presentata nel novembre 1834 con discreta fortuna. Qualche anno dopo un Paganini malmesso e totalmente afono (il figlioletto Achille gli faceva da portavoce) potè assistere ad un’esecuzione dell’Harold e ne rimase folgorato, arrivando ad inginocchiarsi ai piedi di Berlioz per baciargli la mano: 



L’indomani gli inviò una lettera comunicandogli di aver incaricato il barone Rotschild di erogargli 20.000 franchi, a testimonianza della sua grande stima e ammirazione. Chiusi pettegolezzi e dietrologie, veniamo al sodo.
___
Così come la (di poco) precedente Fantastique, anche Harold (che è articolato in 4 parti) ha una sua idée fixe, un motivo che caratterizza l’ombrosa personalità del personaggio, e ritorna spesso e volentieri:

Dopo che una sua variante in minore è comparsa in tutti i legni (1’40”) lo ascoltiamo per la prima volta (3’29”) dalla viola solista - accompagnata dall’arpa - nell’Adagio (SOL maggiore) con il quale inizia il primo movimento, sottotitolato Harold aux montagnes. Scènes de mélancolie, de bonheur et de joie, che poi proseguirà in Allegro. Ebbene, seguendo la moda degli auto-imprestiti di cui Rossini (allora Roi de Paris) era un campione, Berlioz prende di peso il motivo da una sua composizione di un paio d’anni prima (l’Ouverture Rob-Roy, ispirata a Walter Scott) e precisamente dal centrale Larghetto, espressivo assai (da 4’25” a 8’20” nella citata esecuzione) pure in tonalità SOL maggiore, dove il tema è peraltro esposto dal corno inglese, sempre con l’arpa ad accompagnare. Berlioz sembrò quasi vergognarsi di questo imprestito: nelle sue Mémoirs si guarda bene dal citarlo, e in compenso ricorda l’Ouverture Rob-Roy come un ciarpame che lui stesso avrebbe dato alle fiamme (?!) dopo la prima deludente esecuzione a Parigi.

A 4’28” ecco il controsoggetto del tema principale, che chiude a 5’39”. Qui l’idée fixe viene riesposta dal solista, contrappuntata dai legni, dopodichè ecco arrivare (6’58”) il secondo tema, Allegro (siamo alla felicità e alla gioia...) esposto in orchestra, poi ripreso, dopo qualche esitazione (7’42”) dalla viola. A 8’22” appare un nuovo motivo, in funzione di cadenza (anch’esso preso da Rob-Roy, vedi a 2’53”) che porta (8’54”) al da-capo del secondo tema e della sua appendice, chiuso a 10’03” con l’inizio di un suo sviluppo assai articolato. A 11’14” riecco il motivo cadenzante, poi (11’47”) la viola espone una variante più tranquilla del tema, ripresa in orchestra. Dopo una pausa di riflessione, a 12’29” l’oboe esplode il motivo cadenzante, seguito dagli altri fiati; si fa largo un accenno di idée fixe, dapprima in orchestra (12’47”) e poi, dopo un vigoroso crescendo orchestrale (13’24”) anche nella viola. Ecco ancora (13’57”) il motivo cadenzante nei fiati e nella viola, che porta alla concitata conclusione.

Marche de pèlerins chantant la prière du soir (Allegretto, MI maggiore).  

Dopo un’introduzione (15’17”) caratterizzata da un sommesso dialogo dell’arpa con fiati e archi, spetta a questi ultimi (15’34”) esporre il tema di questo movimento di lenta e faticosa marcia. Tema che è completato da controsoggetti (fino a 16 varianti) che ne arricchiscono la struttura. A 16’32” ecco nella viola riapparire l’idée fixe di Harold, che è qui al seguito dei pellegrini in marcia: il suo canto si contrappunta infatti al tema principale. Tema che riappare (17’17”) negli archi, inframmezzato da terzine e quartine ribattute nei fiati. A 18’36” subentra un intermezzo (Canto religioso) dove alle note in corale di legni e poi archi si sovrappone la viola solista con un continuo arpeggio di ben 79 battute! A 20’05” sono i legni a riprendere il tema di marcia, rilevati poi dagli archi. Dopo alcuni reiterati SI di flauto e oboe, un ultimo arpeggio della viola chiude sul MI acuto.

Sérénade d'un montagnard des Abruzzes à sa maîtresse (Allegro assai, Allegretto, DO maggiore).

Il movimento è caratterizzato dalla presenza di due temi e dal riapparire dell’idée fixe. Su un ritmo di saltarello scandito dalle viole, subito (22’24”) attacca in ottavino ed oboe il primo tema scanzonato. A 23’04” ecco il corno inglese (evocando un’ocarina abruzzese) esporre il secondo tema, più languido e crepuscolare, in Allegretto. Ad esso si sovrappone (24’07”, è Harold che osserva...) l’immancabile idée fixe nella viola. Questa sezione si protrae a lungo, fino ad essere interrotta (26’28”) dall’impertinente ritorno del primo tema. A 27’02” torna protagonista il secondo tema, ma questa volta è la viola di Harold ad esporlo, mentre il flauto lo contrappunta con l’idée fixe! (insomma, Harold e il montanaro abruzzese si sono scambiati i ruoli...) Siamo in chiusura e (27’55”) ricompare fugacemente il primo tema, poi seguito dal secondo nella viola, che conduce alla sommessa cadenza finale.

Orgie de brigands. Souvenirs des scènes précédentes (Allegro frenetico, SOL minore).

L’ultima parte della Sinfonia si apre (28’59”) con una breve anticipazione (11 battute) del tema principale (l’orgia dei briganti). Dopodichè Berlioz imita la nona beethoveniana, proponendo reminiscenze dei tre precedenti movimenti, sempre esposte dalla viola (i... ricordi di Harold). Subentra dapprima un Adagio (29’13”, Souvenir de l’Introduction) dove la viola, accompagnata dal fagotto sul brusio degli archi, ci ricorda appunto l’atmosfera udita proprio all’aprirsi dell’opera. Riprende (29’42”) il tema orgiastico che poi (30’02”) lascia spazio alla seconda reminiscenza (Souvenir de la Marche des Pelerins, marcia che aveva occupato la seconda parte dell’opera). Altro fugace ritorno orgiastico, poi (30’17”) ecco la viola ricordare il tema languido del terzo movimento (Souvenir de la Serenade). Altro scoppio dell’orchestra e (30’36”, Souvenir du premier Allegro) si ripropone il secondo tema del movimento iniziale. Ancora l’orgia dei briganti e poi (31’05”, Souvenir de l’Adagio) ecco il tema di Harold, l’Idée fixe, tornare timidamente, quasi smozzicato.

Un progressivo crescendo orchestrale porta finalmente (32’02”) alla proposizione estesa del tema principale (anche qui troveremo reminiscenze di Rob-Roy...) L’esposizione è assai articolata: inizia in SOL minore, poi (32’49) vira alla relativa SIb maggiore; poi (33’30”) a SIb minore, con pesanti interventi (33’46”) di tromboni e tuba. A 34’08 ecco una transizione più calma ed elegiaca, che porta a chiudere l’esposizione. Questa viene però ripetuta (35’10”) senza sostanziali differenze. A 37’43” subentra una sezione di sviluppo dei temi, che porta (38’25”) alla ricapitolazione, interrotta (38’41”) dalla ricomparsa del motivo della marcia dei pellegrini. Poi (39’33”) riprende il tema principale che conduce (39’44”) alla pesante e retorica coda.   
___
Durante l’intervallo i presagi di temporalone si sono fatti più minacciosi e così, quando ancora non si era arrivati a metà della prima parte della Sinfonia, ecco nascere un tremendo accompagnamento, come di una batteria di grancasse rullanti (la pioggia battente sul cupolone) che ha accompagnato la musica fino alla fine. Per la cronaca, all’inizio si era presentato solo il Direttore, e forse qualcuno avrà pensato che Tamestit l’avesse data buca... poi però il vagabondo Harold si è fatto timidamente avanti, dal fondo sulla sinistra, dalla parte dei contrabbassi, per proporre la sua idée fixe. E per il resto della sinfonia ha poi continuato ad alternare la presenza al proscenio con altre peripatetiche gite fra i leggii dell’orchestra, tanto per sceneggiare un po’ il viaggio di Harold. Fine del primo movimento accolta da... scroscianti (!!!) applausi del pubblico, mentre i due protagonisti quasi si scusavano per la qualità della loro performance.

Forse sperando in un rapido allontanarsi della buriana, tutti hanno attaccato il secondo movimento, che a dir la verità ha proprio accentuato la faticosa mestizia della marcia dei pellegrini, aggiungendovi qualcosa che Berlioz non aveva immaginato (ci penserà con Les Troyens): l’orage! Altri applausi del pubblico, tra lo sconcertato e il divertito, così, Imperterrito, Krivine ha dato il via alla tarantella del terzo tempo. Non oso pensare come si sarà trovata la bella suonatrice di corno inglese ad esalare la sua serenade in mezzo a quel frastuono. Ma anche Tamestit credo abbia rischiato il tracollo del suo strumento pur di poterci far udire qualche nota. Così, prima della ripresa del saltarello, altri applausi e il Direttore getta la spugna! Non si può proseguire. Conciliabolo improvvisato sotto il podio; arriva il padrone di casa (Riccardo Muti) e chiede a Krivine se può attendere 15-20’ sperando nel miracolo. Così vien fatto e - a pioggia tornata... normale - si riprende: ma non dal punto dell’interruzione, bensì (grande sensibilità di Krivine e dei suoi) dall’attacco della marcia dei pellegrini!

Si arriva così fino alla fine, e il pubblico mostra tutto il suo apprezzamento con autentiche ovazioni. Muti torna sotto il podio a stringere la mano a Krivine e Tamestit, e tutti ce ne torniamo a casa (ancora fra lampi e scrosci) un filino... rinfrescati!
___ 
Tornando alla festa della donna, una sua esagerata, godereccia e anti-retorica interpretazione è la notte rosa, che qui in Romagna si celebra ormai tradizionalmente agli inizi di luglio. E ce n’è davvero per tutti i gusti! 

25 giugno, 2019

Milano olimpica ma de-bartolizzata


Mentre si faceva in quattro per garantire a Milano un’Olimpiade invernale (! pattinaggio sui navigli artificialmente ghiacciati?) per il lontano 2026, l’ineffabile Sala, colto da insospettabile quanto repentino decisionismo in fatto di... Scala, ha gettato una palla di neve che si è trasformata in valanga, travolgendo l’intera iniziativa triennale (2019-21) targata Pereira-Bartoli!

E così, mentre è certo che i moltissimi milanesi non-melomani si metteranno fin da subito in trepida attesa di ciò che potranno gustare fra sette anni (!?) i pochi milanesi (e non solo) melomani si mangiano le unghie e inventano nuove bestemmie per ciò che non potranno gustare fra pochi mesi.

I fan della santa Cecilia per non potersela mangiare con gli occhi e le orecchie come Cleopatra, Semele e Ariodante. E i suoi detrattori per non potersi prendere la soddisfazione di subissarla nuovamente di contumelie, come già fecero nel 2012.

Domanda: qualcuno ha idea del saldo (positivo o negativo) di queste due vicende meneghine sul famigerato spread?

21 giugno, 2019

Cornelius Meister fra Strauss e Mendelssohn alla Scala


La stagione concertistica scaligera 18-19 si è chiusa ieri con il l’ultima replica del concerto diretto (in sostituzione del programmato Metzmacher) da Cornelius Meister, al suo ritorno in Scala dopo l’applaudita Fledermaus dello scorso anno.

Concerto assai ricco ed impegnativo, con ben due poemi sinfonici straussiani (in origine Metzmacher aveva in programma Rendering di Berio) e la più lunga sinfonia di Mendelssohn. Purtroppo, che sia lirica o sinfonica, la... sinfonia è sempre la stessa: platea con almeno il 40% dei posti vuoti, palchi un filino meno peggio e gallerie abbastanza affollate (ma non certo esaurite).

Don Juan e Macbeth sono (Aus Italien permettendo...) i primi due Tondichtungen composti (insieme a Tod und Verklärung) dal giovane Richard Strauss fra il 1888 e il 1890.

Curiosamente le tre opere coeve hanno caratteristiche diverse ma sono in qualche modo tra loro collegate. Il Don è un poema erotico-eroico, pervaso da lirici languori amorosi e da grandi slanci passionali, dall’abbagliante luminosità, per nulla offuscata dalla repentina fine. Macbeth viceversa è un’opera scura, introversa, come si addice al soggetto: l’instabile personalità di Macbeth appena controbilanciata da quella più lirica e seducente della Lady. La Tod sembra voler creare quasi una simbiosi o una sintesi delle altre due opere: parte dalla cupa evocazione di dolore (fisico - la malattia - e spirituale - il lancinante anelito verso alti ideali, sempre mancati in vita) per arrivare, dopo la morte, proprio alla conquista di quegli ideali, che si dispiegano in tutta la loro grandezza. Insomma, un trittico, o una trilogia, dove il polo positivo e quello negativo della natura umana vengono dapprima evocati separatamente e poi messi in contatto per far scoccare la scintilla del sublime.

Meister mi è parso abbastanza a suo agio (sarà... l’età?) con Don Juan, mentre l’ho trovato un poco contratto e spaesato nel Macbeth, obiettivamente più sbifido da padroneggiare, ammettiamolo. Certi eccessi di fracasso sono in fondo giustificabili nel Don, perchè accompagnano temi e motivi di straordinaria presa, mentre lasciano indifferenti nel Macbeth, che è, dal punto di vista tematico, assai poco appariscente.

Il pubblico ha accolto con applausetti i due poemi, che evidentemente non hanno suscitato eccessivi entusiasmi.
___
La mendelssohniana Lobgesang è - a dispetto della numerazione (2) - la penultima delle 5 sinfonie del celebre direttore della Gewandhausorchester. Alla Scala mancava da più di 11 anni, precisamente dal Natale 2007, quando fu diretta da uno dei successori di Mendelssohn sul podio di Lipsia: Riccardo Chailly. Proprio in quell’occasione scrissi alcune note su contenuti, struttura e soprattutto sostrato filosofico-religioso della Sinfonia, note che mi sento di riproporre ai soliti affezionati perditempo...

Le prime 22 battute della sinfonia ne presentano - si potrebbe dire - il programma: è il tema del Magnificat, esposto subito dai tre tromboni (strumenti religiosi per antonomasia) che verrà ripreso successivamente dalle voci, e poi ripetuto proprio nelle ultime 10 battute dell’opera, sul possente richiamo:

Alles, was Odem hat,
lobe den Herrn!
Halleluja! 
Tutto ciò che ha respiro
lodi il Signore!
Alleluia!

A puro titolo di curiosità, vediamo alcuni esempi (presi da youtube, in modo che chiunque possa toccare con... orecchio) di interpretazione di questa solenne apertura, che in qualche modo sintetizza lo spirito dell’opera. Va premesso che Mendelssohn ha posto precise indicazioni metronomiche su ogni sezione della partitura, quindi è possibile fare verifiche assai puntuali sul rispetto (o meno) di tali indicazioni da parte dell’interprete. (Poi ciascuno tirerà le proprie conclusioni estetiche, magari infischiandosene delle indicazioni dell’Autore medesimo...) Bene: l’introduzione consta precisamente di 21 battute in 4/4, con indicazione 96 semiminime (al minuto). Ergo la fredda e implacabile aritmetica ci dice che tali 21 battute dovrebbero essere suonate precisamente in 60:96x4x21 = 52,5 secondi. Ecco ora i risultati della ricerca (tempi misurati al secondo, senza frazioni, quindi risultati arrotondati):

interprete

secondi

metronomo

scostamento

Herbert von Karajan con i Berliner

80

63

+34%

Claudio Abbado con la London Symphony

80

63

+34%

Wolfgang Sawallisch con la New Philharmonia

80

63

+34%

Vladimir Ashkenazy con la DSO Berlino

77

65

+32%

Christoph Spering con la DNO

59

85

+11%

Andrés Orozco-Estrada con la ONF

54

93

+3%

Edo de Waart con la Radio olandese

53

95

+1%

Markus Stenz con la Radio olandese

52

97

-1%

Mark Elder con la Halle

51

99

-3%

Marcus Bosch con la Aaken Sinfonieorchester

50

101

-5%


In rete si trova anche un’esecuzione di Chailly al Gewandhaus. Si tratta però - toh, la mania del Direttore di riesumare oggetti obsoleti... - della versione originale della Sinfonia (25/6/1840, cui mancano quindi parti dei numeri 3-6-9, aggiunte prima del 3/12/1840) che ha piccole differenze proprio nell’Introduzione (battute 5-8 e 20-21) peraltro credo ininfluenti sul tempo di esecuzione. Dove Chailly stacca 62 secondi, corrispondenti a metronomo 81, con un rallentamento rispetto a Mendelssohn del 16%.

Cosa si può dedurre da questi risultati? Che c’è una scuola tradizionale (Abbado giovine incluso) che ammanta questo Mendelssohn di enfasi e pomposa retorica, sforando addirittura di 1/3 le sue indicazioni? E invece una generazione più moderna che rispetta la volontà dell’Autore, magari spingendosi (di poco) anche al di là dei suoi dettami? Io ho pochi dubbi sul come schierarmi: con i secondi! Perchè francamente, i primi mi pare scambino Mendelssohn con... Wagner, tanto per non far nomi ma cognomi! Uno che, fra l’altro, aveva stroncato senza appello la Sinfonia-Cantata. Tuttavia l’Introduzione rappresenta pur sempre solo 60 secondi su 60 o più minuti, quindi non sarebbe neanche corretto giudicare solo da essa l’interpretazione dell’intero lavoro.

Cornelius Meister? Non avevo con me uno strumento da cronometrista di atletica, ma il mio orecchio mi suggerisce che il giovane crucco abbia tenuto un tempo assai più sostenuto rispetto ai dettami dell’Autore, ma non così smaccatamente lento quanto i citati quattro dell'avemaria...

Dopodichè devo dire che la sua lettura mi ha abbastanza convinto, a giudicare dalle agogiche e dalle dinamiche adottate. Sembrerà paradossale, ma forse la Lobgesang è più facile da dirigere (e magari anche da suonare) dei poemi di Strauss, fatto sta che ne è uscita un’esecuzione equilibrata, rigorosa, che alle mie orecchie ha reso al meglio l’atmosfera di serietà e di nobiltà che caratterizza quest’opera.

Giudicherei anche ottima o quasi la prestazione delle tre voci, fra le quali ha spiccato Genia Kühmeier (sostituta di Eva Liebau, annunciata originariamente). Ma anche Martina Janková e Tomislav Mužek hanno ben meritato (il tenore ha efficacemente proposto quel drammatico e reiterato Hüter, ist die Nacht bald hin?)

Naturalmente non si può non rendere omaggio - ma proprio in ginocchio, cantandogli una speciale Lobgesang - al Coro di Bruno Casoni, a dir poco strepitoso nelle colossali fughe e nelle perorazioni della lode. Per i coristi e per tutti un autentico trionfo, con ripetute chiamate e fragorosi applausi, che han fatto sembrare il Piermarini zeppo come un uovo.

19 giugno, 2019

Masnadieri alla Scala dopo 41 anni


Ieri sera ecco alla Scala la prima de I masnadieri, tornati a farsi vivi qui - rilasciati per buona condotta? - dopo un lungo ergastolo e accolti peraltro da un pubblico per nulla folto (anche l’altro ieri sera, all’ultima della Tote Stadt, paurosi vuoti ovunque...) Prima dell’inizio Pereira ha fatto la sua comparsa al proscenio per ricordare Zeffirelli.

Ma prima di entrar nel merito, una domanda frivola: che tinta hanno I masnadieri?

Sappiamo che per definire l’ambientazione (prima drammatica - il soggetto - e, conseguentemente, musicale) delle sue opere Verdi usava questo termine assai stimolante, ma anche diversamente interpretabile: la tinta. Termine che richiama concetti pittorici, quindi innanzitutto caratteristiche cromatiche: i colori (tenui o forti, brillanti od opachi). Ma anche caratteristiche di luminosità: luce, ombra e, soprattutto, contrasto. Ma poi anche elementi relativi al tratto della pittura: pennellate morbide o scabre, sfondi omogenei o irregolari. Ma ancora: oggetti o personaggi o fatti dipinti con precisione fotografica o visti attraverso lenti deformanti o caleidoscopi... E altro ancora.

Venendo alla musica, cosa contraddistingue la tinta di un’opera? La tonalità prevalente? Il metro prevalente? Il trattamento strumentale (brillante, trasparente, magmatico, pesante...)? L’impiego di particolari forme chiuse, chiaramente distinguibili (arie, romanze, cabalette, duetti, concertati)? La reiterazione di temi conduttori o di motivi associati a personaggi o sentimenti, o oggetti?   

Verdi peraltro mai ha definito con precisione e dettaglio la tinta di ogni sua opera; ci ha semplicemente informato di averla immaginata (ed anzi cercata nei soggetti che personalmente sceglieva) per poi trasferirla al suo prodotto musicale. Ma di certo sui frontespizi delle sue partiture si è ben guardato dallo specificarne gli attributi di tinta: siamo noi a doverli casomai desumere ed etichettare dall’ascolto della sua musica!

Quindi ancora: che tinta hanno I masnadieri?

Lasciamo la risposta ad un illustre contemporaneo di Verdi, un vero esperto in materia, che nel 1859 così sentenziava: Nei Masnadieri non vediamo traccia di questa tinta generale, e sembra di scorgervi varj pezzi cuciti insieme, anziché una tela continua con differenti disegni. (Abramo Basevi: Studio sulle opere di Giuseppe Verdi).

E, a parte la tinta, Basevi scrisse - fra pochi, onesti e sinceri elogi - un sacco di stroncature: sul soggetto, innanzitutto, accusato di volgarità e di pretendere che poi la musica (la cui qualità dovrebbe essere l’amore del bello) possa attagliarsi a far amare il turpe. Ma anche sulla musica di Verdi, accusata di volta in volta di essere monotona, dal ritmo fiacco; di proporre un volgarissimo coro; nella cavatina di Amalia... il canto seguita con ritmi comunissimi... apparendo lungo, slegato, floscio e gonfio; nel duetto Carlo-Massimiliano Verdi si abbassa fino al posto de’ più volgari copisti (!) Infine, il Maestro ha qui galvanizzato un cadavere! Insomma, ecco un antesignano di Massimo Mila, che catalogò senza appello l’opera fra quelle brutte di Verdi.

Certo, qui abbiamo un Verdi che - forse come contrappeso all’innovativo e coevo Macbeth - torna a vecchie abitudini e a comodi stilemi: Attila! E come in Attila, anche qui abbondano eroismi (musicali) a buon mercato ma di sicuro effetto. Come è stato giustamente osservato, nel primo atto manca del tutto ogni parvenza di azione, ma il pericolo di monotonia viene scongiurato - come in Attila - dalla trascinante vitalità delle cabalette, che poi innervano anche buona parte del second’atto. Sempre Basevi apparenta Nell’argilla maledetta di Carlo a É gettata la mia sorte di Ezio. E poi trova analogie fra il quartetto che chiude l’atto primo con il terzetto di Attila, il quale Attila rifà capolino all’inizio dell’atto conclusivo, con l’incubo vissuto da Francesco.
___
Stabilito quindi che I masnadieri non è propriamente un capolavoro, vengo a dire la mia su come Michele Mariotti lo ha tinteggiato. Premetto di non concordare del tutto con i chiarissimi buh che hanno accolto il Maestro all’uscita finale. Però mi sento di dire che la sua è stata una lettura troppo sostenuta, o poco aggressiva, se si preferisce. Insomma, questo, credo di averlo chiarito a sufficienza, è ancora il famigerato Verdi della vanga, il Verdi dell’Attila, e costringerlo in una camicia di forza rossiniana o mozartiana non gli rende giustizia. In ogni caso, personalmente darei al Direttore ampia sufficienza, soprattutto riguardo la concertazione e l’equilibrio delle dinamiche.

Bruno Casoni ha, come sempre del resto, ottenuto il massimo dal suo coro, che qui deve impersonare due tipi diversi di gentaglia: i masnadieri, ovviamente, ma anche i compari di Francesco, che come disprezzo dell’etica non sono certo da meno della banda di Carlo.

Trionfatrice della serata è stata la cubanamericana Lisette Oropesa, che ha sfoggiato perfetta impostazione di voce in tutta la tessitura, con acuti morbidi e portamento impeccabile, sia nelle arie che nei tre duetti che la vedono protagonista. Per lei davvero un gran bell’esordio alla Scala.

Fabio Sartori ha risposto con una prestazione apprezzabile, non solo nelle cabalette e nei duetti, ma anche nell’intimistica, lirica e romantica Come splendido e grande il sol tramonta. Convinti applausi e consensi per lui alle uscite finali.

Meno convincente il Francesco di Massimo Cavalletti (non per nulla fatto oggetto di moderate contestazioni finali) che ha stentato, a parer mio, a dare profondità a quello sbifido personaggio che anticipa (pur a grande distanza) nientemeno che Jago. 

Perfetto invece Michele Pertusi, un Massimiliano autorevole e commovente, applauditissimo alla fine. Anche l’altro basso, Alex Spina, si è ben portato, nella sua parte piccola ma impegnativa, che ricorda il Papa dell’Attila e anticipa il Grande Inquisitore del Carlos.

Francesco Pittari e Matteo Desole hanno onestamente dato voce ad Arminio e Rolla.
___
Vengo ora al team di David McVicar, responsabile dell’allestimento e fatto oggetto alla fine di sonorissime contestazioni. Che, proprio come nel caso di Mariotti, personalmente non mi sento di condividere in toto. L’impostazione del regista scozzese ha peccato forse di eccessiva cerebralità, ma va riconosciuto che non ha minimamente intaccato, nè tanto meno stravolto (come accade spesso a regìe troppo creative) i contenuti del soggetto da presentare.

Il regista ha immaginato un antefatto al dramma (presentato durante l’esecuzione del Preludio) in cui si mostra il giovane Carlo in un’Accademia militare (il riferimento è evidentemente all’esperienza conosciuta dal giovane Friedrich Schiller) mentre subisce una dolorosa punizione corporale (sarà questa a far scattare la molla della ribellione?) Vediamo anche il giovane Carlo estrarre da una teca un libro, verosimilmente Le vite parallele di Plutarco (che il Carlo dell’opera leggerà proprio nella prima scena). Questo giovane Carlo è impersonato da un mimo che rimane in scena per l’intera opera, a costituire evidentemente la presenza costante del protagonista (la corporatura cicciottella del mimo deve aver qualcosa a che fare con quella di... Sartori!) che significativamente compie anche piccoli ma importanti gesti: stare vicino, quasi abbracciato ad Amalia quando lei ricorda i bei giorni passati con l’amato; poi fornire alla donna la spada con cui difendersi da Francesco (Atto II) oppure trafiggere lo stesso Francesco (Atto IV) scaraventandolo poi nella stessa segreta dove era rinchiuso Massimiliano. Infine, recare al Carlo vero la spada con cui trafiggere Amalia e gettarsi poi sul corpo di lei mentre cala il sipario. Il fascicolo con il testo di Plutarco resta perennemente fra le mani del Carlo, a ricordare la nobile infatuazione del protagonista per i grandi personaggi che han fatto la Storia: pagine del libro cadono poi svolazzando sulla scena proprio mentre cala l’ultimo sipario.

La scena di Charles Edwards ha una struttura unica: totalmente aperta e limitata sul fondo da una parete (che lascerà intravedere l’incendio di Praga...) alla quale si appoggia una passerella sulla quale si muovono talora le comparse (e raramente i protagonisti). Durante il Preludio (Accademia militare) la scena è occupata da tavoloni e panche, poi parzialmente rimossi per il primo atto. Nel second’atto troviamo invece i letti di un ospedale da campo, dove si rifugiano i masnadieri, ma che serve anche da ambientazione per la prima sortita di Amalia dal castello. Per il resto, pochi oggetti consunti. Sulla destra torreggia in permanenza una statua, rappresentante una qualche autorità militare (il padre di Schiller era capitano...) o magari un antenato della dinastia dei Moor. Le luci di Adam Silverman collaborano a mantenere la tinta cupa del dramma. I costumi di Brigitte Reiffenstuel sono plausibilmente dell’epoca indicata dal testo di Schiller e dal libretto di Maffei (secolo XVIII). Jo Meredith è responsabile delle coreografie, che prevedono l’intervento di mimi e figuranti in alcune fasi concitate dell’opera.

In conclusione, un allestimento intelligente che forse ha sfidato eccessivamente le doti di perspicacia di parte del pubblico, che deve averlo trovato piuttosto incomprensibile e cervellotico (della serie: perle ai porci?...)

Dal mio punto di vista: uno spettacolo complessivamente più che dignitoso, che credo potrà migliorare ancora lungo le prossime sei recite.