affinità bombarole

rinsaldato il patto atlantico

17 maggio, 2019

Il ritorno di Idomeneo... alla Scala


Ieri sera al Piermarini è andata in scena la prima di Idomeneo, tornato in Scala dopo quasi 10 anni dall’ultima comparsa (Chung nel 2009) che riprendeva l’edizione del Sant’Ambrogio 2005 dove si rivelò (almeno a noi di queste parti) un tipo (Daniel Harding) che ha poi fatto molta strada. Teatro con evidentissimi vuoti, anche in platea, vuoti ulteriormente allargatisi nell’intervallo (ahiahi...)

Sappiamo che la musica di cui Mozart rivestì Idomeneo è di un valore inestimabile, ma soprattutto inversamente proporzionale a quello del testo che il librettista Giambattista Varesco predispose per lui, mutuandolo da Antoine Danchet, oltre che dalla mitologia greca. Già la figura del protagonista ha contorni ambigui assai: sovrano illuminato ed amato dal suo popolo, valorosissimo combattente, addirittura testa di cuoio a bordo del cavallone-trappolone in quel di Troia, dove era sbarcato con una flotta di ben 80 navi cretesi. E – riportano le cronache – anche un gran bell’uomo, con il fascino del classico quarantenne in carriera. Insomma, un personaggio giganteggiante nel panorama mitologico dell’antica Grecia.

Però questo colosso d’acciaio mostra di avere i piedi di… cartapesta. Dico, non appena un po’ di maretta sorprende la sua nave di ritorno da Troia e ormai in vista di Creta, il colosso se la fa letteralmente addosso e per cercare misericordia dal manovratore-di-maree-e-marette (tale Poseidon o Nettuno che dir si voglia) cosa gli promette? Di fargli costruire un tempio in ogni città cretese? Di fare in suo onore un pellegrinaggio a piedi scalzi fino a Cnosso e Festo e ritorno? Di fargli dono di un tridente d’oro tempestato di perle e diamanti? No, lui fa molto di più, gli promette nientemeno che un sacrificio umano (allora andava di moda). Sì, ma di chi si tratta? Di se stesso, al fine di salvare i compagni? Di un figlio (stile Agamennone)? Di una nipotina? Toh, della suocera? Di un parente anche lontano? No no, gli promette di immolargli… il primo malcapitato che passa sulla spiaggia! Apperò che coraggio, che spirito di sacrificio, che lodevole abnegazione!  

E allora, scusate, che il malcapitato si riveli proprio essere il suo unico figlio Idamante, lui se lo è ampiamente meritato e pochi dubbi sussistono che fosse lo stesso protettore-degli-acquari (la didascalia della Pantomima recita: Nettuno riguardandolo con occhio torvo e minaccevole) a combinargli a bella posta quel simpatico incontro (lui stesso se ne capacita imprecando: spietatissimi dei, ma è lui che se l’è voluta!) Dopodichè, una volta in salvo, si mostra ipocritamente pentito – a frittata fatta! - della sua promessa. E per di più cerca poi con maldestri sotterfugi persino di disattenderla, attirandosi così le ulteriori ire di Nettuno (sotto forma del famelico mostro) col che procura una moltitudine di vittime innocenti al suo stesso popolo (per essere un sovrano illuminato non c’è davvero male...) Soltanto quando finalmente accetterà tutte le conseguenze del suo gesto inconsulto e (come Abramo con Isacco) si appresterà a vibrare il colpo mortale sul figlio, solo allora potrà trovare comprensione e perdono dal dio offeso, e comunque a condizione di farsi da parte e cedere il trono ad Idamante e ad Ilia, che si sono offerti - dandogli una bella lezione in fatto di spirito di sacrificio - come vittime da offrire a Nettuno.

Per insaporire la trama con un minimo di amori e gelosie assortite, ecco che su Creta convergono miracolosamente da lontani e opposti lidi due donne, che si contenderanno l’amore del futuro sovrano Idamante. Una arriva dal continente, in particolare da Argo-Micene, dopo aver compiuto con il fratellino una simpatica vendetta… facendo secchi la madre e l’amante di costei: trattasi di tale Elettra, figlia di Agamennone. L’altra invece è una nobile prigioniera di guerra: la troiana Ilia, figlia di Priamo, che Idomeneo ha spedito a Creta in anticipo su una delle sue 80 navi; guarda caso anche lei fa naufragio, ma Idamante la porta in salvo e così… nasce l’amore, che ovviamente è per Elettra come fumo negli occhi.

Completano il cast un confidente di Idomeneo, tale Arbace e il Gran Sacerdote di Nettuno, oltre ai cori del popolo cretese, di prigionieri troiani e di marinai al seguito di Elettra. In più si ode la Voce (o meglio il porta-voce) di Nettuno che reca il perdono e consente così il lieto fine (salvo che per Elettra, che toglie il disturbo proprio un attimo prima). 
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Beh, dobbiamo ammettere che il soggetto è deboluccio assai, ma ciò non impedì al Teofilo di costruirci sopra un autentico capolavoro, quasi rivoluzionario per quei tempi e per lo stesso percorso estetico del 24enne genio di Salzburg.

Musica che fu composta con tale sovrabbondanza (e anche con alcuni rifacimenti successivi alla prima di Monaco di Baviera del 1781, in particolare per Vienna, 1786) da non essere mai eseguibile integralmente! Ed anche in questa produzione della Scala i tagli abbondano, pur riguardando prevalentemente dei recitativi, che però in quest’opera sono quasi sempre accompagnati, e quindi ricchi di grande musica. Contrariamente a quanto riportato nella prefazione di Olimpio Cescatti al libretto, non viene reinserita nel recitativo del N°27 - prima dell’Allegro Ma che più tardi - l’aria di Idamante (No, la morte io non pavento). Viene in compenso eseguita nel finale - dopo il fantastico recitativo, in versione integrale - l’aria (N°29a) di Elettra (D’Oreste, d’Aiace).

Un discorso a parte meritano i balletti, che impreziosiscono musicalmente l’opera ma che, per ragioni drammaturgiche, vengono quasi sempre omessi: e lo furono anche nell’edizione del 2005 (Muti li eseguì quasi integralmente nel lontano 1990). Qui la locandina mette in evidenza la presenza del Corpo di Ballo scaligero, che in effetti si è presentato subito danzando... l’Ouverture! Dopodichè ha fatto brevi comparse qua e là, per tornare nel finale dell’opera. Cassato l’Intermezzo fra primo e secondo atto (concatenati senza soluzione di continuità) è stato invece eseguito un estratto del balletto finale (che peraltro Mozart stesso non indicò con precisione dove collocare e fu catalogato con numero K367, diverso dal K366 dell’opera!)

I tagli, che colpiscono in misura preponderante il lunghissimo atto finale, riducono la durata dello spettacolo a dimensioni normali (2h40’ netti) e in questa produzione viene operato un solo intervallo, fra il secondo e il terz’atto. Un’esecuzione (quasi) integrale (3h20’) e corredata anche di alcuni... extra si può ascoltare in rete: è quella diretta da Gardiner nel 1990

Diego Fasolis ha lasciato temporaneamente il suo amato barocco per cimentarsi in questo Mozart preromantico, subentrando al venerando von Dohnányi che Pereira aveva originariamente ingaggiato e che aveva preparato con il regista Hartmann le linee generali dello spettacolo. Fasolis spiega sul programma di sala di aver parzialmente rivisto quell’impostazione originaria: il risultato dell’operazione mi è parso piuttosto discutibile, ecco. La sua direzione è stata caratterizzata da grandi contrasti, fra fracassi eccessivi (vedi la secchezza dei colpi di timpano) ed altrettanto eccessivi languori. Accettabile la concertazione, almeno attenta a non coprire le (non potentissime) voci.

Il Coro di Bruno Casoni, beneficiato da alcuni tagli, ha mantenuto il suo ottimo standard abituale, negli interventi lirici come in quelli più drammatici (vedi chiusa del second’atto).

Il protagonista è Bernard Richter, tornato in Scala dopo le due non entusiasmanti visite del 2018 (Fierrabras e Giardiniera): la sua è stata una prestazione non più che discreta sul fronte musicale, piuttosto incolore su quello attoriale.

Da quando i castrati sono scomparsi (meno male...) dalla faccia della terra (quanto meno nei nostri paesi cosiddetti civilizzati) e quindi anche dalle scene, il ruolo di Idamante viene affidato a soprani o - più spesso, per non ammassarne addirittura tre (dopo Ilia ed Elettra) - a mezzosoprani. Così avviene anche qui, con la travestita Michèle Losier ad impersonare il figlio del Re. Anche a lei darò un voto di sufficienza e non di più: il suo Idamante mi ha assai poco emozionato, ad essere sinceri.  

La mite e dimessa Ilia è Julia Kleiter, che ha ben meritato, mostrando solidità negli acuti, anche se un filino carente nella cosiddetta ottava bassa.    

Alle mie orecchie (ma anche agli occhi) la migliore in scena è stata l’ex-accademica Federica Lombardi: che ha sostenuto brillantemente il difficile ruolo di Elettra, donna evidentemente segnata dalle pregresse vicissitudini famigliari (che pretende di imitare la sorellina Chrisothemis mettendo su famiglia sì, ma solo con un sovrano, mica pizza&fichi...) e dal carattere divenuto intrattabile. Voce corposa e benissimo gestita, nelle due arie arrabbiate come nei passaggi più lirici. Unanimi consensi per lei alla fine.

Nei panni del modesto (drammaturgicamente parlando) Arbace è Giorgio Misseri. Mozart però lo gratifica nientemeno che di due arie e lui se la cava con onore.

Buone cose ha fatto Kresimir Spicer nel suo isolato ma importante intervento (da Gran Sacerdote). Così come Emanuele Cordaro (Voce di Nettuno) esibitosi dal Palco Reale, che ormai è diventato una dépendance del palcoscenico: a lui è stata riservata la più corposa delle tre versioni del suo intervento musicate da Mozart. Dignitose/i le le due cretesi (Silvia Spruzzola e Olivia Antoshkina) e i due troiani (Massimiliano Di Fino e Marco Granata).

Pubblico, come detto, scarseggiante di numero e anche di entusiasmo: pochi e modesti applausi a scena aperta e qualche approvazione in più alle uscite finali. Ma certo non si può parlare di trionfo...
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La regìa di Matthias Hartmann (coadiuvato dal drammaturgo - quello che di solito inventa di bel nuovo il soggetto per il regista - Michael Küster) vorrebbe programmaticamente mostrare l’involuzione del rapporto fra potere e popolo: un potere insicuro e ossessionato dalle proprie colpe e un popolo che rischia di andare allo sbando senza una guida sicura; tutti salvati dall’intervento dell’amore, quello di Ilia per Idamante. Buone le intenzioni, meno efficace la loro realizzazione. Comunque va riconosciuto al regista (e al suo drammaturgo) di non aver inventato nulla di gratuito, insomma di averci propinato onestamente il soggetto originale. Nulla di trascendentale per ciò che attiene alla gestione di movimenti e atteggiamenti di personaggi e masse.

La scena (di Volker Hintermeier) è fissa, come contenuti (un’enorme testa di minotauro e lo scheletro, o il fasciame, di una nave) e però continuamente girevole, in modo da mettere sempre in primo piano uno dei due componenti. Le luci di Mathias Märker sono sapientemente impiegate per creare di volta in volta l’atmosfera che caratterizza le varie scene. Impressionante, in particolare, quella della tempesta.

I costumi di Malte Lübben sono un misto di fogge e stili diversi, nessuno precisamente inquadrabile (certo nulla di cretese mitologico!) ma tutti mediamente plausibili.

Il Corpo di Ballo della Scala ha interpretato le coreografie di Reginaldo Oliveira, improntate a modernismo assai lontano (credo io) da ciò che nel ‘700 (e oltre) si mostrava sulle scene.

In conclusione, uno spettacolo dignitoso ma non trascendentale: come detto, alla fine il pubblico (rimasto) ha mostrato moderata soddisfazione; personalmente devo dire che speravo in qualcosa di più e meglio... 

14 maggio, 2019

laVerdi ha annunciato la stagione 19-20


La sede del M.A.C. (Musica, Arte e Cultura) ha ospitato questa mattina la presentazione della prossima stagione dell’Orchestra Verdi.

Il Presidente della Fondazione Gianni Cervetti e il suo vice, Ambra Redaelli, hanno fatto gli onori di casa, ricordando i continui successi dell’Orchestra, sia in casa (spettatori aumentati del 12% - alla data - nella stagione in corso) che in trasferta (Spagna, Portogallo, Svizzera). Gli Assessori alla Cultura (Filippo Del Corno, Comune di Milano; e Stefano Bruno Galli, Regione Lombardia) hanno portato il loro saluto e confermato il sostegno delle rispettive Istituzioni alle attività de laVerdi, unanimemente riconoscendone l’alto valore sociale, oltre che strettamente culturale.

Il Direttore Artistico ed Esecutivo, Ruben Jais, ha quindi esposto i contenuti delle diverse linee di attività della fondazione. Alla Stagione principale (32 concerti in abbonamento e 6 straordinari, di cui uno da camera) si affiancano le proposte ormai tradizionali, come Crescendo in musica (8 concerti, per i giovanissimi); laVerdi Pops (3 appuntamenti); la stagione di Musica da camera (8 concerti, ospitati da questa stagione al centralissimo Teatro Gerolamo); laVerdi Educational (7 eventi per le scuole). In più, la nuova stagione prevede due appuntamenti di musica contemporanea (20° e 21° secolo) intitolati laVerdi allo Studio, che saranno ospitati dal Piccolo Teatro Studio Melato. E infine, l’innovativa rassegna Musica&Scienza, che ha in programma quattro appuntamenti (con interventi di importanti autorità scientifiche) dove verranno esplorati i sotterranei legami fra la musica e diverse branche della scienza.

Ma non è ancora tutto, poichè laVerdi sarà anche impegnata nel concerto di apertura di Milano Musica e nel programma del tradizionale MITO.

Annunciata anche la Stagione estiva 2019, con sei concerti in Auditorium (dal 28/6 al 14/7) e quattro concerti al Castello Sforzesco (dal 15 al 22 agosto).

Tornando alla stagione principale (abbonamento + 5 straordinari) ecco i direttori dei 37 concerti (cui si affianca una nutrita ed importante schiera di solisti):

Claus Peter Flor (8)
Patrick Fournillier (4)
Ruben Jais (3)
Jader Bignamini (2)
Michele Gamba
Kerem Hasam
Andrea Oddone
Stanislav Kochanovsky
Josep Vincent
Aziz Shokhakimov
Ernst van Tiel
Diego Matheuz
Jaume Santonja          
John Axelrod
Maxim Pascal
Oleg Caetani
Maxim Rysanov
Giuseppe Grazioli
Nicolas Alstaedt
Kolja Blacher
Thomas Guggeis
Timothy Brock
Zhang Xian
Robert Trevino 

Primo appuntamento il 15 settembre, con il tradizionale concerto straordinario alla Scala.

10 maggio, 2019

laVerdi 18-19 - Concerto n°28


É il Direttore musicale a tornare sul podio per l’appuntamento settimanale con laVerdi, che ha in programma una nuova tappa brahmsiana accostata all’italiano Mendelssohn. Lo scorso mercoledi il concerto era stato dato in anteprima a Ravenna, teatro Alighieri, per la conclusione di Ravenna Musica.

E anche il concerto di ieri ha avuto un’apertura particolare, per così dire, politica, in coincidenza con i 69 anni della Dichiarazione Schuman che diede il via a quel progetto che ha portato poi alla creazione dell’Unione Europea (siamo anche in vista dell’imminente scadenza elettorale). Dopo un breve indirizzo di Bruno Marasà, che tiene per l’UE i collegamenti con Milano, è stato eseguito l’Inno europeo, che sappiamo non essere altro che il beethoveniano An die Freude. Beh, questa Europa potrà non destare entusiasmi, ma in tempi di sovranismo dilagante e di nostalgie autarchico-fasciste (a proposito, a Torino hanno lodevolmente ristabilito le giuste proporzioni) il richiamo alla fratellanza universale non è certo sprecato.
   
Tornando al programma, ecco due opere dalle caratteristiche diversissime, e non solo per la durata: un concerto che - come il primo e più del primo, precedente di più di 20 anni - ha la caratteristica di una grande sinfonia (quasi 50 minuti!) sul modello beethoveniano; e una sinfonia - composta proprio mentre Brahms veniva al mondo! - che al confronto ha invece le proporzioni (30 minuti scarsi) e le fattezze di un cammeo...  

Dunque, Brahms e la sua corposa Opus 83. E pensare che l’Autore l’aveva descritta come un piccolo concerto con un minuscolo scherzo! Pare che i primi schizzi dell’opera siano stati messi sulla carta la sera stessa del 45° compleanno del compositore (martedi 7 maggio 1878) quindi precisamente 141 anni orsono!

Per presentarne sommariamente la struttura, propongo un’interpretazione di una coppia di musicisti che sono entrati nella storia.
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Si parte con l’Allegro non troppo (4/4, SIb maggiore). Movimento in forma-sonata, ma dove Brahms si prende ampie libertà. È il primo corno (29”) ad esporre un richiamo profondamente romantico (ricorda un altro attacco, quello dell’Ouverture dell’Oberon...) cui risponde in arpeggi il pianoforte. La cosa si ripete subito, con il richiamo del corno variato, ma sempre cadendo sulla dominante FA. Legni e poi archi (54”) completano il tema con un controsoggetto - se ne ricorderà Mahler nel finale dell’Auferstehung -  dapprima in maggiore, poi in minore, che lascia spazio (1’08”) ad una cadenza solistica, nella quale ricompare il detto controsoggetto.

A 1’59” l’intera orchestra ripropone il tema principale, che poi sfuma, anzichè verso la dominante FA, verso la sua relativa RE minore, dove (2’44”) i violini espongono il secondo tema, dal carattere appropriatamente elegiaco. Una breve transizione (3’07”) assai mossa porta poi (3’19”) ad un inaspettato ritorno del primo tema, accodatosi oltretutto alla tonalità del secondo!

Qui (3’37”) inizia la riesposizione, affidata al pianoforte e assai articolata, quasi fosse un’anticipazione dello sviluppo, con interventi sporadici dell’orchestra, come (4’12”) a ricordare il tema principale e poi (4’29”) a riprenderne il controsoggetto. A 5’53” i corni espongono un variante del secondo tema, che ritroviamo poi a 6’03”, ripreso poco dopo dal solista che fa seguire una quasi-cadenza sfociante (7’02”) ancora nella perorazione dello stesso tema - ora in FA minore - anch’esso in seguito ampiamente sviluppato. Come per la prima, anche questa seconda esposizione si chiude (8’13”) con il colossale intervento dell’orchestra, che riprende in FA minore il primo tema e poi (8’26”) il secondo.

A 8’49” inizia, con il primo tema esposto - sempre in FA minore - dai tre corni, lo sviluppo vero e proprio, di proporzioni davvero colossali, con il solista impegnato ininterrottamente. Vi distinguiamo un prima parte caratterizzata da reiterati arpeggi del pianoforte con l’orchestra (violini in primis) che lo supporta imitando motivi che il solista aveva presentato nell’esposizione. Una seconda parte (9’59”) modula a RE maggiore, con il pianoforte impegnato ad esporre un nuovo motivo puntato, poi variato per inversione. Altre modulazioni a LA, DO, SOL, portano (10’55”) alla terza parte dello sviluppo, con il ritorno, sugli arpeggi legatissimi del pianoforte, dell’incipit del primo tema negli archi, in DO# maggiore, riproposto in quella tonalità (11’14”) - dopo una drammatica caduta di quattro terzine del solista - e ancora, con un ardito salto, in FA maggiore.

Il pianoforte ci conduce, prima con reiterati arpeggi, poi con insistite sestine di semicroma, alla ricapitolazione (12’09”). Dove riascoltiamo il tema principale (soggetto in corni e clarinetti, controsoggetto nei legni) e più avanti (13’05”) la variante del secondo tema in legni e poi archi e pianoforte. Tema che torna (14’15”) nel pianoforte, ulteriormente sviluppato e seguito da varianti del primo tema.

A 15’27” i corni ripropongono il tema principale, dando inizio ad una lunga coda, che porta maestosamente (15’58”, primo tema e 16’29”, controsoggetto) verso la trionfale chiusa (17’02”).

Segue l’Allegro appassionato (3/4, RE minore) del quale Brahms giustificò l’insolita presenza con la necessità di inserire un movimento vivace fra due più tranquilli (?!) Lo battezzò come piccolo scherzo, ma in realtà è un movimento assai corposo, con una struttura vicina alla forma-sonata.

È il pianoforte ad aprirlo esponendo (17’40”) il primo tema dello Scherzo, ripreso poi (17’53”) nella dominante LA minore. Ecco ora (18’15”) negli archi il secondo tema, sempre in LA, ripreso dal pianoforte (18’28”) e sviluppato fino al termine dello scherzo (19’27”) dove è previsto il canonico da-capo.

La ripetizione si protrae fino a 21’12” dove ha inizio uno sviluppo assai articolato, in cui si possono distinguere almeno sei sezioni principali. La prima è in DO# minore e presenta il primo tema dello scherzo, poi modulando a MI minore. La seconda (21’34”) torna in RE minore riprendendo e sviluppando il primo e il secondo tema. La terza sezione (22’10”) vira a RE maggiore e può considerarsi come il classico Trio, che si sviluppa nella quarta sezione (22’26”) in LA minore, dal piglio invero maestoso, che sfocia (22’40”) in una cadenza del solista seguita (22’55”) da 8 battute di transizione orchestrale. La quinta sezione (23’07”) vede come protagonista il pianoforte, mentre la tonalità è passata fugacemente a FA maggiore, per tornare subito a RE minore. La sesta sezione (23’23”) passa a RE maggiore e porta (23’51”) ad un ponte che prepara la ricapitolazione.

Che inizia, con il ritorno dello Scherzo, a 24’20”: è canonicamente in RE minore e presenta il primo tema nel pianoforte e poi (25’02”) il secondo nei legni. Il solista riprende progressivamente il sopravvento e porta (25’55”) alla stentorea ed agitata coda.

Il successivo Andante (6/4, SIb maggiore) è nella semplice quanto classica struttura A-B-A’ (più coda). Lo apre (26’40”) un mirabile recitativo del violoncello (Brahms lo impiegherà più tardi in un suo Lied, Op. 105, N°2) subito ripreso (27’42”) da violini e fagotti. Il pianoforte (29’28”) riprende il tema in forma cadenzante, poi (30’54”) è l’intera orchestra (in minore) ad incalzare il solista che si esibisce in un continuo rimuginare il tema principale. I violini (32’51”) lo richiamano all’ordine riproponendo per due volte l’incipit del tema, cui il pianoforte risponde con arpeggi che verranno ripresi nella coda.  

A 33’29”, Più Adagio, ecco iniziare la sezione B, in FA# maggiore, dove solista e clarinetto, poi archi, dialogano ancora fino a tornare (35’10”) al Tempo I, sul quale il violoncello riespone il tema principale in FA#, con il solista che risponde avviando il ritorno (36’04”) alla sezione A’ (SIb maggiore) dove il violoncello e il pianoforte ora dialogano amabilmente, fino a condurci (38’02”) alla coda che chiude questo mirabile cammeo. 

Il concerto è chiuso dall’Allegretto grazioso (2/4, SIb maggiore) un Rondò in forma-sonata che il solista apre (39’20”) esponendo il brillante tema principale, subito ripreso anche dai violini.

Poco dopo (39’38”) il pianoforte espone un controsoggetto, ripreso ancora dai violini, che conduce, dopo una veloce scalata del solista (39’56”) ad una ripresa variata ed ampiamente sviluppata del primo tema, con interventi alternati di orchestra e pianoforte. Tutto ciò introduce (40’31”) il secondo tema, nella lontana tonalità di LA minore, che dà luogo poi (40’51”) ad un delicato motivo in FA maggiore, esposto dal pianoforte e ripreso dai clarinetti.

Sempre in FA maggiore ecco comparire nel pianoforte (41’11”) un nuovo motivo dal piglio sbarazzino, subito ripreso da flauti e oboi e poi intercalato dal precedente nei violini, ora in SIb. Torna, in LA minore (41’47”) il secondo tema, spezzato fra flauti-oboi e pianoforte, poi nei soli archi. A 42’07” riecco nei clarinetti il dolce motivo in FA maggiore, seguito da una transizione negli archi che modula (42’23”) a RE maggiore, tanto audacemente quanto fugacemente: infatti torna il SIb maggiore a supportare il primo tema, negli oboi, che chiude l’esposizione e prepara lo sviluppo, che possiamo far decorrere da 42’40”.

Qui è il tema principale a farla da padrone: a 42’58” ne sentiamo in orchestra un’apparizione in DO maggiore, poi il pianoforte lo riprende, esponendone quindi (43’23”) il controsoggetto in SOL maggiore e facendovi seguire una cadenza solistica che conduce ad una seconda e conclusiva sezione dello sviluppo (43’44”) dove una serie di interventi alternati di orchestra e solista preparano l’arrivo della ricapitolazione.

Essa è aperta - in SIb maggiore - dal pianoforte (44’17”) con il controsoggetto del tema principale, il quale ultimo viene ripreso poco dopo (44’39”) dai violini e successivamente sviluppato in dialogo fra solista e orchestra. Si arriva quindi (45’21”) al secondo tema, ora sceso di una quinta - rispetto all’esposizione - alla tonalità di RE minore.

A 45’52 ricompare, in ottavino e oboe, il tema sbarazzino udito nello sviluppo, poi (46’01”) ancora il secondo tema, negli archi con il pianoforte a contrappuntare. A 46’17” torna ancora in clarinetti e oboe - poi ottavino - il dolce motivo in FA maggiore, prima che il pianoforte inneschi la corsa verso la coda del concerto. Coda assai corposa, che principia (46’50”) con grandi virtuosismi del solista, poi (47’10”) con interventi dell’intera orchestra e infine conduce alla severa conclusione.
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Il giovanissimo (23 anni, beato lui!) Filippo Gorini ha confermato tutto il buono (no, che dico, l’ottimo) che già si sapeva di lui, e non da ieri! Tecnica superlativa, ma associata anche a testa lucidissima e a cuore appassionato. Sì, perchè non è da tutti - specie a quell’età - entrare così profondamente nello spirito di una composizione. Quando Brahms diceva di aver composto un concertino non si riferiva evidentemente alle dimensioni, ma alla raffinatezza, quasi settecentesca, di molti passaggi: è proprio ciò che Gorini ha saputo mirabilmente proporci, ben coadiuvato dall’orchestra nell’insieme e nei singoli che danno contributi importanti (il corno di Amatulli, il cello di Scarpolini...)

Gran trionfo per lui, con tanti suoi fan venuti apposta per sostenerlo e applaudirlo. E lui ci ha ripagato con un altro Brahms, quello del Capriccio in SOL dell’Op.116.     
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Flor ha chiuso la serata con l’Italiana di Mendelssohn, attaccata alla bersagliera mentre ancora il pubblico lo stava salutando al suo ingresso sul podio! Mah, un’esecuzione da... festival, di quelle fatte per suscitare facili entusiasmi. Un Mendelssohn sanguigno e a tratti quasi... sguaiato ecco. I tempi forsennati dei due movimenti esterni sono forse andati a discapito della pulizia esecutiva, ma l’effetto è stato indubbiamente trascinante, così non sono mancate le approvazioni e i riconoscimenti per tutti, ma in particolare per il pacchetto dei legni, che qui (poi con questo Direttore) ha compiti quasi proibitivi.    

03 maggio, 2019

Mehta-Bruckner: emozioni alla Scala



Questa è una reliquia che conserverò gelosamente, a imperituro ricordo di una serata indimenticabile, in un Piermarini non precisamente esaurito, ma che ha salutato e stretto in un ideale abbraccio un direttore, ma che dico, un Uomo che ci ha regalato 80 minuti di profonda emozione.

Il venerabile Zubin Mehta è in questi giorni di casa alla Scala per dirigervi le tre puntate del concerto della stagione sinfonica del Teatro e - con Pollini - un concerto di beneficenza (con i giovani dell’Accademia, che avranno la fortuna di poter raccontare ai nipotini di aver suonato con una coppia davvero unica) per la Fondazione che si occupa di bambine disabili in India, di cui Mehta è patron insieme a Pereira.

Ieri sera ecco dunque l’esordio con l’imponente Ottava di Bruckner. Mehta, che sembrava uno che non invecchia mai, ora mostra gli impietosi segni degli anni e soprattutto della malattia, che lo costringono a camminare appoggiandosi ad un bastone e a dirigere seduto. Ma vi posso assicurare che la sua carica è la stessa che mostrava quasi 5 lustri fa, quando era nel pieno delle forze!

Non entro nel merito dei dettagli tecnici dell’esecuzione, perchè di per sè significherebbe rompere quel meraviglioso incantesimo che ci è stato offerto dal Maestro, dall’Orchestra della Scala e - inutile precisarlo - da Bruckner! 

laVerdi 18-19 - Concerto n°27


Il concerto di questa prima settimana di maggio vede il gradito (purtroppo unico nella stagione) ritorno sul podio dell’Auditorium del Direttore emerito de laVerdi, Zhang Xian.

Il programma comprende in apertura il quinto degli otto appuntamenti della Maratona Brahms (integrale delle sinfonie e dei concerti solistici) e propone il Primo Concerto per pianoforte, interpretato alla tastiera da Denis Kozhukhin, giovane virgulto (33 anni) della grande scuola russa ma ormai cittadino del mondo e già frequente ospite anche del nostro Paese.

Si tratta dell’opera di un Brahms (appena 22enne quando la sbozzò) ancora incerto sul terreno orchestrale, nata come sonata per due pianoforti, poi innalzata al rango di sinfonia e infine derubricata, per così dire, a concerto solistico. Dove peraltro il solista spicca abbastanza poco, quasi sempre annegato nella trama del tessuto orchestrale, il che ha reso il concerto poco attraente per i pianisti (già dover aspettare per più di 4 interminabili minuti che l’orchestra esaurisca ben 90 battute introduttive prima di dare la... parola al pianoforte dev’essere per loro piuttosto fastidioso). Poi, in compenso, il lavoro per il solista non manca di certo: forse mancano virtuosismi da baraccone, ma l’impegno richiesto - non fosse che per la durata del concerto - è di quelli davvero gravosi.

E in effetti questo Kozhukhin pare apprezzarlo assai, a giudicare dal cipiglio, dalla grinta e dalla passione che ha profuso nella sua interpretazione. Qualche sbavatura che mi è parso cogliere nei passaggi più ostici del primo movimento non inficia il giudizio del tutto positivo sulla sua performance, impreziosita dalla delicatezza e sensibilità con cui ha proposto il sognante Adagio centrale.

Bene anche l’Orchestra, dove si è distinto, fra gli altri, il corno di Amatulli, nei diversi passaggi solistici disseminati nella partitura. A tutti il pubblico abbastanza folto dell’Auditorium ha riservato un meritato successo. Così questo ragazzone biondo (con tanto di codino) ci offre un raro quanto gradevole Grieg (n°6 dell’op.43, Til Foraret).   
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A chiudere in bellezza la serata ecco l’Ottava Sinfonia di Antonin Dvořák, significativamente accostato nel programma al suo illustre mentore amburghese. Sinfonia composta nel 1889 e appellata pastorale, quindi apparentata alla seconda di Brahms, in specie per i due movimenti interni, ma che presenta un movimento iniziale piuttosto eterodosso (e quindi assai poco brahmsiano, nel senso di rispetto delle forme); il che ha spinto alcuni suoi detrattori a declassarlo a rapsodia su temi di danze slave... un campo nel quale a Dvořák è peraltro sempre stata riconosciuta un’indiscussa autorità.

Ma forse queste sono critiche ingenerose, e un’analisi meno prevenuta permette di apprezzare anche la struttura formale dell’opera, che del resto il compositore stesso aveva dichiarato contenere diversi caratteri innovativi.

Facciamone la conoscenza servendoci di un’interpretazione autorevolissima, quella di un boemo d.o.c.: Rafael Kubelik, alla guida dei Berliner.
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Apre un Allegro con brio, 4/4 in chiave di SOL maggiore, e già la tonalità rappresenta un unicum nella produzione sinfonica dell’intero ‘800: solo Ciajkovski l’aveva impiegata, ma in minore, nella sua prima (chiusa peraltro in maggiore) e si dovrà attendere il ‘900 e Mahler (quarta) per ritrovarla nuovamente come impianto di una sinfonia.

Ma le sorprese sono appena iniziate, poichè il motivo che introduce l’esposizione è - guarda un po’ - in SOL minore! Lo dobbiamo tener presente poichè tornerà altre due volte nel corso del movimento, e precisamente ad aprire lo sviluppo e poi la ricapitolazione, in questa che cominciamo quindi a riconoscere come una struttura di forma-sonata piuttosto disinvoltamente manipolata.

Questa introduzione in minore, una specie di corale nei violoncelli, clarinetti e fagotti, sfocia (33”) in un lungo RE, dominante del SOL la cui tonalità trascolora da minore a maggiore con l’innalzamento del SIb a SI naturale nell’accompagnamento orchestrale. (In realtà questa alternanza minore-maggiore è al centro dell’intera sinfonia). Ecco qui il flauto (42”) esporre il primo tema (anzi la prima parte del primo gruppo tematico): una chiara evocazione dei gorgheggi di uno dei tanti volatili di cui il compositore si circondava nella sua casa di campagna a Vysoká. Poi, invece di svilupparsi come ci si aspetterebbe, ecco che (1’02”) il motivo, in un travolgente crescendo orchestrale, pare trasformarsi in una nuova introduzione a qualcos’altro! Che è poi (1’20”) la seconda parte del primo gruppo tematico. La quale passa per ora come una meteora, per lasciare subito il posto al proseguimento del crescendo orchestrale, chiuso a 1’51” - dopo una cadenza degna in tutto e per tutto di un’aria di melodramma - da un’enfatica riproposizione della prima parte del tema.

Questa però sfocia arditamente (1’57”) nella tonalità di SI minore che poi - dopo un ponte modulante che attraversa LA e RE maggiore - supporta (2’32”) il secondo gruppo tematico (prima parte) dal sapore tipicamente boemo. La cui seconda parte (3’07”) è in SI maggiore, alle prime dal carattere religioso, ma subito sfacciatamente reiterata (3’14”) e sfociante sulla cadenza del primo tema, poi trascolorando (3’36”) nuovamente a SI minore. Un nuovo ponte modulante attraverso il RE ci riporta a SOL minore, preparando il ritorno del tema introduttivo che riudiamo (4’00”) proprio come aveva aperto l’esposizione. Ecco quindi tornare il passaggio a SOL maggiore ed il flauto esporre (4’43”) il motivo ornitologico.

A tutta prima sembrerebbe una pura e semplice ri-esposizione (quasi un da-capo di classica memoria) ma Dvořák non cessa di stupirci e ben presto ci rendiamo conto di essere già entrati nella sezione di sviluppo (esclusivamente occupata dalle due parti del primo gruppo tematico). La tonalità infatti comincia a modulare vorticosamente: dapprima (5’03”) a FA maggiore e poi (5’17”) ad un remoto FA# maggiore! Sul quale a 5’34” ecco comparire, quasi nascosta dalla mirabile melodia di contrappunto dei flauti, la seconda parte del primo gruppo tematico, poi esposta (5’47”) in LAb maggiore, ancora in RE minore (6’08”) e poi (6’15”) in FA maggiore e ancora (6’18”) in LAb. Adesso due schianti in MIb minore portano (6’27”) ad un colossale accordo di MI minore che prepara a sua volta l’arrivo (6’51”) del SOL minore.

Mamma mia, che ubriacatura di suoni! (É qui che probabilmente i critici della sinfonia perdevano il filo del discorso...) E questo SOL minore a cosa ci prepara? Ad un enfatico riapparire del tema dell’introduzione, tanto smaccato ora (nelle trombe, sulle folate degli archi) quanto sommesso e religioso era stato nelle prime due comparse... Tema che per la terza volta segnala l’inizio di una sezione del movimento iniziale: qui, la ricapitolazione.

Quasi timoroso, è il corno inglese (7’33”) ad aprirla, esponendo il motivo dell’uccellino, subito imitato da clarinetto e flauto. Ora non udiamo la seconda parte di questo primo gruppo tematico, ma ecco tornare il secondo tema (8’05”) accodatosi - in osservanza (per una volta quasi rigorosa) dei sacri canoni - alla tonalità di impianto (SOL, ma sempre in minore, nella sua prima parte). La seconda parte, in maggiore, compare a 8’40”, subito riproposta con enfasi a 8’47”. Essa sfocia (9’03”) nel primo tema, da cui si diparte la brillantissima coda, chiusa da 5 melodrammatici schianti di SOL maggiore.

Si passa ora all’Adagio, 2/4 tonalità in MIb maggiore e DO minore-maggiore (anche qui i due modi si alternano e si compenetrano). La struttura generale si presenta come una duplice alternanza di un gruppo tematico dimesso e quasi da marcia funebre (ma con impertinenti incisi in maggiore) e un secondo di spiccata serenità popolaresca.

A 9’55” gli archi espongono il primo gruppo tematico, che muove da MIb maggiore a DO minore e quindi (10’41”) ecco flauto e clarinetto interloquire in DO e poi FA maggiore con i clarinetti. A 12’11”, preceduta da un rullo di timpani, la prima sezione del tema viene ripetuta in fortissimo e porta alla prima esposizione (13’10”) del secondo gruppo tematico, in DO maggiore, dal sapore squisitamente popolare, con una sezione (14’06”) assai enfatica e mossa dalle scale degli archi, che sfocia (14’43”) in una marziale perorazione delle trombe.

A 14’58” ritorna il primo gruppo tematico variato che sembra svanire nel nulla per poi sfociare (16’32”) in un’altra sezione enfatica, prima che (17’47”) faccia la sua ricomparsa il secondo gruppo tematico, esposto dagli archi con contrappunto grazioso dei flauti. Una coda (18’38”) basata sul primo tema, chiude il movimento in un’atmosfera che si schiarisce dopo un cupo intervallo.

Ecco quindi l’Allegretto grazioso, 3/8 in SOL minore. Non è il classico Scherzo, anche se ha una struttura (A-B-A) che contempla (B) un Trio. Inizia (A) con un languido walzer (20’16”) esposto dagli archi, un tema arcuato, che sale e poi ridiscende. Gli fa eco (20’42”) un controsoggetto prima della riproposizione (21’08”) del tema completo nei legni, poi ancora negli archi.

Si passa ora (22’04”) al Trio (B) nella relativa SOL maggiore (altro esempio di alternanza minore-maggiore) un motivo ripreso dall’opera Tvrdé palice (Teste dure) a sua volta integrato (22’29”) da un controsoggetto. Il tutto ripetuto (22’49”) e ancora seguito (23’35”) dal soggetto B chiuso da una delicata cadenza dell’oboe.

Con il classico da-capo torna (24’24”) il primo tema (soggetto e controsoggetto) poi ripetuto (25’16”), e infine si arriva (26’12”) ad una coda spigliata (Molto vivace, tempo 2/4) basata sul secondo tema e chiusa da un accordo maggiore (SOL-SI) assai dimesso negli archi. 

Chiude la Sinfonia l’Allegro ma non troppo, 2/4 in SOL maggiore, che presenta una struttura a metà tra il rondò e il tema-con-variazioni (queste ultime non sono esplicitamente indicate, ma si desumono chiaramente dalla partitura, oltre che dal contenuto musicale). A mo’ di introduzione lo apre (26’53”) il RE di una smaccata fanfara di trombe. Qui viene sempre ricordato dai commentatori un appello che la nostra guida Kubelik pare abbia indirizzato agli orchestrali durante una sessione di prove della sinfonia: Signori, in Boemia le trombe chiamano alla danza, non alla battaglia! 

Esposizione del Tema (27’21”). Dopo una pausa di riflessione, scandita dai timpani sul ritmo della fanfara, ecco il tema principale, affidato ai violoncelli, che mostra subito la sua chiara derivazione dall’incipit (SOL-SI-RE) del canto dell’uccellino che aveva aperto nel flauto l’esposizione dell’iniziale Allegro con brio. Sono 8 battute (reiterate) chiuse sulla dominante RE. Il controsoggetto (27’41”) - sempre di 8 battute con da-capo - risponde partendo dalla dominante e ritornando a casa, sul SOL.

Variazione 1 (28’03”). È in effetti una riesposizione variata del tema completo (soggetto e controsoggetto con i rispettivi da-capo) ma assai arricchito di suono, per l’intervento di viole e violini in fortissimo, ad accompagnare celli e bassi.       

Variazione 2 (28’39”). É abbastanza articolata, con una struttura A-B-A. Inizia con l’intera orchestra che espone l’incipit del tema, poi sviluppato in due frasi di 8 battute. Segue (28’53”) la sezione B, un po’ più mossa nel tempo, costituita da due parti (sempre di 8 battute, ripetute) affidata agli svolazzi del flauto. Riprende (29’22”) la sezione A con la prima parte di 8 battute e la seconda di 13, chiusa sul SOL. Seguono (29’38”) 10 battute di ponte, che conducono la tonalità verso il DO minore, in cui è incardinata la successiva...  

Variazione 3 (29’46”). É la più lunga e complessa delle sette (130 battute) ed apre come detto in DO minore con un tema aspro e martellante esposto da oboi e clarinetti, poi ripreso (29’58”) dai flauti. Che ne propongono una variante, come controsoggetto, con modulazioni a SI e SIb minore. Segue un lungo sviluppo del tema, con interventi successivi di tutte le sezioni dell’orchestra, chiuso da un ritorno (31’09”) del RE della fanfara di trombe che si trascina faticosamente fino a chiudere la variazione.

Variazione 4 (31’40”). Riecco il SOL maggiore del tema principale (due parti entrambe ripetute) che nella prima parte ricalca l’apparizione iniziale, ma nella seconda (32’03”) viene stranamente allungato di 2 battute (10 invece di 8).  
  
Variazione 5 (32’33”). In sostanza arricchisce tematicamente la precedente ed è riservata ai soli archi. La prima sezione è di 8 battute, ripetuta; la seconda (32’55”) pure di 8 battute, ma con ripetizione di 10.   

Variazione 6 (33’20”). Ora è il clarinetto a tenere banco, presentando la prima sezione del tema principale con l’accompagnamento degli archi in tremolo. Nella seconda (33’44”) si fa più corposa la presenza dei fiati (entrambe le sezioni, ripetute, sono di 8 battute).

Variazione 7 (34’07”). Ancora il tema principale (esposto dai violini contrappuntati dai fagotti) che lentamente sembra disgregarsi, poi si riprende (34’29”) nei violini con accompagnamento in tempi dilatati di flauti e oboi.

Coda (34’55”). Furiosamente l’intera orchestra ripercorre la seconda variazione fino ad arrivare (Più animato, 35’09”) alla stretta finale. Chiusura in bellezza, con due schianti di SOL maggiore. 
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Beh, magari non sarà proprio un capolavoro assoluto, tuttavia non si può negare che la sinfonia abbia un certo fascino, legato indubbiamente alla cantabilità dei tanti motivi di ispirazione popolare boema che la percorrono da cima a fondo, che mette in secondo piano le sue arditezze (ma si potrebbe dire... stranezze) formali. 

Abbiamo conosciuto ed apprezzato la Xian durante gli anni della sua direzione musicale e anche ieri la piccola cinesina ha mostrato le sue qualità: esaltando tutti i contrasti di questo brano, che alterna la leggerezza dei motivi di danza (vedi l’Allegretto) a squarci di alta drammaticità (quali sono emersi mirabilmente nell’Adagio). Travolgente poi l’Allegro finale, con l’Orchestra (ieri guidata da Dellingshausen) che ha davvero tirato fuori le unghie! 

Accoglienza trionfale e applausi ritmati hanno chiuso questa bellissima serata.

24 aprile, 2019

Un grande Strauss alla Scala


Ieri sera al Piermarini (con parecchi posti vuoti - peggio per gli assenti) è andata in onda la prima di Ariadne auf Naxos, nella nuova produzione targata Welser-Möst / Wake-Walker, una coppia (direttore-regista) che ha presentato l’opera a Cleveland (dove il direttore di Linz è di casa da un bel pezzo...) poco più di due mesi orsono, ma con orchestra, cast e team di regìa completamente diversi (di fatto quella produzione americana nulla ha a che vedere con questa della Scala).

Devo dire subito che il Kapellmeister mi ha abbastanza convinto, portando alla luce gli innumerevoli tesori di questa partitura e guidando orchestra e interpreti con una concertazione accurata e attenta ad ogni dettaglio. E la smagrita (come da copione) compagine scaligera (rialzata opportunamente nella buca di un buon mezzo metro) ha risposto nel migliore dei modi alle sue sollecitazioni: buon equilibrio fra le sezioni, proprietà di fraseggio e sonorità mai sbracate, proprio come è richiesto dalla lettera, oltre che dallo spirito, di quest’opera, che ha nella raffinatezza la sua caratteristica peculiare.

Opera bifronte, sappiamo, con un prologo-Singspiel, dove abbondano i parlati (e Alexander Pereira, che come sovrintendente sarà magari censurabile, ha invece tenuto banco alla perfezione nei panni del maggiordomo viennese, in sfolgorante livrea purpurea e con voce petulante) e dove i momenti musicalmente rilevanti - preludio a parte - si riducono alle esternazioni del Compositore e al suo confronto con Zerbinetta (gli altri cantano in recitativi accompagnati, o poco più); e poi il melodramma serio-farsesco, dove invece la mirabile musica di Strauss la fa da padrona da cima a fondo.    

In compenso la prima parte è quella dove c’è un minimo di azione, anzi di agitazione, causata dalle ripetute sorprendenti pretese del padrone di casa, di cui è portavoce il maggiordomo. La seconda parte è quasi totalmente statica, se si esclude il siparietto della caccia delle quattro maschere. 

Dopo il Preludio, suonato rigorosamente a sipario chiuso, ecco comparire al proscenio il sempre solido Markus Werba (insegnante di musica) e il padrone di casa (pro-tempore) del Piermarini, protagonisti del battibecco che apre il Prologo, durante il quale Pereira fa sventolare sotto il naso di Werba una banconota che gli consegnerà (bontà sua) solo al rientro dietro il sipario dopo gli applausi al termine della prima parte...

E all’apertura del sipario, invece che in austeri corridoi del Palast, siamo in un cortile dello stesso, dove hanno trovato parcheggio le roulottes e i camper delle due troupe ingaggiate per lo spettacolo: bianchi quelli dei melodrammatici e rossi quelli dei commedianti, nel rigoroso rispetto dei colori (nazionali e cittadini) del luogo.

Qui c’è un crescendo di animazione, in una fantasmagoria di colori, quella dei costumi (una mescolanza di antico e moderno) di Jamie Vartan (responsabile anche delle scene): ne è protagonista il compositore, alias la bravissima Daniela Sindram, che ha modo di esternare tutta la sua apprensione, il suo amor proprio ed anche le sue mirabili melodie. Raggiunto, verso la fine, da una Zerbinetta (che si scatenerà poi nell’opera) che qui mostra il lato umano e nascosto della sua esuberante personalità, riuscendo a far tornare nel compositore l’entusiasmo e l’ottimismo, che peraltro dureranno poco, se è vero che il poveretto si trafiggerà con un coltello preso dall’argenteria del palazzo, sui truci accordi di DO minore che chiudono il Prologo.

Nel quale hanno anche cantato meritoriamente il Maestro di danza Joshua Whitener e i tre accademici scaligeri, Riccardo Della Sciucca (Ufficiale) Ramiro Marturana (Parrucchiere) e Hwan An (Lacchè). Quanto ai due protagonisti dell’opera seria (Ariadne e Bacchus) nel prologo si limitano più che altro a lamenti e rimostranze, sfoggiando supponenza e disprezzo per l’altra troupe; i quattro compari di Zerbinetta si muovono senza aprir bocca, così come le tre svampitelle che nell’opera impersoneranno ninfe ed eco.

E l’opera, appunto, vede lo scenario (e la scena) mutare drasticamente: siamo in un ambiente asettico, caratterizzato da luce azzurrognolo-verdastra (evocazione di paesaggio marino, assai azzeccata da Marco Filibeck) e popolato da acutissime guglie (le scogliere di Nasso). Al centro un’enorme vongola tecnologica (la conchiglia del Botticelli) con le due valve aperte sulle quali si muove lentamente Ariadne, e che si richiuderanno poi temporaneamente quando la protagonista si ritirerà all’interno della sua spelonca.

Ma ciò che colpisce è la trasformazione dei personaggi della troupe dell’opera (Ariadne, Najade, Dryade ed Echo, successivamente Bacchus) da individui complessati o insignificanti (come ci erano apparsi - nel prologo - nella vita reale) in grandi artisti, nobilitati dal teatro e soprattutto dalla... musica!

Come non restare ammirati dall’iniziale esternazione di Ariadne, una Krassimira Stoyanova invero commovente e pienamente calata nella parte della donna tradita, privata della cosa più preziosa che si possa desiderare, l’amore! Welser-Möst ne ha accompagnato i lamenti e i ricordi con discrezione, mettendo in risalto le purissime linee melodiche dell’orchestra e dei singoli strumenti.

E che dire della poesia del canto di Christina Gansch (Najade), Anna-Doris Capitelli (Dryade, dall’Accademia scaligera) e Regula Mühlemann (Echo) nelle loro ninna-nanne alla protagonista!

Michael König è stato un convincente Bacchus, voce proprio da Heldentenor, potente e squillante allo stesso tempo, senza sforzo apparente anche sui SIb cui la partitura lo chiama alla conclusione dell’opera. La sua apparizione è accompagnata dall’aprirsi della scena sul fondo, dove compare una ripida scala sulla quale scende il dio e sulla quale risaliranno (verso... le stelle) i due amanti alla fine. Da incorniciare il lungo duetto con Ariadne, una miniatura che ricorda l’enorme quadro del Tristan!

Zerbinetta&C - a differenza dei colleghi, più blasonati ma con puzza-al-naso, dell’altra troupe - sembrano vivere in teatro come vivono da privati cittadini: le quattro maschere hanno modo di farsi valere anche come... cantanti (!) e su tutti spicca (per corposità della parte) l’Harlekin di Thomas Tatzl, che sciorina impeccabilmente la sua infruttuosa serenata alla povera Ariadne. Gli tengono valida compagnia Kresimir Spicer (Scaramuccio), Tobias Kehrer (Truffaldin) e Pavel Kolgatin (Brighella) che inscenano la comica quanto inutile caccia alla soubrette, caccia conclusa invece con pieno successo da Harlekin, che conquista il cuore (e anche altro... ehm, organo!) della disinvolta attricetta.

Della quale è ora il momento di parlare, poichè è sicuramente la protagonista più appariscente dell’opera: e Sabine Devieilhe non si è smentita, lasciando tutti senza fiato con il suo massacrante recitativo-aria-rondò, inclusi i RE e MI sovracuti, che le ha garantito minuti di applausi a scena aperta.

Restano da citare Sylwester Luczak e Ula Milankowska per i filmati che hanno accompagnato la parte finale dell’opera e l’apoteosi dei due protagonisti.

Alla fine solo applausi e bravo! per tutti i protagonisti di questa proposta davvero accattivante, come livello musicale e come spettacolo; insomma, chi appena può, non se la perda!