affinità bombarole

rinsaldato il patto atlantico

20 febbraio, 2019

La Chovanščina in arrivo alla Scala (3)


Dato che è quella che andrà in scena prossimamente al Piermarini, accingiamoci all’esplorazione della versione di Shostakovich seguendone in rete un’esecuzione assolutamente integrale, realizzata a Sofia nel 1986. In sostanza, qui si ascolta tutto ciò che Musorgski ha composto per Chovanščina, incluse quelle parti che - a giudicare dalle correzioni sui manoscritti e dalla mancanza nel quaderno blu - il compositore medesimo avrebbe magari espunto al momento di licenziare il suo lavoro per l’esecuzione e la pubblicazione; in più si ascoltano le aggiunte (nel finale) di Rimski e dello stesso Shostakovich. Come ausilio all’ascolto, ripropongo il riferimento al libretto multi-uso, che reca il testo integrale di questa versione dell’opera.

Ovviamente tutti i riferimenti all’orchestrazione (così come gli esempi musicali riportati) riguardano Shostakovich e non già Musorgski, che in proposito ha lasciato solo scarne indicazioni sui suoi spartiti. Le differenze (spesso marcatissime) fra questa strumentazione e quella di Rimski evidentemente dipendono dai diversi approcci che i due orchestratori hanno tenuto: oggi si tende ad accreditare maggior aderenza alla volontà dell’Autore al lavoro di Shostakovich in quanto non condizionato (o meno condizionato) come quello di Rimski da personali convinzioni estetiche o da sedicenti intenti migliorativi, e in compenso guidato da tutti gli approfondimenti della conoscenza dell’estetica musorgskiana maturati durante la prima metà del ‘900. Ma, così come accade per il Boris, anche qui la versione di Rimski non è stata per nulla seppellita dalla storia, e conserva intatto il suo appeal su gran parte del pubblico.                
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Il Preludio (alba sulla Moscova) è caratterizzato dalla insistita reiterazione (non meno di 11 ricorrenze) di un unico motivo affidato a strumenti diversi ed esposto in forme sottilmente variate, nella melodia, nella scansione temporale, nella tonalità e nell’armonizzazione:

Questo processo, che ritroveremo anche più avanti, rischia di ingenerare all’orecchio dell’ascoltatore una certa qual monotonia: qui il rischio è scongiurato dalle continue variazioni cui il motivo è sottoposto; ma ad esempio nella canzone di Marfa dell’Atto III tale rischio si materializzerà in modo clamoroso.

Si è già detto come questo riferimento esplicito all’alba sia stato interpretato, dagli ammiratori della figura di Pietro il Grande (Stasov e Rimski in primo luogo) come un’allegoria dell’avvento dello zar innovatore. Tesi che però non troverebbe conferma nell’atteggiamento dello stesso Musorgski, il quale - a dispetto di aver fatto parte in qualità di ufficiale del corpo militare creato da Pietro (la Guardia Preobrazhenzki) - è sempre parso piuttosto tiepido nell’esaltarne la figura.

Atto I - Veniamo a conoscenza dello scenario di partenza del dramma e di tutti i suoi principali protagonisti (Golicyn escluso). Ci rendiamo conto così della situazione di totale caos istituzionale (tutti-contro-tutti e ciascuno-per-sè) che regna in quei momenti a Mosca (e nell’intero Paese).

All’alzata del sipario (5’11”) sulla Piazza Rossa di primo mattino, dopo un pesante rintocco del campanone del Kremlino (amplificato per risonanza dal tam-ram) assistiamo alla scenetta di Kuzka e dei suoi due commilitoni Strelcy (guardia speciale degli zar). L’atmosfera sonora è più volte ravvivata da perentori squilli di trombette che arrivano dal vicino Kremlino. Kuzka (che ritroveremo nel terz’atto) ha fatto un turno di sentinella nella notte e ancora non è ben sveglio, mentre gli altri due vantano le loro sanguinose imprese contro i boiari ribelli e a difesa della reggente Sofia e dei due fratelli-zar (l’handicappato 15enne Ivan e il più giovane di 5 anni, Pietro).

Arriva poi (7’29”) lo scrivano pubblico, sbeffeggiato dagli Strelcy, il quale a sua volta bestemmia (7’56”) contro la vita grama, mentre si installa nella sua garitta. L’atmosfera piuttosto sbracata della scena viene improvvisamente incupita dal sopraggiungere (8’11”) dello sbifido Šaklovityj, accompagnato da un motivo minaccioso e protervo, proprio di chi è in condizioni di dettar legge. Questo boiaro è un tipo poco raccomandabile e dalla personalità indecifrabile (come scopriremo dai suoi contraddittori atteggiamenti nei tre atti successivi). È arrivato lì per usare i servizi del pubblico scrivano, che si prepara a servirlo, ma poi, di fronte ad oscure minacce del (per lui sconosciuto) personaggio si schermisce e lo prega di andarsene. Il battibecco fra i due mette in risalto musicalmente i loro diversi stati d’animo: calmo e protervo quello di Šaklovityj (voce di basso); agitato e petulante quello dello scrivano (tenore).

Scrivano che si convince però rapidamente alla vista di una borsa di denaro che lo sconosciuto gli allunga. Così si mette in ascolto della dettatura. Che inizia (10’20”) ovviamente con l’indicazione dei destinatari: nientemeno che la zarevna e le massime autorità dell’intera Russia! E il contenuto? Una denuncia (10’40”) a nome degli stessi Strelcy contro il loro stesso capo, Ivan Chovanskij, accusato di preparare un colpo di stato contro Sofia e fratelli per portare sul trono il figlio Andrej!

Per sincerarsi che lo scrivano abbia riportato quanto dettatogli, Šaklovityj gli chiede di rileggere. Qui (10’56”) abbiamo un divertente contrappunto fra il canto dello scrivano, che legge il testo della lettera a rotta di collo, sovrapponendo la sua voce a quella di un gruppo di illetterati moscoviti che sfilano nella piazza cantando una filastrocca abbastanza sconcia (torneranno a farsi vivi fra poco).

Šaklovityj (11’12”) intima allo scrivano di completare la denuncia, dettandogli altri particolari del progetto di golpe, che avrebbe obiettivi chiaramente reazionari: riportare indietro la Russia sul terreno politico e religioso e i Chovanskij al potere. Lo scrivano è in grande agitazione, già temendo le ritorsioni dei denunciati. Sopraggiunge in quel momento (12’10”) un drappello di Strelcy che cantano spavaldamente, su un motivo rozzo e protervo, la loro onnipotenza, cosa che mette in agitazione anche Šaklovityj. Dopo che lo scrivano (12’59”) ha manifestato tutto il suo disprezzo per quei boriosi quanto feroci militari, lo sconosciuto si affretta (13’44”) a concludere la sua denuncia, suggerendo prudenza in attesa degli eventi e ribadendo che la missiva deve essere indirizzata alla zarevna. Un ultimo scambio (14’19”) di battute, preoccupate (lo scrivano) e minacciose (lo sconosciuto) pone fine al loro incontro di... affari.

E proprio dei suoi affari si occupa ora lo scrivano, apprestandosi (15’00”) a verificare il contenuto della borsa lasciatagli dallo sconosciuto. Il quale - così sentenzia - sarà pure ricco e potente, ma io sono più furbo di lui, chè ho scritto la sua denuncia con la calligrafia di un tale che è morto!

Qui (15’53”) abbiamo una lunga scena dove lo scrivano è coinvolto in una nuova spiacevole faccenda, complice quel gruppo di buzzurri moscoviti che ripassa di lì cantando la sua indecente filastrocca. Questa gente vive nella più totale ignoranza di ciò che gli accade attorno, ed è quindi facilmente strumentalizzabile da chiunque. Per capire cosa sta succedendo non ha altro modo che farsi spiegare - da qualcuno che sa leggere, oltre che scrivere... - cosa sta scritto sulle gride esposte in piazza. E una di esse campeggia proprio lì, appesa ad una colonna: il canto goliardico del gruppo viene bruscamente interrotto (16’10”) da un poderoso intervento (un MIb in unisono di fiati e timpani) dell’orchestra, cui segue un truce motivo esposto ancora in unisono da tutti gli archi, che si alternano poi ai ritorni dei fiati, chiusi da un triplice accordo di questi, che sembra evocare le bocche aperte di quegli ignoranti di fronte all’arcana presenza dei segni, per loro incomprensibili, esposti su quella colonna eretta nella piazza.   

Questi ragazzotti saranno pure ignoranti, ma almeno paiono essere anche curiosi... Inizia qui (16’42”) l’esternazione della loro curiosità e il desiderio di soddisfarla: e chi meglio dello scrivano è più adatto alla bisogna? Così cominciano (18’08”) a pretendere da lui la lettura della grida, scontrandosi con la riottosità (18’14”) di uno che non vorrebbe lavorare a gratis... Allora (18’36”) decidono di ottenere ciò che vogliono con le cattive. E così, seguitando il loro monotono cantilenare, decidono di sollevare di peso lo scrivano, con tutta la garitta, per depositarli ai piedi della colonna che reca la grida.

Alle rimostranze e alle grida di aiuto dello scrivano (19’11”) si inventano, sempre cantilenando, la storia dello scrivano che aveva una bella casotta ma non voleva accontentarli: così loro presero la casotta e la portarono alla colonna; poi chiesero gentilmente (19’40”, la cantilena lascia il posto ad una suadente melodia) allo scrivano di leggere la scritta e, al suo rifiuto, cominciarono a distruggergli la casotta. Al che (20’07”) lo scrivano si arrende e promette di accontentarli. Ma la cosa ancora non avviene, preceduta com’è da altre picche-e-ripicche fra le due parti in causa. Finalmente (22’04”) ecco la lettura: gli Strelcy hanno severamente punito alcuni nemici della patria, principi, politici e boiari; chiunque spargerà calunnie sugli Strelcy verrà punito senza pietà.

All’ascolto di queste notizie (23’51”) quella masnada di beceri scavezzacollo si trasforma miracolosamente in un gruppo di patriottici cittadini, che piangono le tristi sorti della Russia, oppressa dalle malefatte dei suoi stessi figli, con un mirabile coro in FA minore, in buona parte a cappella. (Ritroveremo pari-pari la prima parte di questo coro nel finale predisposto da Shostakovich).


Durante il canto si sono udite - fuori scena - le trombe degli Strelcy, che il loro capo Ivan Chovanskij sta passando in rassegna. E adesso (26’00”) con un totale cambio di atmosfera, ecco che una folla di ragazzi e donne si fa udire per annunciare il passaggio del capo della Guardia zarista (solo lo scrivano e i moscoviti osano sparlare degli Strelcy...) Un perentorio motivo in SI minore (27’58”) suonato da archi e legni con il sottofondo degli ottoni (caratterizzerà d’ora in poi Ivan) si fa udire all’ingresso del capo sulla piazza:


Davvero proterva quella chiusa sulla seconda, con i tre DO# (due crome e semiminima) ribattuti, un’eloquente presentazione della dura, inflessibile e minacciosa personalità di Ivan. Il motivo viene reiterato (con una variante) altre tre volte, quasi a far entrare bene in testa alla gente di che pasta sia fatto l’uomo più potente di Mosca! Il quale (28’30”) contrappuntato da una sottile variante del suo tetro motivo musicale, accusa di fronte alla folla plaudente (quanto ignorante) i boiari traditori e ladri, promettendo di difendere Sofia e gli zar. Ogni sua frase è intercalata da applausi e grida della folla. Dopo la breve concione, il capo invita i suoi militari a scorrazzare per Mosca per ricevere onori dal popolo. Uno squillo di tromba (30’27”) mette in marcia gli Strelcy e dà il via alle ovazioni e ai cori del popolo esultante, cui si aggiungono poco dopo quelle degli stessi Strelcy.

Proprio mentre la piazza si svuota, ecco (31’46”) un classico colpo di teatro: su secche crome sincopate di trombe, tromboni e timpani, accompagnate da agitatissime semicrome degli archi, ecco sopraggiungere trafelata e sconvolta dalla paura una ragazza, tale Emma, di religione protestante e proveniente dal quartiere tedesco. La poveretta (31’57”) è inseguita da un energumeno libidinoso che sta cercando di farla sua con le cattive. E di chi si tratta? Ma guarda un po’, nientemeno che del figlio di Ivan Chovanskij, Andrej, che ci mostra quindi quali siano le sue spiccate attitudini! I due battibeccano animatamente: lei gli rinfaccia le sue colpe, averle ammazzato il padre ed esiliato il fidanzato; lui per convincerla arriva a prometterle il trono di zarina! Poi, spazientito, sta per passare alle maniere forti, approfittando della piazza rimasta deserta.

Ma c’è qualcuno (anzi qualcuna) che invece ha osservato tutto (si è già fatta sentire per la verità, ma la sua voce era coperta da quella dei due litiganti). É Marfa, la donna che d’ora in poi avrà una parte in tutte le successive vicende dell’opera. Arriva giusto in tempo (34’30”) per togliere Emma dalle grinfie di Andrej, la cui reazione di grande stupore nel vedersela di fronte ci fa pensare che fra i due ci sia stato qualcosa. Ed è precisamente così: Marfa infatti accusa Andrej di averle giurato eterna fedeltà, per poi abbandonarla in cerca di avventure. Segue qui una specie di terzetto, dove si sovrappongono le voci di Emma, che si dichiara innocente e vittima di un mostro; di Marfa che la rassicura e promette di difenderla; di Andrej che pare deciso a togliere di mezzo quell’intrusa che gli sta rovinando la conquista...

Con grande calma e solennità Marfa domanda ad Andrej (36’50”) se non sia arrivato per lui il momento di metter la testa a posto, invece di far soffrire una donna abbandonata. E poco dopo (37’21”) gli chiede se abbia già dimenticato il giuramento di fedeltà: si noti qui la comparsa di un tema (ora in REb minore) che rappresenta l’amore perduto di Marfa, tema che tornerà, sviluppato, nella sua canzone dell’Atto III.

Per tutta risposta (38’05”) Andrej estrae un coltello con l’intenzione di usarlo contro la ex-amante.  Che però sa come difendersi e in compenso (38’45”) predice ad Andrej la sua sorte (un asilo splendente...) mentre Emma prega per lei e Andrej la maledice. (Le qualità divinatorie di Marfa si manifesteranno anche in seguito, e tutte le sue profezie, per la verità, si avvereranno!)

Ma chi sta per tornare sulla piazza e sulla scena è Ivan Chovanskij con il suo codazzo: ce lo anticipano (39’44”) i soliti squilli di tromba e poi le voci osannanti del popolo e degli Strelcy, mentre Emma e Marfa gioiscono e Andrej si dispera vieppiù. Ed eccolo, il gran capo, arrivare (40’24”) e subito... restare di sasso, come sottolineano le cupe note delle trombe e la variante del suo truce tema negli archi: ma come, Andrej qui? E anche Marfa, ma con lei c’è anche una ragazza appetitosa! E così (talis filius, talis pater!) Ivan concupisce Emma sui due piedi e ordina ai suoi Strelcy di catturargliela. Al che, suo figlio Andrej (41’05”) la protegge, accusando curiosamente quanto ipocritamente il padre e i suoi scherani del suo stesso comportamento verso le donne! Il battibecco padre-figlio con interventi degli Strelcy (che in un primo momento non sanno che pesci pigliare) continua finchè Andrej aggredito dai soldati non minaccia addirittura di ammazzare la ragazza, pur di non cederla.

L’orchestra (42’48”) sottolinea il drammatico momento esplodendo un sinistro accordo, che prepara l’arrivo di un nuovo colpo di teatro; e di un nuovo personaggio, il santone Dosifej, guida spirituale della setta dei Vecchi Credenti (raskolniki) che blocca Andrej e redarguisce tutti quanti! Emma (43’09”) è ancora in preda allo spavento e, pur essendo quel vecchio per lei un illustre sconosciuto, lo accoglie come il salvatore, mentre Marfa mostra di essere una sua adepta. A lei Dosifej (43’22”) chiede di riportare Emma a casa sua. Poi (44’01”) sciorina un canto solenne, un grande arioso in MIb minore, tonalità che tornerà ancora a supportare atmosfere cariche di drammaticità:



Si tratta in realtà di un’autentica filippica, dove si stigmatizzano la decadenza dei costumi e l’abbandono della vecchia religione, chiamando tutti a ritrovare la perduta fede.

A Ivan Chovanskij (46’39”) non resta che riunire i suoi, figlio compreso, e rientrare al Kremlino, fra uno strombazzamento e l’altro. E proprio mentre il campanone fa sentire poderosi rintocchi, ecco un’ultima accorata preghiera (47’12”) di Dosifej, nel corso della quale (48’40”) c’è una inaspettata salita al RE#, da ricordare poichè Rimski le... tarperà le ali (mentre non toccherà il successivo MI naturale). Poi Dosifej e i suoi Monaci Neri si allontanano, e l’atto si chiude sotto i pesanti rintocchi del campanone.

Ecco quindi confermato lo scenario caotico di quel 1682: il trono retto dalla zarevna Sofia per conto di due ragazzini fratelli-fratellastri (Ivan e Pietro); la sicurezza in mano al boiaro Chovanskij che - a capo della guardia speciale zarista - combatte gli altri boiari solo per difendere la sua posizione e tramare un colpo di stato; gli Strelcy che sono convinti di servire il trono, mentre in realtà lavorano per chi prepara proprio quel colpo di stato; l’ambiguo Šaklovityj che rimesta nel torbido con denunce anonime, che evidentemente gli servono a trarre profitto per sè nella sua corsa alla conquista del potere; e Il vecchio Dosifej, campione dei nostalgici religiosi che sogna il ritorno al passato. Resta ancora da conoscere l’ultimo dei protagonisti-chiave del dramma: il principe Vasilij Golicyn, ma basta attendere poco...

Il Secondo Atto è infatti ambientato - di sera tardi - nella lussuosa dimora (dai tratti russi assai occidentalizzati) di questo boiaro di cui conosceremo prestissimo i trascorsi (e i progetti). La musica che lo introduce sembra proprio rappresentare la personalità e le attitudini del nostro: i suoi tre motivi hanno un sapore russo con retrogusto francese, si potrebbe scambiare per un passaggio, che so, della Serenata di Ciajkovski, il campione del matrimonio fra tradizione russa e musica occidentale:



Il principe è solo in casa (a parte il suo uomo di fiducia, Varsonofev) e leggerà due lettere, entrambe indirizzategli da esponenti del gentil sesso. La prima è nientemeno che della zarevna Sofia, ed è una vera e propria dichiarazione d’amore (con gran copia di eros e libidine, per la verità) che ci notifica quale fosse la relazione fra i due. Golicyn la legge accompagnato dai temi esposti nell’introduzione strumentale. Ma il principe è sospettoso, evidentemente conosce la volubilità della donna e sa che un passo falso, e la conseguente caduta in disgrazia, significherebbe per lui, tout-court, la testa! Si scopre qui la doppiezza del principe, che fa il consigliere a corte, ma che incontra (lo vedremo fra poco) i due principali oppositori di Pietro il Grande per discutere con loro sul come detronizzare lo zar!   

Ed ecco (3’50”) che prende la seconda lettera dallo scrittoio: è della madre. Subito un motivo in SIb maggiore, dal piglio eroico, sottolinea il vanto del principe per la sua schiatta (lo risentiremo fra poco, a josa):


Ma alla lettura della missiva esso lascia il posto a un’atmosfera assai più preoccupata: la madre si dice sempre più orgogliosa di lui, ma gli consiglia onestà e purezza... morale e materiale. E lui (5’04”) evidentemente toccato sul vivo da questi termini, interpreta il consiglio come un presagio di possibili sciagure! Incominciamo qui ad intravedere un lato oscuro del carattere di Golicyn: la sua incurabile superstizione, che mette in agitazione lui e la musica che lo accompagna. Ripete mestamente (5’37”) l’invito della madre, e la musica si spegne su di lui che resta pensieroso e preoccupato.

Preceduto da una figurazione del fagotto che ne anticipa l’entrata, ecco (6’12”) arrivare Varsonofev che annuncia la visita di un pastore luterano. Il principe decide di riceverlo e il religioso (6’42”) si presenta davanti a lui, e con tono grave avanza lamentele riguardo al comportamento di Andrej Chovanskij nei confronti della sua correligionaria Emma, con richiesta di provvedimenti da parte del principe. Il quale oppone un fermo rifiuto (lui non può immischiarsi in faccende che non lo riguardano) ma poi quasi a scusarsi chiede cosa altro possa fare per lui. E lo fa (8’49”) accompagnandosi con il motivo dei trionfi della sua casata, udito poco prima, all’apertura della lettera della madre. Il pastore prova allora (9’51”) a chiedere l’autorizzazione ad edificare nel quartiere tedesco di Mosca una chiesa luterana. E per tutta risposta Golicyn (10’55”) lo strapazza per bene, accusandolo di avanzare richieste irricevibili: e, tanto per mostrare da che parte stia il potere, lo fa cantando ancora sul motivo del suo nobile casato! Poi, sempre sul suo autoritario motivo, ripetuto fino alla nausea, addirittura lo umilia (11’09”) avvertendolo che di lì a poco arriveranno Chovanskij e Dosifej (due che lo vorrebbero morto!): avrebbe per caso piacere ad incontrarli? Insomma: si capisce perfettamente che questo Golicyn sarà pure di mentalità aperta, ma è anche un gran paraculo! E non per nulla (12’07”) appena il pastore se n’è andato, lo riempie di contumelie.

Ma scopriamo subito di ben peggio: Varsonofev (è sempre il fagotto ad annunciarne il rientro) torna per annunciare l’arrivo dell’indovina che il principe ha fatto chiamare poco prima. Golicyn lo richiama all’ordine sull’uso dei termini, così il suo attendente rettifica prontamente: la signora che spesso viene da voi per consigliarvi! E di chi si tratta? Di Marfa, chiamata stranamente dal padrone di casa, e per il motivo ben descritto da Varsonofev: lei è anche una veggente, un’indovina (già nel primo atto aveva pronosticato la fine ad Andrej). E scopriamo così che il laico Golicyn è pure un poveraccio superstizioso, che si fa leggere le carte da un’adepta raskolniki!

Un motivo nobile esposto dall’oboe (12’55”) introduce la donna, che si lamenta delle eccessive misure di sicurezza, al che Golicyn le giustifica con i pericoli che la grave situazione politica comporta. Marfa (13’49”) con voce improvvisamente più grave gli chiede se deve predirgli il futuro. Lui annuisce e le chiede di cosa abbia bisogno: di una bacinella d’acqua, risponde lei, così Golicyn la ordina a Varsonofev (dicendogli che è da bere...) e viene prontamente servito. Ora (14’38”) l’atmosfera si fa tipicamente misteriosa, con gli archi a tenere lunghi accordi di sapore arcano e i timpani a rullare sommessamente. La prima parte del rito è l’invocazione di Marfa (15’16”) alle creature delle profondità marine, perchè vogliano rivelare a Golicyn i misteri del suo futuro. Dopodichè (16’33”) osserva l’acqua (mentre le viole ondeggiano significativamente) per decifrarne i segreti nascosti, finchè (17’48”) annuncia la rivelazione. Golicyn è impaziente e Marfa (17’58”) attacca in LAb minore la sua lunga profezia, su un motivo dallo spiccato accento russo:



Siccome le creature evocate nella bacinella d’acqua dicono male (disgrazie ed esilio, sentenzia Marfa) Golicyn che fa? Con uno scatto d’ira (19’51”) licenzia la veggente sui due piedi, e per di più ordina ai suoi di farla secca! (Si può nutrire qui il legittimo sospetto che la profezia di Marfa sia un’invenzione, una deliberata ripicca della donna verso quell’individuo che ha rinnegato la vecchia religione, tuttavia resta il fatto che la realtà darà pienamente ragione a profezia e profetessa... e sarà proprio la musica a confermarcelo, a tempo debito.) Poi si lascia andare (20’11”) ad una delirante tirata sui suoi meriti verso la patria, e non può certo mancarvi (da 21’17”) il tema trionfale che abbiamo già sentito caratterizzare il suo nobile casato. Ma un tonfo di trombone, tuba e timpani (21’50”) gli lascia capire che la Russia ancora non pare in grado di liberarsi della ruggine tartara!

Bene, messa a fuoco la poco commendevole personalità del nostro, adesso bando alle ciance, si fa sul serio: si parla di politica! Perchè arriva (22’25”) l’atteso Ivan Chovanskij, annunciato dal suo protervo tema negli archi. Il capo degli Strelcy ipocritamente (lui che ai moscoviti ha detto di combattere fieramente i boiari, traditori della patria) si lamenta a nome dei boiari medesimi per i danni che le riforme volute da Golicyn avrebbero fatto alla loro categoria! E alle rimostranze di Golicyn, paragona i suoi atti politici a quelli dei Tartari. Al che il padrone di casa, toccato sul vivo, lo diffida dall’offendere la sua reputazione e, manco a dirlo (24’23”) lo fa ripetendo il motivo che rappresenta l’onore della sua famiglia. Adesso nasce il classico battibecco fra due galli nel pollaio, che si rinfacciano reciprocamente comportamenti disdicevoli: la meschinità e il servilismo di Chovanskij (25’50”) e le disfatte militari di Golicyn (26’55”).

I due rischiano di passare alle vie di fatto, quando provvidenzialmente (28’06”) entra Dosifej che li ammonisce, con il suo tono solenne, a cercare il bene della Patria. Subito dopo (29’09”) scopriamo che la guida spirituale dei Vecchi Credenti è un ex-principe convertitosi all’abito talare, cosa che gli altri due principi sembrano considerare inappropriata per un nobile. Adesso (31’28”) comincia la discussione politica e Dosifej chiede ai due nobili se hanno compreso le ragioni del malessere che affligge la Russia e dei rimedi da mettere in campo. Golicyn va subito al sodo e chiede (32’19”) dove sono le forze popolari per compiere l’impresa; alla risposta di Dosifej che lamenta come il popolo cristiano sia allo sbando, Golicyn considera chiusa la discussione (32’54”). Invece è Chovanskij (33’02”) che si propone senza mezzi termini come salvatore della patria (e futuro capo supremo!)

Adesso inizia un battibecco fra i tre: Dosifej (33’27) vorrebbe un governo che ripristinasse le antiche tradizioni, e si infervora contro Golicyn che dichiara di non seguirle affatto, accusandolo addirittura (34’02”) di essere un amico dei nemici teutonici (la musica si fa pesante, come una marcia dei tedeschi!); Chovanskij (35’01”) prende la palla al balzo e rincara la dose contro Golicyn; ma Dosifej (35’34”) ne ha anche per lui, accusandolo di consentire ai suoi Strelcy comportamenti contrari alla religione e alla morale. Golicyn (36’25”) sostenuto dal suo tema nobiliare cerca di riportare la calma, ma in quel momento (36’40”) un canto si ode in lontananza: sono i Monaci Neri di Dosifej che vantano le loro vittorie sui seguaci di Nikon, il patriarca modernizzatore, secondo loro colpevole di eresia. Mentre il canto si fa più forte (i Monaci passano nelle vicinanze) Dosifej (37’18”) si vanta di loro, come gli unici coraggiosi che osano sfidare il potere, e anche Chovanskij (ben felice di poterli strumentalizzare) si associa all’elogio, mentre Golicyn li definisce (38’33”) come dei settari (raskol).

Qui si rischierebbe un’altra baruffa se non arrivasse un nuovo colpo di teatro, protagonista (38’46”) la rediviva Marfa. Accolta da Golicyn come un strega, difesa da Chovanskij e onorata da Dosifej, Marfa (39’06”) racconta la sua avventura: il tentato omicidio perpetrato nei suoi confronti, che lei ha fortunosamente sventato, e poi, su una musica improvvisamente fattasi solenne, da concitata che era, l’arrivo (39’48”) dei soldati dello zar Pietro. (Anche questa, che Pietro avesse un esercito, è cosa storicamente inverosimile, almeno per l’anno 1682: la cosa si materializzò quasi 10 anni dopo.) Questa notizia piomba come una tegola sugli astanti (39’58”) subito dopo interrotti ancora da Varsonofev, che annuncia seccamente (40’03”) l’arrivo, del tutto inaspettato, di Šaklovityj!

I tonfi (archi, ottoni e timpani) che si odono in orchestra (40’08”) preparano il clamoroso annuncio del boiaro: è stata sporta denuncia contro i Chovanskij (lui deve saperne qualcosa, nevvero?) con l’accusa di tramare un colpo di stato. Aggiungendo che lo zar Pietro (che anche qui evidentemente non può avere solo 10 anni) ha sprezzantemente definito la faccenda come una chovanščina... (ecco da dove viene il titolo dell’opera!) e ha ordinato di mandarli a processo.

L’atto, nelle intenzioni di Musorgski, avrebbe dovuto concludersi con un classico numero da melodramma, un quintetto (magari... concertato) con i 5 personaggi in scena in quel momento. Ma la cosa rimase (per fortuna?) un’idea sulla carta. Abbiamo già visto come invece lo chiude Shostakovich: con 11 battute di strombazzamenti, evocanti lo zar.

Un atto che pone le premesse per la rovina di almeno due dei protagonisti: il destino preconizzato a Golicyn da Marfa e la caduta in disgrazia dei Chovanskij. In più, l’entrata in campo di un esercito (prima inesistente) direttamente al servizio del giovane zar modernizzatore prefigura la sconfitta finale di tutte le forze (politiche e religiose) che a tale modernizzazione cercano di opporsi.

Nel Terzo Atto si ritorna in piazza, tra la gente, come nel primo. E si assiste ad altre tappe del lento ma inesorabile cammino che porterà alla finale tragedia.

Per la verità la prima scena sembrerebbe lasciar pensare il contrario: dopo la breve introduzione strumentale, sono ancora (36”) i Monaci Neri (ascoltati proprio alla fine dell’atto precedente) che continuano a sfilare in processione fra due ali di folla, cantando sulla stessa melodia inni di vittoria e di trionfo sui nemici (i seguaci del riformatore Nikon). Questo entusiasmo ha francamente del bizzarro, non essendo supportato da alcun elemento concreto: si può solo interpretare come l’espressione di un fanatismo cieco, da parte di individui che hanno perso totalmente il contatto con la realtà.

Una lunga cadenza accompagna i monaci che si allontanano, mentre l’obiettivo della cinepresa si sposta (3’06”) su Marfa, accovacciata presso la dimora del suo amato (e fedifrago) Andrej. Ricorda (3’29”) cantando la sua famosa canzone i bei giorni della giovinezza, l’incontro con colui che adesso l’ha scaricata. Ma lei prefigura la fine in sua compagnia, fra le fiamme purificatrici: sarà per lui la punizione per aver abbandonato la raskolnika. La canzone consta di 6 quartine, in SOL maggiore, su una struggente melodia:



Della canzone esiste una versione precedente a questa impiegata nell’opera, che Lamm ha pubblicato in appendice al suo lavoro, tutta in FA maggiore. Musorgski ne produsse anche una versione orchestrata, che Shostakovich ha però ignorato (non così Abbado) spesso scambiando archi e fiati nell’accompagnamento.

Certo, una melodia di tutto rispetto, non c’è che dire... ma ascoltarla per sei volte di fila, sempre uguale a se stessa (e verrà ripetuta altre tre volte fra poco!) può diventare persino esasperante. Non sarà mica per questo, mi si passi la battuta di basso livello, che una bigotta stagionata, tale Susanna, avendo ascoltato le sue reiterate esternazioni, aggredisca Marfa (6’53”) con rimproveri e improperi sempre più astiosi? (Di questo scontro fra le due donne esiste un’altra versione un poco più lunga, che Lamm ha pubblicato in appendice alla sua edizione.) Marfa, quasi a girarle il coltello nella piaga, le risponde (8’12”) intonando ancora la sua cantilena, adesso in FA maggiore, accusandola di averla spiata per carpire i suoi segreti. Il corno inglese (9’55”) tiene un RE che introduce una nuova esternazione di Marfa, su una melodia la cui grandissima nobiltà è pari alla disarmante semplicità, in MIb minore:


Vi è espresso tutto il dolore di Marfa per l‘amore perduto; e riascolteremo questo tema anche più avanti. Poi, sovrapponendosi ad altre imprecazioni dell’anziana, lei ricanta (11’37”, con testo appena modificato e sempre in FA maggiore) la quarta delle sei quartine della sua canzone.  

Susanna prosegue con le sue violente rimostranze (12’15”) e con promesse di vendetta -  scandite da proterve frasi musicali che cadono come pietre - che arrivano a prefigurare per Marfa il rogo! (Ma sappiamo che il rogo è per Marfa ormai la meta da raggiungere...) Le due verrebbero alle mani se non intervenisse provvidenzialmente (12’50”) Dosifej, che cerca, con la sua consueta autorità (anche musicale!) di convincere Susanna sulle buone intenzioni di Marfa, ma senza risultato. Anzi, la vecchia credente riprende più che mai le sue accuse alla giovane (riudiamo le pesanti frasi musicali di poco prima). Inutilmente Dosifej cerca di calmarla e allora, dopo che quell’invasata (15’03”) ha ripetuto la sua volontà di non cedere, Dosifej la accusa nientemeno che di idolatria, le prefigura l’inferno e la scaccia senza complimenti.

Poi (16’17”) si rivolge a Marfa invitandola ad operare per la salvezza della Russia. La donna ripete la sua disperazione per essere stata abbandonata da Andrej, poi (17’10”) riprende la cantilena della sua canzone (è alla nona esposizione! qui in LAb maggiore) profetizzando la sua riunione con l’amato nelle fiamme di un fuoco purificatore. Dosifej inorridisce all’idea, ma la donna (18’14”) riprendendo il tema (udito poco prima) del suo amore perduto, confessa la sua colpa (forse la tirata di Susanna ha avuto qualche effetto su di lei...) di aver infranto le leggi divine con il suo amore impuro e perciò di meritare la punizione: la morte del corpo come condizione per la salvezza dell’anima. Dosifej (19’33”) profondamente colpito, la compiange e le chiede perdono (pare qui di udire - 20’24” - un motivo del parsifaliano Gurnemanz) invitandola ad amare. Poi la trascina via.

Ecco ora (20’51”) un intermezzo abbastanza inaspettato: assistiamo infatti all’inopinata entrata in scena dell’indecifrabile Šaklovityj, che avevamo fin qui conosciuto come delatore e mestatore (e come tale tornerà a manifestarsi nell’atto successivo) protagonista invece di un’accorata esternazione (un colossale e articolato arioso in piena regola): il nostro prega Dio di salvare la grande Russia, che in passato ha saputo domare i Tartari e poi difendersi dalle prepotenze dei boiari, ma che adesso è ancora in balìa di mercenari stranieri che minacciano di sottometterla. Vien da chiedersi se i suoi siano sentimenti genuini, come suggeriscono peraltro il testo e la mirabile musica, oppure se si tratti - dato il tipo - di un atteggiamento ipocrita...

È passato mezzogiorno e - bontà loro - gli Strelcy si sono svegliati e (25’40”) irrompono in strada, suscitando la reazione sprezzante di Šaklovityj, che già pronostica la loro fine. Gli armigeri di Chovanskij si galvanizzano vicendevolmente cantando le loro turpi imprese e ubriacandosi di primo pomeriggio. Il loro canto assume forme goliardiche, come questa (26’24”) in SOL maggiore, quando invocano del vino:


Il canto si fa - (27’40”) pur senza mutazioni agogiche - più incalzante allorquando gli Strelcy si preparano alle loro scorribande attraverso Mosca. Si conclude (per ora) restando sospeso su un accordo tenuto di dominante che accompagna il loro sbalordimento di fronte all’arrivo in strada (28’12”) delle loro donne! 

Costoro li aggrediscono subito, rimproverando aspramente le loro malefatte e la loro irresponsabilità e augurandosi che finiscano sulla forca! Nasce un gigantesco battibecco fra mogli e mariti, i quali non trovano di meglio che cercar di ridurre al silenzio le donne attraverso uno stratagemma. Consistente nell’abbindolarle con la musica! E all’uopo chiamano (29’37”) una nostra vecchia conoscenza, Kuzka (quello che aveva aperto la prima scena dell’opera) che viene incaricato di calmarle mettendosi a cantare. Lui si schermisce poi imbraccia una balalaika e - contrappuntato dai commilitoni (30’33”) - attacca una canzone in FA# minore, una filastrocca in realtà, in cui si accusa una donna (la calunnia) di usare il pettegolezzo per rovinare la vita alle famiglie. Sulla stessa melodia martellante anche le donne (31’14”) si associano al canto, ripreso dai maschi (31’32) e quindi di nuovo (31’51”) dal solista Kuzka (seguito dagli uomini contrappuntati dalle femmine) che infine emette la sentenza di condanna contro la calunnia.

Chiusa la baraonda mogli-mariti, ecco l’atmosfera cambiare radicalmente (32’36”): sono i fiati con terzine sincopate ad evocare mirabilmente la corsa trafelata di qualcuno che sta arrivando da quelle parti in preda al panico. Si tratta di un altro personaggio già incontrato all’inizio dell’opera, lo scrivano! Perchè stia fuggendo a quel modo lo spiega agli increduli Strelcy, che provano a prenderlo in giro. Ma lui ha notizie davvero tremende e racconta (34’20”) con un canto triste ed accorato (viene dal Boris...): stava tranquillamente scrivendo una lettera quando un gran fracasso e scalpitio di cavalli ha annunciato l’arrivo di un banda di mercenari, che hanno cominciato a devastare tutto! Gli Strelcy ancora non gli credono, lo prendono un po’ in giro, ma lui (35’58”) rincara la dose: al fianco dei mercenari sono intervenuti i soldati di Pietro, che hanno sopraffatto un contingente di Strelcy! Adesso Strelcy e mogli cominciano a capire (36’20”) e la musica che aveva accompagnato l’arrivo dello scrivano trasferisce a loro ansia e paura. Così non gli resta che piangere...

Dopo che lo scrivano si è allontanato (37’01”) con un sibilante via!, è ancora Kuzka a prendere l’iniziativa: qui si deve interpellare il grande capo Chovanskij e prendere ordini da lui. Il coro degli Strelcy e relative mogli attacca (37’28”) una grandiosa implorazione in MIb minore, invocando il capo a mostrarsi e ad esprimersi. Gli archi la chiudono virando dolcemente a MIb maggiore, così introducendo l’apparizione (39’57”) di Ivan Chovanskij, uscito dalla sua abitazione. Dapprima il capo chiede la ragione di questa adunanza e della sua chiamata. Strelcy e mogli lo informano dell’arrivo dei soldati di Pietro e dei mercenari, aspettando ordini da lui. Per tutta risposta (40’55”) lui li invita (toh!) a tornarsene a casa ad aspettare gli eventi! Qui pare chiaro che persino il tronfio Chovanskij ormai la dia per persa: anche la musica che lo sostiene è ben lontana dalla protervia che lo caratterizzava da sempre; e persino il suo tema, da minaccioso e truce si è fatto timido, vagando quasi inudibile dai legni agli archi. Ai poveracci non resta (42’19”) che invocare protezione e misericordia, con un toccante coro a cappella. 

Il Quarto Atto è per certi versi (il primo quadro) speculare al secondo: siamo nella lussuosa residenza (che più russa non si può...) di Ivan Chovanskij, il quale cerca di dimenticare le nuvole che si addensano al suo orizzonte con i piaceri della buona tavola e delle... belle donne!

L’introduzione strumentale ci presenta il bel tema russo (in SOL# minore) preso di peso da una raccolta di canti popolari, che poi (56”) caratterizzerà il canto delle contadinelle, una canzoncina triste che il padrone di casa (2’12”) trova evidentemente insopportabile, parendogli (presentimento freudiano?) un mortorio! Così, ancora accompagnato dal suo tema letteralmente avvizzito, chiede che cantino qualcosa di allegro, e le sue contadinelle (3’48”) attaccano una gaia filastrocca in FA maggiore, che pare più gradita al padrone. Il quale chiede di accelerare ancora il ritmo, ma alla fine della strofa l’orchestra si blocca (4’13”) su un poderoso accordo di sesta tenuto dagli ottoni: c’è un intruso che è arrivato a disturbare il divertimento del principe.

Si tratta di un emissario di Golicyn, venuto lì per avvertire Chovanskij di imminenti e non meglio precisati pericoli. Il boiaro lo liquida all’istante (4’47”) sicuro che in casa sua nessuno potrà dargli fastidio. E così (5’44”) fa gettare il messaggero agli stallieri e chiama le danzatrici persiane per dimenticare tutte queste rogne! Qui (6’13”) abbiamo il balletto stile grand-opéra (evidentemente anche Musorgski - così come Borodin - aveva le sue debolezze...) Sono un paio di temi, rielaborati di continuo, a caratterizzare l’intero balletto:


Il primo tema (tonalità FA# minore) è una melodia davvero orientaleggiante, esposta all’inizio dal corno inglese, poi ripresa via via dall’orchestra, con piccole varianti. Il secondo motivo (appare a 9’14”) è più vivace e in tonalità maggiore (SOL). A 9’39” ne udiamo una variante agitata in MIB minore, che si alterna due volte con la ricomparsa del tema in SOL il quale porta ad una momentanea pausa di rilassatezza. Rotta (10’39”) da un nuovo sommovimento del tema, passato a FA maggiore. Il primo tema torna (11’11”) sempre in FA# minore, poi va adagiandosi fino a sfociare (12’10”) nel secondo, tornato a SOL maggiore, ma adesso ancor più concitato. Un’ultima sua esposizione (12’37”) porta direttamente (12’48”) alla forsennata cadenza conclusiva.

Nessuno si è accorto che un nuovo intruso (13’21”) si è introdotto in casa Chovanskij: è ancora una volta il mefistofelico Šaklovityj, che comunica (13’38”) al padrone di casa la convocazione presso la zarevna Sofia, al Kremlino: Sofia lo vuole per un importante Consiglio di Stato. Chovanskij dapprima snobba l’invito, poi si fa convincere (14’35”) quando Šaklovityj gli fa presente che la zarevna ritiene indispensabile la sua presenza. Ordina allora (15’00”) i suoi abiti da cerimonia, bastone principesco incluso, e chiede alle contadinelle di cantare le sue lodi.

Queste riprendono perciò (15’22”) il loro canto, una delicata melodia in SOL maggiore, quasi una ninna-nanna, dove si glorifica il cigno bianco (così il popolo acclamava Chovanskij):


Ma proprio all’inizio della quarta strofa il padrone viene pugnalato alle spalle (17’06”) e tira le cuoia, sotto lo sguardo beffardo di Šaklovityj, che ha pure la faccia tosta di cantargli in faccia (17’14”) il verso finale della filastrocca! (Notiamo di passaggio che questo personaggio scompare dalla scena insieme al morto: d’ora in poi se ne perdono totalmente le tracce.)

Il secondo quadro è ambientato davanti SanBasilio. La musica che lo introduce (17’53”) tonalità di MIb minore, annuncia disgrazie, e infatti i violini seguiti dai fagotti espongono un tema da marcia funebre che è derivato strettamente da quello della profezia di Marfa a Golicyn, nel second’atto. Profezia infallibilmente materializzatasi: un carro sgangherato sta portando verso l’esilio il principe, evidentemente caduto in disgrazia, proprio come pronosticatogli da Marfa. I moscoviti (19’13”) provano pietà per quel poveraccio, mentre la musica (20’20”) accompagna il carro che si allontana.

Sulla piazza c’è anche Dosifej, che non manca (21’26”) di esternare il suo compianto, estendendolo a quello per Chovanskij, vittima della sua stessa boria, e al di lui figlio Andrej. Arriva Marfa (23’02”) alla quale Dosifej (su una musica simile a quella con cui aveva accolto la donna nel terz’atto) chiede conto delle decisioni del Gran Consiglio. La risposta di Marfa è tremenda: i Vecchi Credenti sono banditi e i mercenari hanno l’ordine di sterminarli! Ora anche Dosifej (23’54”) è convinto che a loro resti solo l’estremo sacrificio, e lo esprime con il suo tipico gesto musicale aulico ed autorevole. Poi (24’19”) invita Marfa ad occuparsi di Andrej e la lascia (24’43”) con la stessa esortazione (parsifaliana) con la quale si era congedato da lei nell’atto precedente. A sua volta Marfa (25’10”) su un tema di grande espressività (tornerà a farsi udire nell’ultimo atto) di sole 7 battute sembra esultare per l’avvicinarsi del momento fatale, quello del sacrificio fra le fiamme:


Andrej arriva proprio in quel momento (25’30”) e qui assistiamo ad un violento scontro fra i due ex-amanti, mirabilmente caratterizzato in musica: lui con esternazioni agitatissime, lei con calma e fermezza, su un ritmo quasi marziale. Lui la investe di improperi e le chiede dove nasconda la sua Emma! Lei lo informa (26’01”) che se la sono portata via in mercenari per farla riunire ai suoi compatrioti e al suo fidanzato. Lui non le crede e minaccia di denunciarla e farla arrestare dai suoi Strelcy. Marfa lo irride e poi lo informa della morte del padre e del mandato di cattura che pende anche sulla sua testa. Lui continua a non crederle e a minacciare di farla arrestare, così lei lo sfida a chiamare i suoi Strelcy, cosa che lui fa (28’40”) suonando il suo corno. E gli Strelcy arrivano, come no, seguiti dalle mogli sempre inferocite (come nel terz’atto); peccato che siano in catene ed in procinto di essere giustiziati, come annuncia il campanone a martello! Ad Andrej (29’22”) non resta che supplicare Marfa di salvarlo, e lei non vede l’ora di portarselo via, promettendogli di nasconderlo in un posto sicuro.

Qui si deve aprire una parentesi di natura macabro-orripilante, che riguarda le modalità di esecuzione dei condannati. Leggendo il testo originale di Musorgski (come riportato da Lamm, ma non interamente da Rimski, nè presente nel quaderno blu dell’Autore) si apprende che i condannati recano con sè ceppi e scuri (in realtà le loro bardiche, specie di alabarde); scuri che depongono sui ceppi con la lama rivolta in alto, inginocchiandosi poi davanti ai ceppi e quindi chinandosi sui medesimi. ? che significa questa messinscena? Ceppi e scuri in abbondanza parrebbero davvero uno spreco se il giustiziere fosse un unico boia... E poi, dal particolare delle lame rivolte in alto (una ghigliottina a rovescio) cosa si deve dedurre? Ecco, documenti su quel periodo storico (che Musorgski aveva consultato per ideare l’opera) riportano che in quegli anni, per velocizzare esecuzioni di massa, fu inventato il sistema dei due tronchi, consistente nel porre un tronco d’albero per terra, su cui deporre le scuri con le lame rivolte verso l’alto, sulle quali far appoggiare il collo dei giustiziati, inginocchiati fianco a fianco davanti al tronco. A questo punto un secondo pesante tronco veniva violentemente calato fra capo e collo dei malcapitati, e il gioco era fatto. Pare che il geniale meccanismo fosse collaudato proprio in occasione dell’esecuzione degli Strelcy del 1698, con ben 50 teste mozzate contemporaneamente!

Ma torniamo a... bardica. Dunque le mogli dei soldati (29’53”) invocano a gran voce (e per la verità con un canto assai scomposto) la più severa delle punizioni per i fedifraghi mariti, che invano - adesso! - chiedono pietà, perdono e misericordia. In lontananza si ode ora (30’20”) uno strombazzamento che si interpone fra i cori di Strelcy e mogli, finchè (31’22”) ecco comparire - dagli ottoni nella buca d’orchestra e da quelli dietro le quinte - un tema marziale ed eroico, in LAb maggiore, poco dopo (31’55”)  ripreso a piena orchestra, che rappresenterà d’ora in avanti le milizie di zar Pietro:


Tornano gli squilli di tromba (32’40”) e si fa largo un araldo (Strešnev) per annunciare che gli zar hanno concesso la grazia ai condannati, invitando tutti a tornare alle proprie case. Pietro passerà in rassegna le sue milizie al Kremlino!   

Ormai la storia ha imboccato la sua nuova strada. Non resta ora che accompagnare la vecchia Russia verso le fiamme purificatrici.    

Siamo quindi (Atto quinto) all’estrema testimonianza di fede dei Vecchi Credenti. L’introduzione strumentale in RE minore è affidata ai soli archi in unisono, che espongono una specie di moto perpetuo, che in realtà evoca leggere folate di vento che muovono nella notte di luna le cime dei pini di un bosco vicino all’eremo dei Vecchi Credenti (Musorsgki ne parlava - affinità elettive con Wagner, pur senza conoscersi - come di mormorio della foresta!):


E non può essere quindi che Dosifej (1’44”) ad aprire l’atto, con un nobile e accorato appello (sempre RE minore) ai suoi fedeli. Poi chiede rispettivamente a monaci (5’31”) e monache (6’34”) di prepararsi alla suprema testimonianza di fede nel Creatore. Quindi (7’35”) li invita ad indossare candide vesti e ad accendere ceri. Tutti (8’09”) si avviano verso il bosco, dal quale poi escono cantando i timori per il ritorno di Satana e le implorazioni al Signore. Lo fanno con un grande coro in modo frigio dalla pesante scansione marziale (MI-LA) rotto da un paio di grida allarmate, per l’arrivo dei nemici e della morte. (Qui termina - 11’34” - il libretto - quaderno blu - di Musorgski. Ma lo spartito prosegue, e per parecchio ancora...)  

Ora è Marfa a tornare sulla scena, con una toccante esternazione in RE minore (Lamm informa che di questa e del successivo dialogo con Andrej, Musorgski ha lasciato solo la melodia, armonizzata da Asafiev) dove canta il suo perenne dolore per il tradimento di Andrej e la sua volontà di salvarlo. Si noti la frase a 12’05”, che anticipa quella che Marfa canterà (un semitono sopra) al momento di invitare Andrej al sacrificio. E proprio Andrej si ode in lontananza (13’05”) vagare nel bosco, con un canto straniato (LAb) caratterizzato da grandi intervalli, come singhiozzando, mentre invoca ancora la sua amata, della quale pronuncia il nome poco dopo (14’21”) entrando a sua volta in scena: Emma! Marfa lo accoglie con dolcezza, su una variante in RE maggiore del tema del suo amore (comparso nell’atto precedente) ricordandogli i bei tempi della loro unione e descrivendo come un brutto sogno il suo successivo abbandono. Andrej ora (15’13”) pronuncia il suo nome (Marfa!) proprio sulle stesse note (MI-SI) con le quali aveva poco prima invocato Emma... E Marfa, riprendendo in FA# minore il tema del suo dolore per l’amore perduto (udito durante il confronto con Susanna nel terz’atto) gli promette di non abbandonarlo. Poi (15’45”) modula a REb maggiore e - ancora sulla variante del tema del suo amore - gli ricorda le sue ardenti parole, prima che una nera nube offuscasse la sua vita (16’28”, ancora il tema del suo dolore). E chiude (16’47”): adesso è arrivata l’ultima ora, alleluja!

Si sentono ora (17’13”) nelle vicinanze le trombe dell’esercito di Pietro. Dosifej le annuncia ai suoi fedeli come le trombe del giudizio, e li invita all’estremo sacrificio. Ma è ancora Marfa a tenere la scena, poichè deve convincere Andrej a condividere con lei l’ora suprema. Attacca quindi (17’43”) un’aria in MIb minore (quella ritrovata da Rimski e ignota a Lamm) dove riprende il motivo esposto alla sua entrata in scena, avvertendo Andrej che ormai per loro non v’è più scampo ed esortandolo a riunirsi a lei, poichè il destino li ha indissolubilmente legati. Andrej (18’56”) altro non sa fare se non manifestare angoscia e timore, e allora Marfa (19’08”) sempre sulla stessa melodia lo prende per mano e poi, mentre la tonalità sfuma a MIb maggiore, lo conduce verso l’immensa pira che li accoglierà, insieme a tutti i fedeli: così finalmente saranno uniti per sempre.

Le trombe dell’esercito di Pietro (20’20”) si sono ancora avvicinate e i raskolniki, quasi invasati, cantano a squarciagola le lodi del Signore, imitati e poi accompagnati da Dosifej, che innesca (20’56”) una mirabile discesa cromatica, chiusa in MIb maggiore, mentre Marfa attizza l’immane rogo, verso il quale tutti si avviano gioiosi.

A questo punto nelle carte di Musorgski ci sono gli ultimi tre fogli con l’abbozzo del conclusivo coro dei raskolniki. Rimski ha predisposto da qui il suo finale (che Shostakovich ha fatto proprio, estendendolo ulteriormente) a partire dalla scrittura delle lingue di fuoco (21’19”) che si sprigionano sempre più alte, evocate dalle veloci quartine di semicrome dei primi violini, mentre tutti cantano il grande coro, in LAb minore, contrappuntati dagli squilli di trombetta dei soldati zaristi. Marfa ancora (22’35”) esorta Andrej a ricordare il loro amore, ma lui fino all’ultimo invoca Emma, mentre Dosifej esala il suo amen!

Mentre il sacrificio di massa si compie, arrivano in primo piano (22’46”) i militari di Pietro, con il loro inconfondibile tema, che volge a modo maggiore il LAb minore del coro. Shostakovich qui aggiunge al finale di Rimski la sua parte. Dopo il penultimo squillo di Rimski, che si appoggia ovviamente sul LAb, Shostakovich, omettendo le quattro battute della chiusa, fa eseguire un nuovo squillo (23’02”) che si appoggia alla terza maggiore (DO). Da qui si dipartono tre battute di transizione, caratterizzate da un motivo discendente in archi e fiati; poi (23’15”) gli archi bassi riprendono il motivo della foresta che ha aperto l’atto (qui in tempi dilatati) per lasciar posto (23’36”) al canto di un gruppo di moscoviti sopraggiunto nel frattempo: è lo stesso canto - carico di pessimismo e rassegnazione - già udito nel primo atto (dopo che lo scrivano aveva spiegato il contenuto della grida affissa in piazza). La chiusura (24’52”) è però affidata, come un ritorno alle origini, al tema (qui in FA maggiore) dell’alba sulla Moscova.
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Prossimamente esamineremo altre due esecuzioni basate sulla versione-Shostakovich e una che si basa sulla versione-Rimski.
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(3. continua...)  

18 febbraio, 2019

La Chovanščina in arrivo alla Scala (2)


Si è detto: Chovanščina opera incompiuta. Dato che però in teatro, fin dal 1866, essa viene rappresentata in tutto il mondo, sarà opportuno scoprire in quale modo si è arrivati ad averne una versione (anzi, oggi più di una versione) completa e rappresentabile.

Innanzitutto: cosa ci ha lasciato Musorgski? Una montagna di manoscritti, oggi custoditi nelle biblioteche russe o presso privati, tutti corredati dalla data di completamento, che riportano la concezione dell’opera, le fonti storiche consultate e - soprattutto - lo spartito canto-pianoforte delle singole componenti (qualcosa di vagamente assimilabile a numeri nella tradizionale strutturazione del melodramma) la cui sequenza di produzione fu tutt’altro che rettilinea, richiedendo non meno di 8 anni. Preziosa per l’interpretazione delle volontà del compositore è la gran messe di informazioni - relative alla composizione dell’opera - contenuta in numerose lettere scritte da Musorgski allo sponsor Stasov e ad altri amici e conoscenti.

Il materiale originale è incompleto, mancando (rispetto alle dichiarate intenzioni dell’Autore) di due finali (Atto II e Atto V) e dell’orchestrazione, della quale Musorgski ha lasciato solo due brani dell’Atto III: la canzone di Marfa e il Coro degli Strelcy. Quindi stiamo messi ben peggio rispetto ai due Boris, che Musorgski aveva passabilmente completato (soprattutto il secondo). Qui, oltre a completare i due finali d’atto citati, per rendere l’opera rappresentabile era necessario inventarne quasi per intero la strumentazione!

E a questo pensò, ancora una volta, Nikolai Rimski-Korsakov, che si accollò l’immane compito, facendo pubblicare nel 1883 la sua ricostruzione e riuscendo a far rappresentare l’opera già nel febbraio del 1886. É la versione che successivamente ha girato i principali teatri del pianeta, decretando il successo dell’opera, ed è stata oggetto di diverse registrazioni.


Ma inevitabilmente l’intervento di Rimski si portò dietro (proprio come - e più che - per il Boris e per la Notte sul Monte Calvo) le sue impronte inconfondibili, consistenti nel tagliare senza pietà interi passaggi ritenuti carenti e nel rivestire la musica di Musorgski di una (per noi assai accattivante, ammettiamolo) patina di romantica occidentalità; interventi così marcati da quasi stravolgere i tratti somatici - da lui evidentemente ritenuti rozzi e primitivi - dell’originale. Più avanti seguiremo sommariamente una registrazione di questa versione, alla quale va riconosciuto comunque il grande merito di aver fatto conoscere al mondo l’opera fin dalla sua nascita.    

Nel 1913 Diaghilev la mise in scena a Parigi e per l’occasione - ritenendo la versione di Rimski nientemeno che un attentato alle volontà di Musorgski, del quale aveva dato un’occhiata ai manoscritti - chiese a Stravinski (che poi fece coinvolgere nell’impresa anche Ravel) di strumentarla ex-novo. Cosa che non accadde se non in minima parte; in particolare Ravel riorchestrò (Atto I) la scena dei moscoviti che bistrattano lo scrivano; poi (Atto III) la canzone di Kuzka e degli Strelcy. Quanto al compositore russo, riorchestrò (Atto III) l’aria di Šaklovityj (affibbiata per l’occasione a... Dosifej, in modo da farla cantare al grande Šaliapin) e (atto V) riscrisse, ampliandone le dimensioni, il coro finale:


Quest’ultima parte è stata impiegata nella produzione di Claudio Abbado a Vienna nel 1989, di cui parleremo.

Per fortuna ci fu chi (Pavel Lamm, nel 1931) si prese l’incarico di raccogliere, sistemare e pubblicare tutto il materiale originale (disponibile a quel tempo) di Musorgski, mettendo quindi anche altri compositori nelle condizioni di completare ed orchestrare il lavoro.


Per la verità anche l’edizione di Lamm lascia aperti alcuni dubbi, relativi a correzioni e/o tagli apportati sui manoscritti originali da mani che sembrerebbero a volte quelle del compositore, ma a volte del tutto estranee. In questi casi, Lamm ha pubblicato tutto, corredandolo di note a piè pagina.

Il primo a cimentarsi nella strumentazione, e a stretto giro, fu il noto musicista-musicologo Boris Vladimirovich Asafiev, collaboratore di Lamm, il cui lavoro - pesantemente criticato ai suoi tempi da una specie di giuria di musicisti coinvolta dallo stesso Lamm - è fatalmente caduto nel dimenticatoio (leggasi: l’Archivio russo di Stato della Letteratura e delle Arti, RGALI) e da lì nessuno finora si è premurato di riportarlo alla luce e tanto meno alle scene. 

A complicare ulteriormente le cose, molti anni dopo l’edizione di Lamm (precisamente nel 1946) fu rinvenuto fra le carte di un poeta amico di Musorgski (Arseny Arkadyevich Goleníshchev-Kutúzov) un manoscritto del compositore (denominato quaderno blu e pubblicato nel 1972) contenente una specie di bella copia del libretto, preparata dall’autore verosimilmente dopo la composizione. In tale manoscritto mancano alcune parti presenti nello spartito (pubblicato da Lamm). La conclusione che i musicologi (e anche alcuni direttori) traggono è che Musorgski medesimo avesse deciso questi tagli, senza però aver avuto modo o tempo o voglia di retro-applicarli anche allo spartito: di conseguenza andrebbero scrupolosamente rispettati. Conclusione peraltro contestabile, chè se per assurdo si dovesse seguire come vangelo il quaderno blu, allora l’opera si dovrebbe interrompere dopo le prime invocazioni di Dosifej e raskolniki, e prima dell’entrata in scena di Marfa: in pratica, verrebbe a mancare l’intero finale e non solo la sua chiusa!

Chi invece portò a termine l’impresa di strumentazione (e completamento) fino alla pubblicazione della partitura, fu Dimitri Shostakovich. Il quale nel 1940 si era cimentato nella ri-orchestrazione del Boris per adattarlo agli enormi spazi del Bolshoj, ma con esito francamente deludente (un lavoro caduto totalmente nel dimenticatoio) e invece nel 1958 approntò la sua versione dell’opera (con un finale di sua ideazione) che è unanimemente ritenuta quella che più si avvicina alle (o che meno si discosta dalle, se si preferisce) presunte intenzioni di Musorgski, tanto che da allora ha cominciato a circolare nei teatri ed è stata più volte incisa su disco e video.


Shostakovich adottò in-toto il materiale pubblicato da Lamm che, come detto, contiene anche le parti cancellate sui manoscritti originali e quelle non riportate da Musorgski nel quaderno blu. Tutto ciò ha come inevitabile conseguenza quella di ingenerare approcci diversi all’esecuzione: c’è chi segue comunque l’edizione completa di Lamm(-Shostakovich) e chi invece (Abbado fu tra i primi) applica alcuni di quei tagli ritenendo che rispecchino le ultime volontà dell’Autore.

Già nel 1959 fu girato un film basato sulla versione-Shostakovich, film peraltro caratterizzato da generose sforbiciate, con la musica diretta da Evgenij Svetlanov. In teatro, la prima rappresentazione di questa versione ebbe luogo venerdi 25 novembre 1960 al Kirov di Leningrado sotto la bacchetta di Sergey Yeltsin. Essa fu poi impiegata a Sofia nel 1986 (ne parleremo); nel 1989, come detto, Claudio Abbado presentò a Vienna questa versione con il finale di Stravinski. Dal 1990 è stato Valery Gergiev a impiegare regolarmente (anche se con qualche... ritocco) la versione-Shostakovich, che fu oggetto anche delle rappresentazioni da lui dirette nel 1998 alla Scala. Ed altri teatri hanno seguito l’esempio, con produzioni più o meno fedeli a questa versione.

Riassumendo: oggi esistono sul mercato (cioè pubblicate ed utilizzabili da chiunque) due versioni principali dell’opera: quella di Rimski del 1883 e quella di Shostakovich del 1958 (la terza versione orchestrata, quella di Asafiev, come detto è rimasta lettera morta.) In più è disponibile il materiale di Stravinski impiegato da Abbado nel 1989 per il finale dell’opera.
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E del finale dell’opera ci occupiamo tra poco, descrivendone le quattro diverse forme. Prima però diamo una scorsa alle tre versioni dell’altro finale, quello dell’atto secondo, pure rimasto incompiuto. Quell’atto si chiude, nel manoscritto originale, con la notizia data da Šaklovityj dell’indagine che lo zar Pietro ha ordinato sui Chovanskij, a fronte della denuncia anonima (ma in realtà di mano dello stesso Šaklovityj) arrivata contro di loro: addirittura vi manca l’ultima battuta di musica, aggiunta da Lamm. Evidentemente Musorgski, che sappiamo come nell’iter di composizione saltasse di palo in frasca, deve aver lasciato in sospeso quel finale (per il quale era incerto fra una semplice ma sinistra cadenza orchestrale e un... quintetto!) proponendosi di completarlo successivamente, cosa che evidentemente non è avvenuta.

Rimski invece - come Stasov convinto assertore della grandezza storica di Pietro il Grande - ha pensato bene di chiudere l’atto aggiungendo di sua iniziativa il motivo dell’alba sulla Moscova (dal Preludio) probabilmente come riferimento ideale e allegorico all’avvento al potere dello zar innovatore.

Shostakovich è stato ancora più esplicito, aggiungendo da parte sua una fanfara che si ritroverà anche più avanti (atto IV e V) e che caratterizza musicalmente le truppe di Pietro.

Abbado ha scelto invece un’altra soluzione ancora, forse più vicina alle... incertezze di Musorgski, copiando qui (trasposte da MIb a RE minore) 5 battute di musica mesta e lugubre che si ritroveranno verso la fine dell’Atto III, al momento dell’invito di Chovanskij a Strelcy e consorti a tornarsene a casa.
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E ora, il finale dell’opera, che merita un discorso assai articolato, data la sua importanza non soltanto musicale. Di esso esistono (ad oggi) quattro versioni pubblicate: originale di Musorsgki (1880, incompleto e non strumentato, pubblicato da Lamm nel 1931); Rimski (1883); Stravinski (1913) e Shostakovich (1958). 

Cominciamo ovviamente da Musorgski (e da Lamm che si è limitato a metterlo in bella copia). Dopo l’incontro fra Marfa e Andrej, la scena finale si apre con gli squilli di tromba (i soldati di Pietro) e l’appello di Dosifej: sono le trombe dell’Eterno che ci chiamano al sacrificio nel fuoco, proclama il santone.

Qui si inserisce una seconda parte del dialogo fra Marfa e Andrej (lei invita l’amato a seguirla al sacrificio) che Lamm non ha trovato tra i manoscritti di Musorsgki (quindi non è presente nella sua edizione). Tuttavia l’Autore ne parla in una delle sue lettere (come detto, durante gli anni della composizione, 1872-1880, egli intrattenne una fitta corrispondenza con il suo mentore Stasov e con altri amici) e pare certo che l’aria fosse stata cantata da Daria Leonova, un’artista che Musorsgki era solito accompagnare nei suoi recital: Rimski deve averne avuto a disposizione il manoscritto, tanto che ha inserito il brano nella sua edizione. Esso viene di norma ritenuto originale (oltre che mirabile...) e quindi anche Shostakovich lo ha incluso nella sua versione.  

Ora si riodono le trombe di Pietro e i raskolniki cantano lodi al Signore. Dosifej invita ancora i suoi fedeli ad incamminarsi verso il sacrificio: la luce della verità vincerà contro le tenebre infernali.

Fin qui tutte le versioni - nella sostanza - concordano. Mentre divergono anche profondamente in ciò che segue.

Musorgski progettò un coro finale dei raskolniki, che invocano il Signore, loro scudo e pastore. Per comporlo trasse lo spunto da un corale preso dalla tradizione russa, e il cui testo/melodia venne segnalato al compositore da un’amica, che lo aveva a sua volta udito da una cantante. Questo riferimento figura nell’autografo di Musorgski (riportato anche da Lamm) con l’indicazione: Cantato da Praskovia Zaritsa e fornito da Liubov Karmalina.


Da questo frammento (due strofe di 10 e 17 battute, recanti la sola melodia) Musorgski ricavò l’abbozzo del coro finale (LAb minore) impiegando le prime 10 battute della seconda strofa (cantate a cappella, come da lui ipotizzato proprio in una lettera alla Karmalina) e ripetendole (tagliando una battuta) con l’accompagnamento orchestrale. Ne modificò parzialmente il testo, nella sua prima parte, in entrambe le esposizioni del tema. Con tutta evidenza non può essere questa la chiusa di un’opera (come minimo ci si aspetterebbe una cadenza conclusiva). Musorgski aveva anche qui lasciato scritte le sue idee (il contrasto fra il coro dei raskolniki e le trombe di Pietro) su come chiudere l’opera, oltre a manifestare forti dubbi sull’opportunità di mostrare il rogo in scena, oppure di lasciarlo solo immaginare allo spettatore.

Ecco quindi che, a partire da Rimski, chiunque si sia cimentato con l’opera ha dovuto necessariamente completare questo torso lasciato da Musorgski(-Lamm) con qualcosa di proprio: non certo nuova musica (a parte piccoli dettagli) ma utilizzo di musiche dell’Autore, riprese da altre parti del lavoro.
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Il primo a cimentarsi con l’impresa fu quindi Rimski (per le rappresentazioni del 1886). Aggiunse in testa al coro 6 battute di un tema del fuoco (musica che richiama curiosamente il wagneriano Loge!) e poi impiegò testo e melodia come riportati da Lamm, sempre in LAb minore, ma con agogica diversa e orchestrazione che ribadisce gli interventi delle trombe di Pietro. Alla chiusa del coro aggiunse di suo le ultimissime esternazioni di Marfa, Andrej e Dosifej (5 battute) e poi riprese il tema trionfale di Pietro per chiudere l’opera in modo enfatico e spettacolare, un autentico panegirico per lo zar innovatore.

Sulla fedeltà della chiusa alle intenzioni di Musorgski si possono ovviamente avanzare dei dubbi, giustificati dall’atteggiamento politico di Rimski, palesemente ideologico e pregiudizialmente favorevole a Pietro. 
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Nel 1913 fu la volta di Stravinski che, su incarico di Diaghilev, approntò un nuovo finale, abolendo tutto ciò che aveva fatto Rimski (incluse quindi le 6 battute del fuoco, le ultimissime esternazioni di Marfa, Andrej e Dosifej e la trionfale fanfara conclusiva) per concentrarsi completamente sul coro, per il quale impiegò il testo del corale recapitato all’Autore dalla Karmalina, mentre la melodia principale è ancora quella della seconda strofa (stessa scelta di Musorgski) ma ne viene impiegata anche parte della prima (cosa ne avrebbe pensato l’Autore?) Al coro dedicò particolare cura (vi interviene anche la voce solista di Dosifej, oltre a quelle di Marfa e Andrej mescolate con il coro) e ad esso applicò anche alcuni suoi, diciamo così, ritrovati musicali già sperimentati in precedenti lavori.

A parte le modulazioni di tonalità e qualche sapiente enarmonia (DO#=REb, RE#=MIb, SOL#=LAb) Stravinski impiega come riempitivo (poi anche Shostakovich lo seguirà su questa strada) le figurazioni che compaiono all’inizio del quinto atto (la foresta). Fa capolino in contrappunto anche una reiterata citazione del coro dei Monaci dell’inizio dell’Atto III. La chiusa si presenta - agli antipodi di quella di Rimski - con una progressione tonale desunta dal Preludio e con un lento dissolversi del suono, accompagnato da lugubri rintocchi di campane.

C’è chi ipotizza (Claudio Abbado per primo, deciso assertore della validità di questa soluzione, da lui adottata a Vienna nel 1989) che essa sia quella che corrisponde più fedelmente alle intenzioni di Musorgski, come espresse in altre parti della sua corrispondenza: in sostanza, niente trionfalismi pro-Pietro, ma una conclusione piuttosto disincantata e quasi pessimistica. Si legga in proposito come il grande Direttore spiegò al compianto Sergio Sablich le motivazioni della scelta di questo finale stravinskiano. 
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Infine Shostakovich, che produsse la sua versione nel 1958. Tenendo buono (salvo interventi minori sull’orchestrazione e aggiungendo alle voci del coro quelle di Marfa - prima parte - e Dosifej - seconda) tutto ciò che aveva proposto Rimski (le 6 battute del fuoco, le esternazioni finali e le strombettate dei soldati di Pietro, escluse le 4 battute conclusive, sostituite da due di transizione) ma aggiungendo poi di sua iniziativa tre spezzoni di musica e coro, precisamente:

- ripresa dall’inizio dell’atto quinto del motivo della foresta (qui a note di lunghezza doppia, negli archi bassi e viole) che poi accompagna il successivo coro (qualcosa di simile a quanto fatto da Stravinski);
- coro dei moscoviti, ripreso dal primo atto;
- ripresa (dal Preludio) del motivo dell’alba sulla Moscova.

Anche qui, taluni critici (vedremo come le scelte dello stesso Valery Gergiev si schierino su questo fronte) tendono a censurare quest’ultimo intervento, che metterebbe troppa carne al fuoco, andando ben al di là delle intenzioni di Musorgski. Poi però le critiche divergono (succede anche per il finale del wagneriano Ring, oggetto di interpretazioni consolanti o pessimistiche): c’è chi - anche in forza della scelta di Shostakovich riguardo la chiusura dell’atto secondo - interpreta il ritorno finale del motivo dell’alba come una presa di posizione pro-Pietro, quindi positiva ed ottimistica; e chi invece interpreta il ritorno del coro dei moscoviti desolati e quello dell’alba come una cinica (e forse autobiografica, per Shostakovich) sfiducia nel progresso dell’umanità (e della Russia in particolare) poichè questi ritorni ciclici sarebbero lì a testimoniare che alla fine tutto torna come prima... E chi può sapere con certezza quale fosse in proposito il pensiero di Musorgski? O è proprio l’incertezza dello stesso Autore sul significato da dare alla conclusione dell’opera che gli impedì di completarla (un po’ come succederà a Puccini per Turandot?)
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Prossimamente proveremo a seguire da vicino, nei dettagli o per differenze, alcune esecuzioni dell’opera nelle diverse versioni/esecuzioni, per meglio comprenderne i rispettivi contenuti. In particolare:

- Versione-Shostakovich:
esecuzione integrale diretta da Emil Tchakarov a Sofia, del 1986;
commenti all’esecuzione di Valery Gergiev al Teatro Marinskii, del 2012;
commenti all’esecuzione di Claudio Abbado all’Opera di Vienna, del 1989;
 
- Versione-Rimski diretta da Boris Khaikin al Bolshoj nel 1946.

Come ausilio all’ascolto, ho predisposto questo testo del libretto, che contiene quanto pubblicato da Pavel Lamm, con l’evidenziazione dei principali interventi (soprattutto tagli) praticati in origine da Rimski ma in parte seguiti anche da Abbado; delle aggiunte di Rimski e (per il finale) di Shostakovich e Stravinski. Lo scopo è di rendere possibile seguire le diverse versioni/interpretazioni dell’opera leggendo lo stesso testo; avendo contemporaneamente la possibilità immediata (attraverso le colorazioni) di apprezzare (o disprezzare...) le scelte di autori e interpreti.
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(2. continua...)

17 febbraio, 2019

Un Mozart ragazzo a Venezia


Ieri pomeriggio al Malibran (poco affollato in verità, ma d'altronde Venezia è immersa fino al collo nel carnevaleultima replica della serenata (sic!) mozartiana Il sogno di Scipione.

Opera del sedicenne Teofilo, opera di circostanza, da dedicare ad un personaggio e/o ad un avvenimento pubblico importante, verosimilmente il 50° (o 49°) di sacerdozio dell’Arcivescovo di Salzburg. Il soggetto - preso di peso da quel pozzo di sanPatrizio costituito dall’immensa produzione letteraria del poeta cesareo Pietro Metastasio - tratta di un sogno che lo Scipione, futuro conquistatore e spianatore di Cartagine, fa mentre dorme a casa del suo alleato Massinissa, in una regione oggi assimilabile all’Algeria orientale (va detto che nemmeno Metastasio ha inventato nulla, chè il soggetto viene da... Cicerone!)

Nel sogno incontra due intraprendenti signore che gli chiedono di scegliere fra loro due la sua compagna della vita. Insomma, uno scenario subito sospettabile di introdurre tematiche di natura non precisamente platonica, ecco (tanto è vero che qualche regista ha preso la palla al balzo ambientando l’operina in un ménage-à-trois in piena regola).

Le due signore in realtà se la tirano parecchio, presentandosi come esseri soprannaturali: una si definisce Fortuna e l’altra Costanza, magnificando ciascuna le proprie specifiche prerogative. Prima di decidersi Scipione vorrebbe sapere in qual posto sia capitato, e così gli vengono presentati nientemeno che i suoi due ascendenti nell’albero genealogico: il nonno adottivo, Publio; e il padre, Emilio. I quali gli spiegano cos’è l’aldilà, magnificandolo al punto che lui vorrebbe fermarsi lì con loro, ma i due lo spronano a completare le sue (e le loro) imprese con la definitiva distruzione di Cartagine.

Fortuna e Costanza non sono disposte ad attendere oltre e portano ciascuna i propri affondo per conquistare l’eroe. Il quale - ovviamente deve dimostrare di aver la testa sulle spalle, mica di essere un pazzo avventurista - sceglie la Costanza, suscitando le ire di Fortuna che lo riempie di saette e fulmini, provocandone il risveglio.

Adesso deve arrivare la conclusione-con-dedica. E capita che le opere dedicate a qualche personaggio (soprattutto se a potenti) a volte presentino problemi, come dire, di adattamento alla bisogna. E qui nello Scipione ne emerge uno la cui soluzione fa abbastanza sorridere. Dunque, il testo di Metastasio, da Mozart impiegato alla lettera, verso la fine prevede l’intervento di un particolare personaggio (la Licenza) che canta, prima della sua aria, un recitativo secco nel quale - al fine di esplicitare la dedica dell’opera - svela chi si celi, in realtà, sotto le spoglie dell’ultra-lodato Scipione. Metastasio scrive: Carlo. E perchè mai? Semplice: perchè Carlo VI Imperatore era il suo sponsor e protettore!

Ma quando Mozart compone la serenata, il dedicatario è l’Arcivescovo di Salzburg in carica al momento (1771): tale Sigismund III Christoph Graf von Schrattenbachautentico patron dei Mozart. E così, nel recitativo della Licenza, il nome Carlo viene sostituito da Sigismondo. Peccato che il prelato non faccia in tempo a godere della dedica, poichè tira le cuoia quando ancora Mozart deve completare l’operina. Al suo posto arriverà lo sbifido Hieronymus Franz de Paula Josef Graf Colloredo von Waldsee und Mels (quello che anni dopo licenzierà in tronco il povero Teofilo... ma così facendone senza volerlo la fortuna). E allora, prontamente Mozart (lui o il padre Leopold, ma fa lo stesso) cancella dal manoscritto il nome Sigismondo e ci scrive sopra: Girolamo!

Ora, siccome a noi frega nulla di Carli, Sigismondi e Girolami, imperatori e vescovi assortiti, si doveva pur trovare un nome adatto per attualizzare la dedica della serenata, qualcuno di nostra conoscenza e meritevole di panegirico. Bene, siamo a Venezia, Fenice, giusto? Qui non c’è un arcivescovo, ma comunque un capo della Fondazione. E quindi il fortunato prescelto (toh!) è proprio un... Fortunato!

(Diciamo che c’è andata pure bene: non hanno scelto un... Matteo.)

A proposito della Licenza, va detto che Mozart compose una seconda versione dell’aria, assai più elaborata di quella originale (che è stata eseguita a Venezia). In questa registrazione assai pregevole e ascoltabile in rete (fra l’altro senza una riga di tagli) a 1h36’41” viene eseguita l’aria originale e a 1h42’10” quella composta successivamente.

Per le 10 arie Mozart interpreta la classica struttura bistrofe metastasiana (A - B - A da-capo) con ampia libertà, mostrando un precoce istinto all’innovazione: l’esposizione della prima strofa è sempre assai articolata, con ripetizioni del testo in tonalità diverse (comunque adiacenti) mentre quella della seconda è sempre asciutta e senza riprese. Eliminato il meccanico e un po’ arido da-capo, la prima strofa viene riesposta con nuove varianti.

Particolare cura è messa nella caratterizzazione musicale dei personaggi; ad esempio Fortuna ha melodie vivaci e caratterizzate da ampi intervalli, Costanza invece è più riflessiva e posata, con melodie che si muovono senza troppi scossoni. Forse più convenzionali sono i due Cori, mentre la Sinfonia si distingue per la mancanza di una chiusura tradizionale, estinguendosi direttamente nel recitativo di apertura.

E a proposito dei famigerati (da noi) recitativi secchi, a Venezia si è tagliato parecchio (un quarto d’ora circa) come si desume dalle evidenziazioni presenti sul libretto pubblicato nel prezioso programma di sala. Mirabile invece il recitativo accompagnato (Fortuna-Scipione) che precede l’entrata di Licenza.  

L’organizzazione dei numeri musicali presenta una simmetria abbastanza spiccata. Se escludiamo i due cori e l’intervento asimmetrico di Licenza, ecco come si struttura la sequenza delle 9 arie affidate ai 5 protagonisti principali:





Emilio







Publio

Publio





Costanza



Fortuna



Fortuna





Costanza

Scipione







Scipione

Scipione apre e chiude, le due femmine - che trattano aspetti di carattere comportamentale - occupano le parti a ridosso del protagonista, mentre ai genitori - che si occupano di politica - è assegnata la posizione centrale.      
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Vengo ora a ieri, cominciando dalla musica. Le cinque voci in scena hanno tutte ben meritato. Volendo proprio fare una (mia personale) graduatoria, metterei in testa lo Scipione di Valentino Buzza e la Costanza di Francesca Boncompagni, poichè mi son parsi i più efficaci nei rispettivi ruoli e vocalmente non hanno mostrato limiti o pecche. Ma tutti hanno ricevuto applausi a scena aperta alla fine delle rispettive arie.

Federico Maria Sardelli ha guidato la (correttamente) sparuta pattuglia di orchestrali de LaFenice con grande autorevolezza e non a caso il pubblico ha riservato per lui, alla fine, l’accoglienza più calorosa. Bene anche il coro di Claudio Marino Moretti, che ha cantato il finale dalla buca dell’orchestra. Buca dove si sono distinti (in casi come questi il loro apporto è fondamentale) i continuisti Luca De Marchi (cembalo) e Alessandro Zanardi (cello). 
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Lo spettacolo è stato realizzato con la collaborazione dell’Accademia di Belle Arti veneziana e l’apporto di giovani studenti delle Scuole di scenografia e costumi. Tutti coordinati da Elena Barbalich, regista di fatto dello spettacolo. Un lavoro di gruppo encomiabile, tenuto conto delle caratteristiche dell’opera, dove non esiste la minima parvenza di azione, ma solo dissertazoni su filosofia, psicologia e politica. Del resto, non per nulla il pezzo si chiamava serenata: da eseguirsi - se non proprio sotto le finestre di una casa popolare - magari nel giardino di una residenza patrizia o in un salone dell’Arcovescovado...

Alcune trovate della messinscena possono essere apparse un filino goliardiche o sopra le righe, ma nel complesso si è trattato di uno spettacolo godibile, grazie anche alla supervisione dello scenografo Massimo Checchetto e del responsabile alle luci Fabio Barettin.
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In definitiva, una proposta quanto mai interessante, della quale il Fortunato dedicatario-patron può ben andare orgoglioso.