affinità bombarole

rinsaldato il patto atlantico

16 febbraio, 2019

La Chovanščina in arrivo alla Scala (1)


Il titolo che porta la prossima opera in cartellone alla Scala, Chovanščina (scritto quasi come lo pronunciamo noi, in cirillico sarebbe... Хованщина) farebbe sulle prime pensare ad un nome proprio, o cognome, femminile. Tipo, per dire, Iolanta, o Jenufa, o magari Kabanova o Izmailova, per restare nel mondo slavo.

E invece la chovanščina altro non è (nella sprezzante definizione che ne dà - in chiusura del second’atto - lo zar Pietro il Grande) se non una ribellione messa in atto da tale Ivan Chovanskij, un nobile che avrebbe cercato velleitariamente di detronizzare lo zar con una scalcinata e maldestra congiura di palazzo. Quindi, un’azione biasimevole, ma anche degna di irrisione: una stupidata insomma, o una smargiassata, o una... cazzata. Per fare un esempio concreto: chi è diversamente giovane ricorderà di sicuro il termine maldinata, coniato qualche decennio fa per definire le ricorrenti leggerezze difensive della buonanima Cesare Maldini, che costavano al Milan qualche gol di troppo.

Ma ora, di grazia, ‘sto Chovanskij, chi l’ha mai coverto? Ecco, appunto: Musorgski!

Lo spiritoso (nel senso di amante dell’alcool...) compositore aveva a mala pena completato il suo secondo Boris (1872) quando si lanciò in questa nuova impresa, che per lui sarebbe stata l’ultima, per di più rimasta incompiuta (quanto meno rispetto a ciò che il compositore stesso aveva prefigurato). Il lavoro si protrasse per più di otto anni, dal luglio 1872 all’agosto 1880, cioè fino a pochi mesi prima della scomparsa del musicista, e seguì un percorso praticamente schizofrenico, con continui spostamenti di attenzione (a zig-zag) da una scena all’altra, da un atto all’altro: una specie di caotica costruzione di un grande mosaico. Caos provocato anche dal contemporaneo interesse del compositore per un’altra opera (comica questa, La fiera di Soročincy) rimasta ancor più incompiuta della Chovanščina.

A differenza del Boris, per il testo del quale lo aveva soccorso un tale Puškin (non so se mi spiego...) qui il compositore si avvalse dell’aiuto e dei consigli dell’onnipresente Vladimir Stasov (autorevole mentore del Gruppo dei Cinque) e della lettura di testi storici del ‘600 e ‘700 pubblicati attorno alla prima metà dell’800 (minuziosamente elencati dall’Autore nei suoi scritti) che narravano passate vicende della sua amata Russia. Il risultato fu la mancanza di un organico libretto (come comunemente inteso) sul quale comporre la musica, rimpiazzato dalla produzione di appunti (con testo e musica) spesso lasciati in sospeso o ripresi e modificati a fronte di nuove acquisizioni di fonti storiche. Diverse idee furono abbandonate al momento di decidere la forma finale del mosaico, come ad esempio le apparizioni di Pietro il Grande e della sorellastra, la zarevna Sofia, oppure una scena ambientata nel quartiere tedesco di Mosca, o un quintetto da cantarsi in chiusura del second’atto. Addirittura parti fondamentali (come due finali d’atto!) furono lasciate allo stato di frammento (o di idea solo sulla carta) e mai più completate. Vedremo più avanti come si arrivò ad ottenere, partendo da un sia pur ricco semilavorato, il prodotto finito, eseguibile e rappresentabile in teatro. 

Come per il Boris, anche qui è la Russia che fa da sfondo all’opera, in un periodo di circa un secolo posteriore, precisamente nell’estate del 1682, anno in cui Musorgski concentra, per comprensibili esigenze drammaturgiche, fatti che accaddero in realtà a partire da quell’anno e fino al 1698 come minimo. Tanto per citare una patente inverosimiglianza storica presente nel soggetto, basti pensare che Pietro il Grande, che nel dramma è già presentato - pur se fuori scena - come zar con pieni poteri, nel 1682 era in realtà ancora fanciullo (10 anni!) e quindi estraneo agli affari di governo, dei quali si occupava la sorellastra Sofia, reggente del trono anche per conto dell’altro fratello, il minorato Ivan, di 5 anni più anziano di Pietro...

Lo scenario di quella seconda metà del ‘600 nella quale Musorgski ambienta l’opera è caratterizzato da profondi sommovimenti politici e religiosi, che vedono scontrarsi - su entrambi i fronti - progressisti e conservatori, riformatori e reazionari: da una parte i seguaci delle idee innovatrici del defunto zar Alexei Mikhailovich Romanov (padre di Sofia, Ivan e - da altra madre - di Pietro) e del patriarca Nikon; dall’altra i loro fieri oppositori.   

Scenario che vede protagonisti - da un lato, la lotta per il potere - il citato Ivan Chovanskij, un principe reazionario che comanda gli Strelcy (guardia speciale degli zar) e mira a portare se stesso e/o il figlio Andrej al Kremlino, simulando fedeltà a Sofia e a Pietro; poi il principe Vasilij Golicyn, di idee progressiste (ma anche schiavo di assurde superstizioni) e nemico dei boiari conservatori, un tempo amante di Sofia, ma ora di lei sospettoso; e un boiaro ambizioso, machiavellico e ambiguo, Šaklovityj, consigliere (e nuovo o aspirante amante?) della stessa zarevna.

L’altro terreno di scontro è quello della religione, dove le riforme di Nikon (volte a riportare l‘Ortodossia russa nell’alveo bizantino) sono contestate dai Vecchi Credenti, divenuti ormai una setta (i raskolniki) guidata da un ex-principe, Dosifej; della setta fa parte Marfa, ex-principessa pure lei, ora una specie di veggente, un tempo amante di Andrej Chovanskij che l’ha poi abbandonata per concupire (respintone con perdite) la protestante Emma, residente nel quartiere tedesco (in realtà, internazionale) di Mosca.

E proprio Marfa è l’autentica protagonista del dramma, l’unica a comparire sulla scena in tutti e cinque gli atti: in forza del suo passato legame con Andrej (del quale è tuttora perdutamente innamorata) lei rappresenta lo snodo fra il piano secolare e quello religioso dell’opera; in più, è la sua figura ad arricchire il soggetto di una componente caratteristica e imprescindibile del teatro musicale, quella legata al piano dei sentimenti (la sua lacerante contraddizione fra la purezza della fede e la carnalità della passione amorosa) e delle relazioni personali e affettive...

A differenza di Stasov e poi di Rimski-Korsakov (che portò alla luce l’opera incompiuta) i quali si ostinavano a dare del lavoro un’interpretazione a senso unico, tutta orientata ad esaltare la grande stagione riformista di Pietro il Grande, Musorgski mostra di non voler prendere posizione netta a favore o contro l’una o l’altra delle tendenze (innovatrice o reazionaria) in atto a quei tempi (memorabile la sintesi che ne fece il compianto Sergio Sablich: Ritrarre più che giudicare): il suo obiettivo è evidentemente quello di portare sulla scena la vita e le sofferenze del popolo russo in quel tormentato frangente storico. E di fare ciò attraverso la valorizzazione degli idiomi musicali del suo grande e adorato Paese.

L’opera si articola su 6 quadri distribuiti su 5 atti (1 - 2 - 3 - 4+5 - 6) per una durata totale che arriva (in esecuzione integrale) a più di 3h15’ al netto degli intervalli. Lo svolgimento drammatico si presenta come un continuo, inesorabile, fatalistico precipitare verso la catastrofe finale, l’immolarsi della vecchia Russia, travolta dall’arrivo della modernità occidentale. Finale che rimase però nella... penna di Musorgski.

Ecco (per il momento...) una succinta sinossi della trama.

Primo Atto.

Preludio che evoca l’alba sulla Moscova e il risveglio di Mosca, sulla Piazza Rossa. 

Scena degli Strelcy: Kuzka ancora sonnolento e due commilitoni che vantano le loro sanguinose imprese.

Scena dello scrivano e di Šaklovityj, che gli detta una delazione per la zarevna, accusando Ivan Chovanskij e il figlio Andrej di preparare un colpo di stato contro Sofia e i fratelli zar.

Scena dei giovani moscoviti analfabeti che bistrattano lo scrivano per costringerlo a leggere una grida che annuncia esecuzioni contro boiari ribelli.

Scena di Ivan Chovanskij che denuncia alla folla i boiari traditori e ladri, promettendo di difendere Sofia e gli zar.

Scena di Andrej Chovanskij che cerca di conquistare Emma, ragazza di religione luterana, figlia di un commerciante del quartiere tedesco.

Arrivo di Marfa, amante tradita da Andrej, che difende Emma e sfugge ad un tentativo di Andrej di accoltellarla.

Ritorno di Ivan Chovanskij che concupisce Emma e ordina ai suoi Strelcy di catturargliela. Andrej minaccia di ammazzarla, pur di non cedergliela.

Arrivo di Dosifej, il santone dei Vecchi Credenti, che blocca Andrej e fa accompagnare Emma a casa da Marfa. Poi implora i Chovanskij di aiutarlo a salvare la Russia e l’antica fede.

Secondo Atto.

Residenza del principe Golicyn, che legge una lettera d’amore della zarevna Sofia, ma si mostra di lei sospettoso.

Poi legge una seconda lettera, della madre, il cui consiglio di mantenere onestà e purezza lo mette di malumore.

Arrivo di un pastore luterano che lamenta il comportamento di Andrej Chovanskij nei confronti di Emma e chiede di poter costruire una chiesa luterana a Mosca. Golicyn lo liquida sprezzantemente.

Arrivo di Marfa, in veste di veggente, che predice un futuro di rovina al principe, che ordina di sopprimerla.

Arrivo di Ivan Chovanskij, che si lamenta a nome dei boiari per i danni che le riforme volute da Golicyn avrebbero fatto alla loro categoria. Battibecco fra i due.

Arrivo di Dosifej che ammonisce i due a cercare il bene della Patria. Chovanskij e Golicyn continuano a beccarsi e il primo si propone come salvatore della patria e futuro capo del governo.

Si odono in lontananza i canti dei monaci dei Vecchi Credenti: Dosifej li esalta, Chovanskij si associa all’elogio, mentre Golicyn li definisce come dei settari.

Torna Marfa che accusa Golicyn di aver ordinato la sua morte. E avverte del sopraggiungere dei soldati dello zar Pietro.  

Irrompe sulla scena Šaklovityj, annunciando che è stata sporta denuncia contro i Chovanskij con l’accusa di tramare un colpo di stato. Lo zar avrebbe sprezzantemente definito la faccenda come una chovanščina... ordinando un’indagine sui denunciati.

Terzo Atto.

I Vecchi Credenti sfilano cantando inni di vittoria e di trionfo sui seguaci del riformatore Nikon. 

Scena di Marfa, presso la dimora del suo amato Andrej. La donna ricorda in una canzone i bei giorni della giovinezza e l’amore adesso sfumato. Ma prefigura la fine in compagnia dell’amato, fra le fiamme purificatrici.

Arriva Susanna che ha sentito la canzone e aggredisce Marfa rimproverandone la lascivia.

Intervento di Dosifej che rimprovera Susanna, accusandola di idolatria e scacciandola; poi cerca di consolare Marfa, che ribadisce come solo il sacrificio estremo (nelle fiamme) la potrà salvare.

Scena di Šaklovityj che prega Dio di salvare la grande Russia, ancora in balìa di mercenari stranieri.

Scena del risveglio degli Strelcy che irrompono in strada cantando le loro turpi imprese e ubriacandosi già di primo pomeriggio.

Arrivano le loro mogli per rimproverarli delle loro malefatte e della loro irresponsabilità.

Scena di Kuzka che viene incaricato di calmare le donne con una canzone. Tutti cantano una filastrocca su una donna (la calunnia) che rovinerebbe le famiglie.

Arriva lo scrivano che annuncia che un contingente di Strelcy è stato sopraffatto da mercenari stranieri affiancati da truppe regolari dello zar Pietro!  

Gli Strelcy increduli chiedono ordini al loro capo Ivan Chovanskij; il quale li invita a tornarsene a casa ad aspettare gli eventi! Agli Strelcy e alle loro mogli non resta che affidarsi alla provvidenza...

Quarto Atto.

Primo Quadro. Nella sua lussuosa residenza Ivan Chovanskij cerca di dimenticare i suoi problemi con i piaceri della buona tavola e delle belle donne.

Le sue contadinelle cantano canzoncine tristi e allegre, quando arriva un emissario di Golicyn per annunciare imminenti pericoli. Il principe lo liquida all’istante.

Scena del balletto delle danzatrici persiane.

Arrivo del solito Šaklovityj che informa Ivan di una convocazione al Kremlino da parte della zarevna. Chovanskij dapprima snobba l’invito, poi si fa convincere ed ordina i suoi abiti da cerimonia.

Le contadine riprendono il loro canto, glorificando il cigno bianco Chovanskij, proprio mentre lui viene pugnalato alle spalle e muore sotto lo sguardo beffardo di Šaklovityj.

Secondo quadro. Davanti SanBasilio. Un carro sta portando verso l’esilio il principe Golicyn. Dosifej lo compiange, come pure compiange Ivan Chovanskij, vittima della sua stessa boria.

Arrivo di Marfa che comunica ai confratelli le decisioni del Gran Consiglio: i Vecchi Credenti sono banditi e i mercenari hanno l’ordine di sterminarli. Ora anche Dosifej è convinto che a loro resti solo l’estremo sacrificio.   

Arrivo di Andrej, che continua a reclamare Emma. Marfa lo avvisa che se la sono portata via in mercenari. Andrej minaccia di denunciare Marfa e farla arrestare dai suoi Strelcy, ma questi sono ormai in catene e si preparano ad essere giustiziati. Andrej chiede a Marfa di salvarlo e lei lo porta via.

Le mogli degli Strelcy reclamano l’esecuzione dei loro uomini, macchiatisi di indegnità, ma arrivano i soldati dello zar Pietro, annunciando che gli zar hanno concesso la grazia a tutti.    

Quinto Atto.

I Vecchi Credenti sono riuniti in un bosco presso il loro eremo e ricevono l’ultimo conforto da Dosifej.

Si odono in lontananza le trombe dell’esercito di Pietro. I raskolniki preparano l’immensa pira che li accoglierà.

Arrivo di Andrej, sempre invocante Emma. Marfa prova invano a convincerlo ad accettare il suo stesso destino, in nome dell’amore che li aveva uniti in passato.

Mentre ancora risuonano gli squilli di tromba dell’esercito dello zar, guidati da Dosifej i fedeli si avviano cantando verso le fiamme che Marfa ha fatto divampare.
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Nella prossima puntata verrà esplorata la storia della predisposizione delle diverse versioni dell’opera (e del suo finale, ovviamente) oggi esistenti grazie al lavoro di alcuni eminenti musicisti e compositori. 
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(1. continua...)

15 febbraio, 2019

laVerdi 18-19 - Concerto n°17


Il Direttore musicale torna in Auditorium in compagnia di Quirine Viersen per proporci un interessante programma: Elgar e Prokofiev.

Del compositore britannico ascoltiamo il controverso Concerto per violoncello, del 1919, che stentò a guadagnare consensi e apprezzamento, dopo un esordio piuttosto deludente. Divenne invece famoso da quando (circa 50 anni fa) ad interpretarlo fu la grande Jaqueline Du Pré, che qui vediamo diretta da colui con il quale, per una breve stagione, prima del sopraggiungere del terribile male che la stroncò, costituì la coppia più bella del mondo, nel campo musicale.

Concerto che difficilmente si fa piacere al primo ascolto, ma che rivela poi la sua nobiltà, distaccandosi dai modelli della tradizione romantica, pur cari a Elgar, per inoltrarsi su terreni di prudente sperimentazione, in un’atmosfera di generale disincanto e malinconia (forse i tristi ricordi della Grande Guerra). Torniamo dal duo Du Pré - Barenboim per esplorare sommariamente quest’opera comunque interessante.
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Il primo movimento presenta una struttura semplice, con un tema principale e uno secondario, poco differenziati fra loro, che si muovono in atmosfere sognanti e crepuscolari. A 8”, in Adagio 4/4, il violoncello attacca un recitativo, con due accordi in MI minore. A 39” lo interrompono brevemente i clarinetti, poi la solista lo completa (56”) e prepara il terreno per l’esposizione (1’17”) del tema principale da parte delle viole, Moderato 9/8. Tema che saltò alla mente di Elgar mentre stava in ospedale per levare le tonsille (!) e che principia dalla sopratonica FA#. Lo riprende la solista (1’38”) sempre dalla sopratonica, accompagnata (2’00”) dagli archi. A 2’22” la solista esegue una variante del tema, che stavolta attacca dalla tonica MI e presenta divagazioni alla relativa SOL maggiore; imitata a 2’47” dall’orchestra. Ancora la solista (3’09”) reitera il tema nella sua forma originaria, con attacco dalla sopratonica.

Inizia poi (3’46”) una sezione centrale (12/8) in ritmo puntato, introdotta da clarinetti e fagotti che chiama in causa (3’50”) la solista; si sviluppa qui (4’05”) la melodia del secondo tema, la quale poi sfocia (426) in un passaggio in MI maggiore, ripreso (427) anche dagli archi e (526) dai clarinetti. Sezione conclusa (612) ancora dai legni, che riportano la solista (642, 9/8) ad iniziare la ripresa, con il tema principale; ripetuto anche dai violini (706). Ancora un intervento dell’intera orchestra (728) e poi è la solista che va a chiudere (da 7’39) il movimento.

Il quale peraltro si concatena senza soluzione di continuità al Secondo movimento (Lento, 4/4, 832) introdotto da violenti pizzicati della solista e da veloci incisi (843) che anticipano il tema principale. Una cadenza della solista (9’19”) e ancora un alternarsi di tempi veloce e lento porta definitivamente (10’04) allo stabilirsi dell’Allegro molto. Questo si potrebbe indicare come un tradizionale Scherzo, è in SOL maggiore (relativa del MI minore di impianto del concerto).

La parte veloce è caratterizzata da un tema suonato con semicrome ribattute, una specie di moto perpetuo che esalta le qualità virtuosistiche della solista. A 10’39” subentra una prima pausa di riflessione (ma è forse esagerato assimilarla al classico Trio...) Torna a 10’53” il veloce tema principale, ancora interrotto (11’35”) dall’oasi di quiete, che dura assai poco, per far posto al suo ritorno (11’53”). Un ultimo respiro (1215) e poi la tumultuosa conclusione.

Eccoci ora (13’01”) all’Adagio, 3/8 in SIb maggiore (ma con diverse divagazioni) di sole 60 battute, che impegnano continuamente (dopo alcune esitazioni iniziali e salvo una breve sosta di due battute, a 15’11”) il violoncello solista. Che espone una lunga e sognante melopea, chiusa sulla dominante FA.

Il finale Allegro (2/4) occupa quasi la metà dell’intero brano, e inizia (18’19”) in SIb minore, per poi tornare a MI minore, dove (18’29”) la solista (tempo Moderato) attacca un quasi-recitativo di nove battute di SOL maggiore, 4/4; seguito (19’34”) da una cadenza di due, in MI minore, che conduce al rondo (Allegro ma non troppo, 2/4, 19’59”). Dopo l’esposizione del tema da parte della solista, le risponde l’orchestra (20’11”) e dopo un altro dialogo arriviamo (20’42”) ad un breve episodio in SOL maggiore. Ora solista e orchestra collaborano in modo serrato (in particolare intervengono i legni) in una sorta di grande sviluppo che culmina (23’11”) nella ripresa del tema principale, ancora seguita da uno stretto confronto fra solista e orchestra, che poi rimane sola a chiudere la sezione.   

Qui (23’56”) la solista espone un motivo in DO maggiore, quindi si torna al tema principale (24’34”) nell’orchestra cui segue (24’43”) la risposta della solista. Il tempo si allarga progressivamente (25’05”, poco più lento); solista ed orchestra dialogano dolcemente, reiterando (26’53”, 3/4) un motivo di carattere lirico ed appassionato che ricorda quello dell’Adagio.

Poi ecco una sorpresa: si era già timidamente affacciato poco prima (26’42”) ma ora, a 28’17”, si palesa in tutta chiarezza: il Tristanakkord!

A 29’31”, quasi recitativo, 4/4, tornano ciclicamente nel violoncello solista gli accordi di MI minore dell’inizio del primo movimento, prima che (30’01”, Allegro molto, 2/4) arrivi la rapida chiusura sul tema principale.
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Beh, non parlerei di capolavoro, ma nemmeno di insignificante ciarpame: è un brano che ha una sua chiara e coerente narrativa; un onesto sforzo di trasmettere qualcosa che viene dal cuore e dalla ragione, insomma.

Come ce lo ha proposto la bella e brava Quirine? Mah, ho avuto l’impressione (personale, sia chiaro) di una certa freddezza, di un approccio quasi distaccato e asettico. La tecnica non si discute di certo, ma un po’ più di pathos non avrebbe guastato, ecco. Comunque per lei sinceri applausi da parte del pubblico non foltissimo dell’Auditorium.
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Prokofiev e Romeo&Giulietta fanno sempre... cassetta (scusate la becera rima). Non so quante volte ho già ripetuto che questa è forse la miglior musica prodotta nell’intero ‘900. Flor assembla 10 numeri dalle suite 1 e 2, per circa 40 minuti di musica, ma sono convinto che si suonasse l’intera partitura (52 numeri) nessuno si annoierebbe mai.

L’Orchestra ha suonato le Suite innumerevoli volte, e quindi va praticamente a memoria. Impeccabile l’esecuzione, impreziosita dal brevissimo (6 battute soltanto!) ma mirabile assolo della viola d’amore (di Mugnai, ovviamente) nel numero che evoca la separazione fra i due giovinetti, prima della commovente chiusa di Romeo sulla tomba dell’amata.

Calorosa accoglienza per tutti, a chiudere una bella serata di musica.

11 febbraio, 2019

Alla Scala una Cenerentola sempre giovane


Proseguendo la serie dei revival di produzioni ormai catalogabili come storiche (domanda: nel 2060 si riprenderà ancora la Traviata di Cherniakov?) la Scala ha ospitato ieri la prima della Cenerentola della premiata coppia Abbado-Ponnelle, ripresa a 46 anni di distanza dalla sua originaria comparsa nel 1973. Produzione già riproposta da allora in diverse stagioni (74, 75, 82, 01, 05) e oggi affidata alle esperte mani di Grischa Asagaroff, ben coadiuvata da Marco Filibeck alle luci. Immortalata anche in DVD (con altri interpreti rispetto al ’73, e con riprese fatte in studio e in play-back) nel 1981. E proprio a Claudio Abbado, a 5 anni dalla scomparsa, è dedicata questa ripresa. Che mantiene, più o meno, anche i (consueti) tagli: qualche recitativo secco e i due contributi di Luca Agolini (coro di apertura atto secondo e aria di sorbetto di Clorinda). Cassata anche l’altra componente agoliniana (Alidoro) in favore del Rossini autentico.

Nel progettare la loro Cenerentola, il librettista Ferretti e Rossini si erano posti un obiettivo assai chiaro: sfrondare il racconto di Perrault da ogni e qualsivoglia componente favolistica, magica, miracolistica, bambinesca (aspetti che si reputavano sgraditi se non addirittura offensivi per l’evoluto pubblico romano di allora) per mettere più che altro in risalto - pur in un contesto giocoso - gli aspetti drammatici, sociologici ed etici del racconto, primo fra tutti quello che oggi chiameremmo come pari-opportunità. (Lo stesso Barbiere, di un anno precedente, dietro la maschera del buffo poneva problemi mica da poco, quali l’avvento della borghesia alla guida della società.) Quindi niente comari-fatine, zucche-carrozze e topi-cavalli che appaiono dal nulla, ma solo un po’ di alone arcano col quale rivestire un illuminato filosofo (Alidoro, precettore del principe Don Ramiro, una specie di Marco Pannella ante-litteram) che procura alla povera Angelina i mezzi per godere, appunto, delle pari-opportunità, negatele dal retrivo padre e dalle sorellastre viziate.

E Ponnelle(-Asagaroff) interpreta alla perfezione l’approccio degli Autori, facendone passare il messaggio col mettere in ridicolo gli aspetti più retrivi della società. Niente miracoli, ma nemmeno avanspettacolo: le gag sono limitate allo stretto necessario e tutto viene mantenuto entro i confini del buon gusto. E per questo l’allestimento resiste alla grande anche in tempi di regie fatte solo per far parlare del regista, ma di fatto prodotti usa-e-getta.
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Che dire poi della prestazione musicale?

Intanto si apprende dal curatissimo libretto della Scala che Angelina-Cenerentola è diventata improvvisamente soprano, come pure la Tisbe, e che Alidoro ha innalzato la sua tessitura a quella di tenore... evabbe’, è il progresso, bellezza! (Il testo pubblicato nel 2005 riportava correttamente le tessiture dei ruoli... o forse è Alberto Zedda che ha inviato dall’aldilà un aggiornamento alla sua edizione critica, chissà.)

Marianne Crebassa per fortuna canta da mezzosoprano qual è e quale l’ha voluta Rossini. La sua è stata una prestazione non strepitosa, tuttavia il personaggio è uscito discretamente bene: un po’ legata all’inizio, è poi cresciuta nel corso della recita, arrivando ben rodata in tempo per la sua finale aria strappalacrime, che ha anche strappato... applausi a scena aperta, applausi che per la verità hanno accolto tutti i principali numeri dell’opera.  

Don Ramiro è una parte non propriamente impossibile (peraltro nell’aria del second’atto presenta diversi DO sovracuti...) e lo smilzo Maxim Mironov l’ha padroneggiata assai bene (a proposito di acuti, ha esagerato anche con un RE): peccato che la sua voce non abbia sufficiente potenza per diffondersi adeguatamente in spazi come quelli del Piermarini altrimenti, invece di un più che discreto, si meriterebbe un più che buono...   

Dandini è Nicola Alaimo (credo che Cenerentola fosse anche il suo debutto in carriera); personalmente lo ricordo in questa parte già al ROF nel 2010... direi che da allora, anche grazie al passaggio su terreni diversi, vedi Falstaff, ha imparato a meglio controllare l’emissione, a giudicare dall’assenza di sguaiatezze e schiamazzi.

Carlos Chausson è un più che convincente Don Magnifico, gran potenza e rotondità di voce, ha brillantemente superato gli scogli della sua parte (anche quantitativamente) assai impegnativa. Subito in spolvero con i rampolli femminini, ha poi ben cantato  l’aria del second’atto e ha contribuito alla riuscita del duetto-di-bassi a suon di scioglilingua con Alaimo.

Erwin Schrott (anche lui non ha velleità tenorili...) - da qualche anno (esordio nel Turco al ROF-2016) si dedica a Rossini - è un ottimo Alidoro, personaggio cui conferisce appropriatamente quell’arcano aplombe soprannaturale che ne caratterizza la figura. Pregevole la sua interpretazione dell’aria del primo atto, quella di Rossini e non di Agolini.  

Le due sbifide sorellastre vengono dalla scaligera Accademia e devo dire che si sono ben portate, la Capitelli in primo luogo, ma anche la Giorgadze. Prezioso il loro contributo agli ensemble, in particolare al sestetto del second’atto.

Il coro è impegnato solo al maschile, e per di più senza grandi difficoltà, quindi Casoni ha fatto il suo dovere, e basta così.

Ottavio Dantone, di professione barocchista, ha riportato saldamente questo Rossini nel ’700, il che non è affatto un demerito, tutt’altro. Apprezzabile la sua concertazione, in specie negli insiemi, dove basterebbe poco a trasformare le mirabilia di Rossini in puro e semplice caos sonoro.
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Pubblico meno folto rispetto a quello della recente Traviata, ma prodigo di applausi per tutti.

09 febbraio, 2019

laVerdi 18-19 - Concerto n°16


Carlo Boccadoro (chiamato a sostituire l’indisposto Direttore musicale) Fabio Vacchi e Domenico Nordio (poi c’è anche un tale Mendelssohn...) sono i protagonisti del concerto di questa settimana, che incastona un’opera modernissima fra due che ormai si avvicinano ai due secoli di vita, ma benissimo portati!

Si apre quindi con la Ouverture zu den Hebriden (Fingals-Höhle) composta dal giovane Mendelssohn dopo una gita alle Ebridi, in particolare a Staffa, dove si trova la celebre grotta marina che dal ‘700 ha preso il nome dall’eroe scozzese Finn mac Cool (per gli amici… Fingal):


L’Ouverture, canonicamente in forma-sonata, è tutta pervasa da atmosfere ossianiche, che si ritroveranno anche nel movimento iniziale e in quello finale dell’ultimo brano in programma, la sinfonia scozzese, concepita guarda caso nello stesso periodo (1829-30) anche se completata anni e anni più tardi.

Ascoltandola si resta sempre ammirati dalla cristallina purezza di forma e contenuti che traspare da questo come da altri lavori giovanili di Mendelssohn (penso all’Ouverture del Sogno) e anche l’esecuzione di ieri non ha mancato di far emergere quelle qualità.
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Ecco poi due artisti-in-residence presso laVerdi, Fabio Vacchi e Domenico Nordio, interpretare Natura naturans, il Concerto per violino e orchestra che Vacchi compose nel 2016 e che ha recentemente rivisitato, dandogli anche il titolo che richiama sentimenti eco-ambientalisti. La prima versione ricevette il battesimo a Bari con D’Orazio al violino e un’altra vecchia conoscenza dell’Auditorium, John Axelrod sul podio (qui la registrazione dei tre movimenti del concerto: 1-2 e 3). 

Questa seconda versione vide la luce nel 2018, eseguita  a Budapest (1/10) e NY (5/11); come la prima, e come il quasi contemporaneo Concerto per violoncello, è dedicata alla figura di Livia Pomodoro, eminente donna di legge ma soprattutto paladina della difesa dei diritti, oltre che attiva anche nel mondo dell’arte e della cultura. Una dedica che, almeno nello spirito, ne richiama un’altra: quella alla memoria di un angelo, che Alban Berg appose al suo Violinkonzert, opera che Vacchi dichiara apertamente essere stato il suo modello di riferimento.  

Ecco come il compositore presenta il suo lavoro, ma in realtà anche la sua... visione del mondo e dell’arte:

Il mio primo concerto per violino è nato senza titolo. Ho lavorato a questa seconda, riveduta versione mentre ero immerso nella natura. Le aggiunte, i tagli e le modifiche derivano da un impulso che mi spingeva ad aderire anche dal punto di vista creativo a scelte ambientaliste, animaliste e, proprio in quanto tali, in difesa dell’uomo. In termini estetici, ad avvicinarmi sempre più a una scrittura che non dimenticasse mai, per ragioni puramente strutturali e soggettive, il rispetto della nostra fisiologia, della nostra percezione, della nostra natura.

La musica non è per me frutto di convenzioni astratte, la cui natura può essere definita solo in base a considerazioni arbitrarie, concettuali, ideologiche, filosofiche. La musica deve riflettere anche un’essenza umana universale innata, fisiologica, antropologica e in quanto tale collettiva. Ci sono alcuni processi organici, psicologici e simbolici che sono sostanziali nella composizione, anche contemporanea, dai quali non si può prescindere nel cercare una sintesi tra patrimonio popolare e storico da un lato e innovazione, sperimentazione, ricerca dall’altro.

Gli studi etnomusicologici e l’amore per la musica folcloristica innervano, insieme alle radici nell’avanguardia strutturalista e all’assimilazione della grande lezione classica e romantica, Natura naturans. Le melodie, i ritmi, le armonie e le atmosfere di ascendenza popolare mi hanno insegnato la libertà con cui utilizzare materiali consonanti o atonali, gesti tradizionali ed esplorativi. Oltre all’esigenza di rigore formale, la mia musica ricerca infatti una gestualità diretta, naturale ed emotiva, che deve penetrare al di là della superficie per arrivare alla più oscura logica sottostante. Le neuroscienze ci dicono che esistono limiti naturali entro i quali la comunicazione, anche musicale, può raggiungere le menti e i corpi degli altri: devono essere forzati dalla fantasia e dall’urgenza di scoprire inediti orizzonti, ma rispettati come tali.

Nell’arte e nella musica, l’imprescindibile necessità di inventare e di rivoluzionare deve quindi rimanere entro i limiti naturali della dimensione umana che è definita anche in termini biologici, fisici, chimici, neurologici. La bellezza e l’arte hanno il dovere di opporsi all’avanzata del consumismo e del semplicismo. Bisogna contrastare l’impoverimento, la banalizzazione del linguaggio. La musica è anche una via per riavvicinarci e aprirci ad altre culture, ad altri punti di vista, ad altre tradizioni. Per non cadere nel fanatismo, nell’oscurantismo. Difendere la natura significa difendere l’uomo e la vita.

I tre movimenti, costruiti sugli stilemi del concerto solista del diciottesimo e del diciannovesimo secolo, sono un omaggio all’impareggiabile Concerto per violino di Berg, che è per me il più grande punto di riferimento del ventesimo secolo. La struttura estremamente unitaria poggia sul legame intrinseco tra il materiale armonico e melodico del solista e quello dell’orchestra.

Il primo movimento, l’Allegro moderato, sebbene estremamente virtuosistico, ha accenti lirici che emergono quasi contrapponendosi all’andamento rapido, per rallentarlo, per interrogarlo, per svelarne l’espressività profonda in un dialogo onirico e ipnotico tra «l’interno e l’esterno», qui rappresentati dal violino e dall’orchestra.

Il cantabile Andantino è desiderio e nostalgia di melodia, della sua naturale forza espressiva e narrativa.

Nel terzo movimento, Presto brillante, la velocità è metafora di una pulsione primaria al superamento delle barriere, senza però mai violare quei limiti naturali oltre i quali si nega la nostra stessa umanità: la violenza verso gli altri, verso i deboli, verso i diversi, verso il pianeta, verso gli animali. Per quanto riguarda l’arte e la musica, la violenza contro la memoria, il pensiero, la natura cui apparteniamo.

Il Concerto per violino nella sua prima versione, nata per il Petruzzelli di Bari nel 2016, e nella sua seconda versione, Natura naturans, che ha avuto la prima europea all’Opera di Budapest il 12 ottobre 2018, la prima americana alla Carnegie Hall di New York il 5 novembre e questa prima italiana, ora, alla Verdi di Milano, è dedicato a Livia Pomodoro. Anche il concerto per violoncello, che ha avuto la prima al Petruzzelli di Bari il 30 ottobre 2018, fa parte di questo dittico dedicato a una grande donna d’oggi che ha dato tutta se stessa per i valori in cui credeva, e in cui io credo: la giustizia, la tutela dei minori, il teatro e l’arte.

Boccadoro, che è soprattutto compositore, rende un bel servizio al collega Vacchi, guidando da par suo l’orchestra ad integrare la prestazione di Nordio, che ci mette tutta le sensibilità e il pathos di cui è capace per valorizzare al massimo l’opera, accolta da vibranti apprezzamenti del folto pubblico dell’Auditorium. 

Così alla fine grande trionfo per Vacchi, salito sul palco visibilmente emozionato, poi ripetutamente chiamato alla ribalta, con interprete e direttore; lui più volte manda baci di ringraziamento all’orchestra, la cui prestazione evidentemente deve averlo soddisfatto appieno.
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Conclusione ancora ossianica con la Scozzese, di certo la migliore delle quattro sinfonie di Mendelssohn (non per nulla è anche l’ultima ad essere stata completata, a dispetto della numerazione). Nata - proprio in compagnia dell’Ouverture che ha aperto il concerto - da sensazioni ed emozioni vissute dall’Autore durante il viaggio (professional-turistico) del 1829 in terra albionica. E perciò la si può anche descrivere come fosse un poema sinfonico...

Nel primo movimento, aperto à-la-Haydn da un Andante con moto di ben 63 battute (la cui melodia verrà impiegata nella Walküre da un tale che di Mendelssohn - in quanto ebreo - scriverà peste e corna) che poi fa posto ad un Allegro un poco agitato, emergono proprio scenari da isole sferzate dal vento, di cui gli archi evocano ripetutamente le folate.

Nel Vivace non troppo (lo scherzo) la melodia del tema principale assume forme quasi telluriche, quando sono gli archi bassi e ottoni ad appropriarsene.

Una vera e propria oasi di pace sopraggiunge con l’Adagio, uno scorcio di mirabile lirismo, un intermezzo davvero pastorale, rotto soltanto da un paio di energici richiami degli ottoni.

Il conclusivo Allegro vivacissimo ci riporta in mezzo a bufere e tormente che spazzano e bruciano le coste scozzesi, ma alla fine tutto si placa, Ossian si dilegua e ci appare, quasi per incanto... Buckingham Palace, con Sua Maestà la Regina Vittoria (dedicataria dell’opera, non dimentichiamolo) circondata dalla sua corte, in un Allegro maestoso assai che - impiegando poche note dell’introduzione al primo movimento - porta la sinfonia all’enfatica e decisamente regale conclusione. 
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Grande prova di sicurezza e compattezza dell’orchestra, che Boccadoro deve più che altro... tenere in strada: ecco, per lui dev’essere stato come guidare una Ferrari, dove si deve evitare il pericolo di farla imbizzarrire. Gloria e applausi per tutti, da un pubblico evidentemente appagato.

01 febbraio, 2019

laVerdi 18-19 - Concerto n°15


Protagonista assoluto del concerto di questa settimana è un personaggio che da anni circola in Italia e non solo nei grandi teatri e sale da concerto, ma anche e soprattutto in... provincia, dove ha modo di gettare i semi della sua arte e della sua sapienza interpretativa. Qui fa le cose davvero in grande, presentandoci un celeberrimo concerto e una grande sinfonia, di due autori fra loro legati da stretti vincoli artistici.

Intanto una nota di una certa importanza: altri pianisti-direttori dispongono il pianoforte perpendicolare al fondo-scena, per poter dirigere meglio; ma così facendo restano di spalle al pubblico, cosa di per sè sgradevole per l’ascoltatore, ma soprattutto devono far togliere dallo strumento il coperchio, perdendo quindi la sua fondamentale funzione di riverbero del suono. Ecco, Lonquich invece dispone il pianoforte nella posizione canonica: certo, così dà le spalle alla... spalla (ieri Dellingshausen) ma evidentemente l’affiatamento con il primo violino è così alto da non creare problemi. Poi Lonquich dispone l’orchestra alla tedesca, ma con i contrabbassi in linea sul fondo e tiene proprio di fianco a sè gli strumentini, cosa utilissima nel concerto di Schumann, dove soprattutto l’oboe (di Luca Stocco, per l’occasione) dialoga di continuo col solista.

Ecco quindi il Klavierkonzert di Robert Schumann, pilastro della scrittura pianistica romantica, che Lonquich interpreta con straordinaria sensibilità, tocco sempre delicato, impiego sapientissimo ma non invadente del rubato e soprattutto una perfetta osmosi con l’orchestra, che sappiamo essere proprio la caratteristica peculiare e programmatica di questo concerto.

Per lui ovazioni che ricambia ancora con Schumann, suscitando emozioni come accadeva per questo suo illustre predecessore!
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Poi la Sinfonia in DO di Franz Schubert, quella che proprio Schumann portò alla luce dal chiuso di cassetti polverosi ed esaltò per le sue celestiali lungaggini, un’opera che chiude in modo davvero grandioso tutta un’esistenza musicale che Schubert aveva vissuto prevalentemente nel piccolo, nel raccolto, nell’intimistico, nelle sue mille canzoni e nelle sue opere cameristiche.

Qui invece costruisce un monumento, una cattedrale di possanza bruckneriana e di ideali beethoveniani. E Lonquich (che ha diretto a memoria) non si e ci risparmia una sola battuta di questo capolavoro, eseguendo scrupolosissimamente tutti i ritornelli, proprio come Schumann esigeva si facesse. Più di un’ora di durata, ma si starebbe lì per un‘altra ancora ad ascoltare questa mirabile musica. Soprattutto se suonata con la bravura e la partecipazione dei ragazzi de laVerdi!

Auditorium non affollatissimo, ma gli assenti di ieri possono ancora rimediare oggi o dopodomani...