affinità bombarole

rinsaldato il patto atlantico

15 febbraio, 2019

laVerdi 18-19 - Concerto n°17


Il Direttore musicale torna in Auditorium in compagnia di Quirine Viersen per proporci un interessante programma: Elgar e Prokofiev.

Del compositore britannico ascoltiamo il controverso Concerto per violoncello, del 1919, che stentò a guadagnare consensi e apprezzamento, dopo un esordio piuttosto deludente. Divenne invece famoso da quando (circa 50 anni fa) ad interpretarlo fu la grande Jaqueline Du Pré, che qui vediamo diretta da colui con il quale, per una breve stagione, prima del sopraggiungere del terribile male che la stroncò, costituì la coppia più bella del mondo, nel campo musicale.

Concerto che difficilmente si fa piacere al primo ascolto, ma che rivela poi la sua nobiltà, distaccandosi dai modelli della tradizione romantica, pur cari a Elgar, per inoltrarsi su terreni di prudente sperimentazione, in un’atmosfera di generale disincanto e malinconia (forse i tristi ricordi della Grande Guerra). Torniamo dal duo Du Pré - Barenboim per esplorare sommariamente quest’opera comunque interessante.
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Il primo movimento presenta una struttura semplice, con un tema principale e uno secondario, poco differenziati fra loro, che si muovono in atmosfere sognanti e crepuscolari. A 8”, in Adagio 4/4, il violoncello attacca un recitativo, con due accordi in MI minore. A 39” lo interrompono brevemente i clarinetti, poi la solista lo completa (56”) e prepara il terreno per l’esposizione (1’17”) del tema principale da parte delle viole, Moderato 9/8. Tema che saltò alla mente di Elgar mentre stava in ospedale per levare le tonsille (!) e che principia dalla sopratonica FA#. Lo riprende la solista (1’38”) sempre dalla sopratonica, accompagnata (2’00”) dagli archi. A 2’22” la solista esegue una variante del tema, che stavolta attacca dalla tonica MI e presenta divagazioni alla relativa SOL maggiore; imitata a 2’47” dall’orchestra. Ancora la solista (3’09”) reitera il tema nella sua forma originaria, con attacco dalla sopratonica.

Inizia poi (3’46”) una sezione centrale (12/8) in ritmo puntato, introdotta da clarinetti e fagotti che chiama in causa (3’50”) la solista; si sviluppa qui (4’05”) la melodia del secondo tema, la quale poi sfocia (426) in un passaggio in MI maggiore, ripreso (427) anche dagli archi e (526) dai clarinetti. Sezione conclusa (612) ancora dai legni, che riportano la solista (642, 9/8) ad iniziare la ripresa, con il tema principale; ripetuto anche dai violini (706). Ancora un intervento dell’intera orchestra (728) e poi è la solista che va a chiudere (da 7’39) il movimento.

Il quale peraltro si concatena senza soluzione di continuità al Secondo movimento (Lento, 4/4, 832) introdotto da violenti pizzicati della solista e da veloci incisi (843) che anticipano il tema principale. Una cadenza della solista (9’19”) e ancora un alternarsi di tempi veloce e lento porta definitivamente (10’04) allo stabilirsi dell’Allegro molto. Questo si potrebbe indicare come un tradizionale Scherzo, è in SOL maggiore (relativa del MI minore di impianto del concerto).

La parte veloce è caratterizzata da un tema suonato con semicrome ribattute, una specie di moto perpetuo che esalta le qualità virtuosistiche della solista. A 10’39” subentra una prima pausa di riflessione (ma è forse esagerato assimilarla al classico Trio...) Torna a 10’53” il veloce tema principale, ancora interrotto (11’35”) dall’oasi di quiete, che dura assai poco, per far posto al suo ritorno (11’53”). Un ultimo respiro (1215) e poi la tumultuosa conclusione.

Eccoci ora (13’01”) all’Adagio, 3/8 in SIb maggiore (ma con diverse divagazioni) di sole 60 battute, che impegnano continuamente (dopo alcune esitazioni iniziali e salvo una breve sosta di due battute, a 15’11”) il violoncello solista. Che espone una lunga e sognante melopea, chiusa sulla dominante FA.

Il finale Allegro (2/4) occupa quasi la metà dell’intero brano, e inizia (18’19”) in SIb minore, per poi tornare a MI minore, dove (18’29”) la solista (tempo Moderato) attacca un quasi-recitativo di nove battute di SOL maggiore, 4/4; seguito (19’34”) da una cadenza di due, in MI minore, che conduce al rondo (Allegro ma non troppo, 2/4, 19’59”). Dopo l’esposizione del tema da parte della solista, le risponde l’orchestra (20’11”) e dopo un altro dialogo arriviamo (20’42”) ad un breve episodio in SOL maggiore. Ora solista e orchestra collaborano in modo serrato (in particolare intervengono i legni) in una sorta di grande sviluppo che culmina (23’11”) nella ripresa del tema principale, ancora seguita da uno stretto confronto fra solista e orchestra, che poi rimane sola a chiudere la sezione.   

Qui (23’56”) la solista espone un motivo in DO maggiore, quindi si torna al tema principale (24’34”) nell’orchestra cui segue (24’43”) la risposta della solista. Il tempo si allarga progressivamente (25’05”, poco più lento); solista ed orchestra dialogano dolcemente, reiterando (26’53”, 3/4) un motivo di carattere lirico ed appassionato che ricorda quello dell’Adagio.

Poi ecco una sorpresa: si era già timidamente affacciato poco prima (26’42”) ma ora, a 28’17”, si palesa in tutta chiarezza: il Tristanakkord!

A 29’31”, quasi recitativo, 4/4, tornano ciclicamente nel violoncello solista gli accordi di MI minore dell’inizio del primo movimento, prima che (30’01”, Allegro molto, 2/4) arrivi la rapida chiusura sul tema principale.
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Beh, non parlerei di capolavoro, ma nemmeno di insignificante ciarpame: è un brano che ha una sua chiara e coerente narrativa; un onesto sforzo di trasmettere qualcosa che viene dal cuore e dalla ragione, insomma.

Come ce lo ha proposto la bella e brava Quirine? Mah, ho avuto l’impressione (personale, sia chiaro) di una certa freddezza, di un approccio quasi distaccato e asettico. La tecnica non si discute di certo, ma un po’ più di pathos non avrebbe guastato, ecco. Comunque per lei sinceri applausi da parte del pubblico non foltissimo dell’Auditorium.
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Prokofiev e Romeo&Giulietta fanno sempre... cassetta (scusate la becera rima). Non so quante volte ho già ripetuto che questa è forse la miglior musica prodotta nell’intero ‘900. Flor assembla 10 numeri dalle suite 1 e 2, per circa 40 minuti di musica, ma sono convinto che si suonasse l’intera partitura (52 numeri) nessuno si annoierebbe mai.

L’Orchestra ha suonato le Suite innumerevoli volte, e quindi va praticamente a memoria. Impeccabile l’esecuzione, impreziosita dal brevissimo (6 battute soltanto!) ma mirabile assolo della viola d’amore (di Mugnai, ovviamente) nel numero che evoca la separazione fra i due giovinetti, prima della commovente chiusa di Romeo sulla tomba dell’amata.

Calorosa accoglienza per tutti, a chiudere una bella serata di musica.

11 febbraio, 2019

Alla Scala una Cenerentola sempre giovane


Proseguendo la serie dei revival di produzioni ormai catalogabili come storiche (domanda: nel 2060 si riprenderà ancora la Traviata di Cherniakov?) la Scala ha ospitato ieri la prima della Cenerentola della premiata coppia Abbado-Ponnelle, ripresa a 46 anni di distanza dalla sua originaria comparsa nel 1973. Produzione già riproposta da allora in diverse stagioni (74, 75, 82, 01, 05) e oggi affidata alle esperte mani di Grischa Asagaroff, ben coadiuvata da Marco Filibeck alle luci. Immortalata anche in DVD (con altri interpreti rispetto al ’73, e con riprese fatte in studio e in play-back) nel 1981. E proprio a Claudio Abbado, a 5 anni dalla scomparsa, è dedicata questa ripresa. Che mantiene, più o meno, anche i (consueti) tagli: qualche recitativo secco e i due contributi di Luca Agolini (coro di apertura atto secondo e aria di sorbetto di Clorinda). Cassata anche l’altra componente agoliniana (Alidoro) in favore del Rossini autentico.

Nel progettare la loro Cenerentola, il librettista Ferretti e Rossini si erano posti un obiettivo assai chiaro: sfrondare il racconto di Perrault da ogni e qualsivoglia componente favolistica, magica, miracolistica, bambinesca (aspetti che si reputavano sgraditi se non addirittura offensivi per l’evoluto pubblico romano di allora) per mettere più che altro in risalto - pur in un contesto giocoso - gli aspetti drammatici, sociologici ed etici del racconto, primo fra tutti quello che oggi chiameremmo come pari-opportunità. (Lo stesso Barbiere, di un anno precedente, dietro la maschera del buffo poneva problemi mica da poco, quali l’avvento della borghesia alla guida della società.) Quindi niente comari-fatine, zucche-carrozze e topi-cavalli che appaiono dal nulla, ma solo un po’ di alone arcano col quale rivestire un illuminato filosofo (Alidoro, precettore del principe Don Ramiro, una specie di Marco Pannella ante-litteram) che procura alla povera Angelina i mezzi per godere, appunto, delle pari-opportunità, negatele dal retrivo padre e dalle sorellastre viziate.

E Ponnelle(-Asagaroff) interpreta alla perfezione l’approccio degli Autori, facendone passare il messaggio col mettere in ridicolo gli aspetti più retrivi della società. Niente miracoli, ma nemmeno avanspettacolo: le gag sono limitate allo stretto necessario e tutto viene mantenuto entro i confini del buon gusto. E per questo l’allestimento resiste alla grande anche in tempi di regie fatte solo per far parlare del regista, ma di fatto prodotti usa-e-getta.
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Che dire poi della prestazione musicale?

Intanto si apprende dal curatissimo libretto della Scala che Angelina-Cenerentola è diventata improvvisamente soprano, come pure la Tisbe, e che Alidoro ha innalzato la sua tessitura a quella di tenore... evabbe’, è il progresso, bellezza! (Il testo pubblicato nel 2005 riportava correttamente le tessiture dei ruoli... o forse è Alberto Zedda che ha inviato dall’aldilà un aggiornamento alla sua edizione critica, chissà.)

Marianne Crebassa per fortuna canta da mezzosoprano qual è e quale l’ha voluta Rossini. La sua è stata una prestazione non strepitosa, tuttavia il personaggio è uscito discretamente bene: un po’ legata all’inizio, è poi cresciuta nel corso della recita, arrivando ben rodata in tempo per la sua finale aria strappalacrime, che ha anche strappato... applausi a scena aperta, applausi che per la verità hanno accolto tutti i principali numeri dell’opera.  

Don Ramiro è una parte non propriamente impossibile (peraltro nell’aria del second’atto presenta diversi DO sovracuti...) e lo smilzo Maxim Mironov l’ha padroneggiata assai bene (a proposito di acuti, ha esagerato anche con un RE): peccato che la sua voce non abbia sufficiente potenza per diffondersi adeguatamente in spazi come quelli del Piermarini altrimenti, invece di un più che discreto, si meriterebbe un più che buono...   

Dandini è Nicola Alaimo (credo che Cenerentola fosse anche il suo debutto in carriera); personalmente lo ricordo in questa parte già al ROF nel 2010... direi che da allora, anche grazie al passaggio su terreni diversi, vedi Falstaff, ha imparato a meglio controllare l’emissione, a giudicare dall’assenza di sguaiatezze e schiamazzi.

Carlos Chausson è un più che convincente Don Magnifico, gran potenza e rotondità di voce, ha brillantemente superato gli scogli della sua parte (anche quantitativamente) assai impegnativa. Subito in spolvero con i rampolli femminini, ha poi ben cantato  l’aria del second’atto e ha contribuito alla riuscita del duetto-di-bassi a suon di scioglilingua con Alaimo.

Erwin Schrott (anche lui non ha velleità tenorili...) - da qualche anno (esordio nel Turco al ROF-2016) si dedica a Rossini - è un ottimo Alidoro, personaggio cui conferisce appropriatamente quell’arcano aplombe soprannaturale che ne caratterizza la figura. Pregevole la sua interpretazione dell’aria del primo atto, quella di Rossini e non di Agolini.  

Le due sbifide sorellastre vengono dalla scaligera Accademia e devo dire che si sono ben portate, la Capitelli in primo luogo, ma anche la Giorgadze. Prezioso il loro contributo agli ensemble, in particolare al sestetto del second’atto.

Il coro è impegnato solo al maschile, e per di più senza grandi difficoltà, quindi Casoni ha fatto il suo dovere, e basta così.

Ottavio Dantone, di professione barocchista, ha riportato saldamente questo Rossini nel ’700, il che non è affatto un demerito, tutt’altro. Apprezzabile la sua concertazione, in specie negli insiemi, dove basterebbe poco a trasformare le mirabilia di Rossini in puro e semplice caos sonoro.
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Pubblico meno folto rispetto a quello della recente Traviata, ma prodigo di applausi per tutti.

09 febbraio, 2019

laVerdi 18-19 - Concerto n°16


Carlo Boccadoro (chiamato a sostituire l’indisposto Direttore musicale) Fabio Vacchi e Domenico Nordio (poi c’è anche un tale Mendelssohn...) sono i protagonisti del concerto di questa settimana, che incastona un’opera modernissima fra due che ormai si avvicinano ai due secoli di vita, ma benissimo portati!

Si apre quindi con la Ouverture zu den Hebriden (Fingals-Höhle) composta dal giovane Mendelssohn dopo una gita alle Ebridi, in particolare a Staffa, dove si trova la celebre grotta marina che dal ‘700 ha preso il nome dall’eroe scozzese Finn mac Cool (per gli amici… Fingal):


L’Ouverture, canonicamente in forma-sonata, è tutta pervasa da atmosfere ossianiche, che si ritroveranno anche nel movimento iniziale e in quello finale dell’ultimo brano in programma, la sinfonia scozzese, concepita guarda caso nello stesso periodo (1829-30) anche se completata anni e anni più tardi.

Ascoltandola si resta sempre ammirati dalla cristallina purezza di forma e contenuti che traspare da questo come da altri lavori giovanili di Mendelssohn (penso all’Ouverture del Sogno) e anche l’esecuzione di ieri non ha mancato di far emergere quelle qualità.
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Ecco poi due artisti-in-residence presso laVerdi, Fabio Vacchi e Domenico Nordio, interpretare Natura naturans, il Concerto per violino e orchestra che Vacchi compose nel 2016 e che ha recentemente rivisitato, dandogli anche il titolo che richiama sentimenti eco-ambientalisti. La prima versione ricevette il battesimo a Bari con D’Orazio al violino e un’altra vecchia conoscenza dell’Auditorium, John Axelrod sul podio (qui la registrazione dei tre movimenti del concerto: 1-2 e 3). 

Questa seconda versione vide la luce nel 2018, eseguita  a Budapest (1/10) e NY (5/11); come la prima, e come il quasi contemporaneo Concerto per violoncello, è dedicata alla figura di Livia Pomodoro, eminente donna di legge ma soprattutto paladina della difesa dei diritti, oltre che attiva anche nel mondo dell’arte e della cultura. Una dedica che, almeno nello spirito, ne richiama un’altra: quella alla memoria di un angelo, che Alban Berg appose al suo Violinkonzert, opera che Vacchi dichiara apertamente essere stato il suo modello di riferimento.  

Ecco come il compositore presenta il suo lavoro, ma in realtà anche la sua... visione del mondo e dell’arte:

Il mio primo concerto per violino è nato senza titolo. Ho lavorato a questa seconda, riveduta versione mentre ero immerso nella natura. Le aggiunte, i tagli e le modifiche derivano da un impulso che mi spingeva ad aderire anche dal punto di vista creativo a scelte ambientaliste, animaliste e, proprio in quanto tali, in difesa dell’uomo. In termini estetici, ad avvicinarmi sempre più a una scrittura che non dimenticasse mai, per ragioni puramente strutturali e soggettive, il rispetto della nostra fisiologia, della nostra percezione, della nostra natura.

La musica non è per me frutto di convenzioni astratte, la cui natura può essere definita solo in base a considerazioni arbitrarie, concettuali, ideologiche, filosofiche. La musica deve riflettere anche un’essenza umana universale innata, fisiologica, antropologica e in quanto tale collettiva. Ci sono alcuni processi organici, psicologici e simbolici che sono sostanziali nella composizione, anche contemporanea, dai quali non si può prescindere nel cercare una sintesi tra patrimonio popolare e storico da un lato e innovazione, sperimentazione, ricerca dall’altro.

Gli studi etnomusicologici e l’amore per la musica folcloristica innervano, insieme alle radici nell’avanguardia strutturalista e all’assimilazione della grande lezione classica e romantica, Natura naturans. Le melodie, i ritmi, le armonie e le atmosfere di ascendenza popolare mi hanno insegnato la libertà con cui utilizzare materiali consonanti o atonali, gesti tradizionali ed esplorativi. Oltre all’esigenza di rigore formale, la mia musica ricerca infatti una gestualità diretta, naturale ed emotiva, che deve penetrare al di là della superficie per arrivare alla più oscura logica sottostante. Le neuroscienze ci dicono che esistono limiti naturali entro i quali la comunicazione, anche musicale, può raggiungere le menti e i corpi degli altri: devono essere forzati dalla fantasia e dall’urgenza di scoprire inediti orizzonti, ma rispettati come tali.

Nell’arte e nella musica, l’imprescindibile necessità di inventare e di rivoluzionare deve quindi rimanere entro i limiti naturali della dimensione umana che è definita anche in termini biologici, fisici, chimici, neurologici. La bellezza e l’arte hanno il dovere di opporsi all’avanzata del consumismo e del semplicismo. Bisogna contrastare l’impoverimento, la banalizzazione del linguaggio. La musica è anche una via per riavvicinarci e aprirci ad altre culture, ad altri punti di vista, ad altre tradizioni. Per non cadere nel fanatismo, nell’oscurantismo. Difendere la natura significa difendere l’uomo e la vita.

I tre movimenti, costruiti sugli stilemi del concerto solista del diciottesimo e del diciannovesimo secolo, sono un omaggio all’impareggiabile Concerto per violino di Berg, che è per me il più grande punto di riferimento del ventesimo secolo. La struttura estremamente unitaria poggia sul legame intrinseco tra il materiale armonico e melodico del solista e quello dell’orchestra.

Il primo movimento, l’Allegro moderato, sebbene estremamente virtuosistico, ha accenti lirici che emergono quasi contrapponendosi all’andamento rapido, per rallentarlo, per interrogarlo, per svelarne l’espressività profonda in un dialogo onirico e ipnotico tra «l’interno e l’esterno», qui rappresentati dal violino e dall’orchestra.

Il cantabile Andantino è desiderio e nostalgia di melodia, della sua naturale forza espressiva e narrativa.

Nel terzo movimento, Presto brillante, la velocità è metafora di una pulsione primaria al superamento delle barriere, senza però mai violare quei limiti naturali oltre i quali si nega la nostra stessa umanità: la violenza verso gli altri, verso i deboli, verso i diversi, verso il pianeta, verso gli animali. Per quanto riguarda l’arte e la musica, la violenza contro la memoria, il pensiero, la natura cui apparteniamo.

Il Concerto per violino nella sua prima versione, nata per il Petruzzelli di Bari nel 2016, e nella sua seconda versione, Natura naturans, che ha avuto la prima europea all’Opera di Budapest il 12 ottobre 2018, la prima americana alla Carnegie Hall di New York il 5 novembre e questa prima italiana, ora, alla Verdi di Milano, è dedicato a Livia Pomodoro. Anche il concerto per violoncello, che ha avuto la prima al Petruzzelli di Bari il 30 ottobre 2018, fa parte di questo dittico dedicato a una grande donna d’oggi che ha dato tutta se stessa per i valori in cui credeva, e in cui io credo: la giustizia, la tutela dei minori, il teatro e l’arte.

Boccadoro, che è soprattutto compositore, rende un bel servizio al collega Vacchi, guidando da par suo l’orchestra ad integrare la prestazione di Nordio, che ci mette tutta le sensibilità e il pathos di cui è capace per valorizzare al massimo l’opera, accolta da vibranti apprezzamenti del folto pubblico dell’Auditorium. 

Così alla fine grande trionfo per Vacchi, salito sul palco visibilmente emozionato, poi ripetutamente chiamato alla ribalta, con interprete e direttore; lui più volte manda baci di ringraziamento all’orchestra, la cui prestazione evidentemente deve averlo soddisfatto appieno.
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Conclusione ancora ossianica con la Scozzese, di certo la migliore delle quattro sinfonie di Mendelssohn (non per nulla è anche l’ultima ad essere stata completata, a dispetto della numerazione). Nata - proprio in compagnia dell’Ouverture che ha aperto il concerto - da sensazioni ed emozioni vissute dall’Autore durante il viaggio (professional-turistico) del 1829 in terra albionica. E perciò la si può anche descrivere come fosse un poema sinfonico...

Nel primo movimento, aperto à-la-Haydn da un Andante con moto di ben 63 battute (la cui melodia verrà impiegata nella Walküre da un tale che di Mendelssohn - in quanto ebreo - scriverà peste e corna) che poi fa posto ad un Allegro un poco agitato, emergono proprio scenari da isole sferzate dal vento, di cui gli archi evocano ripetutamente le folate.

Nel Vivace non troppo (lo scherzo) la melodia del tema principale assume forme quasi telluriche, quando sono gli archi bassi e ottoni ad appropriarsene.

Una vera e propria oasi di pace sopraggiunge con l’Adagio, uno scorcio di mirabile lirismo, un intermezzo davvero pastorale, rotto soltanto da un paio di energici richiami degli ottoni.

Il conclusivo Allegro vivacissimo ci riporta in mezzo a bufere e tormente che spazzano e bruciano le coste scozzesi, ma alla fine tutto si placa, Ossian si dilegua e ci appare, quasi per incanto... Buckingham Palace, con Sua Maestà la Regina Vittoria (dedicataria dell’opera, non dimentichiamolo) circondata dalla sua corte, in un Allegro maestoso assai che - impiegando poche note dell’introduzione al primo movimento - porta la sinfonia all’enfatica e decisamente regale conclusione. 
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Grande prova di sicurezza e compattezza dell’orchestra, che Boccadoro deve più che altro... tenere in strada: ecco, per lui dev’essere stato come guidare una Ferrari, dove si deve evitare il pericolo di farla imbizzarrire. Gloria e applausi per tutti, da un pubblico evidentemente appagato.

01 febbraio, 2019

laVerdi 18-19 - Concerto n°15


Protagonista assoluto del concerto di questa settimana è un personaggio che da anni circola in Italia e non solo nei grandi teatri e sale da concerto, ma anche e soprattutto in... provincia, dove ha modo di gettare i semi della sua arte e della sua sapienza interpretativa. Qui fa le cose davvero in grande, presentandoci un celeberrimo concerto e una grande sinfonia, di due autori fra loro legati da stretti vincoli artistici.

Intanto una nota di una certa importanza: altri pianisti-direttori dispongono il pianoforte perpendicolare al fondo-scena, per poter dirigere meglio; ma così facendo restano di spalle al pubblico, cosa di per sè sgradevole per l’ascoltatore, ma soprattutto devono far togliere dallo strumento il coperchio, perdendo quindi la sua fondamentale funzione di riverbero del suono. Ecco, Lonquich invece dispone il pianoforte nella posizione canonica: certo, così dà le spalle alla... spalla (ieri Dellingshausen) ma evidentemente l’affiatamento con il primo violino è così alto da non creare problemi. Poi Lonquich dispone l’orchestra alla tedesca, ma con i contrabbassi in linea sul fondo e tiene proprio di fianco a sè gli strumentini, cosa utilissima nel concerto di Schumann, dove soprattutto l’oboe (di Luca Stocco, per l’occasione) dialoga di continuo col solista.

Ecco quindi il Klavierkonzert di Robert Schumann, pilastro della scrittura pianistica romantica, che Lonquich interpreta con straordinaria sensibilità, tocco sempre delicato, impiego sapientissimo ma non invadente del rubato e soprattutto una perfetta osmosi con l’orchestra, che sappiamo essere proprio la caratteristica peculiare e programmatica di questo concerto.

Per lui ovazioni che ricambia ancora con Schumann, suscitando emozioni come accadeva per questo suo illustre predecessore!
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Poi la Sinfonia in DO di Franz Schubert, quella che proprio Schumann portò alla luce dal chiuso di cassetti polverosi ed esaltò per le sue celestiali lungaggini, un’opera che chiude in modo davvero grandioso tutta un’esistenza musicale che Schubert aveva vissuto prevalentemente nel piccolo, nel raccolto, nell’intimistico, nelle sue mille canzoni e nelle sue opere cameristiche.

Qui invece costruisce un monumento, una cattedrale di possanza bruckneriana e di ideali beethoveniani. E Lonquich (che ha diretto a memoria) non si e ci risparmia una sola battuta di questo capolavoro, eseguendo scrupolosissimamente tutti i ritornelli, proprio come Schumann esigeva si facesse. Più di un’ora di durata, ma si starebbe lì per un‘altra ancora ad ascoltare questa mirabile musica. Soprattutto se suonata con la bravura e la partecipazione dei ragazzi de laVerdi!

Auditorium non affollatissimo, ma gli assenti di ieri possono ancora rimediare oggi o dopodomani...

25 gennaio, 2019

laVerdi 18-19 - Concerto n°14


In prossimità della Giornata della Memoria laVerdi ha voluto rendere omaggio a due compositori che furono vittime (pur con diversi esiti) della follia nazista: Hanns Eisler, la cui unica colpa fu di essere un ebreo convinto pacifista e sostenitore dell’ideologia comunista, il che lo costrinse - dopo l’avvento di Hitler - a lasciare la sua Germania esiliandosi in USA (da dove dovette peraltro andarsene dopo la guerra, proprio perchè... comunista); e l’ebreo boemo Erwin Schulhoff, pure comunista militante, morto di tubercolosi nel 1942 nel campo di concentramento di Wurzburg dove era stato rinchiuso dai nazisti che lo avevano arrestato proprio mentre cercava di riparare in URSS.

L’impaginazione del concerto sembra quasi volerci ammonire che le più grandi civiltà possono generare - se non si vigila e, appunto, non si fa tesoro delle esperienze passate - autentici mostri. Come è stato possibile che da un’epoca e da un Paese che aveva prodotto - nel campo artistico e musicale - figure come quelle di Beethoven e Wagner sia potuta nascere una barbarie come quella che insanguinò l’Europa e il mondo intero?

Domande quanto mai di attualità nel mondo di oggi che, svanita l’illusione della fine della storia e dell’avvento dell’Eden, sembra purtroppo avviato a ripiombare in un inferno dove i muri da poco abbattuti vengono ricostruiti ancor più alti e impenetrabili e dove milioni di esseri umani tornano ad essere considerati come pericoli pubblici dai quali doversi difendere, anche con la forza.

Per meditare su tutto ciò il programma presentato questa settimana in Auditorium, dopo una trascinante Ouverture e uno dei più straordinari Concerti solistici, non si chiude trionfalmente - come da tradizione - con una grande opera sinfonica, bensì con due onesti lavori usciti dalla penna di individui che furono innocenti vittime della barbarie novecentesca succeduta al glorioso ‘800.

Timothy Brock, originario dell’Ovest americano, è specialista (come studioso, esecutore e compositore) di musiche da film (per questa sua esperienza è stato già ospite in Auditorium) oltre che di musica del ‘900, il che ha a che fare in particolare con il terzo brano in programma. Ma sa ovviamente destreggiarsi con tutto il repertorio classico e così la sua lettura dell’Ouverture del Tannhäuser è davvero trascinante, mettendo efficacemente in mostra il contrasto fra la componente mistica e quella erotica del brano (contrasto che peraltro caratterizza l’intera opera).

Il giovanissimo austriaco Aaron Pilsan ci ha poi deliziato con il monumentale quanto ostico Quarto concerto di Beethoven, forse e senza forse la più alta espressione di questo genere di pianismo: lui si è portato dietro lo spartito, ma lo ha lasciato sul bordo del pianoforte, forse per sentirsi vicino a... Beethoven. La sua è stata un’interpretazione convincente, tutta leggera e come in punta di piedi, salvo il turbinoso finale.

Se a soli 24 anni mostra questa maturità, c’è davvero da aspettarsi da lui un futuro ricco di grandi cose. Per ringraziare degli applausi ci suona dapprima un Mozart proprio... turco (parodia o geniale parafrasi?) e poi un trascinante Chopin (primo studio op.10).
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Ecco poi i due brani (composti quasi contemporaneamente, fra il 1931 e il ’32) che in qualche modo ci portano all’attualità delle celebrazioni di fine gennaio. Il primo è Niemandsland di Eisler, un breve suite in quattro parti, tratta dalle musiche per l’omonimo film dai contenuti chiaramente pacifisti ed anti-militaristi. Più che un’orchestra sinfonica, qui abbiamo una band con sax e banjo, oltre al pianoforte, potenziata da qualche violoncello. Sono 10 minuti di musica accattivante, che però i puristi nazi bollavano come degenerata, bontà loro... 
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Chiude la serata la Sinfonia n°2 di Schulhoff, che risente chiaramente dell’atmosfera da realismo socialista, che l’Autore ebbe modo di respirare in URSS. Ci si sente però anche qualcosa di Mahler, oltre che dello Stravinski neoclassico. Insomma, nulla di straordinariamente originale, un po’ come la sinfonia di Schmidt ascoltata l’altra settimana: due autori ideologicamente agli antipodi che sembrano incontrarsi sul terreno musicale.

Pubblico non oceanico e ulteriormente smagritosi all’intervallo (nobbuono) che ha riservato calore e applausi a Brock e ai ragazzi. Date le circostanze, bene così.

17 gennaio, 2019

laVerdi festeggia una venerabile coppia


Ieri sera festa grande in Auditorium (tutto esaurito come rarissimamente accade!) per celebrare le nozze di diamante (artisticamente parlando) della premiata coppia di pianisti formata dai venerabili Bruno Canino (83 appena compiuti) e Antonio Ballista (83 fra due mesi) che sono ininterrottamente alla ribalta dall’ormai remoto 1958.   

Sotto la bacchetta del troneggiante Marcello Bufalini i due hanno offerto un programma a dir poco strabiliante, che forse pochi giovani nel pieno delle forze avrebbero osato affrontare: quattro concerti tutti d’un fiato!

Bach ha aperto la serata, con il Concerto in DO, BWV1061, composto in origine per le sole tastiere e poi arricchito del contributo orchestrale. Poi ecco Mozart e il Concerto in MIb, K365, composto negli ultimi tempi di Salisburgo, poco prima del trasferimento a Vienna.
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Dopo l’intervallo, è la volta di Varianti, dedicata da Ennio Morricone ai due pianisti, citati nel titolo per cognome-nome, ma con un piccolo particolare, un minuscolo segno musicale messo davanti alla B di Bruno: Ballista Antonio Canino Bruno, che trasforma la sequenza delle iniziali da BACB a... BACH!

Brano composto in occasione del conferimento di una Laurea Honoris Causa al compositore da parte dell’Università milanese. Qui la prima assoluta, eseguita in quell’occasione dai due dedicatari. Ha chiuso in bellezza il programma ufficiale il Concerto in RE di Francis Poulenc.

Ma ecco che, dopo essersi fronteggiati per un’ora e mezza, i due inseparabili si sono finalmente riuniti davanti ad una sola tastiera (quella del Piano-1, di Canino) per congedarsi con questo bis raveliano.

Ovazioni e applausi, con il pubblico tutto in piedi a rendere omaggio a questi autentici emblemi del pianismo italiano, omaggio cui si è unito per un grande grazie! il Direttore artistico de laVerdi, Ruben Jais.

Che dire: che Dio ce li conservi così.

13 gennaio, 2019

laVerdi 18-19 - Concerto n°13


Oggi pomeriggio l’Auditorium (discretamente frequentato) ha ospitato il secondo concerto dell’appuntamento n°13 della stagione. Sul podio ancora il Direttore Musicale, mentre al pianoforte, per ben due impegni, si è rivisto quell’Alexandre Tharaud che era stato ospite de laVerdi nel settembre 2017 per l’apertura di stagione alla Scala.   

Si parte con Haydn e con il suo Concerto per pianoforte - o clavicembalo - e orchestra in RE maggiore. Interessante, oltre che piacevole, ricordare come, quasi 7 anni fa e proprio con Flor sul podio, ne abbia dato una convincente interpretazione con l’arpa solista la bravissima Elena Piva, prima parte de laVerdi allo strumento.

Concerto di struttura assai semplice, ma non per questo banale, anzi. Il Vivace iniziale (4/4) è monotematico, con il motivo esposto prima in RE, poi in LA e quindi sviluppato con passaggi anche sulla relativa SI minore. Lo chiude una cadenza (non scritta).    

Stesso discorso per il centrale Un poco adagio, 3/4 in LA maggiore. Il tema principale, anche qui assai semplice, ma tutt’altro che disprezzabile, viene proposto dall’orchestra e passa poi al solista. Quindi viene sviluppato in una poetica sezione centrale nella dominante MI, prima di tornare sul LA per la ripresa. Anche qui è una cadenza solistica a precedere la chiusura del movimento.

Chiude il concerto un Rondo all’unghereseAllegro assai, 2/4 in RE maggiore. È il solista ad esporre per primo il tema principale, poi imitato dall’orchestra. La struttura (A-A’-B-A-C-A) si basa su elaborazioni continue di questo tema. Dapprima riesposto sulla dominante LA maggiore, dove viene sviluppato dal solista con ulteriori modulazioni (MI, DO) prima di tornare al LA. Ecco poi una sezione in RE minore, dove il tema è ancora variato, con pesanti interventi dei corni (tonica-dominante) prima di tornare in RE maggiore. Altro episodio nella relativa SI minore prima del definitivo ritorno alla tonalità d’impianto.

Tharaud - che come sempre si tiene lo spartito sul leggio - ne dà una lettura in punta di... dita, curiosamente quasi a voler simulare il clavicembalo, se non proprio l‘arpa.

Dopo i meritati applausi, questo cinquantenne dall’aria sbarazzina torna subito alla tastiera per proporci il celeberrimo (grazie anche ad... Elvira Madigan!) Concerto in DO, K467 di Mozart, composto solo 3 anni dopo quello di Haydn. Ma le differenze sembrano separare i due lavori di qualche lustro, anche se sono più accentuate sul lato dell’accompagnamento orchestrale che su quello della scrittura pianistica.

Accattivante l’interpretazione di Tharaud che poi risponde alle reiterate chiamate congedandosi con questo Scarlatti!
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Ha chiuso il concerto la Quarta di Franz Schmidt. Del compositore austriaco si potrebbe dire - con una battuta in filino irrispettosa - che fosse uno che arrivava sempre in ritardo (musicalmente parlando) di una ventina d’anni sui tempi. Così, scomparso da poco Mahler, lui scrisse un sinfonia (la sua seconda) ispirandosi a (o scimmiottando, secondo i maligni...) Bruckner - suo maestro - e Brahms. Vent’anni dopo, in compenso, scrisse questa quarta che si potrebbe scambiare per... l’undicesima di Mahler (suo Direttore alla Hofoper dove lui suonava il violoncello)! Ecco, questa specie di marchio di inattualità ha certo pesato, insieme alle vicende legate alla politica e ai rapporti del musicista con il nazismo, sul giudizio non proprio lusinghiero dato su di lui e spiega il dimenticatoio nel quale le opere di Schmidt sono cadute. Riesumarle, come ha fatto laVerdi con la Seconda e ora con la Quarta, è operazione comunque apprezzabile, quanto meno dal punto di vista filologico. (E al proposito mi permetto un suggerimento, per una prossima stagione: presentare una Sinfonia di Kurt Graunke, magari la Quinta...)     

Sinfonia con tragici legami autobiografici - la triste vicenda della grave malattia mentale della prima moglie, internata in un manicomio, dove sopravvisse al marito che nel frattempo sposò una sua allieva; la sua stessa salute malferma; e finalmente la morte prematura della figlia, in seguito al suo primo parto - che ne indirizzarono il taglio e i contenuti: un Requiem, come lo stesso compositore ebbe a definirla.

Mahleriano è il lugubre recitativo di apertura affidato alla tromba (sullo stile di quello delle viole della Nona): un motivo atonale che torna - come l’altro tema suo parente della sezione iniziale, assai lirico - ciclicamente nel corso della sinfonia. Così come mahleriano e bruckneriano è l’impiego del gruppetto, una figurazione che caratterizza questo lavoro di Schmidt.

La sinfonia presenta quattro sezioni (più che veri e propri movimenti classici) tra loro giustapposte senza soluzione di continuità. Non vi manca lo Höhepunkt, nella seconda sezione in Adagio, e anche qui non si può evitare un riferimento ad un altro Adagio, quello della mahleriana Decima (a sua volta di chiara ascendenza parsifaliana).

L’unico chiaro stacco di agogica è individuabile con l’inizio della terza sezione (Molto vivace, 6/8) che rappresenta in un certo senso lo Scherzo classico (ma sa anche di saltarello... fugato) dove si riaffacciano anche i motivi ricorrenti. Essa sfocia, con un progressivo spegnersi, nell’ultima sezione, che riprende a sua volta i motivi della prima, con accenti anche qui chiaramente mahleriani nei corni e poi negli archi. Essi conducono - dopo ultimi sussulti di vitalità, ancora scopertamente mahleriani - alla ricomparsa del recitativo della tromba e allo spegnersi del suono, sul DO conclusivo.   

Che dire? Quando in una composizione di 40 minuti o giù di lì si ha per almeno una dozzina di volte la sensazione del déja-entendu... ecco, è difficile esaltarsi. Certo, c’è di molto peggio in giro, se è per quello.

Pubblico comunque prodigo di applausi per tutti e per le singole parti, giustamente chiamate da Flor a godersi il meritato riconoscimento per la prestazione tecnicamente ineccepibile.

12 gennaio, 2019

Alla Scala sempre la stessa Traviata


È dal 1990 che La traviata che si rappresenta alla Scala è sempre la stessa: sì, certo, quella di Verdi. Ma io mi riferisco alla messa in scena da Liliana Cavani. Per dir la verità un’eccezione (ma proprio unica) si è registrata negli ultimi tempi: fu a SantAmbrogio del 2013 con la produzione del genio Tcherniakov (Gatti sul podio e Lissner alla soprintendenza). Poi già nel 2017 tornò quella che era stata impiegata in ben altre 8 stagioni (91-92-95-97-01-02-07-08) dopo quella dell’esordio.

Delle due l’una: o nei magazzini del teatro sono andate a fuoco le scene (ma anche i testi della sceneggiatura) del regista russo, oppure mi sa proprio che quella del 2013-14 non fosse una produzione destinata ad entrare nella storia...
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Ecco, sistemati rapidamente l’epicedio per Tcherniakov e l’epinicio per Cavani, vengo al sodo, cioè alla parte strettamente musicale della serata. Che ha avuto per protagonista Myung-Whun Chung, già da come si è presentato con il Preludio, attaccato con un ppppp quasi impossibile, e poi caratterizzato (in ciò farà il paio con l’altro preludio) da sapienti incertezze di agogica che sembravano descrivere l’instabilità fisica (e pure psichica) della protagonista.

La quale è Marina Rebeka da Riga, che mi è parsa progredire nel corso dei quattro quadri dell’opera, dopo un avvio non proprio impeccabile, compreso l’attacco del primo Sempre libera. Forse (e senza forse) erano per lei gli isolati ma chiari buh piovuti dalla seconda galleria all’uscita dopo il primo atto: certo, se motivati solo dall’assenza del famigerato MIb finale, allora sarebbe da buare il buatore. Non particolarmente memorabile anche l’interpretazione, un po’ carente di... carisma; tutto sommato una Violetta appena discreta, che però, come detto, è cresciuta via via e ha finito per meritarsi i consensi arrivati alla fine. Adesso, passata quasi indenne dalla rottura del ghiaccio, c’è da aspettarsi che possa solo migliorare ancora.   

Francesco Meli è invece un Alfredo ben centrato sul personaggio. Mi pare stia ultimamente un po’ esagerando con l’impiego della mezza-voce, voce che per il resto è sempre un piacere ascoltare.

Leo Nucci ormai ha l’età di... nonno Germont! Ma è un nonno che canta ancora come e meglio del figlio (cioè di Germont-padre, sia chiaro, non vorrei offendere Meli). Efficace anche (come sempre, del resto) la sua interpretazione, efficacia già manifestatasi all’entrata in scena, proterva e minacciosa. Così come il progressivo... ammorbidimento, fino al conclusivo mea-culpa.

Tutti gli altri - la Flora di Chiara Isotton, Douphol di Costantino Finucci, Grenvil di Alessandro Spina e Obigny di Antonio Di Matteo - su standard più che dignitosi, come quelli degli accademici Caterina Piva (Annina), Riccardo Della Sciucca (Gastone), Sergei Arbkin (Giuseppe) e Jorge Martiniz (domestico).

Tutto sommato, una compagnia bene assortita cui ha... tenuto compagnia il solito splendido coro di Bruno Casoni (anche qui dopo una partenza non centratissima).

Durante la recita applausi a scena aperta sempre piuttosto contenuti; alla fine e alle singole uscite invece il consenso è cresciuto e i protagonisti - compresa l’immarcescibile Liliana Cavani - hanno avuto la loro buona dose di applausi.  Per il Direttore, anche ovazioni e bravo! (pienamente meritati).

Che dire, questa è una di quelle proposte dove i rischi superano di gran lunga le speranze di successo; quando invece il successo (pur contenuto) arriva... la scommessa è vinta.