affinità bombarole

rinsaldato il patto atlantico

10 novembre, 2018

laVerdi 18-19 - Concerto n°7


Per il concerto di questa settimana laVerdi si apparenta con Milano Musica, il che comporta l’inserimento nel programma di opere del compositore cui l’edizione 2018 del festival è dedicata: György Kurtág, che in questo periodo è di casa a Milano, visto che dal 15 al 25 novembre la Scala ospiterà la sua ultima fatica (già in ritardo di anni, peraltro): Fin de partie, da Samuel Beckett, cui il compositore dichiaratamente si ispira anche nel terzo dei brani in programma all'Auditorium. Sul podio il navigato Sylvain CambrelingPubblico non oceanico, ma neanche di pochi intimi, anzi.  

Di Kurtág vengono presentate due opere, incastonate fra due di Franz Schubert, che apre il programma con la Quinta Sinfonia, in SIb maggiore. Sinfonia che è stata diretta qui meno di 2 anni fa dalla bacchetta del rampante Trevino e sulla quale ho scritto allora qualche nota esplicativa.

Cambreling – gesto secco e, almeno apparentemente, preciso – ne dà una lettura più settecentesca che romantica, forse per prepararci adeguatamente ai due brani di Kurtág…
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Così, dopo le note serene - pur velate da screziature crepuscolari - di Schubert, eccoci di fronte a quelle assai problematiche di Kurtág, del quale ascoltiamo dapprima uno dei tanti Messages, quello abbozzato nel 98-99 e poi rivisto nel 2009: New Messages, op. 34a. Si tratta di sette aforismi musicali: 1. Caliban e il sogno di Miranda; 2. Ombre (questi due brani ricompaiono in ordine inverso e in varianti come ultimi due pezzi); 3. Dal profondo bisogno (messaggio a Madeleine Santchi); 4. Les Adieux alla maniera di Janáček (in memoria di Diego von Westerholf); 5. Messaggio a Zoltán Peskó. E proprio il direttore che passò anni e anni a Milano (con l’Orchestra RAI) fu protagonista della prima esecuzione con i Berliner (commissionari dell’opera) nel 2000.   

Si tratta di sette aforismi musicali, di cui i primi due ricompaiono in ordine inverso e in varianti come ultimi due pezzi:

1. Sogno di Miranda (circa 2’30”). Atmosfere languenti dei fiati (corni in primis) e interventi improvvisi delle percussioni, per questo richiamo shakespeariano;

2. Ombre (circa 1’05”). Dichiaratamente ispirato allo scherzo della settima maleriana (schattenhaft, appunto): protagonisti i contrabbassi con sordina, che suonano veloci terzine, soprattutto discendenti, supportati da arpa, timpani e da colpi di frusta; poi isolate irruzioni degli ottoni;

3. Dal profondo bisogno (circa 1’25”). Poderoso richiamo di trombe e tromboni, poi raggiunti da corni e percussioni; silenzio rotto poi da due interventi isolati del flauto, su un tappeto sonoro di fiati, percussioni e archi;  

4. Les Adieux alla maniera di Janáček (circa 5’20”). Atmosfera misteriosa, quasi liquida (celesta, cimbalom e percussioni leggere); irruzioni di grancassa;

5. Messaggio a Zoltán Peskó (circa 1’10”). Brano agitato e nervoso, tutto scatti, chiuso dall’intera orchestra con due terzine e una poderosa croma;

6. Ombre - 2 (circa 1’40”). In questa ripresa c’è più presenza dell’orchestra (altri contrabbassi, arpa e percussioni) a rinforzare la corposità del suono;

7. Sogno di Miranda - 2 (circa 2’50”). Questa variante è scritta per soli archi (un unico fugace intervento di timpani e piatti) ed effettivamente pare più sognante della prima… 

Che dire: musica più da subire che da capire? Applausi, di cortesia?
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Nel secondo brano Kurtág mette in musica lo straniante e straniato poema di Samuel Beckett: What is the Word (op.30b, orchestrazione dell’originale op.30a per pianoforte) che Claudio Abbado portò alla luce a Vienna domenica 27 ottobre del 1991, con la voce di Ildikó Monyók, l’attrice-cantante ungherese la cui disavventura di anni prima (perdita totale della voce, poi faticosamente recuperata) aveva guidato il compositore verso il poema di Beckett (il quale a sua volta e curiosamente, anni addietro e prima del caso Monyók, aveva scritto un dramma - Not I - proprio sull’esperienza di una donna che perde la voce e poi la recupera miracolosamente ad anni e anni di distanza). 

Il testo di Beckett viene affidato (in traduzione magiara) alla voce recitante, che in realtà deve emettere suoni (notati sulla partitura in chiave di violino) con una tessitura di contralto profondo, che spazia due ottave e mezza, da un DO# ultra-grave al FA#: è qualcosa di simile, ma più evoluto dello Sprechgesang di schönberghiana memoria. Con essa interagiscono (nell’originale inglese) le voci cantanti (tutte 5 le tessiture). Ecco le due versioni del testo più la traduzione italiana:

What is the Word
Samuel Beckett
Cos’è la parola
trad. Ada Ferianis
Mi is a szó
trad. István Siklós
what is the word -
folly -
folly for to -
for to -
what is the word -
folly from this -
all this -
folly from all this -
given -
folly given all this -
seeing -
folly seeing all this -
this -
what is the word -
this this -
this this here -
all this this here -
folly given all this -
seeing -
folly seeing all this this here -
for to -
what is the word -
see -
glimpse -
seem to glimpse -
need to seem to glimpse -
folly for to need to seem to glimpse -
what -
what is the word -
and where -
folly for to need to seem to glimpse
   what where -
where -
what is the word -
there -
over there -
away over there -
afar -
afar away over there -
afaint -
afaint afar away over there what -
what -
what is the word -
seeing all this -
all this this -
all this this here -
folly for to see what -
glimpse -
seem to glimpse -
need to seem to glimpse -
afaint afar away over there what -
folly for to need to seem to glimpse
   afaint afar away over there what -
what -
what is the word -
what is the word
cos’è la parola -
follia -
follia per -
per -
cos’è la parola -
follia da questo -
tutto questo -
follia da tutto questo -
dato -
follia dato tutto questo -
vedendo -
follia vedendo tutto questo -
questo -
cos’è la parola -
questo questo -
questo questo qui -
tutto questo questo qui -
follia dato tutto questo -
vedendo -
follia vedendo tutto questo questo qui -
per -
cos’è la parola -
vedere -
scorgere -
sembrare scorgere -
avere bisogno sembrare scorgere -
follia per avere bisogno sembrare scorgere -
cosa -
cos’è la parola -
e dove -
follia per avere bisogno sembrare scorgere
     cosa dove -
dove -
cos’è la parola -
là -
laggiù -
via laggiù -
lontanamente -
lontanamente via laggiù -
languidamente -
languidamente lontanamente via laggiù cosa
cosa -
cos’è la parola -
vedendo tutto questo -
tutto questo questo -
tutto questo questo qui -
follia per vedere cosa -
scorgere -
sembrare scorgere -
avere bisogno sembrare scorgere -
languidamente lontanamente via laggiù cosa
follia per avere bisogno sembrare scorgere
 languidamente lontanamente via laggiù cosa
cosa -
cos’è la parola -
cos’è la parola
mi is a szó -
hiábavaló -
hiábavaló nak hoz -
nak hoz -
mi is a szó -
hiábavaló ettől -
mindettől -
hiábavaló mindettől -
adott -
hiábavaló adva mindettől -
látnivaló -
hiábavaló látni mindezt -
ezt -
mi is a szó -
ez ez -
ez ez itt -
mindez ez itt -
hiábavaló adva mindettől -
látva -
hiábavaló látni, mindezt itt -
nak hoz -
mi is a szó -
látni -
pillantani -
pillantani tűnni -
szükség pillantani tűnni -
hiábavaló szükség pillantani tűnni -
mi -
mi is a szó -
és hol -
hiábavalónak hoz szükség pillantani tűnni
   mi hol -
hol -
mi is a szó -
ott -
odaát -
odébb odaát -
távol -
távol odébb odaát -
eltűnő -
eltűnő távol odább odaát mi -
mi -
mi is a szó -
látni mindezt -
mind ezt ezt -
mind ezt ezt itt -
hiábavaló nak hoz látni mi
pillantani -
pillantani tűnni -
szükség pillantani tűnni -
eltűnő távol odább odaát mi -
hiábavaló nak hoz szükség pillantani tűnni
     eltűnő távol odább odaát mi -
mi -
mi is a szó -
mi is a szó

Gli strumenti sono quasi tutti dislocati remotamente, in ogni lato della galleria, mentre sul palco stazionano il violino (la spalla Dellingshausen), il pianino suonato da Csaba Kiraly, l’arpa di Elena Piva, la celesta (Carlotta Lusa), il cimbalom (Bruno De Souza Barbosa), oltre al direttore (che per evidenti ragioni è rivolto verso la sala) e la voce recitante di Gerrie de Vries, cantante-attrice, proprio come l’ispiratrice dell’opera. Le 5 voci che contrappuntano quella recitante (l’ensemble Il Canto di Orfeo guidato da Gianluca Capuano, ben noto in Auditorium per i suoi contributi alle esibizioni de laBarocca) dovrebbero disperdersi in mezzo al pubblico, ma qui sono invece concentrate sul fondo della platea, accanto ai timpani. 

Insomma, si tratta di un vero e proprio spettacolo di teatro integrale, dove i suoni arrivano da ogni dove, mentre ciò che si canta o si declama è un perenne domandarsi su cosa sia la parola, ma non solo: cosa sia il guardare, il cercare di vedere, di scorgere; insomma un continuo girare a vuoto in cerca di risposte a domande che risposte non trovano.

Di sicuro l’effetto è… interessante, quanto inconsueto (almeno per l’Auditorium) è lo scenario. E il pubblico mi pare mostrare almeno interesse, appunto, non lesinando applausi per tutti.  
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Dopo questi due piatti francamente un po' ostici da digerire, si chiude - meno male! - ancora con Schubert e la sua Incompiuta.

Cambreling qui mi sembra (correttamente) proporre uno Schubert più corposo e problematico, rispetto alla Quinta iniziale: mettendo in evidenza la profondità dei temi e non risparmiandosi di calcare la mano dove necessario. Quindi ripetute chiamate e gran successo per lui e i ragazzi. 
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PS. La prossima settimana vedrà compiersi uno degli eventi cardine in ricordo della fondazione dell’Orchestra: tre concerti in cui verrà eseguita l’integrale sinfonica di Ciajkovski, diretta da Flor.

08 novembre, 2018

Elektra è tornata in Scala


Ieri sera la Scala ha offerto la seconda delle sette recite della straussiana Elektra, una ripresa della produzione del 2014, l’ultima impresa registica del compianto Patrice Chéreau. Di quella produzione, a parte l’allestimento, è sopravvissuta la voce della venerabile Waltraud Meier, che già 4 anni orsono mostrava ampiamente la corda, quindi si può immaginare come sia oggidì (della serie: com’è difficile appendere la voce al chiodo...) 


Restando alle voci, una delle mie osservazioni critiche di allora (qui richiamate) riguardava i tagli apportati alla partitura (nulla di nuovo peraltro) che riguardano principalmente il soprano protagonista: la Herlitzius del 2014 (secondo me, date le sue strabordanti doti) avrebbe meritato che fossero riaperti. Ecco, la Ricarda Merbeth di oggi avrebbe invece bisogno di tagli almeno doppi, per non finire... arrosto! Il mio personale rapporto diretto con lei (oh, mantenuto ad almeno 20-30 metri di distanza, eh!) va da una promettente Leonore del 2011 ad una sufficiente Isolde del 2017, ad una nuova Leonore, ma in regresso, nel 2018, per arrivare a questa francamente anonima Elektra: ieri poi ha sfoggiato (in negativo, s‘intende) un vibrato davvero sgradevole.

Regine Hangler è invece una convincente Chrysothemis, ruolo non proibitivo ma non per questo da prender sottogamba: e lei ci si è evidentemente applicata con grande solerzia, mostrando bella impostazione e corposità di suono.

L’Orest di Michael Volle forse non raggiunge le vette del grande Sachs nei Cantori della scorsa stagione: certo il personaggio è per qualità e quantità assai più abbordabile e meno centrale di quello wagneriano...

Il figlio di migranti siculi Roberto Saccà (non ditelo a Salvini) fa la sua bella figura nei panni, peraltro succinti, causa subitaneo accoltellamento... di Egisth.

Tutti gli altri (e altre) su livelli dignitosi.

Christoph von Dohnányi è stato oggetto dell’ormai proverbiale annuncio di Pereira subito prima della recita: il quasi novantenne vegliardo non ha retto l’urto della prima di domenica e lo hanno dovuto trasferire in ospedale a Monaco di Baviera (ovvio, essendoci di mezzo Strauss...) per accertamenti. Così ier sera è salito sul podio uno che sta già qui a Milano per preparare la prima assoluta di Fin de partie di Kurtág, che va in scena dal prossimo 15 novembre: trattasi di Markus Stenz, che per la verità se l’è cavata da navigato routinier, fidandosi della preparazione dell’Orchestra, che mi pare abbia ben meritato. 

In sostanza, un evento per nulla memorabile, ma ascoltare questa musica ti fa sempre venire i brividi e sconvolge le budella, e così deve averla pensata anche il pubblico dei rari nantes approdati al Piermarini.

02 novembre, 2018

laVerdi 18-19 - Concerto n°6


L’ormai immancabile appuntamento con il Requiem di Verdi è affidato quest’anno alle sapienti mani e alle amorevoli cure di Oleg Caetani.    

Insieme all’affiatatissimo coro di Erina Gambarini, compongono quest’anno il quartetto SATB Erica Wen Meng Gu (una pettoruta cinesona); Yulia Mennibaeva, che viene dalla Russia; Edoardo Milletti (compaesano di SanFrancesco) e il georgiano (lo dicono contestualmente nome e cognome) George Andguladze. Caetani li colloca al proscenio ai due lati del podio (da sinistra a destra per chi guarda) in ordine ASTB (ossia le voci gravi all’esterno) mentre l’orchestra (ieri guidata da Dellingshausen) si dispone teutonicamente con i violini secondi davanti a destra e i bassi dietro a sinistra; timpani e grancassa (protagonisti nel terrificante Dies Irae) stazionano in basso a destra, dietro i secondi violini; le trombe remote (per l’effetto stereo nel Tuba mirum) come sempre sono appollaiate alle due estremità avanzate della galleria.

Dico subito che la lettura di Caetani (che ha diretto con la partitura in... testa) mi ha pienamente convinto: prendo come esempio lo stacco del tempo dell’Offertorium, spedito proprio come da metronomo di Verdi, e non languido e strascicato come spesso capita di sentire. Impeccabile - come sempre, del resto - il coro, che 20 anni orsono nacque sotto la mano esperta (per anni e anni di Scala) di Romano Gandolfi.

A differenza di precedenti edizioni, mi pare che il quartetto dei solisti quest’anno sia di livello più che discreto. Su tutti l’imponente (anche nel fisico) Erica (faccio prima a dire solo il nome...) che ha mostrato un gran bel timbro di voce, con acuti senza una sbavatura e discreto volume anche nei centri e nei gravi; e poi Edoardo Milletti, che dopo un esordio periclitante (forse l’emozione) ha sfoggiato la sua voce squillante di tenorino lirico (canta spesso Almaviva). Gli ex-sovietici Mennibaeva e Andguladze hanno mostrato buona tecnica ed espressione, a dispetto di voci di potenza non eccezionale.

Auditorium tornato piacevolmente ad affollarsi e prodigo di applausi e acclamazioni per tutti. Fuori, persino il tempo si è rimesso al bello...

27 ottobre, 2018

laVerdi 18-19 - Concerto n°5


Altro simpatico ritorno in Auditorium (ieri peraltro assai poco frequentato): è quello di Wayne Marshall (e poi dicono che a Malta non vogliono gente di colore...) che ci presenta un programma fluvial-marino snodantesi fra ‘800 e ‘900, ma sempre saldamente in acque territoriali tonali amiche.

Subito una considerazione che si applica a tutti e tre i brani in programma: Marshall ha tenuto tempi non stretti, ma strettissimi, trasformando i fiumi in rapide e mandando i mari in burrasca! Ma - dato che l’Orchestra non è... annegata - il risultato deve considerarsi più che accettabile.  
  
Si parte quindi con Vltava, il secondo dei sei poemi sinfonici che Smetana dedicò alla sua patria (ciclo Má vlast). La Moldava è in effetti il fiume simbolo della Boemia, che attraversa da sud-ovest a nord-est, sfociando nella più piccola Elbe poco sopra Praga. In poco più di 150 Km in linea d’aria (fra sorgente e foce) compie un percorso di ben 430 Km, il che rende bene l’idea della sua importanza per quei territori.

Seguiamo un’esecuzione patriottica della Filarmonica ceca diretta da Jiri Belohlavek: dopo che flauti e clarinetti (Allegro commodo non agitato, 6/8) hanno evocato le due sorgenti del fiume, ecco negli archi (1’31”) il famoso tema principale in MI minore (che viene dall’Italia e compare anche nell’inno nazionale d’Israele) che poi (3’15”) ci porta in DO e FA maggiore attraverso una caccia nei boschi, poi (4’13”, L’istesso tempo, ma moderato, 2/4, SOL maggiore) ad una festa di nozze di contadini; quindi, modulando a LAb maggiore (5’48”) ad una danza notturna di ninfe, in 4/4; dopo un passaggio in MI maggiore, a 8’26” ritorna in MI minore, 6/8, il tema principale del fiume, che poi (9’15”) si getta - con diverse modulazioni di tonalità - nei gorghi e nelle rapide di SanGiovanni; riecco (10’29”, Più moto) la Moldava nel poderoso procedere delle acque (ritorno del tema principale in MI maggiore) e poi si sale su fino a passare (10’57”) ai piedi del mitico castello di Vyšehrad, che riconosciamo musicalmente dalla comparsa del suo tema, protagonista dell’omonimo primo poema del ciclo, che ci accompagna... alla foce.

A proposito, non sarebbe male se laVerdi mettesse in cantiere l’esecuzione integrale del ciclo, che meriterebbe un concerto tutto per sè...

Encomiabile la prestazione di tutti, ma come non segnalare flauti e clarinetti per la magistrale esposizione delle sorgenti del fiume.
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Ecco poi Benjamin Britten, con i Four sea interludes dal Peter Grimes. La sequenza dei quattro brani non rispetta quella dell’opera (come si può dedurre dallo specchietto sottostante):


Nell’opera gli interludi sono in effetti sei, equamente distribuiti nelle sue tre parti (prologo incluso) e non sono titolati. Il primo serve come preludio - dopo il Prologo al tribunale - al primo atto, ed evoca un mattino grigio al borgo affacciato sul mare. La tonalità è (appropriatamente) LA minore, il tempo Lento e tranquillo. Il secondo evoca la tempesta che si abbatte sul borgo alla sera (Presto, con fuoco) ed è in MIb minore, con diverse modulazioni. Il terzo (Allegro spiritoso) è in LA maggiore ed apre il second’atto accompagnando la serena atmosfera del villaggio in un giorno di festa. Il quarto è una Passacaglia (Andante moderato) che precede l’arrivo di Grimes e del suo giovane aiutante verso la baita del marinaio, dove il ragazzo troverà la morte. Il quinto (Andante comodo e rubato) è in MIb maggiore, apre il terzo atto ed introduce la scena di una notturna festa danzante. Il sesto (Lento) fa da preludio alla conclusione dell’opera, riprendendo l’atmosfera del primo interludio.

Nella suite Britten ha invece impiegato quattro dei sei interludi (la Passacaglia l’ha isolata in un brano ad-hoc) disponendoli secondo un principio di opposizione luce-tenebre (o giorno-notte). Dapprima la coppia di brani diurni (LA minore e maggiore) e poi quella di brani notturni (MIb maggiore e minore). Significativo il fatto che le due tonalità (LA-MIb) siano separate da un inquietante tritono, figura musicale assai appropriata a rappresentare l’insanabile dissociazione fra la personalità ribelle e misantropa di Grimes e il perbenismo un po’ bigotto della società nella quale il protagonista vorrebbe integrarsi, essendone viceversa ripetutamente emarginato.

Marshall sta abbastanza... calmo per i primi tre brani, poi si scatena nell’ultimo, che non a caso evoca una tempesta, suscitando l’entusiasmo dei fedelissimi.
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Chiude il programma Die Seejungfrau di Alexander von Zemlinsky. La sua ispirazione alla novella di Andersen (La Sirenetta) è tanto dichiarata quanto labile, non avendo il compositore indicato precisi e dettagliati riferimenti sulla partitura (ne esistono però in appunti stesi durante la composizione). Antony Beaumont, che ha curato l’edizione critica della partitura (data per persa un secolo fa e poi fortunosamente ritrovata a pezzi qua e là e rimessa insieme) scrive nella prefazione all’edizione Universal che Zemlinsky avrebbe cominciato a comporre questa musica dopo la cocente delusione provata in seguito al fallimento della sua vicenda sentimentale con la giovane e bella Alma Schindlersua allieva che aveva stravisto per lui, sognando nientemeno che di dargli un figlio (!) ma che poi di punto in bianco lo piantò in asso per accasarsi con tale Gustav Mahler...  Mah, forse lui si sentiva come la sirenetta respinta dal principe (!?)    

A proposito di Principe, il grande Quirino, in un sapiente saggio pubblicato sul programma di sala (che mi permetto di riprodurre qui, sperando che nessuno chieda la mia testa per aver violato diritti) propone una plausibile associazione fra le note di Zemlinsky e il testo di Andersen.

L’opera, che reca l’attributo Fantasia in tre movimenti per orchestra da una novella di Andersen, è appunto tripartita (quasi fosse una sinfonia) e ci si sente tutta l’influenza della musica contemporanea (siamo a cavallo del secolo) a Zemlinsky, che in sostanza si rifà ad un nome ben preciso e conosciuto: Richard Wagner (cui ovviamente si accodano Strauss e Mahler) e più remotamente a Liszt e Berlioz.

Grazie al lavoro di Beaumont si possono oggi ascoltare due versioni dell’opera, che differiscono sostanzialmente nel secondo movimento: del quale era stata in un primo tempo ritrovata una versione riveduta dall’Autore, che ne aveva tagliato una parte (79 battute, 4-5 minuti di musica); parte scoperta successivamente fra le sue carte. Riccardo Chailly ha eseguito e inciso più volte la versione riveduta (qui con la Radio di Berlino); quella originale si può ascoltare in questa bella esecuzione finlandese di Storgårds (il taglio riaperto va da 22’45” a 27’15”).

A questo punto diviene spontanea la domanda: ma laVerdi quale versione ha suonato? Ebbene, ha suonato quella originale (con le 79 battute reintrodotte); ma, grazie ai tempi forsennati di Marshall, la durata ha eguagliato quella (ad esempio) di Chailly che invece taglia quelle battute.

Successo clamoroso e applausi ritmati: Marshall ringrazia facendo chiari cenni verso i ragazzi, come a dire: merito loro!

Sarà una pura combinazione, ma questa Seejungfrau è anche nel programma del prossimo concerto dell’OSN (su Radio3 sabato 3 novembre, 20:30).

22 ottobre, 2018

Semiramide rinasce in laguna


È tornata nella sua casa natale la più grande opera (escludendo magari il Tell) di Rossini. Dopo la prima di venerdi scorso (trasmessa da Radio3) ieri pomeriggio(-sera...) è andata in scena la seconda recita, in un teatro non propriamente esaurito.

Prima dell’inizio ho fatto un giretto nella Sala Ammannati per dare un’occhiata a quell’autentico cimelio ivi esposto in questi giorni: la partitura autografa dell’opera. E si prova una certa emozione nel contemplare da vicino quelle carte da musica sulle quali il genio pesarese vergò le strabilianti note del suo capolavoro. Note che hanno ancora riempito gli spazi della Fenice, proprio come accadde per la prima volta quel lunedì 3 febbraio del 1823.   

Sulle diverse bizzarrie del libretto, che il Rossi ricavò da Voltaire (peggiorandolo assai) ho già scritto la mia un paio d’anni orsono, in occasione di una produzione del Maggio, quando ho anche sintetizzato la struttura dell’opera, appoggiandomi ad un’esecuzione in terra vallone del padreterno Zedda (che insieme al co-padreterno Gossett approntò l’edizione critica per la Fondazione Rossini). E ciò che viene presentato oggi è la versione praticamente integrale del lavoro, come testimoniano ampiamente le quasi 4 ore di durata netta della rappresentazione, che eguaglia praticamente al minuto secondo (anche nei singoli atti) quella della citata edizione di Zedda. 
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Segnalo subito la recensione di Amfortas, che mi sento di condividere largamente nella sostanza. 

Di Riccardo Frizza - da bresciano tifo per lui - non posso dir che bene: non che non lo conoscessi, ma qui passava dal cockpit di un chessna a quello di un A380! Che ha guidato con grande sicurezza e padronanza della... materia. E l’Orchestra della Fenice lo ha pienamente assecondato, reagendo sempre con precisione e compattezza ai suoi comandi.

Ottima anche la prestazione del coro di Claudio Marino Moretti, che è impegnato (maschi e femmine) in misura quantitativamente (nulla è tagliato) e qualitativamente massiccia. 

Jessica Pratt è ormai una beniamina della Fenice ed ha ottenuto un gran trionfo. Personalmente, riconosciuta la sua strabiliante forma, torno a manifestare le mie perplessità sull’aderenza vocale del soprano anglo-australiano al ruolo di Semiramide. Qui non si tratta di fare impropri e impossibili paragoni con una tale Isabella, però ci son pochi dubbi che Rossini abbia scelto il personaggio proprio per il profilo chiaramente drammatico, che richiederebbe una voce diversa da quella adatta ad una Astrifiammante, per dire. E così la voce spiccatamente lirica e i MI naturali e MIb sovracuti che la Jessica ha splendidamente sciorinato fanno restare il pubblico a bocca aperta, ma non sono - sempre a parer mio - perfettamente appropriati alla personalità del ruolo-titolo: una femmina che - contrariamente a ciò che certa tradizione tramanda, di ninfomane incallita - per Voltaire e Rossi-Rossini è una fredda creatura avida di potere, e quasi di null’altro. Gli uomini sembrano interessarla solo come marionette da impiegare ai suoi fini: Assur per farsi aiutare da lui a far secco il marito che la stava ripudiando... adesso Arsace (che lei crede un proletario fedelissimo e pronto a tutto per lei) da nominare Re (travicello) solo per garantire a se stessa la perpetuazione del suo potere. 

Chi invece mi ha abbastanza impressionato è la Teresa Iervolino, un Arsace dalla voce morbida ed intonata, cui manca (ancora?) un po’ più di profondità e di robustezza. Purtroppo di Podles non ne nascono tutti i giorni, ma il contralto romano (non ancora 30enne) è sulla buona strada per emergere nel panorama musicale. 

Alex Esposito è un Assur sufficientemente autorevole: la sua voce è forse un filino troppo chiara (sempre per i miei gusti) ma lui compensa con la sua proverbiale presenza scenica. A proposito: la regista lo presenta dapprima con problemi di deambulazione (bastone da passeggio perennemente imbracciato) poi nel finale il nostro mostra doti addirittura da acrobata (?!) 

Il ragusano (trapiantato per l’occasione in India) Enea Scala se la cava discretamente come Idreno, parte affatto facile, sia detto, anche se gli acuti (fino al RE, peraltro) sembrano un po’ ghermiti... alla sperindio. La sua partner... poco convinta, Azema, è una Marta Mari ben dotata di mezzi naturali, che deve (come il tenore) mettere meglio a partito. 

Rimarchevole, soprattutto per presenza (un filino meno per portamento vocale, stante qualche berciata di troppo) l’Oroe di Simon Lim

Completano degnamente il cast il Mitrane di Enrico Iviglia e (invisibile ma... ampiamente controfigurato) Francesco Milanese che dà voce alla spaventevole ombra di Nino, che si aggira minacciosa a partire dalla fine del prim’atto. 
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L’allestimento della giovane Cecilia Ligorio è essenziale nella scenografia (di Nicolas Bovey) che nel primo atto si riduce a uno scorcio di banlieu di Babilonia, che funge da tempio di Belo e poi da reggia di Semiramide, con ampio sfoggio di ori e piante... pensili; e nel secondo si riduce ad una piattaforma circolare all’interno di una scena totalmente buia e nera, direi appropriata allo scenario generale, che vede il compiersi della tragedia. Che anche l’intermezzo (teoricamente) idilliaco della definitiva unione (e conseguente... scomparsa) di Azema e Idreno sia ambientato in questa specie di girone infernale non è poi del tutto fuori luogo: credo che da buona femminista la Ligorio abbia voluto sottolineare come per una donna il dover seguire un uomo controvoglia sia, appunto, un inferno (qui però la regista ha dato retta più a Voltaire che a Rossi-Rossini, per i quali la fanciulla parrebbe accontentarsi anche di uno che fa l’indiano). 

Le luci di Fabio Barettin si adeguano perfettamente alla duplicità dello scenario: abbaglianti per rendere al meglio lo sfarzo della sfolgorante Babilonia e poi... assenti o quasi nel second’atto. 

I costumi di Marco Piemontese sono un pot-pourri di stili, mode ed epoche, una maniera come un’altra per rappresentare degli archètipi, senza dare precisi riferimenti: si va da abbigliamenti più o meno plausibilmente babilonesi (il popolo del primo atto) a uniformi militari austro-ungariche (Idreno) ad acconciature da barbie (Semiramide, Azema) e Rasputin (Assur); al bizzarro vestimento guerresco di Arsace, per finire ai completi neri (cappelli inclusi) degli scagnozzi di Assur, un autentico branco di pipistrelloni. 

Non particolarmente eccitante la recitazione: salvo Esposito che ci mette del suo, gli altri paiono lasciati un po’ a se stessi e non è che brillino particolarmente. Brava la coreografa-ballerina Daisy Ransom Phillips con le quattro danzatrici che fungono da ancelle del gran sacerdote. 

In conclusione, uno spettacolo più che dignitoso, che il pubblico ha accolto con grande favore gratificando tutti e ciascuno di applausi e di bravi! Per me, una trasferta tutto sommato piacevole.

19 ottobre, 2018

laVerdi 18-19 - Concerto n°4


Sul podio dell’Auditorium (ieri assai poco... frequentato, a dir il vero) fa il suo gradito ritorno Kolja Blacher, come spesso nella duplice veste di direttore e solista in un concerto assolutamente classico, ma con un intermezzo... famigliare: fra Beethoven e Mozart compare infatti il papà del musicista tedesco.

Il quale, dopo averci suonato quelli di Schumann (2011) Brahms (2016) e Mendelssohn (febbraio scorso) ci ri-propone (a distanza di 18 anni!) il monumentale Concerto per violino di Beethoven.

Come di consueto, l’approccio di Blacher è caratterizzato da teutonica rigorosità: quindi totale rispetto della lettera, oltre che dello spirito, del brano, e nessun cedimento a facili quanto discutibili gigionerie. Insomma, è proprio tutto Beethoven! Salvo che nelle cadenze, soprattutto la prima, dove il nostro si scatena in un fantastico duetto con i timpani della Viviana, una cosa invero memorabile.   
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Arriva ora la parentesi domestica: la prima esecuzione italiana di Pentagramm, una specie di sinfonia da camera (16 archi previsti in organico) composta nel 1974 dal padre di Kolja, Boris, in omaggio alla berlinese Philharmonie, dove fu eseguita per la prima volta dai Berliner nell’ormai lontano 1975.



Ecco come il figlio descrive l’opera del padre:

Boris Blacher compose Pentagramm nel 1974 (un anno prima della sua morte) appositamente per i Berliner Philarmoniker. L’ispirazione gli fu data, idealmente, dalla
Philaharmonie, la sala da concerto dei berlinesi, un edificio molto particolare che fin dalla sua inaugurazione (1963) è diventato uno dei simboli della capitale tedesca. Nota
anche come “Circus Karajani”, il suo interno è stato progettato dall’architetto Hans Scharoun, amico del compositore, a forma pentagonale e mantenendo il palco come elemento centrale. Da qui l’idea del titolo Pentagramm. Il brano fu eseguito per la prima volta nell’aprile del 1975 dai Berliner Philharmoniker, tre mesi dopo la morte del
compositore. 

Oggigiorno questa composizione, per molti aspetti estremamente interessante, viene eseguita - purtroppo - molto raramente, soprattutto rispetto al piu noto, e per certi versi somigliante, brano per 12 violoncelli (Blues, Espagnola & Rumba, ndr) composto un paio di anni prima. Elaborata per un organico strumentale che prevede il solo impiego di 16 archi, e caratterizzata da una scrittura che si ispira ad uno stile musicale tardo, molto asciutto, in cui ritroviamo l’utilizzo sia della tecnica del canone inverso “a specchio” sia del canone retrogrado

Nel primo movimento il compositore fa suonare gli archi come fossero delle percussioni
(Blacher fu pioniere in questa tecnica), tamburellando sul corpo dello strumento.

Il secondo movimento è invece tipico del suo modo di sentire la musica: introverso ma allo stesso tempo molto espressivo. Reminiscenze dei suoi primi anni in Cina, in Manciuria, e della Siberia vengono interpretate dagli “a solo” dei violini e dei violoncelli.

Il terzo movimento è anch’esso peculiare dello stile di Blacher, poichè influenzato da un ritmo di 7/8 in continua progressione tipico della musica jazz.

Il quarto movimento è di nuovo un “lento”. Inizia con un ostinato-pizzicato che crea un
effetto di sospensione e dà la sensazione che “il tempo si sia fermato”.
  
Subito abbiamo una conferma alla descrizione di Blacher: a dispetto della presenza sul palco di soli archi (4+4+3+3+2) il brano inizia - e poi proseguirà e si concluderà - con interventi di... percussioni, presenti in incognito nella forma delle casse acustiche, sulle quali si abbattono i polpastrelli degli strumentisti. Brano che ha un andamento curvilineo, dal lento si muove verso il veloce, che culmina nel terzo movimento, per poi tornare a calmarsi. Le quattro prime parti hanno anche modo di esibirsi in difficili passaggi solistici.

Che dire: sono 24 minuti di musica a tratti ostica, in altri più digeribile, che il pubblico accoglie come si suole in casi simili: applausi di cortesia.
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Mozart chiude la serata con la Sinfonia Haffner. Già il collocarla a chiusura del concerto fa capire quanta importanza le dia Blacher, al contrario di ciò che fanno altri Direttori, che magari la impiegano come antipasto. Effettivamente è una sinfonietta (derivata infatti da una precedente Serenata) ma già contiene i germi dei lavori della maturità.

Blacher, come fa spesso in questi casi, si siede al posto del Konzertmeister (spingendo Santaniello alla sedia di concertino) e dà gli attacchi con il... corpo. L’esecuzione è leggera, ma non leziosa, vibrante ed effervescente, con il languido intermezzo dell’Adagio.

Accoglienza calorosa per una proposta che merita più... attenzione (ma gli assenti di ieri hanno ancora due giorni per rimediare).

17 ottobre, 2018

Mozart acerbo in salsa barocca


Dopo averci proposto un’opera di un compositore ormai andato troppo in là con la maturazione (Cherubini, AlìBabà) ecco che la Scala, per riequilibrare la situazione, ce ne ha offerta una di un compositore ancora assai lontano dalla maturità (Mozart, La finta giardiniera): così la media è ristabilita, ma il risultato è che ci siamo dovuti sorbire due lavori non propriamente entusiasmanti... cose da festival, come infatti succede per questo spettacolo importato da Glyndebourne e approdato ieri sera alla terza delle sette recite in programma, non privo di qualche manipolazione, tipo spostamenti di arie e tagli ai recitativi.

Aspetti decisamente problematici sono la piattezza (appunto) dei recitativi e la prolissità di buona parte dei numeri, criticità che fanno quasi annegare le parti pur mirabilmente ispirate della partitura (dove si prefigura il Mozart che tutti... conosciamo). Mi permetto di aggiungere come l’approccio barocchista di Diego Fasolis (magari filologicamente corretto) forse non sia il più adatto a mettere in risalto le qualità dell’opera. Poi ci si è messa pure la sfiga che ha costretto la protagonista Hanna-Elisabeth Müller a mimare il suo ruolo alla prima di lunedi scorso, mentre la voce (della Martin du Theil) veniva dalle quinte; e poi a disertare la seconda, per cantare finalmente ieri sera.

E direi che non abbia cantato male, così come la travestita Lucia Cirillo e il convincente Mattia Olivieri. Gli altri su discreti standard, con qualche bercio di troppo da parte di Kresimir Spicer.

Frederic Wake-Walker (di cui avevamo apprezzato... con riserve le sue Nozze di un paio d’anni fa) propone una messinscena brillante e spiritosa (ne è testimone il finale davvero azzeccato) ma sa anche ben rendere le atmosfere da tregenda del second’atto.
    
Pubblco abbastanza folto, ma piuttosto parco di entusiasmi, salvo l’accoglienza divertita alla calata del sipario. Qualche minuto, non di più, di applausi per tutti.