trallalalera, trallalalà!

droni di qua, razzi di là, bombe di su, spari di giù...

09 aprile, 2018

Gioconda ha chiuso il tour a Reggio E.



Ieri pomeriggio al Valli di Reggio E. (piacevolmente affollato in ogni ordine di posti) si è chiuso il tour emiliano de La Gioconda, già transitata a marzo da Piacenza e Modena (teatri co-produttori dello spettacolo). Rendo subito merito alla provincia (emiliana, nella fattispecie) che ancora una volta mostra di saper proporre e allestire opere importanti e difficili come questa, raggiungendo allo stesso tempo risultati di tutto rispetto.

È noto che le difficoltà di allestire Gioconda risiedono principalmente nella necessità di mettere insieme un cast vocale di quantità (oltre che qualità) assai robusta: si tratta di sei protagonisti e deuteragonisti che coprono altrettante (quindi tutte le) diverse tessiture vocali. E il cast che ha sostenuto per intero la prova si è dimostrato mediamente all’altezza del compito.

A partire dal Barnaba di Sebastian Catana, davvero convincente sia sul piano vocale (ottima impostazione e timbro bronzeo) che su quello scenico, perfettamente calato nel truce personaggio.

Francesco Meli conferma le sue doti di fine lirico, sfoggiando difficili acuti a mezza voce e timbro cristallino. Il suo cielo&mar è stato lunghissimamente applaudito da un pubblico in delirio, che in pratica lo ha costretto ad un bis che taglierebbe la... gola a chiunque.

Bene la Cieca di Agostina Smimmero, voce corposa e passante, accompagnata ad un’efficace presenza scenica.

Giacomo Prestia è stato un Alvise corretto, ma i decibel cominciano a scarseggiare e - forse involontariamente - Callegari lo ha un paio di volte coperto con eccessivo volume dell’orchestra.
   
Note discrete, non di più, per le due donne principali: Saioa Hernández ha un vocione invidiabile, ma assai poco... disciplinato, dall’emissione periclitante e con acuti spesso tendenti alla vociferazione. Si è salvata con il... suicidio (!) che essendo l’aria più impegnativa dell’opera è stata probabilmente studiata e messa a punto meglio del resto. Anna Maria Chiuri ha mostrato discreta padronanza del ruolo di Laura, ma negli acuti ha manifestato analogie con la Gioconda: il loro duetto-scontro del second’atto è stato un po’ un festival dello schiamazzo, ecco...

Oneste le prestazioni dei comprimari Dellavalle, Donini, Izzo e Tansini. Un encomio al Coro piacentino di Corrado Casati e ai piccoli del Farnesiano guidati da Mario Pigazzini (tutti applauditissimi alla fine).

Ottime cose ha fatto il concertatore Daniele Callegari, che ha saputo estrarre e soprattutto valorizzare le tante raffinatezze dell’orchestrazione di Ponchielli, mantenendo (quasi) sempre un buon equilibrio nel sostegno delle voci. Onori ovviamente all’Orchestra ORER, sia come complesso che come singoli, spesso chiamati da Ponchielli a difficili passaggi solistici.

In definitiva, un bel successo sul piano musicale.
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Successo condiviso dall’equipe responsabile dell’allestimento. Federico Bertolani ha rispettato in pieno lo spirito ed anche la lettera del soggetto di Boito-Ponchielli, mettendo in risalto gli aspetti peculiari delle personalità dei diversi protagonisti del dramma. Una volta tanto è stata apprezzabile l’esecuzione del Preludio a sipario alzato: un tableau-vivant dove - sottolineati dai temi del Rosario e di Barnaba - il pubblico ha potuto far conoscenza con i principali protagonisti del dramma.

Il regista si è avvalso di scene (Andrea Belli) di assoluto ma essenziale ed efficace minimalismo: cielo e mar, verrebbe da dire, che sono onnipresenti nell’opera, e che si materializzano nell’acqua vera che allaga il palco (e riverbera le sue increspature fin sul soffitto del teatro...) e sul cielo dalle sfumature tenui, che fa da sfondo e si confonde con l’acqua, proprio come accade normalmente in laguna. Fa eccezione l’ambientazione del terzo atto, dove l’interno della Ca’ d’Oro è rappresentato come un enorme crogiolo tutto rosso porpora: il sangue che viene versato da ciò che si trama in quell’ambiente. Ambiente abitato invece - e qui siamo al nero più nero - da autentici pipistrelli (quali appaiono tutti i dignitari - e rispettive consorti - della Repubblica colà riuniti).

Efficaci e raffinati i costumi di  Valeria Donata Bettella, così come i giochi di luce di Fiammetta Baldisserri.

Gioconda è un grand-opéra infarcito di danze e balletti. La Compagnia Artemis Danza di Monica Casadei si fa carico di questa non marginale componente dello spettacolo, valorizzandola al meglio, pur con risorse ridottissime (6 danzatori per Le ore!)

In complesso: una prova encomiabile da parte di tutti, che il pubblico ha gratificato di lunghi e calorosi applausi. Viva la provincia!

07 aprile, 2018

laVerdi 17-18 – Concerto n°21

                               
Il 30enne orsacchiotto uzbeko Aziz Shokhakimov onora finalmente la sua posizione di Direttore Principale Ospite de laVerdi tornando dopo 18 mesi sul podio dell’Auditorium per dirigervi un concerto dall’impaginazione ancora una volta piuttosto inconsueta. Dopo la respighiana Sinfonia Drammatica e la Prima di Kalinnikov, ascoltiamo un’altra quasi-primizia per l’Orchestra (che non la eseguiva da 20 anni): la Quarta Sinfonia di Carl August Nielsen.

Il quale, a dispetto delle reiterate dichiarazioni di voler comporre musica assoluta e non a programma, pose sottotitoli a 4 delle sue 6 sinfonie, etichette che sembrano rivaleggiare con quelle di Scriabin: i 4 temperamenti (no, non musicali, ma psicologici); sinfonia espansiva; l’inestinguibile; sinfonia semplice. Ed è appunto quella denominata Inestinguibile (per la quale è l’attributo di Sinfonia ad essere posto come sottotitolo!) che ascoltiamo questa settimana, composta nei primi anni della Grande Guerra. A fronte della quale l’Autore lasciò un programma (a proposito!) assai dettagliato, quanto ambiguo e contraddittorio, ma riassunto dal concetto: così come la vita, anche la musica è inestinguibile! (messa così, la definizione si attaglia al 99,9% di ogni composizione, almeno nelle intenzioni dei compositori...)

La partitura non indica alcuna suddivisione classica in movimenti, ma solo alcune notazioni agogiche (accompagnate da cambi di chiave) che possono interpretarsi come confini fra 4 pseudo-parti (ma per il resto, manca ogni soluzione di continuità): l’Allegro iniziale, poi il Poco allegretto, quindi il Poco adagio, quasi andante e infine l’Allegro che chiude il brano. La forma ha risvolti ciclici, poichè il tema principale (glorioso) che monopolizza l’Allegro iniziale torna a farsi udire nel finale: ma siamo più alla fantasia che alla sinfonia, a dir il vero. A proposito del citato tema principale, ne è già stata notata (Ludvig Dolleris, 1949) la stretta rassomiglianza con quello che evoca l’alba nella straussiana Alpensinfonie (composta subito prima del lavoro di Nielsen): l’andamento degradante e la tonalità di LA maggiore ne sono testimoni:


E in effetti, avesse Nielsen messo dei sottotitoli ad alcune sezioni della sua opera, l’avrebbe potuta tranquillamente far passare come una risposta alla gita in montagna di Strauss! 

L’orchestra è assai nutrita, ma vi mancano le percussioni a suono indeterminato; in compenso un secondo timpanista è prescritto per intervenire nel finale. Sì, poichè verso la conclusione della sinfonia esplode una vera e propria battaglia di timpani (artiglierie contrapposte nella Grande Guerra, a proposito di musica a programma...) che si chiude con i due esecutori impegnati (per terze!) in una folle salita cromatica (10 delle 12 note della scala) in glissando, il che richiede l’uso esperto dei piedi, oltre che delle braccia:


Altra curiosità riguarda l’impegno del Controfagotto (parlo dello strumento): in più di mezz’ora di musica, viene suonato (dallo strumentista del Fagotto III) per sole 18 battute, proprio all’inizio della citata battaglia di timpani, e per emettere una sola nota (SI).  

In definitiva, un lavoro che merita rispetto più che ammirazione, ecco. Shokhakimov ci ha sguazzato dentro, nulla lesinando delle brutalità sonore che lo costellano, e cercando poi di far emergere - nelle sezioni centrali - qualche squarcio lirico e contemplativo. E l’Orchestra ha dato il massimo per renderci digeribile il tutto. Un appunto che mi sento di fare riguarda la disposizione della coppia di timpani: Nielsen prescrive che i due esecutori siano dislocati ai lati opposti dell’orchestra, evidentemente per creare un effetto di contrapposizione-a-distanza fre due agenti... bellici. Invece le otto caldaie erano poste una adiacente all’altra, col che si è perso totalmente l’effetto-stereo, ottenendo per contro un sesquipedale fracasso indistinto e monocorde.
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Chiudono la serata i Quadri di Musorgski nella celebre strumentazione di Ravel. Quasi esattamente 6 anni orsono erano risuonati qui in Auditorium sotto la bacchetta di un (allora) giovane rampante: Jader Bignamini. Riapparsi nell’autunno 2013 con un altro giovane, D’Espinosa, tornano oggi con Shokhakimov, anche lui (ancora) giovane e a suo modo rampante:



Non so se si capisce, ma l’orso qui raffigurato brandisce la clava proprio come Aziz la bacchetta (!!!) A parte le battute (e poi il Direttore, per i Quadri, la bacchetta l’ha proprio abbandonata...) mi sento di riconoscere a Shokhakimov di essere assai cresciuto, rispetto alle precedenti apparizioni da queste parti: meno atteggiamenti gigioneschi e lodevole sobrietà di gesto e precisione di attacchi. Insomma, l’orso si sta addomesticando!

01 aprile, 2018

A Reggio E. arriva la Gioconda


Dopo il Trittico pucciniano, a fare il tour dell’Emilia tocca all’opera che ha reso famoso Amilcare Ponchielli. Dopo le rappresentazioni di metà e fine marzo a Piacenza e Modena questo nuovo allestimento approda a Reggio E. (venerdi 6 e domenica 8).

Tanto per inquadrare l’opera nello scenario storico (dal punto di vista musicale) basta ricordare che la prima (alla Scala, aprile 1876) anticipò di 4 mesi quella del wagneriano ciclo del Ring a Bayreuth. Verdi era fermo all’Aida (1871) e solo 5 anni più tardi si sarebbe rifatto vivo col Boccanegra rimesso a nuovo, nel libretto, da Arrigo Boito. E proprio costui - guarda caso - firmandosi per l’occasione Tobia Gorrio (ma anche Troia Brigo non sarebbe stato niente male, come pseudonimo...) scrisse il libretto di Gioconda ispirandosi a Victor Hugo, del dramma del quale (Angelo, tyran de Padoue) conservò le figure dei cinque personaggi principali, spostando peraltro l’azione dalla Padova del 1549 alla Venezia di un non meglio precisato anno del secolo XVII. Così Angelo divenne Alvise, Catarina si rinominò Laura, Tisbe Gioconda, Rodolfo Enzo e Homodei Barnaba.

Leggere le tre giornate del dramma di Hugo (La clef - Le crucifix - Le blanc pour le noir) è come scorrere un emozionante thriller, che non ti lascia un attimo di respiro, ambientato com’è nei più reconditi e labirintici recessi del palazzo del Podestà, con tanto di pareti che celano varchi di accesso e di misteriose chiavi che aprono porte proibite. Invece la trama di Boito (La bocca dei Leoni - Il rosario - Ca’ d’Oro - Il canal Orfano) si svolge prevalentemente in luoghi pubblici o aperti, e i colpi di scena sono - tutto sommato - più inverosimili che spaventevoli.

In effetti Boito mise in piedi una trama che definire contorta è ancora poco, tanti e tali sono gli aspetti privi di logica e i colpi di teatro di plausibilità assai discutibile di cui è costellata. Non che il dramma di Hugo mancasse di situazioni improbabili o di gratuite combinazioni, ma Boito in questo superò ampiamente il maestro. Del cui lavoro peraltro ignorò del tutto (e furbescamente) il taglio filosofico-politico(-femminista) per concentrarsi quasi esclusivamente su quello dei sentimenti (amore, odio, gelosia, libidine, invidia, frustrazione): ingredienti sicuramente più adatti a cucinare un bel melodrammone da grand-opéra. Nel lavoro di Hugo spiccano appunto due straordinarie esternazioni - femminismo in piena regola, valgono più di 100 comizi di una Bonino (con tutto il rispetto) - delle due donne protagoniste: la nobile, nata con la camicia ma privata degli elementari diritti reali (ad una vita affettiva liberamente vissuta); e la plebea, che ha dovuto scegliere tra la fame e l’orgia. Dapprima ecco Catarina che, nel tremendo scontro con il marito Angelo che ha deciso di giustiziarla sommariamente (sì, senza processo nè difesa) per il suo supposto (in realtà solo... platonico) adulterio, sciorina un’autentica requisitoria contro la barbarie, l’ipocrisia e la disumanità delle regole su cui si fonda la società del suo tempo. Poi tocca a Tisbe che denuncia a Rodolfo la misera condizione di una donna sfruttata, a cui viene negato il diritto di essere amata, restandole solo la sofferenza e il disprezzo della società. Ecco, due aspetti forti dei personaggi femminili che Boito ignora bellamente, presentandoci una Laura succube e remissiva, del tutto incapace anche di una timida reazione all’estremo sopruso del marito-padrone; e una Gioconda che accetta il suo ruolo subalterno nella società, senza mostrare alcuna presa di coscienza delle cause che lo determinano.

Particolare evidenza ha in Boito la figura dello spione Barnaba, chiaro prototipo di quello straordinario Jago che torreggerà 10 anni più tardi nella penultima fatica di Verdi. Lui è il personaggio che significativamente apre e chiude l’opera, dentro la quale la sua improbabile macchinazione, che coinvolge nientemeno i più alti gradi dell’autorità della Repubblica veneziana, ha un obiettivo tutto sommato limitato e... prosaico (insomma: il classico cannone per sparare ad una mosca): ingropparsi una buona volta l’avvenente cantatrice. E l’opera si chiude con il misero fallimento del suo disegno, mandato in fumo dal suicidio di Gioconda. In Hugo lo spregevole Homodei ha invece un movente assai più serio per le sue complicate macchinazioni: vendicarsi del rifiuto opposto alle sue attenzioni sentimentali da Catarina, che in gioventù gli aveva preferito Rodolfo, prima di essere costretta al matrimonio con Angelo. Liberarsi in un sol colpo della femmina ingrata e del suo amante e ferire l’immagine del Podestà: questo è rimasto l’unico scopo della sua vita. Il suo piano diabolico peraltro naufraga miseramente per opera di Tisbe e lui paga con la vita il prezzo della sua scelleratezza, costretto ad abbandonare la scena abbondantemente prima dell’epilogo, visto che Hugo lo fa ammazzare senza pietà da Rodolfo.  

Il quale, trasformato da Boito in Enzo, ci viene presentato come personaggio senza macchia - l’insincerità e l’ipocrisia del suo rapporto con Gioconda restano in secondo piano - e viene gratificato del consolante (e mica tanto meritato, ammettiamolo) lieto-fine: lui e Laura che... vissero felici e contenti, risparmiando a lui - con il provvidenzialmente tempestivo risveglio di lei - l’onta di ammazzare Gioconda (peraltro colpevole ai suoi occhi solo di... trafugamento di cadavere, nulla più) e il rimorso che ne deriverebbe e distruggerebbe la sua felicità nel ritrovare poi viva l’amata Laura. Cosa che viceversa succede al personaggio di Hugo (che chiude il suo dramma con tutt’altra autorevolezza, verrebbe da dire): prima che Catarina si risvegli, Tisbe viene uccisa da Rodolfo in quanto erroneamente ritenuta diretta corresponsabile, con Angelo, della morte dell’amata; e così i due amanti non potranno certo avere un futuro felice (ammesso di averne uno!)

Gioconda. Per Boito, come detto, è una povera cantante di strada che vive alla giornata senza porsi domande, portando il fardello della madre cieca e sopportando le molestie sessuali dell’infoiato spione Barnaba, senza avere al contempo alcun tipo di rapporto con Alvise. La Tisbe di Hugo è invece una donna le cui vicende ricordano un poco quelle di Marie Duplessis (la Marguerite Gautier di Dumas, poi Violetta verdiana): di umili origini, strappata - quando era una ragazzina mendicante - alla miseria e alla fame e trasformata in puttana-d’alto-bordo (appunto, vittima dell’alternativa fame-orgia) fino a divenire la favorita del Podestà Angelo. Homodei da parte sua non la degna della minima considerazione, pensando solo ad usarla come esca per intrappolare Catarina e Rodolfo. In comune, Gioconda e Tisbe hanno però (proprio come Marguerite/Violetta) il sincero amore per un uomo che in realtà (a differenza di Armand/Alfredo) le inganna, trattandole come semplici diversivi; amore che le spinge (al prezzo della vita!) a cercare altruisticamente di rendere felice l’amato con la donna rivale. Le loro fini sono, come si è visto, diverse, pur avendo molto in comune: Gioconda suicida per non sottomettersi alla libidine di un mostro; Tisbe uccisa dall’unico uomo che aveva disperatamente amato. C’è una differenza non da poco, invece, fra le donne di Boito e Hugo; quest’ultima manifesta anche aspramente (verso Catarina e Rodolfo) la sua gelosia, ma sempre in modo genuino e sincero. Scopriamo invece che Gioconda sa anche essere mentitrice: quando nel second’atto, per averlo tutto per sè, vuol convincere Enzo che Laura è fuggita per il rimorso, e che non lo ama più.    

Da ultimo: la Cieca. Nel dramma di Hugo la madre di Tisbe è morta da tempo (si scoprirà essere stata graziata anni addietro per intercessione di Catarina, da cui la riconoscenza di Tisbe per la moglie del Podestà). Boito invece ne fa un personaggio di primo piano, che condiziona continuamente i comportamenti della figlia (Barnaba cerca di sfruttare ai suoi fini quel forte legame affettivo) e Ponchielli la gratifica di musica di ottima fattura.
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A proposito di musica, si è soliti collocare il compositore cremonese a metà strada fra il romanticismo e il verismo: seguace convinto dell’estetica verdiana, sarà maestro (al Conservatorio di Milano) di Puccini e Mascagni! Quanto a Gioconda, è singolare il giudizio che ne diede Gustav Mahler: dieci anni dopo la prima dell’opera, quando era di stanza a Praga ma in procinto di trasferirsi a Lipsia, il 26enne direttore boemo non esitò a dichiarare (in una lettera al responsabile del suo prossimo impiego) che all’opera di Ponchielli andasse preferita la Dejanice di Catalani. E giammai alla povera Gioconda e al suo autore fu concesso il privilegio e l’onore di essere diretti dal più famoso Kapellmeister di quei tempi. (Nè Catalani ebbe peraltro miglior fortuna, se è per questo...)   

La contemporaneità con le innovative produzioni wagneriane si scorge nell’impiego (limitato ma significativo) di pochi temi ricorrenti: non hanno nulla di paragonabile alle fitte trame architettate dal genio di Lipsia, tuttavia servono assai bene a creare atmosfere e a collegare fra loro diversi momenti del dramma.

In ordine di apparizione, possiamo distinguere il tema del Rosario, esposto quasi subito nel Preludio, che risentiremo nella quinta Scena del primo Atto, dalla voce della Cieca che dona il suo strumento di preghiera a Laura, per ringraziarla della sua intercessione presso Alvise. Subito dopo è l’orchestra a riprenderlo in forma di postludio alla stessa scena. Nel secondo Atto, Scena 7 (quella del drammatico confronto fra Gioconda e Laura) il tema ricompare nei violini dopo che Gioconda ha scorto il rosario nelle mani di Laura, e così decide di salvarla, e subito dopo nei legni, seguendo Laura che si allontana. Ancora nell’Atto terzo, quinta Scena, il tema fa capolino nei legni mentre Gioconda (che ha appena sostituito il veleno con il sonnifero, salvando una seconda volta Laura) fugge disperata, con la consapevolezza di dover definitivamente rinunciare al suo Enzo. Infine ritroviamo il tema nella quinta Scena dell’Atto finale, allorquando Gioconda rivede il rosario al collo di Laura, e benedice lei ed Enzo che stanno per fuggire verso la felicità.

Ecco poi il tema di Barnaba, che insieme a quello del Rosario monopolizza il Preludio. Lo si ritroverà più volte ed esclusivamente in orchestra a sottolineare la presenza e la bieca personalità dello spione. Lo si ode nei celli già all’inizio della seconda Scena, poi lo si ascolta quando la spia incontra per la prima volta Gioconda e la madre, di cui chiude il duetto. Ancora fa capolino all’inizio della settima Scena, quando lo spione detterà a Isepo la lettera di denuncia della tresca Laura-Enzo. Lo ritroviamo poi in archi e fiati nell’ottava Scena dell’Atto secondo, quando Barnaba vede Laura fuggire dal brigantino e il suo piano andare in fumo. L’ultima comparsa del tema avviene nella Scena quinta dell’Atto conclusivo, allorquando Gioconda, salutati con lo strazio nel cuore Enzo e Laura, rammenta il patto con Barnaba, che sta in effetti sopraggiungendo.      

All’entrata di Gioconda e della madre (Scena 2) udiamo in bocca alla Cieca (poi alla figlia e ad entrambe) un motivo (L’amor filiale) che riappare proprio in chiusura dell’Atto primo, quando la Cieca e Gioconda se ne vanno, consolandosi a vicenda. Riudiamo il motivo nei clarinetti all’inizio del quarto Atto, allorquando Gioconda prega i compagni di tornare a Venezia in cerca della madre, di cui ha perso le tracce.

Il tema del Destino compare al termine del primo atto, poco prima di quello dell’Amor filiale, nel canto di Gioconda, schiantata dalla scoperta che Enzo ama un’altra; e nel postludio orchestrale, proprio a chiudere l’atto. Ricompare nella quinta Scena dell’Atto terzo, allorquando Gioconda esterna la sua disperazione, dopo aver compiuto il sacrificio di salvare ancora (col narcotico) la sua rivale per consegnarla all’uomo che lei ama e da cui non è riamata. Lo ascoltiamo, dal clarinetto, nel Preludio dell’Atto quarto, ad anticipare precisamente l’ineluttabilità del destino di Gioconda. Nella seconda Scena dello stesso Atto il tema torna nei legni a sottolineare lo strazio della protagonista, cui le luci e le feste di Venezia in lontananza risvegliano l’irresistibile attrazione per Enzo.


Altri rimandi tematici si ritrovano ovviamente all’interno di singole sezioni dell’opera, la cui struttura è ancora tradizionale, con i classici numeri ad intercalare le scene. Mirabile è l’equilibrio complessivo, ottenuto attraverso una sapiente alternanza fra scene corali - per lo più manifestazioni di allegria e di festa di popolo (siamo in uno dei periodi del Carnevale veneziano) - e i momenti topici del dramma. Parte rilevante hanno anche le coreografie: danze e balli che non sono limitati alla corposa e celeberrima Danza delle Ore che occupa la parte centrale dell’Atto terzo. 

I sei ruoli principali impegnano tutti i gradi della tessitura vocale: soprano (Gioconda); mezzo (Laura); alto (Cieca); tenore (Enzo); baritono (Barnaba) e basso (Alvise). Il coro è al completo, compreso quello di voci bianche. L’orchestra è quasi tardoromantica, con corpose percussioni e nutrita banda interna. Insomma, un dispiegamento di mezzi vocali e strumentali di prim’ordine, che rende sempre impegnativo l’allestimento dell’opera. Le quattro uscite già compiute (Piacenza e Modena) hanno avuto ottimi riscontri di pubblico e critica. Che non dovrebbero mancare alle recite di Reggio.  

28 marzo, 2018

laVerdi 17-18 – Concerto n°20


É la settimana di Pasqua e in Auditorium l’appuntamento ormai tradizionale è con una delle due Passioni bachiane. Negli anni pari tocca alla minore (solo perchè meno famosa ed eseguita nel mondo della Matthäus) Johannes-Passion.

Come sempre è laBarocca guidata da Ruben Jais a presentarcela, coadiuvata da 37 elementi (10-10-8-9) del coro de laVerdi di Erina Gambarini. Oltre alla spalla titolare Gianfranco Ricci, che è una delle prime parti dei secondi violini dell’orchestra principale, ieri l’ensemble è stato rinforzato dalla presenza di Gabriele Mugnai (prima viola de laVerdi) che ha anche imbracciato la viola d’amore (con Claudio Andriani) per accompagnare l’aria n°32 (Erwäge, erwäge) del tenore. Lo specialista Cristiano Contadin si è esibito, come in passato, con la viola da gamba, in particolare accompagnando l’aria n°58 del contralto (Es ist vollbracht).

Ben assortita la compagine di canto, con il tenore Bernhard Berchtold efficacissimo nella parte dell’Evangelista, che rappresenta la spina dorsale dell’intero oratorio. Ma eccellenti le prestazioni degli altri, fra i quali prendo a vessillifero il controtenore Pascal Bertin.

Auditorium affollatissimo e pubblico prodigo di applausi. Questa sera alle 19:30 si replica in un ambiente più consono a quello a cui erano destinate in origine queste composizioni.

24 marzo, 2018

laVerdi 17-18 – Concerto n°19

                                           
Giuseppe Grazioli è il protagonista dal podio del concerto di questa settimana. O anche no... nel senso che il mattatore della serata è stato Stefan Milenkovich, che non credo di sbagliare affermando essere lui il responsabile della presa d’assalto dell’Auditorium da parte di un pubblico entusiasta. Lui è già stato due volte ospite qui negli ultimi anni: dopo i lavori di Mendelssohn e Brahms, ora  ci propone quello di Ciajkovski.

Esecuzione - manco a dirlo - superlativa (qualche libertà che mi è parso abbia preso sulla partitura nulla toglie alla sua prestazione). E così ci regala un tris-di-bis, con due capolavori del suo adorato Bach ad incastonare una trascendentale interpretazione dell’ultimo dei 24 capricci paganiniani. Un fenomeno: così adesso lo aspettiamo come minimo in Mozart, Beethoven, Paganini, Schumann, Bruch, Spohr, Lalo, Dvorak, Wieniawski, Sibelius, Prokofiev, Berg, Shostakovich...
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Si resta in Russia con la Prima (delle due) Sinfonia di Vasily Kalinnikov, composta sul finire dell’800 da questo musicista poco più che 30enne, destinato ahilui a scomparire 4 anni dopo. laVerdi ce la ripropone dopo averla eseguita per la prima volta più di 8 anni fa sotto la guida di Vedernikov.

Opera interessante anche se ancora assai acerba: ci lascia solo intravedere cosa avrebbe potuto produrre Kalinnikov se la tubercolosi non lo avesse stroncato a soli 35 anni. La sinfonia si muove chiaramente nel solco di Ciajkovski (da qui l’appropriatezza di proporla accanto al ben più famoso compositore) del quale affiorano qua e là memorie più o meno vaghe. La forma è quanto di più classico si possa immaginare, con qualche spunto velleitario  (ma nulla al confronto con ciò che si affacciava all’orizzonte con un tale Mahler...) Strano che un tipo come Toscanini, che sempre rifiutò di dirigere il rivale boemo, abbia invece inciso questo lavoro nel 1943 con la sua NBC.

Seguiamo i quattro movimenti della Sinfonia in questa (ormai storica, 1960) interpretazione del venerabile Kirill Kondrashin.

Allegro Moderato: tempo 4/4 alla breve, la tonalità (SOL minore) rievoca vagamente i sogni invernali della prima di Ciajkovski. L’impianto è strettamente in forma-sonata, con alcune libertà. Dopo che il tema principale - assai marcato e maschile, con struttura ritmica irregolare - è stato esposto dalla dominante RE, esso passa (12”) alla tonica SOL, per poi divagare (24”) a FA maggiore, quindi (28”) a SIb maggiore (relativa della tonalità d’impianto) e ancora (34”) a MI maggiore e infine (39”, poi 54”) a FA# minore, nella cui relativa LA maggiore attacca (1’07”) il secondo tema. Insomma, esercizi di... insubordinazione, tipici di un giovane di belle speranze! Questo secondo tema è, canonicamente, di natura più elegiaca, femminile, e sfocia in una transizione che introduce (2’13”) un temino secondario, derivato dal primo, in SIb Maggiore (qui si rispettano le regole!) che poi, tornando a SOL minore (2’29”) chiude l'esposizione. Esposizione da ripetersi: non tutti lo fanno, ovviamente, ma Kondrashin obbedisce (2’48”). Lo sviluppo (5’23”) è aperto dal secondo tema (LA maggiore) poi (6’02”) dal primo, in MIb minore e ancora (6’11”) in MIb maggiore. È una sezione di dimensioni considerevoli e mostra un lodevole tentativo di far confrontare e scontrare i due temi, come nella miglior tradizione beethoveniana, anche se il risultato non è proprio dei più edificanti. A 9’59” arriva la ricapitolazione, assai rispettosa delle regole; infatti al primo tema in SOL minore segue (10’57”) il secondo nella relativa SIb maggiore; esso viene più volte reiterato, finchè (11’44”) il terzo temino dell’esposizione introduce una coda assai corposa (quasi una specie di sviluppo aggiuntivo) che porta (13’05”) alla ricomparsa del primo tema, che si incarica di guidare il movimento alla severa conclusione.

Andante commodamente: in tempo 3/4, principia (13’40”) con arpa e violini che, in MIb maggiore, preparano l'entrata (14’10”) del corno inglese, una triste melopea doppiata dalle viole, poi ripresa (14’29”) da clarinetto e violoncelli. Si passa ora (15’04”) alla sezione centrale e più movimentata, inizialmente in SOL# minore, poi (15’23”) nella relativa SI maggiore, dove l’atmosfera si ravviva parecchio, per poi tornare a calmarsi (16’17”) con l’intervento del corno e (16’32”) del clarinetto che insieme ripropongono il tema principale, qui in LA maggiore, seguiti (16’54”) dai violini, con i flauti a contrappuntare con veloci figurazioni. Si torna (17’31”) a SOL# minore, l’atmosfera diviene più rarefatta, si ode il corno in lontananza, e poi  (18’18”) ecco la calma del MIb e (18’51”) il corno inglese che espone la sua triste melopea, portando quindi alla chiusa in ppp. È probabilmente questo il momento migliore della sinfonia, una specie di notturno con qualche lontano lampo boreale.

Scherzo, Allegro non troppo: melodie e armonie di stampo ciajkovskiano, con qualche spruzzata di Borodin, impiantate su un canovaccio bruckneriano. In DO maggiore ecco (20’09”) un primo tema (3/4) poi uno secondario (20’52”) più enfatico, che vengono ripetuti divagando (21’53”, tema secondario) a SOL maggiore, per tornare subito alla tonalità principale. Il corno solo (22’23”) introduce il trio (2/4) nella relativa LA minore, anch'esso in due sezioni, la seconda (in DO maggiore) a 23’07”, cui segue ancora la prima in LA minore. Una nuova melodia,sempre in LA minore (24’19”) chiude il trio e porta (25’12”) al ritorno dello scherzo, con i due temi che sconfinano in tonalità diverse, prima di tornare al DO maggiore che chiude il movimento. 

Allegro moderato – risoluto: in 4/4, inizia (27’34”) con il riciclo del tema iniziale del primo movimento (SOL minore) poi passa subito ad introdurre (27’52”) in SOL maggiore il tema principale di questa specie di rondò, cui segue (28’10”) nel clarinetto un nuovo motivo, più riflessivo, in RE maggiore, reiterato (28’23”) da flauto e violini. Ritorna dopo una transizione veloce (28’42”) il tema principale, poi il secondo (29’02”) dapprima in MI minore, che modula subito a SOL maggiore, quindi (29’16”) a RE maggiore, a SOL minore, per due volte. Ecco poi una rievocazione (29’48”) in clarinetto e corni del secondo tema del movimento iniziale, anche qui in SIb maggiore. Essa porta rapidamente (30’07”) ad una nuova esplosione del tema principale, in SOL maggiore. Dopo una rarefazione del suono, riecco in violini e legni (30’31”) il secondo tema, questa volta in MI maggiore. A 30’51” prende piede un gran crescendo, basato sul primo tema, che porta (31’15”) ad un clossale tutti orchestrale, che sfuma però all’improvviso. Il secondo tema, in SIb maggiore (31’36”) ritorna, dapprima magniloquente, poi quasi scherzando, quindi sfumando nel nulla... A 32’24” l’oboe introduce i violini ad una ripresa variata del primo tema, in SOL maggiore, che sfocia (32’52”) in una nuova enfatica perorazione dello stesso tema finchè (33’21”, 3/2) ecco tornare - dilatato enormemente - il tema dell’Andante, in MIb maggiore. Altra presa di respiro, e poi arriva (34’16”) la retorica coda, in SOL maggiore, che è un'autentica apoteosi del fracasso, dove l'orchestra deve sputare persino l’anima.
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Posto che non è un capolavoro (nè si potrebbe pretenderlo, francamente) se suonata come si deve anche questa Sinfonia qualcosa di positivo ti lascia (replico il concetto applicato al Respighi della Drammatica). Grazioli l’ha interpretata con assoluta rigorosità (incluso il da-capo dell’esposizione dell’iniziale Allegro moderato) e l’Orchestra ha risposto in modo strepitoso, a dimostrazione di aver raggiunto livelli di eccellenza nel panorama non solo nostrano, ma internazionale (come dimostra il recente successo a Lucerna). A lei e al Direttore il pubblico non ha mancato di manifestare tutto il suo apprezzamento.

16 marzo, 2018

laVerdi 17-18 – Concerto n°18


John Neschling torna dopo un paio d’anni in Auditorium portando (un po’ come l’altra volta) un programma inconsueto, il che ogni tanto è un bene, per evitare di adagiarsi - chi suona e chi ascolta - sui facili oltre che comodi cavalli di battaglia... Così il 71enne maestro brasiliano (ma il cognome tradisce le origini austriache, cui si deve aggiungere persino una parentela con Schönberg) accosta il classico Mozart al nostrano Respighi (uno dei suoi autori preferiti, va detto).

L’altro protagonista della serata è il trentenne rampante Federico Colli, che esordisce qui con il K491 di Mozart. Che avevamo ascoltato precisamente or son 3 anni dalle dita magiche di un altro giovane virgulto del nostro pianismo, Gabriele Carcano. Il brano rappresenta una pietra miliare nella produzione pianistica mozartiana e la sua struttura è quanto di più innovativo (non solo per i suoi tempi) sia stato composto per la tastiera.

Approccio assai sostenuto (nell’agogica) esteso a tutti i tre movimenti, evidentemente deciso dalla coppia direttore-solista: personalmente avrei gradito un filino di vivacità in più, ma nell’insieme il tutto ha mantenuto un’assoluta coerenza. La cadenza dell’Allegro è di Orazio Sciortino, le altre due sono dello stesso Colli. Il quale ha mostrato le ormai acclarate qualità di grande protagonista del pianismo contemporaneo, ribadite da un mirabile bis. Sarò un po’ campanilista ma, essendo in origine suo concittadino, penso di non esagerare nel definire Colli - ieri applaudito anche da uno dei suoi maestri, Boris Petrushansky, pure lui di casa in Auditorium - il degno erede di un altro sommo bresciano: Arturo Benedetti Michelangeli.
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La seconda parte del concerto è dedicata ad un titolo del tutto desueto, la respighiana Sinfonia Drammatica (completata nel 1914) che il Direttore ha di recente riproposto all’attenzione dei musicomani, incidendola lassù in terra di Vallonia.

È fin troppo facile affibbiare a quest’opera epiteti poco edificanti: velleitaria, anacronistica, fumo-senza-arrosto, effetti-senza-cause e così via denigrando... Ed è innegabile che la sua fortuna non abbia nemmeno lontanamente avvicinato quella di simili composizioni coeve, che pur non si annoverano fra i capolavori assoluti: il Prométée di Scriabin (1910), la Decima di Mahler (1911), la Quinta di Sibelius (1915), la Alpensinfonie di Strauss (1915) o la Classica di Prokofiev (1917).

E dire che l’analisi approfondita (si veda ad esempio questa, proveniente dagli USA) della sua struttura (tematica, tonale e armonica) e del corposo materiale (appunti e schizzi) che il compositore bolognese ha lasciato, danno l’evidenza di un lavoro profondamente serio e meditato, non certo di una cosa buttata lì con superficialità e supponenza. Forse è stata proprio la smania di strafare dell'autore a nuocere a quest’opera, che continua ad apparire sovrabbondante, contorta, inestricabile e criptica.

Neschling ne ha esaltato i contrasti fra le pulsioni drammatiche (da cui il titolo) e le sezioni più dimesse ed elegiache e l’Orchestra, che credo fosse alla prima lettura del brano, si è meritata calorosi applausi da un pubblico piuttosto scarseggiante (complice forse il clima da... autunno inoltrato). Volendo ragionare in termini bassamente economici (e di spending review) si dovrebbe adesso ammortizzare l’investimento programmando la sinfonia come minimo nelle prossime 3-4 stagioni (!) Del resto, non vedo perchè non riservare a questo Respighi lo stesso trattamento che si garantisce al sinfonista Rachmaninov, per dire...

15 marzo, 2018

Dialoghi di convento a Bologna


Il Comunale di Bologna ha in cartellone in questi giorni (ultima recita domani) la più famosa opera di Francis Poulenc, i Dialogues, una produzione franco-belga del 2013 ripresa poche settimane fa anche a Parigi.
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Antoine Quentin Fouquier-Tinville. Chi era costui? Beh, senza volerlo è un personaggio (materialmente in scena o... appostato dietro le quinte) implicato in ben due diverse opere liriche ambientate negli ultimi giorni del terrore rivoluzionario del 1794. Precisamente gli otto giorni che vanno da giovedi 17 luglio (ghigliottinamento delle 16 carmelitane) a venerdi 25 luglio, quando la testa fu separata dal corpo di tale André Chénier.

Il nostro era il Procuratore del Tribunale Rivoluzionario, che in pochi mesi spedì al patibolo qualche migliaio (un’inezia...) di francesi - privati dei diritti di difesa! - fra i quali le 16 carmelitane di Compiègne (esaltate da Bernanos e poi da Poulenc) e subito dopo il poeta immortalato dalla coppia Giordano-Illica.

Per la cronaca già lunedi 28 luglio (tre giorni dopo la sentenza Chénier) la spietata legge del contrappasso reclamò i suoi diritti dal ghigliottinatore Maximilien-François-Marie-Isidore de Robespierre. Ma non molto dopo il contrappasso colpì anche il solerte magistrato, poichè giovedi 7 maggio 1795 toccò alla sua testa rotolare ai piedi dell’affilata lama del dottor Guillotin.

Piccoli dettagli che nulla tolgono alla gloria di quella Rivoluzione che ci ha regalato le meravigliose istituzioni che ancora reggono la nostra convivenza civile, oggi così degnamente illustrate da tipi come Renzi, Berlusconi, Salvini e DiMaio... Evabbè.
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Fra l’ispiratore Bernanos (il suo dramma teatrale è del 1947, rappresentato postumo nel ‘52) e il compositore Poulenc (l’opera venne composta fra il ’53 e il ’57) c’erano differenze quasi abissali sul piano, diciamo così, ideologico-filosofico-politico: il drammaturgo fu un monarchico conservatore (per non dire tout-court un reazionario, ma di quelli di sani principii, che gli impedirono di schierarsi con le dittature) mentre il musicista era un repubblicano sincero democratico. Forse l’unico comun denominatore fra i due era la fede cattolica, il che plausibilmente può spiegare l’innamoramento di Poulenc per il soggetto di Bernanos.

Peraltro l’opera - ancor più che il dramma teatrale - si concentra prevalentemente sugli aspetti controversi e problematici della personalità della protagonista Blanche, che portano in secondo piano quelli legati allo scenario politico in cui è ambientato il soggetto. Blanche è - si può ben dire - figlia della paura, quella che attanagliò sua madre e ne provocò il parto prematuro e fatale. La paura che la rende diffidente della realtà che la circonda e le consiglia il (sicuro?) rifugio in convento. La paura che la coglie di fronte al cadavere della Superiora che è spirata sotto i suoi occhi. La paura che le fa prillare fra le mani il piccolo Re, che cade in frantumi. La paura che la coglie dopo aver pronunciato (ma ne siamo proprio sicuri?) il voto del martirio, e che la fa fuggire verso la vecchia dimora, pur diventata per lei un luogo di schiavitù e non di agiatezza e sicurezza. La paura che alla fine sarà vinta (forse) da una paura ancor più insopportabile: quella di dover continuare a vivere!

Al proposito sono nate scuole di pensiero sulla definizione da dare del sacrificio di Blanche: un eroico gesto di martirio, di professione di fede, di compassione e comunità con le consorelle; oppure un suicidio in piena regola, proprio per sfuggire le proprie responsabilità, e come tale da condannare e non da santificare.

E immancabilmente anche le regìe teatrali non si sono lasciate sfuggire l’occasione. Il colmo è stato raggiunto quando il genio Cherniakov (Monaco 2010) si inventò, ma proprio nel vero senso della parola, un racconto invero strampalato (rispetto al soggetto originale): mostrando le suore come adepte di una sorta di setta satanica che alla fine decide un suicidio collettivo e Blanche che arriva ad impedirlo, per poi morire lei stessa. Per la prima (e credo unica) volta nella storia, organi di giustizia (primo, secondo grado e Cassazione francesi) sono stati chiamati a pronunciarsi sulla legittimità dei contenuti di una regìa di teatro (musicale). L’accusa (degli eredi di Bernanos e Poulenc) era di contraffazione dell’originale, e la pena richiesta era la proibizione della vendita del DVD. Primo grado a favore di Cherniakov (in realtà della BelAir, casa distributrice del DVD). Il secondo grado ribalta la sentenza, dando ragione ai ricorrenti e bandendo la vendita del DVD. La Cassazione (giugno 2017) ripristina la sentenza di primo grado. (Cosa che deve aver fatto felici gli adulteratori di Rolex e Lacoste e i madonnari che spacciano per autentici i loro vanGogh!)
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Il povero Olivier Py non ebbe e non avrà la soddisfazione - e la pubblicità - di subire un triplice grado di giudizio per vilipendio dell’abito monacale e falsificazione di soggetti teatrali, così impara a mettere in scena precisamente ciò che il librettista-musicista ha pensato, scritto e composto (peggio per lui...)

L’allestimento è in effetti quanto di più calato nello spirito (la lettera qui conta davvero poco...) del testo di Bernanos e della musica di Poulenc. Dei quali restituisce la profonda riflessione sulla vita, la morte, l’ossessione esistenziale, il distacco fra l’individuo e il mondo circostante, la fede e la disperazione: semplicemente rendendo visibili quei concetti che il testo e la musica così mirabilmente evocano.

Gli ambienti spogli e prevalentemente bui, illuminati da lame di luce taglienti come le spade che trafiggono i cuori (e mozzano... le teste); la gestualità dei personaggi, la mancanza di cromatismo di scene e costumi: tutto congiura nel portare lo spettatore ad immergersi in quest’atmosfera da esercizi spirituali, senza peraltro aggiungere alcunchè di estraneo o di surrogato al soggetto originale.

Lodevole anche la parte tecnica dell’allestimento, che impiega mezzi apparentemente semplici, ma manovrati con grande sapienza, e sfrutta anche un paio di palchi di proscenio (nel terzo atto) per rendere fluido il procedere del dramma, senza dover ricorrere a complicati cambi di scena.

Meritati gli applausi che alla fine hanno accolto, primi ad uscire, i tecnici protagonisti della parte scenica.
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Poulenc dichiarò pubblicamente di rifarsi a Debussy, Monteverdi, Verdi e Musorgski (più Mozart, non nominato per... rispetto) mentre si tenne sempre alla larga dal modello wagneriano. Tuttavia (proprio come Debussy nel suo Pelléas) anche Poulenc nei Dialogues fa ampio uso dei Leit-motive, temi ricorrenti associabili a personaggi e soprattutto ad atmosfere e stati d’animo. Come ad esempio i temi della paura, dell’ansietà e del timore, che evocano principalmente le pulsioni della psiche di Blanche; alla cui personalità viene peraltro riservato un motivo delicato e dolcemente mosso; e poi il tema della pacificazione (o della rinuncia, o del conforto divino) che chiude il primo quadro e che significativamente ricompare proprio nelle battute finali dell’opera. E così via, una rete di motivi che sottolineano i caratteri dei personaggi e le situazioni che si dipanano sotto i loro (e i nostri) occhi.

Davvero memorabile la scena conclusiva, con uno dei Salve Regina più strazianti che si ricordino in musica. Poulenc altera la sequenza delle esecuzioni rispetto alla storia, invertendo le posizioni di Constance e della Priora: nell’opera è quest’ultima la prima ad essere ghigliottinata, Constance l’ultima, dovendo incontrare Blanche e vedere compiuto così il suo sogno di morire con lei.

Le 15 suore (Marie è fuggita) sono divise in due gruppi: primo gruppo (soprani): Priora, Constance e 6 Suore; secondo gruppo (mezzosoprani): Jeanne, Mathilde e 5 Suore. Blanche arriverà poi, cantando la giaculatoria conclusiva dal Veni Creator. I due gruppi di suore cantano praticamente in unisono (le sole eccezioni essendo rappresentate da poche note che sono abbassate di un’ottava per i mezzosoprani). In sottofondo il coro completo (SATB) che rappresenta la folla, commenta a bocca chiusa o con semplici vocali (oi-a-o-u) le esecuzioni. Qui sotto ho inserito nel testo sacro cantato i 16 sordi tonfi della lama e (a fianco; suora-gruppo) la vittima di ciascuna calata:

Salve, Regina, Mater misericordiae,
vita, dulcedo et spes nostra, salve.
et spes nostra, salve.<1>                                                (Priora)
Salve, Regina, Mater misericordiae,   
vita, dul<2>cedo et spes nostra, salve.                            (S1 g2)
Salve, Regina, Mater misericordiae,
vita, dulcedo et <3>spes nostra, salve.                            (S1 g1)
Ad te clamamus, ex<4>sules filii Hevae.<5>                    (S2 g2) - (S2 g1)
Ad te suspira<6>mus, gementes et flentes                       (S3 g2)
Ad<7> te suspiramus, gemen<8>tes et flentes                 (S3 g1) - (S4 g2)
in hac lacrimarum, lacrimarum valle.
E<9>ia ergo, advocata nostra, illos tuos                          (S4 g1)
misericor<10>des oculos ad nos converte.                      (S5 g2)
Et<11> Jesum, benedictum fructum ven<12>tris tui,      (S5 g1) - (S6 g1)
nobis, post hoc exilium, osten<13>de.                            (Mathilde)
O clemens, o pia, o dulcis Virgo Maria.                     
O dulcis Virgo Mari<14>a.                                              (Jeanne)
O clemens, o pia, o dulcis Virgo M<15>...                       (Constance)

Deo Patri sit gloria
Et Filio qui a mortuis surrexit Paraclito
In saeculorum saecula. In saeculorum<16>...                  (Blanche)

I colpi di ghigliottina arrivano a intervalli irregolari, talvolta nel bel mezzo di una parola: un tocco questo di macabro realismo.
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Il giovane Jérémie Rhorer ha guidato l’Orchestra del Comunale (cui non possono andare che elogi) con forse eccessiva foga: con il risultato di mettere sì in risalto tutte le preziosità della partitura, ma al prezzo di non valorizzare al meglio le voci, spesso coperte allorquando chiamate a declamare e quasi a parlare.

A proposito di voce, lo stesso Poulenc indicò persino dei modelli di vocalità per le sue 5 protagoniste, mutuati dai suoi modelli di compositore: Thaïs (Blanche), Amneris (Croissy), Desdemona (Lidoine), Kundry (Marie) e Zerlina (Constance). E devo dire che la compagnia (tutta francofona) di carmelitane ha degnamente risposto all’appello. Su tutte metto personalmente la Lidoine di Marie Adeline Henry, che ha sciorinato una gran voce, in potenza ed espressività (il suo arioso è stato davvero travolgente). Ma anche la Croissy di Sylvie Brunet e la Marie di Sophie Koch sono state assolutamente all’altezza. Benissimo anche la Constance di Sandrine Piau, efficacissima con la sua voce acuta e impertinente; appena un filino sotto la pur brava protagonista, Hélène Guilmette, un poco in difficoltà sui centri e sui gravi (ma complice, come detto, il Direttore).

Splendido lo Chevalier di Stanislas de Barbeyrac, una gran voce da tenore lirico-eroico che penso farà sempre più parlare di sè. Da elogiare in blocco tutti/e gli/le altri/e, incluso il coro di Faidutti che arriva solo alla fine, fuori scena e senza profferire parole articolate, ma contribuisce a creare quella mirabile atmosfera del Salve Regina.

Successo davvero strepitoso, salutato da un pubblico non proprio foltissimo ma entusiasta.