affinità bombarole

rinsaldato il patto atlantico

05 marzo, 2017

Alla Scala arrivano i Maestri (2): un manifesto politico?

 

Nel testo dei Meistersinger, oltre alla problematica a lui cara (perchè fortemente autobiografica) riguardante il rapporto fra l’Artista e la Società (Religione inclusa, come testimonia il richiamo a Luther) Wagner indirizza anche (non solo) questioni di natura politica e di costume. Rimandando ad altra puntata la trattazione degli aspetti più gravi delle implicazioni politiche dell’opera, consideriamone ora altri comunque importanti.   

Come ad esempio quello che si può etichettare come la questione femminile. Essa emerge dalla natura e dalle modalità di assegnazione del premio per la tenzone canora che si dovrà tenere durante la festa di SanGiovanni. Il premio per il cantore che sarà giudicato (dai Maestri) vincitore è nientemeno che... una ragazza! E qui parrebbe di essere nella barbarie più totale: altro che donna-oggetto, qui si tratterebbe addirittura di donna-oggetto-di-regalo. Però il padre della ragazza (il ricco orafo Veit Pogner, ideatore della geniale trovata di mettere la figlia Eva in palio in una specie di riffa) prova a riportare tutti alla... civiltà, affermando che l’ultima parola spetterà comunque alla stessa Eva: la quale dovrà dare il suo assenso ad essere consegnata in premio al vincitore, ma sarà libera anche di non darlo. Tuttavia, in quest’ultimo caso, lei non potrà scegliere per sè un altro, al posto del vincitore. Come dire, non esageriamo con le libertà concesse alle donne!  

Beh, qui davvero la cosa assume caratteri paradossali, e la congrega dei Cantori, riunita per giudicare in via preliminare eventuali pretendenti, non manca di farlo notare al buon Pogner: ma come, allora a che serve il severo giudizio degli esperti (i Maestri, appunto) se poi esso può essere disconosciuto da una ragazza qualunque? Il più infervorato su questa critica è Sixtus Beckmesser, Cantore e addirittura Censore (Merker, colui che segna gli errori dell’aspirante cantore) ma allo stesso tempo pretendente alla mano di Eva e concorrente alla tenzone (accipicchia, che bel conflitto di interessi!): lui è convinto di vincere la prova e questa libertà di rifiuto concessa alla ragazza non gli va per niente giù (anche perchè lui non è propriamente un giovanotto di bell’aspetto, ma un uomo ormai avviato alla mezz’età, assai poco attraente, e già paventa il rischio di cader vittima del diritto di veto concesso ad Eva).

A questo punto ecco la proposta semplicemente rivoluzionaria di Hans Sachs, il grande saggio: invece di far scegliere il vincitore alla ristretta cerchia dei Maestri, facciamolo democraticamente scegliere al popolo! Questa proposta suscita quasi lo sdegno dei Cantori: ma come, la gente comune adesso diventa giudice ultimo su materie che sono di esclusiva pertinenza degli addetti-ai-lavori? Di questo passo, dove andremo a finire? Come si vede, certe problematiche non sono nate ieri mattina con l’impiego del web per assumere, o ratificare, decisioni della massima portata! Peraltro anche questa proposta di Sachs sembrerebbe fare acqua, poichè implicherebbe che comunque Eva debba accettare una decisione di altri, sia pure del popolo. E allora Sachs cerca di rimediare, con un’affermazione gratuita o tendenziosa: il popolo di certo starà dalla parte della ragazza (!? mah... neanche si fosse al Festival di Sanremo!) Ohi ohi, qui non ci si raccapezza più: allora è la ragazza che sceglie e il popolo ratifica? E quindi che ci stanno a fare i Cantori? Rottamati in blocco?

Visto che la proposta di tirare in ballo il popolo non passa, relativamente al caso-Eva, ecco che Sachs la reitera in una luce assai più politica: la corporazione dei Cantori (oggi andrebbe di moda chiamarla casta) farebbe bene ogni anno a verificare il supporto del popolo, proprio per evitare di rinchiudersi in se stessa, perdendo quindi il contatto con la realtà. Ecco, questa sì che è una considerazione davvero seria e di grandissima attualità! (Ovviamente la casta non ne vuol sapere...)  

Il finale metterà ogni cosa al suo posto, ma al prezzo di una cinica rottamazione (quella del povero e solo Beckmesser, vittima designata sull’altare della presunta innovazione) che il popolo condanna senza appello, per preferirgli Stolzing, la cui arte pur fatica a comprendere (così come nella prova del prim’atto era accaduto ai Maestri) ma dalla quale è epidermicamente ed emotivamente affascinato. 

E lo stesso Stolzing, cui di diventare Maestro non importava un fico secco (il suo unico obiettivo era farsi la bella e giovine Eva... dopodichè aveva spudoratamente mentito a Pogner – scena terza del primo atto – giurando di essere venuto in città proprio per amore dell’arte canora!) si vede ora trascinato in un ingranaggio più grande di lui, la politica! Lui diventa in effetti l’incarnazione della massima gattopardesca del potere: cambiar tutto perchè nulla cambi!
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Cosa c’è dietro il quadro che Dürer non ha mai dipinto?

Nella prima scena dell’opera, in chiesa, veniamo a sapere che Eva e Walther si sono già visti la sera prima, quando il giovin cavaliere di belle speranze, appena arrivato a Norimberga dalla campagna, ha fatto visita a casa Pogner (per la verità per ragioni assai prosaiche: farsi aiutare dall’orafo a vendere un suo podere). Adesso lui è invaghito di lei e glielo dice apertamente; ma anche lei ne ricambia i sentimenti, arrivando a confessargli (a proposito del premio alla gara di canto) Voi o nessuno! E subito dopo spiega a Magdalene come Walther le abbia a prima vista ricordato un’immagine di David. Ah sì, Re David, quello dipinto sullo stendardo dei Maestri Cantori (di cui era patrono) con la lunga barba e nell’atto di suonare l’arpa... sentenzia sicura Magdalene. E infatti sullo stendardo dei Maestri poteva benissimo trovarsi l’effige di Re David che compare – arpa bene in mostra - in un altare dipinto (1509-11) da Albrecht Dürer su ordinazione del facoltoso commerciante norimberghese Matthäus Landauer:

 
(E non a caso, nel Vorspiel, l’arpa entra in campo proprio ad accompagnare il tema dei Maestri!) Ma Eva la smentisce decisamente: no, no, io parlo del David che ha abbattuto Golia con una pietra, quello con la spada al fianco, la fionda in mano e i riccioli luminosi, come ce lo ha dipinto il Maestro Dürer!

Effettivamente sarebbe grottesco che il giovane Walther (probabilmente imberbe, o con pizzetto... da sparviero e di sicuro armato di spada) potesse rassomigliare a quel David attempato, lungo-barbuto, con enorme corona in testa e armato di... arpa del dipinto cui fa cenno Magdalene: assai più verosimile sarebbe la rassomiglianza con un David giovane, esuberante e con i capelli al vento...

Ma però c’è un però: Dürer – e questo è assolutamente accertato - non ha mai dipinto un David come lo descrive Eva!

E allora cosa dobbiamo pensare? Ad un abbaglio di Wagner, che di certo conosceva il dipinto del Landauer-Altar ed ha erroneamente attribuito a Dürer anche una diversa effigie di David probabilmente opera di altro artista? Oppure che si sia proprio inventato questo quadro inesistente? E a quale pro?

Di certo questa contrapposizione assai secca (come secca è la risposta di Eva a Magdalene) fra due diverse figure di David non è casuale (spesso anche la tradizione tende a distinguere due David, quasi fossero persone diverse): il David per così dire arrivato (il Re, quello di Magdalene) è associabile ai Cantori, un’accolita di severi custodi della tradizione e delle regole, collocata quasi in un immutabile empireo (lo si vede, nell’altare, occupare con altri Santi come lui il livello superiore, paradisiaco, ai piedi della Croce e della Trinità); il David-Walther immaginato da Eva (e da Wagner, che in parte vi si riconosce, perlomeno in forza delle sue vicende giovanili) è viceversa una figura di giovane esuberante, insofferente dell’autorità e pronto a lanciarsi in imprese temerarie, sfidando ogni regola e persino il buon senso.

È questo il momento di fare una breve sosta: per tornare al quadro dell’Assunta del Tiziano, dalla cui vista Wagner racconta di essere stato fulmineamente spinto a riprendere in mano con determinazione il soggetto dei Meistersinger. Ebbene, a nessuno sfuggirà come il dipinto visto per la prima volta da Wagner a Venezia abbia un’evidente e fortissima rassomiglianza a livello strutturale con quello del Dürer, che il compositore doveva aver bene in testa da tempo: entrambi presentano, ben distinti, il piano terreno e quello celesteEcco quindi un buon motivo per rivalutare la tesi del colpo di fulmine veneziano quale stimolo al riavvicinamento di Wagner ai Meistersinger.

Ora nasce però una nuova questione: se Re David è il rappresentante dei Cantori, a quale di essi lo possiamo associare? Qui le ipotesi sono due, e piuttosto incompatibili, fra loro e con il riferimento pittorico. La prima porta evidentemente il nome di Hans Sachs, il vecchio saggio da tutti rispettato (sarà portato in trionfo alla fine). Ci sono però alcune controindicazioni: Sachs (come Walther del resto) non suona alcuno strumento (nel second’atto si esibirà come... percussionista, con il martello); poi (lo scopriremo compiutamente nel terzo atto) non è proprio così indigesto alla bella Eva (come farebbe invece intuire la reazione della giovane all’osservazione di Magdalene) che gli dichiara esplicitamente la sua predisposizione addirittura a sposarlo; infine ci sarebbe parecchia discrepanza tra la figura di Re David, fatto Santo dalla Chiesa Cattolica e quella di Sachs, che testimonierà (terzo atto) la sua incondizionata ammirazione per la figura di Martin Luther... L’altra opzione si chiama Sixtus Beckmesser! Che è l’unico in tutta l’opera a suonare uno strumento, a corde (il liuto) come l’arpa di Re David. E che è decisamente inviso alla bella Eva, come constateremo nel second’atto; peraltro sembrerebbe inverosimile che un tale personaggio possa essere collocato in una posizione così alta, in compagnia dei Santi vicino alla Trinità... a meno di non pensare che si tratti di una feroce offesa di Wagner al Cattolicesimo, la falscher wälscher Majestät contro cui Sachs si scaglierà nella sua finale perorazione!  

Sachs e Beckmesser mostrano opposte attitudini verso Walther: il Merker lo soffre come un rivale nella corsa alla conquista di Eva, e quindi cerca di tarpargli le ali fin da subito, esercitando una severità al limite dell’accanimento nel giudicare la sua prestazione nella prova del primo atto. Va però riconosciuto che, fermo il conflitto d’interessi che lo condiziona, Beckmesser non sembra sconfinare in comportamenti manifestamente fraudolenti: prova ne sia che tutti i Cantori (il solo Sachs escluso, ma compreso perfino il bendisposto Pogner) finiscono per condividerne il giudizio negativo e per decretare la bocciatura di Walther. Viceversa Sachs, che è rimasto colpito dalle qualità di Stolzing (neanche lui sa spiegarsi compiutamente perchè) diventa subito difensore e consulente del giovane cavaliere, che probabilmente ha già individuato come suo... successore. E così, per mettere fuori gioco Beckmesser, rivale di Walther, non esita ad usare contro di lui metodi francamente carogneschi, cosa di cui siamo ben testimoni nel second’atto.

Insomma, la conclusione della vicenda viene pilotata da Sachs in modo non proprio cristallino, e del resto il finale dell’opera ci proporrà una gattopardesca morale della favola: l’establishment che eleggerà (e col furor di popolo!) a suo nuovo rappresentante, erede e custode della tradizione, lo scapestrato e recalcitrante giovane che era arrivato a Norimberga con la spada al fianco e tutt’altre idee in testa.

Ecco, Walther, cooptato da Cantori e popolo, prende il testimone direttamente da Sachs, con Eva al suo fianco: una conclusione rassicurante, nel pieno rispetto del principio di evoluzione e non di rivoluzione. Quindi tipicamente conservatrice, per quanto illuminata e non certo reazionaria.

Proprio come accadde per la musica di Wagner, spintosi fino al limite massimo dell’evoluzione della tonalità, senza mai (nemmeno e menchemeno nel Tristan) varcarlo. In fondo, anche per lui le barricate di Dresda del ’48 erano ormai lontane, nella sua vita era appena piovuto dal cielo tale Ludwig II, in casa gli era piombata la sua Eva Cosima... e all’orizzonte cominciava a profilarsi un tempio tutto suo, con annessa dépendance: Bayreuth!   
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P.S.
La faccenda del quadro inesistente è stata studiata (e in certa misura spiegata, a discolpa di Wagner) da una studiosa della Columbia University: Lydia Goehr, inglese di nascita ma figlia di musicisti tedeschi, che ha esposto i risultati delle sue ricerche in un saggio (di lettura non proprio eccitante...) In poche parole, l’immagine di David descritta da Eva non sarebbe stata dipinta, bensì... descritta da Dürer.
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(continua...)

03 marzo, 2017

Alla Scala arrivano i Maestri (1): da cosa furono ispirati?

 

Wagner stesso ha ricordato, nella sua autobiografia (dettata, come sappiamo, a-posteriori alla seconda moglie Cosima) le circostanze che lo portarono, dal 1862, a riprendere decisamente in mano (per completarlo poi nel giro di 4-5 anni) il soggetto dei Meistersinger che lui aveva già preso in considerazione, sbozzandone i contenuti, durante un periodo di cure termali a Marienbad, nel lontano 1845.

L’ispirazione – così leggiamo nell’autobiografia – gli venne durante una visita a Venezia (1861, successiva al tragicomico fallimento parigino di Tannhäuser) dove era stato ospite dei coniugi Wesendonk (Otto e Mathilde) i quali – piuttosto inaspettatamente, per la verità, viste le circostanze abbastanza... ehm... scabrose che avevano provocato la loro brusca separazione più di 3 anni avanti – lo avevano invitato a raggiungerli in laguna. E durante quel soggiorno Wagner fu accompagnato dai coniugi zurighesi a visitare il Museo dell’Accademia, dove potè ammirare un quadro famoso, colà allora esposto: l’Assunzione della Vergine del Tiziano.


Per qualche insondabile motivo (ma forse una spiegazione c’è...) la vista di quel dipinto gli risvegliò il desiderio di Meistersinger, e così già nel (peraltro prematuro...) viaggio di ritorno (a Vienna) Wagner cominciò ad occuparsi seriamente della sua nuova opera, addirittura sbozzandone completamente il Vorspiel! Insomma, parrebbe proprio una specie di colpo-di-fulmine provocato dalla visione di un quadro.

E di fatto questa spiegazione è stata sempre presa per buona da (quasi) tutti i commentatori e critici musicali (a cominciare dall’informatissimo Westernhagen, per finire al nostro Massimo Mila) ed ancor oggi viene normalmente accettata e riproposta in esegesi o articoli di presentazione dell’opera.

C’è però chi ne contesta la verosimiglianza, facendo notare l’estraneità del soggetto del dipinto veneziano rispetto a quello della commedia brillante che Wagner aveva in testa - il che renderebbe assai labile o poco credibile un nesso di causa-effetto fra la vista dell’uno e il rinnovato interesse per l’altro. Inoltre andrebbe ricordato che Wagner era ancora alle prese con Tristan, già completato ma sempre in attesa di poter essere rappresentato da qualche parte (e infatti lui era in quel periodo a Vienna proprio per tale motivo). In più, aveva sempre da tornare al suo Siegfried, abbandonato da ormai 5 anni sotto un tiglio (e proprio a seguito di quello scabroso affaire con la bella e raffinata Mathilde). Insomma: non era per nulla a corto di impegni della massima portata, tali da riempire la sua agenda e la sua mente.

Nel suo libro Il dio Wagner e altri dei della musica (Rusconi, 1980) Teodoro Celli, sommo esegeta wagneriano, ha invece avanzato un’ipotesi (per lui) assai più credibile e comunque suggestiva, ricordando un particolare piuttosto... piccante (La vendetta di Re Marke). Bisogna fare qui un passo indietro, agli anni della permanenza di Wagner presso i Wesendonk a Zurigo: quando il musicista si era a tal punto infatuato della moglie del padrone di casa da piantare in asso il Ring per buttarsi a corpo morto nel Tristan, e da mettere a repentaglio il suo stesso ménage familiare (la moglie Minna aveva scoperto la tresca – non si sa se solo platonica – fra i due e se n’era tornata in Germania). Ma la cosa aveva avuto effetti piuttosto seri anche sull’unione dei Wesendonk, e pare che fra i due – e per iniziativa di lei - si fosse interrotto ogni rapporto sessuale (avevano già avuto quattro figli, dei quali due morti prematuramente) cosa nota a Wagner stesso, che vedeva in ciò la possibilità di tornare accanto alla sua Mathilde, per la quale non aveva per nulla sbollito la sua infatuazione.    

L’invito dei Wesendonk a Venezia lo aveva perciò colto di sorpresa, e non sapeva cosa aspettarsi: non è escluso che gli fosse balenata in testa persino una pazza speranza... E invece – ma guarda te che sorpresa! – Otto Wesendonk gli presenta la moglie con tanto di pancione! Ed entrambi i coniugi – leggiamo nell’Autobiografia - ...pareva si fossero proposti di scacciarmi i grilli dal capo facendomi partecipare alle loro delizie. A dimostrazione della ritrovata armonia coniugale. Insomma (cito sempre Teodoro Celli) ecco qua Marke che mostra a Tristan un’Isolde che gli sta dando felicemente un erede

E, quasi a volersi far perdonare, è proprio lei a suggerirgli (a mo’ di chiodo-scaccia-chiodo) di rimetter mano ai Meistersinger. Nei quali, allorquando Hans Sachs confessa alla giovane Eva, che gli ha appena fatto il più bel complimento, che lui non intende darvi seguito, Wagner mette in bocca al protagonista una frase sibillina: Hans Sachs war klug und wollte nichts von Herrn Markes Glück. Tradotto (da Guido Manacorda): Hans Sachs fu saggio e non volle niente della fortuna di Sire Marco. Ma perchè parlare di fortuna (o anche: felicità) di Marke, quando nel Tristan non ve n’è traccia alcuna? C’è forse un’allusione (conclude Teodoro Celli) a quella esibita a Venezia da Otto Wesendonk? Allusione confermata dal nome dato dai coniugi svizzeri al bimbo che Mathilde si portava in pancia: Hans!  

E così paradossalmente la bella Mathilde fu la causa, più o meno involontaria, della nascita di due autentici capolavori: il Tristan prima e poi, quasi per contrappasso, i Meistersinger!



Beh, una tesi convincente, poco da dire. Ma che forse non smonta del tutto quella tradizionalmente accettata, il colpo di fulmine di fronte all’Assunta. Sappiamo che Wagner in realtà non aveva mai smesso di pensare al soggetto dei Cantori, e non è escluso che già vi avesse associato un’immagine a cui farà riferimento (implicito, ma chiarissimo) nel testo dell’opera: quella di un altro dipinto, il Landauer-Altar di Albrecht Dürer.  
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(Ma ne riparliamo alla prossima puntata...)

2017 con laVerdi – 10


Riecco Zhang Xian sul podio de laVerdi per un concerto tutto russo, con una quasi primizia (per l’Orchestra) seguita da un autentico cavallo di battaglia.

Ecco quindi l’apertura con il Prokofiev della difficile, ostica e poco eseguita Sesta Sinfonia. Composta poco dopo la splendida Quinta, alla fine della WW2, e presentata a Leningrado dal fido Mravinsky nel 1947, godette un immediato quanto effimero successo di pubblico e critica, presto annullato dall’inappellabile e sommaria sentenza di Zhdanov&C: formalismo antisovietico!

Per gli ottusi censori di Stalin tutto ciò che tovarisch Stakanov non riusciva a canticchiare e fischiettare dopo il primo ascolto era musica degenerata e chi l’aveva composta meritava il disprezzo e magari il gulag... E guarda caso la Sesta è musica non orecchiabile, in gran parte cupa, tetra, sofferta.

La stessa struttura formale è piuttosto indecifrabile: a parte i tre soli movimenti (e questo sarebbe il meno) l’iniziale Allegro moderato appare di difficile inquadramento, a prima vista sembra la pura giustapposizione di tre temi che vengono presentati in successione, e poi riproposti ancora: molto labilmente vi si può riconoscere un simulacro di forma-sonata, oltretutto assai eterodossa dal punto di vista dei rapporti tonali. Il secondo tema tornerà poi ciclicamente, ma apparentemente avulso dal contesto, proprio nelle battute finali della sinfonia.   

Ecco come ce la propone Evgeny Mravinsky in una registrazione fatta precisamente a 20 anni di distanza dalla prima, sempre con la sua Filarmonica di Leningrado.
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L’iniziale Allegro moderato (6/8 – 9/8 – 4/4 in MIb minore) è introdotto da 10 battute di lugubri rintocchi di ottoni e archi bassi, che creano uno scenario a dir poco spettrale. Come detto, si può assai vagamente parlare di forma-sonata: esposizione dei tre temi (A, B, C), quindi sviluppo (praticamente del solo tema A) e ricapitolazione dei temi B-C-A, più una coda.

Il primo (16”) è un cupo tema in MIb minore, in violini primi e viole, che sale alla tonica partendo, contrariamente al normale, invece che dalla dominante, dalla sottodominante: LAb-SIb-DOb-MIb. Da qui la melodia si dipana con metro trocaico (semiminima-croma) alternato a terzine di crome, che le conferisce un senso di inquietudine e di instabilità. Dopo un primo intervento dei legni, che riprendono il tema in forma variata, esso viene esposto da oboe e fagotto (41”) in tonalità di LA minore, quindi a distanza di un tritono (cosa di per sè sinistra!) dal MIb di impianto.

Presto però (51”) una velocissima scala discendente dei primi violini ci riporta al MIb per un ponte dove il tema A viene rielaborato dalle diverse sezioni orchestrali sfociando (1’16”) in un insistito inciso trocaico che prelude (1’26”) al ritorno del tema A in violini primi e viole. Gli segue un nuovo ed esteso sviluppo, chiuso (2’51”, tempo Poco più sostenuto) da un’ennesima variante che rallenta il tempo fino ad introdurre (3’09”, Moderato) il secondo tema (B) in SI minore, altra tonalità piuttosto distante dal MIb d’impianto: come si vede si tratta di concatenazioni tonali che creano un’atmosfera tutt’altro che serena e rassicurante.

Questo secondo tema – esposto inizialmente per due volte dagli oboi in ottava, mutua dal primo l’andamento ondeggiante dovuto alle terzine di crome (in 6/8) che si susseguono alternate a momenti di relativa calma (battute in 9/8). Alla seconda esposizione degli oboi (3’21”) è preceduto da una scala ascendente (dalla sensibile LA alla dominante FA#) che richiama l’attacco del primo tema, con il quale questo secondo è quindi visibilmente apparentato. Un controsoggetto (3’35”) lo completa, prima che venga esposto (3’48”) da violini primi e viole e ancora (4’03”) ripreso liricamente dal corno.

Dopo un trillo sul LA grave del clarinetto, ecco (4’32”) un improvviso Allegro moderato aperto dai primi violini con veloci semicrome che salgono per quasi tre ottave dal LA grave fino al FA# acuto, dove una variante del tema A (quasi si trattasse di rondò) esplode nell’intera orchestra, per poi spegnersi a poco a poco, finchè (5’05”) gli archi bassi tornano allo stesso tema A (MIb ottenuto per enarmonia come RE#) subito reiterato con decisione e quindi ancora (5’22”) in LA# (=SOLb) fino a perdersi su una quinta vuota (MIb-SIb) di oboe, corno inglese, fagotto e archi bassi.

Ora si presenta (5’44”, Andante molto) il terzo tema (C) in 4/4, introdotto da una scansione ritmica affidata a fagotti e pianoforte. È il corno inglese (6’02”) ad esporlo insieme alle viole. Poi (6’42”) questi lo reiterano anche con l’aiuto dei primi violini, mentre l’orchestra li acccompagna con pesanti accordi. La melodia è tanto nobile quanto carica di accenti dolorosi, completando così il quadro di questo movimento che sembra parlarci di sofferenze e lutti. La tonalità è dapprima indistinta, poi il RE minore si fa avanti ed infatti ecco che (7’22”, Allegro, 6/8) in questa tonalità (ancora un’apparente bizzarria se misurata sui canoni della forma-sonata) torna il primo tema (A) negli archi.

La lunga sezione che segue è considerabile come un sviluppo di forma-sonata, poichè il tema A vi viene sottoposto a poderose manipolazioni e tutta l’orchestra ha modo di sbizzarrirsi in grandi galoppate, interrotte da squarci più lirici, ma caratterizzate da proterve scansioni ritmiche e reiterate esplosioni di rumore. Il tutto poi si placa e conduce, dopo un’oasi di calma, al ritorno (potremmo chiamarlo l’inizio della ricapitolazione?) del tema B, che riudiamo (9’58”, Moderato) nella tonalità di impianto (MIb minore, questa volta secondo i canoni della forma-sonata) esposto prima dal corno poi dal corno inglese quindi da oboi violini primi e viole, ancora da corno, ottavino e flauto.

Dopo una breve transizione si arriva quindi (11’17”, Andante molto, 4/4) alla riproposizione del tema C, nel corno inglese e nelle viole, cui poi si aggiungono violini e oboi. La tonalità vira al SIb minore e vi rimane in vista dell’arrivo (12’09”, Allegro moderato, 6/8) del tema A, che sembra prendere la rincorsa fino ad esplodere (12’21”) su un MIb armonizzato come terza di DOb maggiore! Il quale MIb si va spegnendo (12’27”) in tempo Andante verso una coda, che porta alla sommessa chiusura, nel grave, sull’accordo (inaspettato?) di MIb maggiore.

Il centrale Largo (4/4 – 3/4) reca 4 bemolli in chiave, ma certo il LAb maggiore (e meno ancora la relativa FA minore) si faticano a distinguere con chiarezza. La tonalità è sempre aspra, a causa dei cromatismi a volte esasperati e solo in un paio di occasioni si ritrovano squarci di un certo lirismo.     

Il movimento è aperto (13’16”) e sarà poi chiuso da un motivo ancora una volta piuttosto lugubre, nei legni, che scende dal MIb con saltelli cromatici e si ferma dapprima sul DO e poi su LAb. Viene ripreso (13’42”) dai violini a partire dal LAb per chiudere dapprima sul FA e ancora (14’05”) sul LAb. I temi principali sono fondamentalmente due (A e B):



Il primo (14’13”) è in carico a violini primi e tromba e si muove sempre sulla tonalità di LAb. Ancora una volta è un motivo assai poco rassicurante, intriso di cromatismi e dissonanze, che sfocia (14’40”) in un inciso dal sapore parsifaliano (Amfortas) e poi modula verso SOL minore e ripresenta (15’32”) quello stesso inciso. Poco dopo l’atmosfera si fa rarefatta e corno inglese e corni preparano l’arrivo di un secondo tema (B) anch’esso di carattere piuttosto dimesso, nobile ed austero, esposto (16’20”) da fagotto e violoncelli, in MIb e sviluppato (16’59”) dai legni fino a spegnersi su veloci figurazioni di corno inglese, fagotto e degli archi.

Un motivo apparentemente nuovo, in realtà mutuato dal tema A, compare adesso (17’32”) negli archi, in tonalità di MI maggiore, chiaro indizio di uno squarcio di lirismo e pace, dove ritroviamo (18’07”) l’inciso parsifaliano. Qui inizia però una sezione assai animata e turbolenta, caratterizzata da pesanti interventi (18’18”) di crome in fortissimo dei legni, accompagnati dal pizzicato degli archi e da secchi colpi del legno (percussione). Subito dopo toccherà ai timpani esplodere micidiali scariche di colpi, alternate ad altri secchi interventi di legni e archi, finchè (19’03”) i fagotti intervengono a calmare l’atmosfera, preparando una nuova sezione lirica di sapore mahleriano (primo tempo della settima) dominata (19’16”) dai corni in DO maggiore.

Una sommessa dissonanza (DO-SI) nei violini (20’11”) sfociante in un RE tenuto introduce isolate e rapide figurazioni (20’24”) nei legni rotte da due secchi interventi di piano-arpa e ottoni; la cosa si ripete (20’44”) per portare però (21’08”) ad una nuova oasi romantica con i corni (tonalità SIb maggiore e poi DO maggiore). E il DO supporta la ripresa (21’48”) nei violini del tema A, che è protagonista di un’autentica perorazione, culminante (22’21”) in un’esplosione di fortissimo generale, mentre i violini sviluppano la melodia passando ancora (22’55”) per la citazione parsifaliana. 

Ancora fortissimo per un passaggio a FA minore (23’01”) che poi via via si modera per riportarci (23’31”) al motivo dell’introduzione, ripreso praticamente pari-pari, nelle due sezioni, e quindi seguito da una lenta cadenza (illuminata da un rapido recitativo dell’oboe) che si spegne sul LAb.

Vivace (2/4, MIb maggiore) è il tempo conclusivo, che contrasta in modo smaccato con ciò che lo ha preceduto, tale è il brio e l’entusiasmo che lo muovono... ma vedremo che il finale ci riserverà un’amara sorpresa. Due sono i temi principali:

  
Il primo tema viene subito esposto dai primi violini (25’31”) sopra un ritmo sghembo degli altri archi. Dopo una proterva interruzione dell’orchestra, che modula plagalmente a LAb, esso viene ripreso (25’42”) in questa tonalità dal clarinetto, che gli conferisce un carattere esilarante. Un controsoggetto meno brillante (25’53”) gli subentra momentaneamente, in attesa (26’07”) di una riesposizione del tema nei violini (MIb) e (26’15”) nel clarinetto (LAb). Ora troviamo un’ulteriore modulazione a SOLb e da qui passiamo ad uno sviluppo del tema, che impegna ancora l’orchestra in ripetuti sussulti, poi torna il controsoggetto e infine somno i fagotti (26’40”) ad attaccare una melopea che fa da transizione verso il secondo tema.    

Tema B che appare (27’03”) in DO maggiore nei legni, un tema assai lungo e cantabile, che in seguito (27’37”) viene ripreso anche con il supporto dei violini primi. Un suo controsoggetto (28’06”) viene esposto da flauto e corni e ci porta alla ripresa (28’28”) del tema A in MIb nei violini e quindi (28’37”) in LAb nel clarinetto. Inizia qui uno sviluppo del tema A di notevoli proporzioni, in un’atmosfera che si è fatta più cupa e inospitale, con frequenti irruzioni di bordate di ottoni e pianoforte e ripetute apparizioni dell’inciso iniziale del tema.

A conclusione di questo sviluppo (30’36”) ecco riapparire nei legni il tema B, adesso in SIb maggiore (in luogo del precedente DO). Altra modulazione (30’55”) del tema B a SOLb maggiore e poi ecco una vera e propria scena-madre: a 31’19” si torna a SIb maggiore, dove il tema A nei violini si contrappunta mirabilmente con il tema B in tromba e corni! Poi, mentre i violini insistono con le veloci semicrome del tema A e i corni si limitano a brevi e sporadici interventi, i legni sparano alcune rapide discese in staccato, fino a chiudere questa sezione con il ritorno al MIb maggiore di impianto.

Il tema A (31’54”) è ora esposto dall’intera orchestra, con grande corposità di suono e poi ripetuto (32’03”) nella sottodominante LAb. Ancora i corni (32’14”) ad esporre un controsoggetto assai ampio, contrappuntato poi (32’25”) di violini. Il tema A (32’39”) viene poi a lungo sviluppato, con irruzioni dei legni e velocissime discese degli stessi supportati dal pianoforte. Ancora una pesante transizione (32’58”) affidata agli ottoni, poi (33’23”) sono i fagotti, cui si aggiunge il clarinetto basso, a guidare una lenta cadenza che porta ad un allargando dove il suono si spegne su un FA in corona puntata.

Adesso (33’57”) ecco ciò che il cipiglio del Vivace non lasciava presagire: gli oboi  (Andante tenero) raggiunti poi dal corno inglese e ancora dopo dai flauti, ripropongono mestamente, in MIb minore, il tema B del movimento iniziale! Su un tremolo di SIb minore (34’52”) di violini secondi e viole si stagliano ancora due incisi di oboi e corno inglese, poi (35’09”) altro tremolo (SOLb) e i legni scagliano un nuovo lancinante urlo, virando a MI naturale, il tutto ripetuto dopo una pausa.

Torna (35’43”) il tempo Vivace, come prima, ma come prima per nulla allegro e sereno: dopo una carica crescente di archi bassi, legni, poi ottoni e quindi archi, ottoni e pianoforte, ecco (35’59”) un’autentica esplosione di tutta l’orchestra, un caduta inarrestabile che sfocia su secche semiminime di ottoni, pianoforte e archi, seguite (36’12”) da autentiche martellate e infine da una velocissima rincorsa di legni e archi in semicrome che chiude la sinfonia su un incredibile schianto di MIb maggiore!
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Che dire? Pessimismo mescolato a pazzia? Dolore invano esorcizzato con risate isteriche? Schizofrenia galoppante? Tutte spiegazioni extramusicali, ovviamente, buone per un poema sinfonico, forse. I suoni, se ascoltati senza pregiudizi o aspettative socio-filosofico-letterarie, lasciano francamente (parlo per me, natürlisch) una sensazione di incompiutezza e forse di impotenza creativa, ben mascherate dalla proverbiale maestria dell’Autore nell’impiego della tavolozza sonora.

La Sinfonia non è fra i cavalli di battaglia de laVerdi (un paio di isolate esecuzioni in tutta la sua storia ulraventennale) e anche la Xian non deve averla diretta molto. Tuttavia mi è sembrata un’esecuzione assolutamente apprezzabile, che il pubblico ha accolto con sufficiente calore, anche se senza entusiasmi da stadio, ecco...
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Ben diverso il discorso su Shéhérazade (qui alcune mie vecchie note in merito) che i ragazzi conoscono a meraviglia, a partire dal protagonista (en-travesti...) Luca Santaniello, che ogni volta aggiunge qualche particolare tocco di espressività ai suoi... racconti volti ad imbonire lo sbifido sultano. E poi, diciamolo pure, questo Rimski non pone certo all’ascoltatore problemi di decifrazione dei contenuti musicali! Così ecco un’altra grande prestazione di tutti e il ritorno... dell’entusiasmo in platea.

01 marzo, 2017

Alla Scala arrivano i Maestri (0)

 

Dal 16 c.m. e fino al 5 aprile la Scala ospiterà sette recite dei colossali Meistersinger, che mancano dal Piermarini da praticamente 27 anni (Wolfgang Sawallisch, ‘90). E 28 anni avevano separato quella produzione dalla precedente (Karl Böhm, ‘62) arrivata solo 10 dopo quella del denazificato Wilhelm Furtwängler (’52).

Dopo un’eternità torna sul podio per dirigere questo mastodonte un Maestro italiano, Daniele Gatti. Prima di lui si deve risalire a Toscanini; ma italiano era stato il Direttore della prima scaligera: Franco Faccio, a SantoStefano del 1889, con versione ritmica in italiano di Zanardini e abbondanti tagli operati da tale Giacomo Puccini (! ideona per Chailly: riesumare quella versione per un prossimo SantAmbrogio!)

Si tratta quindi di un autentico evento (non ne capitava uno simile dal 2013, anno del bicentenario wagneriano, con le due edizioni compatte del Ring di Barenboim-Cassiers) che merita quindi qualche nota di presentazione. In questa e nelle prossime puntate del post mi occuperò di alcuni aspetti extra-musicali, curiosità o leggende metropolitane che circolano da sempre su quest’opera.

A cominciare dalle circostanze che spinsero Wagner a tornare a 16 anni di distanza su un soggetto immaginato già nel 1845; per passare ai problemi di natura politica (o para-) che il testo presenta: conservazione vs innovazione, élites vs popolo; e poi alle accuse di proto-nazismo e apologia di antisemitismo che sono state mosse all’opera; e alla tanto controversa citazione di Rossini.

Ma a proposito di ricorrenze, nel 2017 cade nientemeno che il 500° anniversario della nascita della Riforma luterana: precisamente il 31 ottobre del 1517 Martin Luther espose su questo portale della Schlosskirke di Wittenberg le sue rivoluzionarie tesi:


Ebbene: Luther è uno dei... personaggi dei Meistersinger! No, non sentiamo cantare lui, ma ne sentiamo cantare dal popolo le lodi che l'Hans Sachs storico scrisse al suo indirizzo l’8 luglio 1523. È il famoso Wacht auf! (Risvegliatevi!) che apre Die wittenbergische Nachtigall, nel quale Luther viene poeticamente dipinto come un usignolo il cui canto ormai si spande in ogni dove, mentre sul mondo intero spunta una nuova alba rosseggiante:


Wagner musica i primi otto (dei 700) versi del poemetto, che già contengono spunti piuttosto evidenti: la notte (Chiesa romana) e il giorno (la Riforma). Segue un’allegoria che descrive il gregge (la cristianità) che si fa abbindolare di notte dal chiarore lunare (ingannevoli sofisti) e abbandona l’ovile per andarsene nella giungla dietro ad un leone (il Papa!) Il leone comincia ad ammazzare molte pecore, finchè l’usignolo (Luther) sveglia il gregge dalla sua cecità, il che manda il leone su tutte le furie: così chiama a raccolta tutti gli animali più immondi (asini, maiali, capre, gatti, lumache, rane, oche selvatiche) per cercare di tacitare l’usignolo; ma esso continua a cantare e all’arrivo del giorno il gregge può tornare all’ovile! 

La compagnia dei Maestri Cantori è formata da 12 individui, i cui nomi Wagner prese di peso da un trattato secentesco di Johann–Christoph Wagenseil:

Come si vede, a parte qualche differenza grafica e al cantore Zorn, cui Wagner mutò il nome da Friz a Balthasar, sono precisamente gli 11 nomi che Kothner chiama nell’appello del primo atto. Uno di costoro, precisamente Niclaus Vogel risulta assente perchè malato, e quindi non ne risentiremo più parlare. Di fatto il suo posto fra i 12 lo prende Hans Sachs, che nella lista di Wagenseil manca perchè vissuto posteriormente agli altri (ma è comunque ampiamente citato in altre parti del testo). Il quale testo riporta inoltre le regole formali dei canti (il Bar, costituito da due Stollen e un Abesang) e poi elenca minuziosamente ben 33 (quanti gli anni di Cristo!) tipi di errori che contravvengono alle regole della Tabulatur. Poi ecco un interminabile elenco di 223 arie dei Maestri (David nell’opera ne cita – pur prolissamente - solo una piccola parte, quanto basta a spaventare Stolzing): si va dalle semplici canzoni con 5 rime fino alle più complesse, con 34 rime, una delle quali ultime è proprio di Sachs! E non manca la minuziosa descrizione dell’interno della chiesa di Santa Caterina dove si svolgevano le prove e gli esami per gli aspiranti cantori; e come l’aspirante cantore venisse giudicato da ben 4 Merker (Kothner ne nominerà solo uno – Beckmesser - essendo il soggetto della canzone di Walther di natura non religiosa, ma laica!) Tutti concetti e oggetti ripresi puntualmente da Wagner nella sua opera. 

Più labili e tutto sommato superficiali sono invece i legami fra i Meistersinger e l’opera comica Hans Sachs di Albert Lortzing (a sua volta ispirata al lavoro teatrale di pari titolo dell’austriaco Johann Ludwig (Ferdinand) Deinhardstein) che Wagner certamente conosceva, ma dal cui soggetto si discostò assai, a cominciare dalla figura centrale di Sachs, che da giovane e ambizioso personaggio qual’è in Lortzing si trasforma con Wagner in un grande saggio (e pure... paraculo!) Piuttosto, a proposito di Sachs, la sua accorata esternazione (”Wahn! Wahn! Überall Wahn!”) sembra proprio anticipare, in versione seriosa, il verdiano “Tutto nel mondo è burla!” 
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(continua...) 

25 febbraio, 2017

2017 con laVerdi – 9


Non è laVerdi ad esibirsi questa settimana in Auditorium, ma la Haydn di Bolzano&Trento, nell’ambito delle iniziative di reciproca ospitalità fra orchestre italiane (ad aprile ci sarà – in abbonamento - un analogo scambio di cortesie con la Toscanini) ed estere (lunedi 27 – fuori abbonamento - saranno i Mannheimer Philharmoniker a suonare con Francesca Dego).

Benjamin Bayl, un canguro 39enne trapiantato in Europa, propone un programma a base di Mozart e – guarda caso – Haydn, aperto però da un modernissimo Ivan Fedele.

Del quale ascoltiamo i primi due movimenti (per così dire) di Lexicon III, la cui prima è proprio fresca fresca, avendo avuto luogo a Bolzano solo martedi scorso. Come spiega lo stesso Autore sul Programma di sala, l’opera si ispira ad Italo Calvino ed in particolare a conferenze tenute dallo scrittore ad Harvard nel 1985 che ebbero come oggetto il futuro della letteratura nel terzo millennio e hanno come titoli le caratteristiche che dovrebbe possedere un’opera letteraria del futuro per sopravvivere all’assalto della tecnologia: Leggerezza, Rapidità, Esattezza, Visibilità, Molteplicità e Consistenza. Il Lexicon III – per ora sono stati composti i primi 4 titoli - li raggruppa a coppie (circa 10’ di musica a coppia) e ciò che si ascolta qui è la prima delle tre coppie: 1.Leggerezza, 2.Rapidità (la seconda verrà proposta al pubblico prossimamente in quel di Padova).

L’organico prevede fiati (15 esecutori, esclusa la tuba) arpa, archi e percussioni più un campionatore di suoni.

Cedo quindi la parola all’Autore:
Ecco quindi che la finalità di questo lavoro è quella di sottolineare, ancora una volta, il primato dell’immaginazione attraverso una mia personale declinazione di quei concetti che sono stati sempre alla base della mia esperienza di compositore. Di ognuno di quei temi (perche di temi si tratta) avrei potuto scrivere molte variazioni. Mi sono limitato a proporre le interpretazioni che, a mio avviso, testimoniano meglio l’estetica degli ultimi anni; un’estetica che propone un concetto di narrazione diverso da quello d’ispirazione letteraria, ma piu vicino alla nozione di un tempo che rivela gradualmente le qualità intrinseche di un pensiero musicale gia costituito in sè, in cui non esistono personaggi (micro e macro figure musicali) che appaiono sulla scena raccontando una trama che si evolve nel tempo.

Insomma, se capisco bene: immergersi nei suoni senza cercarvi alcuna narrativa, ma abbandonandosi ad essi per condividere l’ispirazione del compositore. 

Che dire: la Leggerezza è un tappeto quasi continuo di tremoli di archi sul quale cadono delicate gocce d’acqua (ciò io ho immaginato con fervida fantasia) mentre la Rapidità ho faticato a riscontrarla, in mezzo a scrosci sonori che cascavano qua e là su un terreno accidentato.

Applausi di stima, ma che lasciano l’impressione (abbastanza comune in occasioni simili) che il pubblico (ieri non propriamente oceanico) si senta in credito col mondo per aver fatto un fioretto quaresimale, ecco.
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La 22enne coreana Ji-Yeong Mun (Chloe Mun in arte) vincitrice del Concorso Busoni 2015 arriva poi a proporci il 22° concerto del Teofilo, il K482 in MIb maggiore. Composto a fine del 1785, quindi nel periodo viennese (è contemporaneo delle Nozze, che vi fanno pure capolino) ha un suo antesignano nel K271, nella stessa tonalità, composto quasi 10 anni prima a Salzburg (si dice per un’avvenente pianista francese, tale Jeunhomme, da cui prese il nickname).

Si tratta di due concerti dalla struttura e dalle dimensioni ragguardevoli (passano abbondantemente i 30’, cosa quasi inaudita ai tempi) e che presentano similitudini in particolare nell’Andante centrale in DO minore e soprattutto nel veloce Rondo conclusivo, dove incorporano sorprendentemente un’ampia sezione lenta di Menuetto (ben 70 battute nel K271 e 46 nel K482). Il K482 ha persino una... finta conclusione, con due battute dove l’intera orchestra scala la triade di MIb in quella che parrebbe proprio la cadenza conclusiva, e invece un tappeto dei fiati prepara il ritorno del solista per altre 7 battute, prima che finalmente l’orchestra si decida a finirla lì! Novità assoluta è anche l’impiego dei clarinetti a rimpiazzare gli oboi, che a quell’epoca la facevano da padrone.

Magnifica la prestazione della coreanina (presentatasi in un lungo e vaporoso rosa pallido): una delicatezza di tocco straordinaria, dei pianissimo emozionanti. E naturalmente una tecnica sopraffina: il concerto non deve essere dei più impervi, ma la sola cadenza dell’Allegro conclusivo è stata un probante banco di prova. Per lei un gran trionfo. Pochi mesi fa si era esibita a Trieste in Chopin e l’autorevole Amfortas ne aveva scritto pure in termini assai positivi. Curiosità: ieri ci ha offerto lo stesso bis di allora (Widmung).
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A chiusura (ufficiale) del concerto una delle sinfonie londinesi di Haydn, la 101, denominata La pendola, per via della scansione da orologio che caratterizza il secondo movimento. Sinfonia assai pretenziosa (come tutte le sorelle albioniche del resto, vedi la 94 ascoltata qui pochissimo tempo fa, e come quelle immediatamente anteriori, parigine) poichè destinata ad un uditorio con il palato assuefatto alle meraviglie di Händel, e allo stesso tempo aperto alle più ardite innovazioni. E la 101, come vedremo, di innovazioni ne contiene una quantità sufficiente ad accontentare anche i più esigenti. Proviamo a seguirla in questa (ormai) storica incisione del compianto Harnoncourt con i tulipani.
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L’introduzione lenta (Adagio, 3/4) non è tra le più lunghe (33 battute) di Haydn, ma è comunque assai complessa: si apre infatti con 4 battute di RE minore, dove troviamo una scala ascendente che verrà ripresa nel primo tema, sfocianti in una fermata (17”) sulla dominante LA maggiore; seguono poi (23”) altre 8 battute in RE minore, sfocianti questa volta (52”) sulla relativa FA maggiore; ancora (1’01”) 11 battute che, attraverso una drammatica settima diminuita (FA#-LA-DO-MIb, a 1’27”) ci traghettano verso l’accordo (1’47”) di dominante (LA-DO#-MI) che prepara a sua volta l’attacco (1’57”) dell’esposizione, Presto in RE maggiore (6/8).

La cui struttura è ovviamente in forma-sonata, ma sempre con le tipiche caratteristiche haydn-iane: i due temi che non contrastano assolutamente, uno sviluppo relativamente breve ed una ripresa chiusa dalla reiterazione del primo tema.

L’esposizione presenta dunque un primo tema in RE maggiore, negli archi e subito ripreso (2’05”) anche dai fiati e dalla piena orchestra. A 2’19 ecco una fermata sulla dominante LA e poi una variante del tema che fa da ponte modulante verso il LA maggiore (2’47”) del secondo tema. Il quale poco contrasta con il primo, da esso distinguendosi più che altro per l’iniziale leggerezza di strumentazione, ridotta ai soli violini con accompagnamento sommesso degli altri archi. Presto però (3’02”) anche questo tema si arricchisce di sonorità con l’intervento dei fiati che lo sviluppano fino alla chiusa (3’25”) che ci rimanda da-capo.

Lo sviluppo (4’52”) è basato prevalentemente sul secondo tema, che si contrappunta con spezzoni del primo e viene sottoposto a variazioni, manipolazioni e modulazioni (LA maggiore, 5’03” FA# minore, 5’16” DO maggiore, 5’33” MI minore, 5’43” SOL maggiore, 5’58” SI minore e ancora 6’00” SOL maggiore) prima di arrivare alla ripresa (6’16”) del primo tema e quindi (6’43”) del secondo, esposto ora canonicamente in RE maggiore. Ma è ancora il primo tema (7’46”) nei violini, mentre il flauto fa sentire le 4 note del Magnificat (usate da Mozart come tema del finale della sua ultima sinfonia) a chiudere il movimento.

Ecco poi l’Andante (2/4, SOL maggiore). Ha una struttura ibrida, a metà fra il rondò e il tema con variazioni. È aperto (8’12”) dai fagotti sul pizzicato di violini secondi, celli  e bassi ad evocare il tlic-tlac di una pendola. I violini primi già a battuta 2 espongono il tema principale, dal carattere marziale, ripetuto a 8’41”. Un ponte costituito da un motivo puntato e staccato (9’09”) che modula temporaneamente a RE maggiore e richiama la chiusura del tema, porta alla riesposizione dello stesso in SOL (9’48”): come la prima, anche questa sezione è ripetuta a 10’16”.

A 11’19” ecco un’improvvisa esplosione in SOL minore (indicato esplicitamente!) che apre una sezione nuova (tipo rondò) e poi (11’35”) presenta una modulazione alla relativa SIb maggiore (dove fa capolino a 11’47” l’Inno imperiale!) e quindi (12’08”) il ritorno a SOL minore, con chiusura sul RE, dominante della tonalità di base (maggiore, come indicato in partitura...) in cui viene riesposto (12’38”) il tema principale, sottilmente variato ed abbellito, in un’atmosfera sommessa e piena di lirismo. Cosa che si ripete poco dopo (13’48”).

Ora una vera e propria genialata di Haydn, di quelle destinate a generare sorpresa e meraviglia nell’esigente e modernista pubblico londinese: a 14’20” ecco infatti una lunga pausa che serve praticamente a far decantare nella nostra mente il SOL maggiore, in modo da rendere meno traumatico il passaggio ad una tonalità assai lontana (la sesta abbassata, MIb) in cui il tema principale viene riproposto in un’ennesima variante. A 14’49” si ha il ritorno (dominante RE) verso SOL maggiore per una nuova riproposizione (15’04”) del tema principale adesso con piglio enfatico e retorico (tipo sfilata della Guardia Reale) che poi sfuma provvisoriamente per riprendere (16’05”) con immutato vigore. Ma siamo alla fine della... sfilata e quindi (16’33”) subentra una mirabile cadenza che pare seguire il corteo che si perde in lontananza.

Ora il canonico Menuetto (Allegretto, 3/4, RE maggiore) che Haydn, per accontentare i raffinati palati londinesi, spoglia delle classiche leziosità viennesi per trasformarlo quasiquasi in uno Scherzo (anticipando così nientemeno che il grande Beethoven!)

A 16’53” viene esposto il tema principale, di piglio fiero e nobile, ripreso (17’02”) per poi modulare e chiudere sulla dominante LA (17’21”) dove abbiamo il da-capo. La seconda sezione (17’49”) si apre in tono più dimesso, ma ben presto (18’09”) si rifà vivo il tema principale, che va a chiudere il Menuetto, una prima volta (18’40”) con il da-capo di questa seconda sezione.

Il Trio (19’33”) ci presenta un’altra sorpresa: invece di una calma e notturna sezione (normalmente affidata il corni o ai fiati) qui è costituito da arabeschi in staccato del flauto intercalati da esplosioni di tutti orchestrali. Non molto diversa anche la seconda sezione (20’01”) che è però più lunga, sottilmente dissonante e chiude (20’45”) con un da-capo. Suggella il tutto la canonica ripresa del Menuetto (21’30”).

Il Finale (Vivace, RE maggiore, 4/4 alla breve) è ancora un ibrido: forma sonata con spruzzate di rondò e frequenti variazioni. Si apre (22’50”) con un tema di 8 battute che attacca con una scala ascendente (un po’ la caratteristica della sinfonia) fatto di botta-e-risposta attorno alla tonica ed esposto sommessamente dagli archi. Il tutto ripetuto a 22’58”. Un controsoggetto (23’07”) suonato sempre piano riporta (23’19”) al tema principale e poi viene ripetuto (23’28”).

A 23’47” ecco uno scoppio dell’intera orchestra e un lungo ponte che porta dapprima (23’59”) e fugacemente alla sottodominante SOL maggiore, poi ancora dal RE al SI minore (24’04”) e infine (24’07”) al LA maggiore, la tonalità dominante che ci dice che sta per arrivare il secondo tema. Il quale arriva (24’22”) portato con discrezione dai fagotti appoggiati da oboi e archi. Ancora uno scoppio orchestrale (24’34”) con flauti e violini impegnati in volate di crome fino ad una pausa (24’54”) dalla quale parte un nuovo ponte che ci porta (25’05”) al RE maggiore del primo tema. Che torna ancora (25’32”) variato negli archi.

Nuovo scossone (25’39”) con esplicita indicazione di minore (RE) e successiva modulazione alla relativa FA maggiore (25’56”) e poi ancora (26’15”) a RE minore con fermata sulla dominante LA. Da qui (26’31”) riecco il RE (maggiore, come indicato per i distratti...)

Haydn però vuole stupirci tutti e che ti inventa? Una spettacolare fuga sul tema principale! Che inizia sommessamente per arrivare (27’17”) ad una nuova esplosione generale ed avviare la discesa finale, chiusa (27’45”) da una stentorea cadenza.
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Convincente la lettura di Bayl (gesto sobrio ma evidentemente efficace) e splendida prestazione dell’Orchestra (schierata con le viole al proscenio) fortissima davvero in tutte le sezioni. Applausi calorosi ripagati da un bis davvero entusiasmante (che ci ha riportato al Mozart del K482): l’Ouverture delle Nozze! Archi di compattezza assoluta (fanno meravigliare ancor oggi, figuriamoci come doveva prendere questa musica il pubblico di 220 anni fa!) e fiati squillanti e penetranti. Gran trionfo per tutti e lunga vita alla Haydn!
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Allego con l’occasione uno scritto sulle sinfonie di Haydn di Danilo Prefumo, pubblicato nel gennaio 1988 sulla rivista Musica&Dossier.