affinità bombarole

rinsaldato il patto atlantico

17 gennaio, 2016

A Torino si prepara la caccia alla volpe

 

Martedi 19/1 (diretta audio su Radio3) il Regio torinese inaugura le recite di Příhody lišky Bystroušky, letteralmente Le avventure della volpe Orecchiofino, che è conosciuta ormai come La piccola volpe astuta, terz’ultima opera di Leóš Janáček (1923, preceduta di pochissimo dalla Kabanová e cui seguiranno Makropoulos e Casa di morti: quattro opere composte nell’ultimo decennio di vita del musicista moravo).

Opera che si presenta in superficie come una fiaba per bambini, o come una simpatica parodia della vita degli umani come vista dalla prospettiva degli animali; ma che in realtà nasconde significati e concetti assai seri, che spaziano dall’etica alla politica, al senso più profondo dell'esistenza. Sempre però evocati con grande equilibrio e con un certo pacato distacco.   

All’origine del soggetto pare esserci proprio una volpe in carne ed ossa, che nei primi anni dell’800 era diventata quasi una leggenda in Moravia, per la sua incredibile capacità di sfuggire a mille tentativi di cattura da parte di un guardiacaccia. Verso il 1890 uno studente aspirante pittore – che poi divenne infatti abbastanza famoso come paesaggista - tale Stanislav Lolek, fece per qualche tempo il guardiacaccia-aggiunto ed apprese dal suo superiore – che a sua volta da quegli animali aveva continui grattacapi - le storie della volpe leggendaria: così decise di rappresentare sia il suo superiore che le vicende di quella guerra volpe-guardiacaccia in una lunga serie di disegni. I quali rimasero poi ad ammuffire per 30 anni, finchè nel 1920 un responsabile editoriale del quotidiano Lidové noviny (Notiziario popolare) di Brno, incaricato di cercare spunti per racconti illustrati, ci incappò quasi per caso e così la storia della volpe, illustrata da 193 disegni di Lolek e romanzata con i testi di Rudolf Těsnohlídek, comparve in 51 puntate del giornale, con il titolo La volpe Orecchiofino, titolo in realtà dovuto ad un errore tipografico, causato da un correttore di bozze che travisò, ma tutto sommato senza stravolgerne la pertinenza, quello (La volpe Pièveloce) originariamente deciso da Těsnohlídek(Nel 1958 Fedele D’Amico intitolò curiosamente, ma con molta perspicacia, la sua traduzione del libretto di Janacek Le avventure della volpe Briscola.) Il tutto finì poi in un racconto in 23 capitoli pubblicato a Brno nel 1921.



Orbene, il giornale circolava, neanche a farlo apposta, proprio in casa Janáček, e per la verità fu la sua fedele domestica di lungo corso (Marie Stejskalová) a rimanere talmente affascinata da quella bizzarra storia a fumetti da consigliarla al compositore come soggetto per un’opera. E così Janáček stese di sua mano il libretto, consultandosi con Těsnohlídek, ma allo stesso tempo rivoltandone il testo come un calzino: il racconto chiude infatti con il vissero-felici–e-contenti della famigliola delle volpi, mentre l’opera ci mostra, nel seguito, la morte quasi accidentale della protagonista, e si chiude poi come era iniziata, con un pisolino del guardiacaccia che ora però ha modo di ragionare sul fluire del tempo, delle stagioni e delle generazioni. Steso il libretto, Janáček passò subito a musicarlo. E tanta fu la passione che ci mise, da convincerlo a disporre che il finale dell’opera venisse suonato – cosa che puntualmente avvenne - al suo funerale!
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Il soggetto si struttura in tre atti e nove quadri (2-4-3) ambientati di volta in volta nella foresta (l’habitat degli animali selvatici, frequentato anche dagli uomini, che accoglie 6 quadri) e in insediamenti umani (casa e osteria, in 3 quadri) dove al più possono vivere animali domestici, con l’unica eccezione rappresentata proprio dalla volpina, che per qualche tempo abita nella casa del guardiacaccia che l’ha catturata. Fra animali e cristiani emergono, esplicitamente o sotterraneamente, dei paralleli (atteggiamenti e comportamenti) dei quali il più smaccato è quello fra un tasso e il curato della parrocchia.

Poche le indicazioni temporali fornite da Janáček: il primo quadro è ambientato in piena estate, il secondo in autunno, il sesto nuovamente in estate, il settimo in autunno: si dovrebbe quindi dedurre che l’intera vicenda si protragga per almeno un anno e più, ma di certo le famose unità aristoteliche poco hanno a che fare con un soggetto come questo. Caso mai è interessante notare la differenza fra i ritmi e i cicli di vita di animali e uomini: nel lasso di tempo coperto dall’opera, la volpe passa dall’infanzia alla maternità (e addirittura si sviluppano ben due generazioni di rane) mentre per gli umani c’è solo un lento, sia pure inesorabile, invecchiamento.

Preludio – A sipario aperto, ci introduce al bosco in un pomeriggio estivo che promette temporale. Facciamo così la conoscenza degli abitanti della foresta (tasso con pipa, libellula, moscerini: sembra la versione morava del wagneriano Waldweben...)

Atto I – Quadro ISi apre con l’arrivo del guardiacaccia, che si ferma a riposare un poco, benedicendo il suo fucile, strumento di lavoro e di potere. Concerti e polifonie, con annessi balletti, di grillo, cavalletta e zanzare. Una di queste (che deve evidentemente aver punto il guardiacaccia) si ubriaca di sangue e la rana cerca inutilmente di catturarla, mentre la volpina protagonista domanda alla madre (che non si vede, nè si sente) di che animale si tratti e se sia commestibile. Spaventata, la rana spicca un salto e atterra sul naso del guardiacaccia assopito. Costui la scaccia via, schifato, e si accorge della volpina: con un balzo ferino la afferra per la collottola e decide di portarsela a casa, neanche fosse un cagnolino.


Alla povera libellula, che torna per ritrovare la sua amica volpina, non resta che danzare sul triste postludio strumentale. 

Atto I – Quadro II – Un interludio orchestrale serve a... far passare il tempo: dall’estate siamo ora arrivati in autunno ed eccoci nell’aia della casa del guardiacaccia, dove troviamo la volpina alle prese con il cane (Lapák). La padrona di casa non pare entusiasta della presenza della volpina. La quale si lamenta per la sua cattività, suscitando la reazione del cane, che pure si dichiara infelice per mancanza di... amore: in primavera canta alla luna le sue canzoni appassionate, e il padrone per tutta risposta lo prende a bastonate. La volpina ammette di essere pure lei inesperta di rapporti sessuali, ma racconta di aver udito altri animali parlarne in termini osceni: in particolare narra di storni donnaioli impenitenti, o che se la fanno con i cuculi o compromettono le gazze; una loro figlia ha persino una relazione con un corvo! Il cane, arrapato da questi racconti piccanti, si avventa su di lei e ne viene scacciato con gravi perdite.

Adesso sono i ragazzi del guardiacaccia che si divertono a stuzzicare la volpina, che reagisce mordendone uno alla gamba, poi cerca la fuga, ma viene riacchiappata e così per punizione viene legata con un guinzaglio. Durante la notte - uno sbudellante interludio strumentale - la volpina appare incredibilmente sotto le spoglie di una fanciulla piangente; all’alba ritorna volpe. Solitamente si usa interpretare questo strano fenomeno come il sogno – irrealizzabile - della volpe di acquisire prerogative umane. Nel second’atto (quadro all’osteria) ci saranno però delle allusioni, come dire, piuttosto inquietanti...  

Per adesso è interessante notare la differenza di condizioni sociali che caratterizza i rapporti fra gli animali domestici (soggetti a vincoli atavicamente imposti loro dall’uomo) e selvatici (che vivono esclusivamente in base a leggi naturali): ne è specchio il conflitto insanabile che scoppia fra i domestici cane, gallo e galline e la selvatica volpina, che sconvolge le loro millenarie abitudini con discorsi tanto rivoluzionari (quanto utopistici) come ...abolite l’ordine antico! Create un nuovo mondo dove avrete la vostra parte di gioia e felicità! Dopodichè, delusa dal mancato successo delle sue sobillazioni, per sfuggire alla cattività usa lo stratagemma di fingersi morta e poi impone materialmente la legge della giungla, facendo strage dell’intero pollaio!


La scena e l’atto si chiudono su una rapidissima ed esilarante coda strumentale. 

Atto II – Quadro III - Legge della giungla che ovviamente impera nella foresta, dove ci riporta l'introduzione orchestrale (inizialmente pesante, ma che progressivamente si illumina) e dove la volpina tornata in libertà si procura una comoda abitazione sloggiando – supportata dal tifo degli altri animali - dalla sua comoda tana un ricco tasso, fumatore di pipa come ogni borghese arrivato. Dai disegni di Lolek e dal testo di Těsnohlídek si evince chiaramente quale sia l’infallibile e prepotente metodo impiegato dalla volpina per cacciare il tasso dalla sua casa: inondarla letteralmente di pipì! 



Janáček invece è meno truce e si limita a far alzare alla volpe la coda in faccia al tasso, che se ne va via offeso e imprecante con la pipa sotto il braccio... La scena evoca chiaramente problematiche sociali di assoluta attualità: il borghese che fa affari magari poco commendevoli con i quali procurarsi agiatezze e vizi, e i proletari che reagiscono con occupazioni di case senza rispetto alcuno per il decoro.

Atto II – Quadro IVIn compenso scopriamo subito dopo che c’è anche un esemplare umano di tasso: lo spigliato interludio strumentale ci porta all’osteria, dove troviamo il curato della parrocchia, che pure fuma la pipa, e che pure viene sloggiato dalla canonica, perchè trasferito altrove. Ciò diventerà chiaro solo nel terz’atto, per ora sentiamo il curato rispondere evidentemente ad una domanda dell’oste (Pásek) affermando che ...a Stráni le cose andranno meglio; e poco dopo l’oste gli comunicherà che i nuovi inquilini vi cercano...

Intanto facciamo la conoscenza anche del maestro di scuola, un tipo attempato, tutto pelle-e-ossa, che il guardiacaccia, fra una mano di carte e l’altra, cerca di stuzzicare con una canzoncina che allude a vecchi amori per una tale Verunka... che però ormai sarà pure sfiorita, come accade al larice, verde in primavera e spoglio in autunno.


Mentre il curato sfoggia il suo latino per esortare i maschi a non cedere il proprio corpo alle femmine, il maestro contrattacca accennando alle disavventure del guardiacaccia con la volpina. E lo stesso farà anche l’oste, a fine quadro, entrambi suscitando reazioni furibonde del guardiacaccia. Ora ci si potrebbe chiedere il motivo di tanta attenzione da parte dei conoscenti del guardiacaccia - e di tanta suscettibilità da parte di quest’ultimo - in relazione ad un episodio in sè risibile (la cattura di un animale selvatico allo scopo di addomesticarlo e la fuga dell’animale) in uno scenario dove l’oggetto della conversazione sono invece delle contrastate vicende amorose fra esseri umani! E adesso possiamo tornare al secondo quadro del prim’atto, e a quella apparentemente gratuita trasformazione notturna della volpina in una ragazza infelice. Insomma, vuoi vedere che la figura della volpina nasconde qualche segreto inconfessabile del guardiacaccia? Qualcosa a che vedere con il dualismo gazzella-imperatrice della straussiana Fr-o-Sch?

Il maestro, al canto del gallo, se ne va per tornare a casa. Lo stesso fa il curato, avvertito dall’oste dell’arrivo dei nuovi parrocchiani. Rimane solo il guardiacaccia, ormai ubriaco, che sproloquia volgarità sui vangeli e infine, punzecchiato anche dall’oste sull’affaire-volpina, ha una reazione scomposta e se ne va sbattendo la porta.

Atto II – Quadro V – Un nuovo interludio strumentale ci porta nella foresta, attraversata in sequenza dai tre personaggi reduci dall’osteria e diretti alle proprie abitazioni. Dapprima ecco il maestro, che procede barcollando appoggiandosi al bastone. Passa accanto ad un campo di girasoli, spiato dalla volpina, nascosta dietro uno di questi. In preda ai fumi dell’alcol crede di vedere nel girasole il volto della sua innamorata, Terynka. Dopo due bizzarre esclamazioni (staccato!... flageolett!) che richiamano termini di agogica musicale, il maestro fa la sua dichiarazione d’amore al girasole e infine si slancia su di esso, perdendo l’equilibrio e rovinando sulla siepe.


È poi la volta del curato, che si siede cercando invano di accendere un fiammifero, e comincia a ricordare un suo amore giovanile, che lo tradì con un garzone di macellaio, lasciando su di lui i sospetti di averla compromessa... e gli occhi della volpina brillano per un paio di volte da dietro la siepe (!) Si sente infine arrivare il guardiacaccia - sempre a caccia della volpina - che esplode anche un paio di colpi della sua doppietta. Maestro e curato si rialzano a fatica e si avviano verso casa, accompagnati da un motivo che ricorda... la volpina (!?) Il guardiacaccia compare imbracciando il fucile ancora fumante.  

Atto II – Quadro VI – Restiamo nella foresta, ma è tornata l’estate, ed è quindi verosimilmente trascorso (almeno) un anno dall’inizio della fiaba. È una bella notte di luna, perfettamente attrezzata per una scena d’amore tra... volpi! Mentre si odono cori senza parole di animali che creano un’atmosfera romantica, nei pressi della casa del tasso della volpina si presenta un bellissimo esemplare maschio, dall’aspetto elegante e dai comportamenti nobili. La volpina se ne innamora perdutamente a prima vista, e gli racconta la sua storia, infarcendola subdolamente (non per nulla è femmina e pure... volpe!) di bugie e di vittimismo: la casa l’ha ereditata (!) da uno zio tasso, e poi lei ha vissuto – e ne fa un lungo racconto furbescamente romanzato - presso la famiglia del guardiacaccia, che la vessava continuamente, minacciandola di farci una pelliccia, finchè lei non riuscì a riguadagnare la sua libertà... Dopo qualche ammiccamento e un finto arrivederci, che serve alla volpina per convincersi della sua bellezza e del suo fascino, al punto da auto-cantarsi una specie di romanza, il maschio torna con del cibo e i due, dopo una bella mangiata e una tipica scaramuccia da innamorati, quasi all’alba si dichiarano il loro amore ed entrano nella tana di lei per... passare dalle parole ai fatti!

La libellula arriva e danza per la sua amata volpina (pare una Brangäne che veglia Isolde e Tristan...) mentre la civetta, che ha spiato tutto insieme alla ghiandaia, avverte l’intera foresta del misfatto! La volpina è la prima ad uscire dalla tana, seguita dal maschio, al quale comunica la dolce notizia: avranno dei cuccioli! Ma fuori dal matrimonio? No di certo, sentenzia lui, e guarda caso lì sopra c’è il parroco (un picchio) che li sposa seduta stante! Il quadro si chiude con una strepitosa festa nuziale di tutta la foresta.




Atto III – Quadro VII – É tornato l’autunno, siamo sempre nella foresta, a mezzogiorno, dove ora transita un nuovo personaggio (Harašta) che si rivelerà determinante per il successivo svolgersi dei fatti: trattasi di un venditore ambulante di polli (che a tempo perso fa pure il bracconiere...) L’introduzione orchestrale ha preparato il terreno (piuttosto lugubre) all’esternazione del vagabondo, che reca una cesta vuota e canta una sbracata filastrocca amorosa. Scopre sul sentiero una lepre uccisa (dalle volpi, evidentemente) ma mentre sta per raccoglierla... arriva il guardiacaccia, al quale comunica di essere prossimo al matrimonio. Con chi? Ma con la bella Terynka (l’amore del maestro!) Il guardiacaccia lo ammonisce a non fare il bracconiere, così il venditore gli indica la lepre morta, vantandosi di non averla raccolta. Il guardiacaccia, imprecando contro gli animali, monta sull’istante una trappola per volpi, poi i due se ne vanno in direzioni opposte.

Sopraggiungono la volpina, il marito e i volpacchiotti loro, cantando allegramente (una canzoncina popolare morava!) Scoprono che qualcuno è passato accanto alla lepre, ma non l’ha raccolta, così si insospettiscono e si accorgono della trappola installata dal guardiacaccia (la catena puzza della sua pipa!) e si fanno beffe di lui. Il maschio trova il tempo per fare altre avances (quando avremo altri cuccioli?) alla volpina, che lo invita ad aspettare... maggio! L’ultima parte del dolce approccio fra le due volpi è sovrapposta al canto di Harašta, che sta tornando dopo essersi approvvigionato di polli di cui ha riempito la cesta, e pensa alla sua bella. La volpina gli si para davanti deliberatamente, quasi a provocarne la reazione. Lui già pensa a impallinarla per farci un manicotto di pelliccia per Terynka, ma la volpina, provocandolo ancora e sfidandolo ad ucciderla, lo disorienta con mosse repentine tanto che lui cade a faccia in giù, sbattendo il naso. Mentre ancora si sta lamentando e impreca verso la volpina, i volpacchiotti hanno già azzannato tutti i polli nella sua cesta!


Esasperato, Harašta spara a casaccio un colpo di fucile: una nuvola di piume avvolge i volpacchiotti in fuga, mentre al suolo giace moribonda la volpina. L’orchestra le dedica una scarna e modesta orazione funebre.

Atto III – Quadro  VIII – Un lungo interludio strumentale, caratterizzato da un tempo moderato, ma con un paio di irruzioni in allegro, ci riaccompagna nell’osteria di Pásek, dove regna un’insolita quiete. L’oste è assente ed è la moglie a servire gli avventori. Che sono ancora il guardiacaccia e il maestro: manca il curato, di cui ora abbiamo contezza del trasferimento (si è fatto vivo per lettera dalla nuova parrocchia di Stráni, dove dice di sentirsi solo...) Il guardiacaccia rivela di aver trovato la tana della volpe deserta, quindi è evidente che sia stata uccisa: così ci sarà una lingua essiccata (miracolosa) per il maestro e ci saranno pellicce per farci manicotti per le signore! E infatti la moglie dell’oste rivela che Terynka, di cui il maestro ha annunciato le nozze, ha ricevuto un manicotto nuovo. Dopo aver confortato il povero maestro, invitandolo a prenderla con filosofia, il guardiacaccia se ne va per rincasare e trovare il suo cane, che ormai è invecchiato e malandato al punto da non poter più uscire con lui.

Atto III – Quadro IX – Un ultimo, lungo interludio orchestrale, dal sapore romantico e pastorale, ci riporta nello stesso luogo in cui la fiaba si era aperta. Ha appena smesso di piovere e il guardiacaccia sale la collina ricordando con nostalgia mista a serenità analoghe passeggiate fatte in compagnia dell’amata, ai tempi della gioventù, appena sposati. Si siede, appoggiando l’inseparabile fucile ad un ginocchio, e comincia ad ammirare estasiato la natura circostante: al ritorno della primavera tutte le creature godranno della divina beatitudine della vita (pare l’incantesimo del venerdì santo...!) Si addormenta, mentre compaiono gli abitanti della foresta, proprio come nel primo quadro. Sogna la volpina, e al suo risveglio gli pare di vedere una sua cucciolotta, tal quale la mamma, venirgli incontro. È tentato di acchiapparla, per allevarla come fece con sua madre, ma stavolta con i migliori propositi di evitarle qualunque disagio e... pubblicità sui giornali. Allunga il braccio, chiude il pugno e si ritrova in mano... una gelida ranocchia. Che subito lo avverte: guarda che ti sbagli, io non sono quello che ti immagini: il nonno mi ha raccontato tutto di te!   

Senza che lui se ne accorga nè ci faccia caso, il fucile gli scivola a terra... In tempo maestoso è il motivo della morte della volpina, mirabilmente trasfigurato in modo maggiore (REb) a chiudere la fiaba.

16 gennaio, 2016

laVERDI 2016 – Concerto n°3


Il terzo concerto 2016 vede l’eclettico David Greilsammer (da Gerusalemme) in doppia veste (bacchetta e tastiera) di interprete di un concerto (quasi) tutto beethoveniano. Il quasi è spuntato... quasi per caso, sotto forma della Sinfonia op.21 di Anton Webern, che ha rimpiazzato l’originariamente programmata Ouverture Egmont.

Su quest’opera di Webern (10 minuti scarsi di musica) ormai si è scritto più che sul Tristan, anche se sono testi che trattano più di matematica che di ciò che si intende normalmente per musica (tipo questa analisi del cattedratico Paolo Rotili). Certo, sappiamo benissimo che fra musica e numeri ci sono legami strettissimi: ma sarebbe da dimostrare che partendo da serie di numeri costruite a tavolino (con metodi casuali piuttosto che complessamente strutturati) si ricavi musica che abbia senso compiuto.

E al non-cattedratico, che normalmente si dispone a farsi piacere i suoni che gli vengono propinati, poco importa di serie, rivolti, retrogradazioni e procedimenti fiamminghi assortiti: si accontenterebbe di apprezzare ciò che ascolta, trovandoci qualcosa di interessante, o di accattivante, o di stimolante, o – perchè no! – di afrodisiaco. Il tema principale del terzo movimento della prima sinfonia di Brahms, esposto dai clarinetti, non manca di affascinare, anche se la sua seconda metà è ottenuta truffaldinamente dal compositore ricorrendo ad un arido procedimento fiammingo: l’inversione. Ma nessuno se ne accorge e, tanto meno, se ne lamenta. Salvo che il clarinettista non stecchi una nota... Ora domando: se il clarinettista - a battuta 6 della Sinfonia di Webern – suona un MI bemolle al posto del MI bequadro, dico: chi c. se ne accorge?

E ovviamente è un problema dell’ascoltatore, mica certo del compositore, che ci ha messo tutto il corpo e l’anima per scrivere lì quel MI bequadro invece del MI bemolle! Ma se gli ascoltatori son tutti porci, a che pro servirgli le perle? Certo, Schönberg diceva che era solo questione di tempo, e che i suoi nipotini avrebbero canticchiato canzonette seriali: fatto sta che, ancora dopo un secolo, e nonostante tutti i tentativi di indottrinamento forzato, noi e pure i nostri figli e nipoti non siamo in grado di distinguere se quel MI bemolle del clarinetto sia o no fuori posto.

E a proposito di battute verso l’impiego dei procedimenti fiamminghi nella musica seriale, eccone una che mi ha davvero divertito: il canone cancrizzante dello spettatore che – nel bel mezzo della sinfonia di Webern – abbandona la sala alla chetichella, camminando all’indietro come un gambero!    

Ora, a parte le battute, sono in molti (io mi tengo prudentemente neutrale) ad apprezzare la Sinfonia, che ha l’aspetto di un caleidoscopio sonoro, dove fantastici e continuamente cangianti effetti sono ottenuti proponendo diverse visioni e prospettive di uno stesso oggetto (la serie fondamentale, appunto: FA-LAb-SOL-FA#-SIb-LA-MIb-MI-DO-DO#-RE-SI) di volta in volta manipolato, spacchettato, rigirato e (i timbri!) diversamente illuminato. Certo, una Sinfonia degna di tal nome pretenderebbe di possedere una narrativa vera e propria, che qui manca totalmente (Webern rimase incerto per parecchio tempo persino sulla sequenza dei due tempi, oltre ad aver rinunciato ad un terzo!) E a salvare la forma non bastano certo i due da-capo che il compositore ha infilato nel primo movimento. 

Come al solito le reazioni del pubblico sono assai variegate, andando dall’entusiasmo dei pochi... entusiasti agli scuotimenti di capo dei più. Quanto all’esecuzione, faccio l’atto di fede (conoscendo la bravura dei ragazzi) che tutte le note siano state eseguite precisamente come il buon Webern le mise sul pentagramma!
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Come accadeva con i classici palinsesti dei concerti scaligeri abbadiani anni-’70, fatto il fioretto di ascoltare la musica contemporanea (?!) si passa a cose serie, per le quali esclusivamente lo spettatore medio (diciamola pure tutta!) ha deciso di entrare in Auditorium.

Ecco quindi la piccola di Beethoven: della lettura di Greilsammer mi ha convinto l’agogica, in particolare il tempo con cui ha staccato l’iniziale Allegro vivace e con brio: certo, il metronomo che Beethoven appiccicò a posteriori (quando compose la sinfonia, Mälzel ancora lo doveva brevettare) pare del tutto folle (l’equivalente di 207 semiminime!) e nessuno ci prova mai ad applicarlo, però il simpatico David almeno ha provato ad avvicinarlo. Invece sulle dinamiche avrei qualche riserva: tutto suonato piuttosto sul forte, con scarsa varietà di sfumature. Ma si è trattato comunque di un’esecuzione vibrante ed effervescente, come è appropriato per questa composizione spesso un poco sottovalutata.
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Chiude la serata il più problematico dei concerti per pianoforte: il terzo, in DO minore. Greilsammer, come fa spesso e volentieri, non si vergogna a tenere lo spartito sul leggio (e si porta dietro anche la gira-pagine...) ma ci propina un’interpretazione di gran qualità: tocco sempre leggero e vellutato, nessuna enfasi fuori luogo. Il tutto con una tecnica sopraffina. Memorabile la cadenza dell’Allegro con brio, e da incorniciare tutto il centrale Largo.

Per ripagare il (foltissimo) pubblico di applausi e ovazioni il nostro decide (giustamente, dato il doppio ruolo sostenuto nell’occasione) di offrire un bis insieme all’orchestra. Così ci godiamo il celeberrimo Andante dal K467. Meno male che ci ha risparmiato un pezzo di Cage, altrimenti... povero pianoforte!

08 gennaio, 2016

laVERDI 2016 – Concerto n°2


Tocca a Jader Bignamini di salire su podio dell’Auditorium (ieri non proprio affollatissimo, devo dire) per il secondo appuntamento del 2016, tutto russo e tutto in... balletto. In programma (un programma dove evidentemente si privilegia la qualità rispetto alla quantità – meno di un’ora di musica!) due suite di lavori di Stravinski e Prokofiev che sono arcinote al pubblico quanto conosciute a memoria ed eseguite spesso e volentieri da laVERDI: lo stesso Bignamini le ha già dirette in recenti stagioni.

Porgo un doveroso omaggio alla memoria del grande Pierre Boulez segnalando una sua splendida esecuzione dell’intero balletto dell’Uccello con la CSO. E penso che non sarebbe male se laVERDI, che ha eseguito ultimamente la Suite N°2 diverse volte (2010-Marshall, 2011-Xian, 2012-Bignamini, 2013-Xian e 2014-Bignamini) proponesse – come aveva promesso, ma non mantenuto anni fa (2010) – l’integrale della musica: sono circa 45 minuti contro 25, e in un concerto breve come questo ci potevano anche stare (e lo meriterebbero, soprattutto...)

Questa Suite del 1919 è una delle tre predisposte da Stravinski fra il 1911 e il 1947. Avevo riassunto in una tabella le differenze fra il balletto e le tre suites in occasione di un concerto de laVERDI alla Scala nel 2013, che ricordava nel programma la primissima esibizione dell’Orchestra.

Bignamini, ormai alla sua terza esperienza, tira fuori un Uccello (tera-smile!) portentoso, di cui mi limito a citare il finale, dove il suono del corno sul tremolo degli archi evoca precisamente il lentissimo tornare alla vita, un misto di straniamento e di vista offuscata, dei Cavalieri pietrificati dallo sbifido Kastchei. E poi le ultime tre battute - precedute da una (solo) impercettibile cesura – che suggellano il lieto fine in un abbacinante SI maggiore dell’intera orchestra.
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Romeo & Giulietta è per me una delle cose più grandi della musica del ‘900 (l’ho già scritto e lo riconfermo). Dal balletto Prokofiev ricavò tre Suites e una serie di pezzi pianistici. Una sommaria sintesi dei contenuti di balletto e Suites si può trovare in questo mio commento all’esecuzione diretta dallo stesso Bignamini nel 2012. Avevamo riascoltato qui la seconda Suite poco meno di una anno fa diretta da Tausk.

Bignamini, per questa prima interpretazione tutta sua (nella precedente occasione era dovuto subentrare in fretta e furia a sostituire la neo-mamma Xian) ha predisposto - come fanno praticamente tutti i Direttori, che ci si divertono come con il lego – una serie di 9 numeri, presi dalla prima (5) e seconda (4) suite, ordinandoli secondo una sequenza mutuata dalla N°2 all’inizio e dalla N°1 alla fine: ma, come ho già avuto occasione di scrivere, è musica così grande che la si può rimescolare a proprio piacimento, certi che il risultato sarà strepitoso.

E strepitoso è stato anche l’esito di ieri, grazie alla lettura di Bignamini, che ha saputo cavar fuori le sonorità più convincenti, sia nei brani a carattere intimistico (Giulietta, Lorenzo, il balcone) che in quelli dove l’orchestra si deve scatenare (Capuleti, Tebaldo). Ma darei la lode (oltre al 30) al funerale di Giulietta, dove Maestro e strumentisti hanno fatto un autentico capolavoro.   

Strameritati quindi gli applausi e le ovazioni con cui il pubblico ha accolto questa ennesima prestazione ad alto livello dei suoi beniamini (e... Bignamini!)

03 gennaio, 2016

Edward W. Guo: chi è costui?


Toh, un altro cinese immigrato in Canada che – praticamente da solo e dal nulla, e quando era poco più che un ragazzo (è del 1987) diplomato al conservatorio e studente di Legge ad Harvard - ha messo in piedi un colosso che oggi è, nel mondo della musica, ciò che Project Gutenberg è in quello della letteratura.

Si tratta di IMSLP (la P sta per Petrucci, il primo editore di musica, nel 1501 a Venezia) una biblioteca (e non solo) che oggi rende disponibili gratuitamente in web centinaia di migliaia di partiture (spartiti, parti d’orchestra), incisioni e video di più di 13.000 autori. Dal 2006 (anno in cui Guo aprì il sito) il database di IMSLP è stato continuamente alimentato da contributi di centinaia di volontari, che hanno indefessamente scansionato volumi di composizioni musicali per uploadarli caricarli sul sito e renderli così disponibili gratuitamente a chiunque nell’intero pianeta.

L’avventura ebbe le sue belle rogne, quando (2007) la più grande impresa di pubblicazioni musicali chiese ed ottenne da Guo di staccare la spina, per supposte violazioni di copyright. Ma a parte il copyright, si tratta in realtà della violazione del business di quelle società, che sopravvivono (e/o prosperano) con gli introiti della vendita delle loro pubblicazioni, vendita evidentemente compromessa da iniziative come questa. Il problema non è nuovo e già parecchi anni fa ci furono cause in tribunale contro la cosiddetta pirateria di Internet; ancora oggi, ad esempio, Youtube deve continuamente intervenire su reclami di case discografiche, reti televisive, teatri e operatori dello spettacolo, per oscurare filmati la cui disponibilità online rischierebbe di mandare in fumo ingenti investimenti. Il problema è tuttora oggetto di dibattiti e ha fatto nascere, al solito, scuole di pensiero.

Ma torniamo al nostro cinesino. Riaperto il sito nel 2008 con il supporto e l’appoggio di svariate personalità della cultura e con modesti impegni a vigilare sulle pubblicazioni messe in rete (oggi si può dire che si fa prima a censire, parlando dei classici, ciò che non è disponibile!) l’avventura di Guo ha ovviamente cominciato a soffrire della cosiddetta crisi di crescitaalla quale ha contribuito l’incorporazione dei dati di WIMA (Werner Icking Music Archive) e l’integrazione degli archivi con quelli di altre consorelle (per quanto non affiliate) quali la Petrucci Europe. Un giocattolo tipo-lego che è diventato… l’Empire State Building! Come e con quali/quante risorse lo può continuare a gestire una singola persona? Come si può osservare su ogni pagina del sito, nella colonna a sinistra è presente il classico pulsante Donate, che fa accedere al sistema PayPal dove chiunque può fare libere offerte attraverso carta di credito. E questo era originariamente il solo strumento di finanziamento impiegato da Guo per ripagarsi della fatica e dei costi di mantenere il suo sito in perfetta efficienza. Successivamente Guo ha stretto un accordo con Amazon: che devolve a IMSLP una percentuale dei ricavi di vendite effettuate tramite un’apposita sezione del sito. Analoga partnership esiste con Sheet Music Plus e altre realtà.

Ma quali erano e sono i costi di gestione e gli introiti da donazioni e altro non è mai stato dato di sapere. Nel 2011 Guo ha costituito una società (la Project Petrucci LLC) con l’unico obiettivo di occuparsi della gestione del sito (sollevando lui personalmente da responsabilità civili… mica per niente ha studiato Legge!) Il quale sito ha l’estensione .ORG, che ne caratterizza le finalità non di lucro. Tuttavia la Project Petrucci (LLC sta per Limited Liability Company, per noi sarebbe una srl) è formalmente una società e non una charity o una fondazione culturale (come ad esempio Wikimedia Foundation, che gestisce i diversi siti Wiki) società che però non è tenuta a stringenti adempimenti, primo fra i quali la pubblicazione di bilanci o rendiconti economici (viceversa una Fondazione deve rispettare mille regole assai complesse e stringenti, proprio per dimostrare di essere una non-profit organization). La società di Guo è supportata e legalmente rappresentata dalla Agents and Corporations, Inc. con sede a Wilmington, nel Delaware (il Delaware è lo Stato che ha più di altri legiferato proprio in relazione alle società tipo LLC). In sostanza, IMSLP è in mano ad una piccola società commerciale, di cui è unico proprietario Guo. Il che non interessava a nessuno fino a quando il sito veniva gestito come un ambiente aperto a collaborazioni e i suoi contenuti erano messi gratuitamente a disposizione di chiunque.

Ma, proprio fra Natale 2015 e Capodanno 2016, Guo, apparentemente senza nemmeno interpellare, via forum, la comunità di IMSLP, ha deciso di introdurre una forma di abbonamento al sito (22,80$ all’anno, equivalenti a 1,90$ al mese). Va premesso che l’abbonamento è opzionale e che i contenuti del sito restano gratuitamente a disposizione di chiunque; ma i non-abbonati avranno alcuni, più o meno limitati, svantaggi: non potranno accedere ai contenuti più recenti e potranno sperimentare tempi di attesa prima che loro richieste di download vengano onorate, o sorbirsi qualche messaggio pubblicitario.

L’annuncio è stato dato domenica 27/12/2015 sul forum di IMSLP da Guo, che ha giustificato la decisione con la necessità di garantire un futuro di sicurezza economica alla sua iniziativa, dato che il meccanismo delle donazioni e delle partnership non avrebbe garantito e non garantirebbe introiti sufficienti e soprattutto stabili. L’annuncio ha però subito scatenato vivacissime reazioni, per lo più negative e soprattutto da parte dei maggiori contributori di contenuti, i quali (benchè garantiti di un abbonamento decennale) si sentono quasi vittime di un raggiro: aver lavorato per anni a-gratis per un fine nobilissimo, e scoprire ora che il loro lavoro potrebbe essere utilizzato da qualcuno per… fare business!

Per la verità sono anche comparsi interventi meno aspri, o addirittura di appoggio all’improvvisa decisione di Guo: nei quali si minimizzano le conseguenze delle restrizioni per i non-abbonati e si conferma l’apprezzamento per l’attività del sito.

Da parte di tutti però si sottolinea la necessità che la Petrucci Library LLC d’ora in avanti pubblichi dati (almeno sommari) sul suo conto economico, sull’ammontare delle donazioni e degli abbonamenti e sulla destinazione degli introiti.
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Chiudo con la mia personale esperienza (per quel che può contare, ma 7 anni in questo caso sono… un’eternità). Ecco, fin dal 2009 ho (annualmente, ed anche pochi giorni prima della decisione di Guo!) fatto una donazione a IMSLP, in base a considerazioni non solo di tipo etico, ma anche squisitamente economico: immaginando di accedere a 100 nuove partiture all’anno (questo è più o meno il mio tasso di utilizzo del sito) è facile ipotizzare quale è il risparmio rispetto ad acquistare sul mercato quelle partiture: si tratterebbe di cifre ampiamente superiori ai 1000€/anno. Bene, una porzione non infima di tale cifra è quella che è stata oggetto delle mie donazioni. Ecco, se oggi io decidessi di sostituire la donazione con l’abbonamento, mr. Guo avrebbe moltissimo da rimetterci.   

31 dicembre, 2015

Mariss Jansons torna per il Capodanno 2016


Per il tradizionalissimo appuntamento di Capodanno a Vienna torna sul podio del Musikverein Mariss Jansons, alla sua terza presenza, dopo 2006 e 2012. 

Qui la classifica aggiornata dei Direttori delle 77 edizioni (2016 compreso) che si sono succedute senza alcuna interruzione dal 1940 (in realtà il primo concerto si tenne a SanSilvestro del 1939):

Willi Boskowsky
25
1955-1979
Clemens Krauss
13
1940 (31/12/1939)
1941-1945
1948-1954
Lorin Maazel
11
1980-1986
1994
1996
1999
2005
Zubin Mehta
5
1990
1995
1998
2007
2015
Riccardo Muti
4
1993
1997
2000
2004
Mariss Jansons
3
2006
2012
2016
Josef Krips
2
1946-1947
Claudio Abbado
2
1988
1991
Carlos Kleiber
2
1989
1992
Nikolaus Harnoncourt
2
2001
2003
Georges Pretre
2
2008
2010
Daniel Barenboim
2
2009
2014
Franz Welser-Möst
2
2011
2013
Herbert von Karajan
1
1987
Seiji Ozawa
1
2002

Appuntamento audio alle 11:15 su Radio3Video (registrazione) alle 13:30 su RAI2.

30 dicembre, 2015

laVERDI 2016 – Concerto n°1


La fine di dicembre coincide questa volta per laVERDI con l’apertura di una nuova stagione. Ciò che rimane immutato è il programma del concerto di fine anno: la Nona per antonomasia.

Auditorium affollatissimo per la prima delle 4 consecutive serate e successo per tutti: strumentisti, coro e soli. Alla maniera viennese, dopo le prime chiamate, il Buon Anno! gridato da tutti gli occupanti del palco, quindi il bis della travolgente coda dell’Ode schilleriana. 

E Dio solo sa quanto ci sia bisogno di rinverdire gli ideali in essa espressi…


19 dicembre, 2015

Riecco la Giovanna: salvata dal rogo dai registi?


Mah, io mi convinco sempre di più che debba essere salvata – nel senso di tenuta lontana! - da registi cialtroni e da esegeti con la puzza al naso. Dichiaro subito: non considero assolutamente la Giovanna un capolavoro, chè altrimenti dovrei inventarmi qualche astruso neologismo per apostrofare Otello… Ma allo stesso tempo penso che sia sommamente sbagliato sostenere che tutto ciò che capolavoro non è sia per definizione ciofeca. In un’ipotetica piramide suddivisa orizzontalmente in tre sezioni, collocherei Giovanna nella parte alta di quella mediana, ecco. Quindi: tutto salvo che brutta, come la catalogò il pur sommo Massimo Mila, assieme ad altre cinque sorelle derelitte, tra le quali un’altra opera che si appresta ad aprire la stagione 2016 in uno dei principali teatri italiani (Attila, a Bologna).

Nel suo citato testo (dove si riassumono le lezioni universitarie da lui tenute negli anni ’60) Mila affianca a benevoli apprezzamenti di tono paternalistico autentiche stroncature di ferocia inaudita. Della cavatina Pondo è letal il nostro parla come di crollo (estetico); poi di perfetto esempio di oziosa coniugazione melodica a puro scopo edonistico, per blandire l’orecchio dell’ascoltatore e permettere al tenore l’esibizione delle sue facoltà; poi ancora di melodia sciocca e fatua; e infine pure… gaglioffa! Accipicchia: messa così si dovrebbe allora buttare nel cesso mezzo Verdi, dalla pira alla donna mobile, ai bollenti spiriti (tanto per restare alla invece santificata trilogia): non sono altrettanti pretesti per blandire l’orecchio dell’ascoltatore e permettere esibizioni delle facoltà del tenore?

Dopo aver liquidato di passaggio come poco significante la melodia della cavatina Sempre all’alba, Mila apostrofa come un caso di brutto-oltraggioso e come goffaggine e gagliofferia il coro dei demoni (al ritorno nel second’atto lo definirà futile barcarola). È vero che la bizzarra filastrocca di Solera è perenne oggetto di lazzi e sberleffi, ma in realtà rappresenta perfettamente gli stereotipi radicati nelle usanze del popolino, riassumibili nel concetto: ogni lasciata è persa… Quindi il testo e la musichetta di walzer che lo sorregge sono (per me) un mirabile esempio di equilibrio e di stile, mi verrebbe persino da spendere il termine poesia per definirli. Mila poi così si esprime sul duetto Son guerriera: un’atroce cabaletta (…) su un accompagnamento dozzinale; che dopo la parentesi del terzetto a cappella, viene ripresa dai tre che si mettono a berciare (…) sul suo sfacciato accento giambico.

Le due sezioni dell’aria doppia di Giacomo (atto II) sono (è sempre Mila) melense e oziose, melodicamente cincischiate. Cincischiata è anche la romanza di Giovanna (O fatidica foresta). Il duetto Giovanna-Carlo è affetto dal più vieto e superficiale dinamismo rossiniano (per Gino Roncaglia è uno dei momenti più stolidi dell’opera). Quanto al finale dell’atto II, esso mescola autentiche intuizioni drammatiche a obbrobriose banalità. Qui Mila si lascia purtroppo andare ad una miserabile considerazione di carattere ideologico: a proposito dell’ultimo intervento dei diavoli che cantano vittoria, scrive di brutale arpeggio, una specie di “Allarmi, siam fascisti!” Ora, che quell’inciso sia stato impiegato da tale Mario Ruccione (o chi per lui, e coscientemente o per pura combinazione) per supportare il testo dell’Inno fascista di Luigi Landi sarà pur vero, ma accadrà 90 anni dopo la composizione di Giovanna: e da quando in qua le colpe dei pronipoti ricadono sui bisnonni?

La marcia che apre l’atto III è da Mila benevolmente accreditata di essere un lontanissimo antefatto di quelle (…) del DonCarlo o dell’Aida, ma forse meglio come documento delle attività municipali del giovane Verdi per la banda comunale di Busseto (!) Più avanti affermerà che Verdi non aveva neanche tentato uno sforzo d’ambientazione storica (cioè, ndr: la banda comunale di Reims?!? Ah no, la Messa di Machaut!) Gli interventi di Giacomo (recitativo, romanza, declamato e aria) vengono liquidati come privo di interesse, con accompagnamenti convenzionali, senza importanza musicale, piuttosto banale melodicamente… Il concertato finale ha una realizzazione men che modesta (…) senza reale consistenza di valori né musicali, né drammatici.

Il quarto atto è considerato da Mila (con la prima parte del primo) la cosa migliore dell’opera. E meno male! Perchè anche qui non mancano accuse di cadute nella banalità convenzionale, di incompatibilità stilistiche, di superficiale ed edonistica ricerca della bella melodia. Ancora: recitativo banalevolgari ritmi orchestrali di accordi ribattutiprogressione volgarebrutale, di gusto discutibile… 
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Mah, credo che si possa tranquillamente negare alla Giovanna lo status di capolavoro senza per questo abbassarsi a simili (abbastanza) gratuite denigrazioni, ecco.

E la più chiara risposta alle denigrazioni dei critici alla Mila viene proprio dal fronte musicale di questa produzione scaligera (ieri sera quinta recita - primina del 4 esclusa) e da chi ne è responsabile in-primis: Riccardo Chailly. La cui direzione ha precisamente trasformato in pregi tutti i difetti attribuiti alla musica: nulla di ciò che si ode qui è banale, cincischiato, volgare, brutale o discutibile, poiché tutto ha un senso narrativo assolutamente coerente ed esteticamente nobile. A partire dalla Sinfonia, che in sé concentra mirabilmente sia i contenuti pubblici (storici, religiosi) del dramma, sia quelli legati alla sfera privata ed alla psicologia dei protagonisti. Se devo proprio trovare un pelo nell’uovo nella direzione del Maestro citerò due, massimo tre circostanze in cui il fracasso orchestrale ha parzialmente coperto le voci (di Meli, nella chiusa della cavatina d’esordio, e Álvarez, nelle arie del primo e second’atto). Per il resto, si merita alle mie orecchie un voto fra il buono e l’ottimo. Stesso voto da attribuire all’Orchestra, che ha risposto proprio come un unico strumento alle sollecitazioni di Chailly.      

Anna Netrebko non avrà un timbro di voce dei più gradevoli (quando sale agli acuti) ma la facilità con la quale supera gli ostacoli di una tessitura massacrante (nell’estensione e nelle perorazioni a voce piena, vedi finale terzo) e la potenza del suo strumento, che invade anche gli spazi siderali di un Piermarini, fanno di lei una Pulzella di valore assoluto.

Francesco Meli si conferma tenore di altissima qualità: non una sbavatura sul lato tecnico (intonazione e aderenza al testo) e grande attenzione a tutte le sfaccettature che la parte di Carlo presenta a livello di espressività. La voce non ha certo la potenza di decibel della Netrebko e ciò ha comportato (complice Chailly, come detto) qualche circoscritto problema di udibilità, ma parliamo di piccoli dettagli che nulla tolgono all’eccellenza della prestazione complessiva. E qualche attenuante Meli la può vantare a carico dei registi, che lo costringono a cantare spesso e volentieri sdraiato per terra, appoggiato su un gomito.

Carlos Álvarez, alla sua seconda prova dopo i forfait iniziali, non ha mancato di portare il suo contributo di grande esperienza e mestiere: anche per lui vale il discorso sulla potenza dello strumento fatto per Meli. In ogni caso il suo è stato un Giacomo più che convincente.

Bene i due comprimari: soprattutto Dmitry Beloselskiy, un efficace Talbot; e poi Michele Mauro, onesto Delil.

L’altro personaggio di importanza capitale è il Coro: e quello di Casoni ha mostrato ancora una volta la sua eccellenza in opere come questa; sempre compatto e preciso, sia quando si deve far udire – in modo arcano - cantando fuori scena, sia nelle irruzioni a tutta forza cui è chiamato da Verdi nelle grandi pagine di carattere retorico.

Insomma, una Giovanna per la quale mi sento di sprecare l’attributo di superlativa, ecco.       
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Superlativa sul piano musicale. Quanto ai registi, ciò che compare sul programma di sala sulla loro concezione dell’opera è talmente contorto e contraddittorio da farli apparire come due pesci fuor d’acqua che hanno preteso di mettersi a correre in un autodromo…

Raccontare la storia di un certo personaggio facendola vivere ad un nuovo soggetto che nulla ha a che fare con il personaggio in questione, ma che – causa turbe psichiche assortite - immagina, vorrebbe, millanta, crede o sogna di esserlo, e di lui (lei) veste i panni, è idea tanto geniale quanto frusta, ma soprattutto estremamente rischiosa. Principalmente perché il nuovo protagonista, affinché tutta l’operazione abbia un senso qualsivoglia, deve necessariamente comportarsi in modo difforme dall’originale, e l’ambiente (materiale e umano) in cui esso si muove deve necessariamente essere diverso da quello in cui si muove l’originale. In caso contrario l’idea registica va subito a meretrici, chè si riduce allora a far scimmiottare ad alcune controfigure le stesse gesta del protagonista originale e di chi gli stava attorno, dando luogo ad una semplice, banale, stupida e soprattutto peggiorativa imitazione, o al massimo ad una parodia.

Ed è proprio ciò che succede con questa regìa, che invece di aggiungere valore ad un’opera che ne avrebbe (secondo i registi e gli esegeti con la puzza al naso) assai poco, finisce per sottrarre valore ad un’opera che non è assolutamente la ciofeca che costoro vorrebbero dipingerci. Insomma: ai due registi non è parso vero di poter sfruttare a proprio vantaggio tutte le facili stroncature di cui è fatto oggetto da sempre l’originale (il testo di Solera, ma anche la musica di Verdi) ed hanno quindi avuto buon gioco nel decidere – per loro stessa ammissione – di cambiargli i connotati! Permettendosi quindi di sbeffeggiare non solo il Solera, ma anche il Verdi, che il libretto di Solera aveva evidentemente apprezzato (e sappiamo quanto il cigno di Busseto fosse esigente in fatto di livello estetico dei testi da musicare.) Purtroppo per loro, non siamo ancora arrivati ad accettare che il testo e la musica originali vengano anch’essi modificati in relazione al Konzept registico, cosicchè i poveri registi sono costretti comunque con l’originale a farci i conti: e da qui nascono un’infinità di incongruenze e di stupidaggini, che finiscono per rendere il soggetto da loro manipolato ancor più criptico e paradossale di quanto l’originale non venga da loro dipinto.

Nel soggetto di Solera-Verdi il privato dei personaggi (con tanto di rapporti conflittuali e/o amorosi, di sentimenti e ipocrisie, di egoismi e pregiudizi e di schizofrenie assortite) occupa di certo una posizione preminente, ma non esclusiva, dato che si inserisce in un pubblico rappresentato dallo scenario politico della guerra dei 100 anni. Certo, l’opera non vuole essere un testo di storia per le scuole medie, nondimeno la Storia (per quanto falsificata, proprio a partire dal dramma di Schiller cui si ispirò Solera) ne è parte integrante e irrinunciabile, coinvolgendo comportamenti di popoli, eserciti, sovrani e comandanti (quindi testo e musica di cori e singoli). Così come la Religione, che mette il naso sia nel privato che nel pubblico e condiziona credenze, costumi, giudizi, e quindi comportamenti (leggi sempre: testo e musica) degli individui e delle masse. Insomma, accanto a quelli di natura privata e personale, gli aspetti relativi a tematiche di natura pubblica (politica, religiosa) sono fondamentali nell’originale di Solera-Verdi, dove l’individuo (tutti i protagonisti) opera e si muove all’interno di una società di cui subisce i vincoli e con le regole (politiche, religiose) della quale si deve continuamente confrontare. (È vero o no che si parla di Giovanna come di un passaggio che avvicina Verdi al GrandOpéra meyerbeeriano? e ci sarà pure un motivo…) 

Ebbene, tutti questi aspetti vengono distorti e ridotti a parodia dall’idea dei registi di mettere al centro della loro messinscena nemmeno più una persona, ma addirittura la sua patologia: ecco allora che tutto quanto ruota intorno a quella persona perde totalmente di pregnanza e persino di significato, essendo stato degradato a pura proiezione del subconscio di un individuo malato di mente: ciò che rimane allo spettatore è il racconto di un caso clinico più o meno interessante o disperato, ma nulla più. 

Emblematica della confusione generata nello spettatore dall’idea registica è la figura di Giacomo. Al quale i registi sono costretti (dal libretto di Solera che loro non si azzardano a modificare) a far assumere il magico ruolo di intermediario fra la realtà - di metà ‘800, dove in questa produzione è ambientata l’opera - e le fantasie della figlia (epoca 1429-31). Lui è infatti il padre sano della falsa Giovanna, malata di mente, quindi è chiamato contemporaneamente a prendersi cura della salute della povera figlia, ma anche a tenerle bordone diventando protagonista delle sue allucinazioni: andando a trattare per consegnarla agli inglesi di Enrico VI; poi accettando di svergognarla pubblicamente davanti a Carlo VII a Reims; infine consentendole di compiere la sua ultima impresa guerresca.

Ecco, ciò che lo spettatore fatica a comprendere sono le due trasformazioni della figura del padre (andata e ritorno, fra realtà e sogno della figlia). La prima è appena-appena percettibile allorquando si rialza il sipario (che durante la Sinfonia si era già alzato e poi riabbassato per mostrarci l’ambiente ottocentesco dove Giovanna malata è assistita dal padre): qui si odono i cori (nascosti in penombra dietro una vetrata) e poi qui arriva il dorato Re Carlo. Ebbene, del padre (vero) di Giovanna si intravede solo un braccio sporgente da una poltrona che dà le spalle al pubblico e sulla quale lui è evidentemente addormentato, poiché d’ora in avanti sarà anche lui parte delle allucinazioni di Giovanna. Ma mi domando quanti abbiano potuto afferrare questo dettaglio fondamentale della concezione registica. Peggio ancora la scena finale, dove si torna alla realtà di Giovanna malata e morente: qui testo e musica costringono i registi a far convivere la realtà (la poveretta assistita dal padre) con la fantasia: Re Carlo che assiste di persona, dovendo cantare insieme ai due e agli spiriti. Insomma, un bel… risotto. 

E sì che nell’originale di spunti interessanti per una regìa davvero di rottura ce ne sarebbero: ne cito solo un paio. Diavoli-Angeli: che fosse volontario o meno da parte del librettista, ecco un curioso ma significativo risvolto filosofico nelle figure di questi esseri ultraterreni: i primi (fate l’amore e non la guerra) sono dei pacifisti; i secondi dei biechi guerrafondai!

E poi la Madonnina (che te brilet dè luntan…): i registi ne mettono una statuetta di cartapesta (o di legno o coccio) da giardino (o presepe-gigante) in braccio a Giovanna, che se la porta dietro e poi la lascia al proscenio, sempre a portata di… sguardi del pubblico. Ecco, questa sarebbe anche un’idea condivisibile (a parte le dimensioni esagerate…) stante la devozione che la Giovanna di Solera (così come quella di Schiller) ha per la Vergine Maria, dalla quale ha avuto l’imbeccata per… arruolarsi. (Nella realtà la pulzella aveva invece ben tre sponsor, fra arcangeli e sante.) Però attenzione: in Solera (non in Schiller, ma qui chi fa testo, col permesso dei registi, è di diritto il librettista!) la Madonna è anche l’imbeccatrice di Re Carlo! Che si mostra a lei devoto altrettanto, se non più, della pulzella. E allora ecco che i registi hanno dimenticato di mettere in braccio al reuccio un’altra madonnina, un po’ diversa però da quella di Giovanna. Sì perché avrebbe dovuto avere un manto recante la union-jack, visto che ha ordinato a Carlo di arrendersi all’albionico invasore, cedendogli gentilmente il trono! La madonnina di Giovanna andava a quel punto rivestita con il tricolore, avendo manifestato invece patriottismo per la Francia. Poi, alla fine del primo atto, Carlo avrebbe dovuto strappare il manto traditore alla sua madonnina, e rivestire anche quella con il tricolore, oppure buttarla direttamente in un cassonetto per trastullarsi anche lui con quell’altra, da lì in avanti. Sarebbe stato un modo memorabile per spiegare al pubblico un aspetto della vicenda (secondo Solera) che viene normalmente ignorato e che soprattutto i registi hanno ignorato: una chiarissima allegoria dell’intreccio politica-religione, una delle problematiche capitali di tutta la storia europea dal medioevo ai giorni nostri…

Criticabili poi alcuni dettagli della messinscena. Mi limito a citarne solamente uno per tutti: mostrare scene cruente di battaglia contraddice spirito e lettera del libretto e della musica, nei quali esse vengono relegate a pochi accenni fatti da Giovanna alla fine del primo atto, o dagli inglesi all’inizio del secondo, o ancora da Giacomo con la sua cronaca nel finale. Tuttavia, quali che fossero le motivazioni (la censura magari, ma più verosimilmente i canoni estetici che il melodramma si auto-imponeva a quei tempi) sta di fatto che Solera-Verdi si guardarono bene dal mettere in mostra la benchè minima violenza o crudeltà. Che qui invece ci vengono propinate a piene mani alla fine del primo atto, compresa la vista di Giovanna che dà il colpo di grazia - calandovi nel petto a due mani e in modo invero orripilante il suo spadone - ad un soldato nemico già atterrato e indifeso.  
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Che dire? Che ancora una volta si sono buttati soldi del contribuente per mettere in piedi un allestimento tanto strampalato quanto pretenzioso. Una regìa di quelle che i soliti con la puzza al naso chiamerebbero museale avrebbe garantito alla produzione un price/performance assai migliore.