XIV

da prevosto a leone

16 giugno, 2014

Libertini a Torino


Al Regio di Torino è andata in scena ieri pomeriggio la quarta e penultima recita di The Rake’s Progress di Igor Stravinski. Segnalo subito l’interessantissima presentazione di Alberto Bosco, ora disponibile su youtube.
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Lo spunto per quest’opera (che ebbe la prima a Venezia nel 1951) era venuto al compositore da una serie di otto quadri di William Hogarth (vissuto nel ‘700) rappresentanti, appunto, alcune fasi dell’esistenza di un personaggio definito come libertino, o dissoluto. Da qui si potrebbe pensare a qualcosa di tipo Don Giovanni, o magari anche Duca di Mantova.

In realtà la favola morale che i librettisti Wystan Hugh Auden e Chester Simon Kallman derivarono - interpretandole in modo assai elastico - dalle otto pitture di Hogarth rimanda assai più ai casi di tale Dottor Faust, ma più giovane e meno… intelligente (smile!) Insomma: più che un libertino, questo Tom Rakewell sembra uno scansafatiche in cerca di ricchezze, agi, amore e fama a buon mercato, che il destino gli dovrebbe garantire per grazia ricevuta (proprio come quella che Berlusconi reclama da Napolitano...)

Lui, per dire, l’amore ce l’avrebbe già (la povera Anne Trulove, versione moderna della bizetiana Micaëla) ma di fare un’onesta vita da contabile (offertagli dal futuro suocero) per mantenere futura moglie e futuri figli non ne vuol proprio sapere: lui si ritiene meritevole dello status di mangiapaneatradimento e così diventa facile vittima degli… appetiti di un Mefistofele momentaneamente disoccupato (alias Nick Shadow). Costui gli procura una ricca eredità e, di passaggio, lo porta in un bordello (chèz Ma mère l’oye!) tanto per metterlo a suo agio, mentre la povera Anne non si dà pace non avendo più notizie di lui.

Rakewell comincia ad annoiarsi di fare il ricco nullafacente, così esprime il desiderio di essere felice (ma non con Anne, guarda un po’): prontamente il diavolo Shadow gli procura il necessario, Baba la Turca, un fenomeno da baraccone – donna barbuta, per dire - che viene subito sposata dall’entusiasta dissoluto. Anne rintraccia la dimora del fidanzato fedifrago e vi trova… la Turca, così scappa via inorridita.

Però anche il matrimonio comincia a scricchiolare: nel bel mezzo di una discussione domestica, Rakewell immobilizza la moglie con la sua stessa parrucca e poi sogna di diventare un benefattore dell’umanità, fabbricando e vendendo una portentosa macchina che produce pane dalle pietre. Shadow subito lo accontenta, presentandogli un perfetto prototipo dell’incredibile… diavoleria.

Ma come tutte le bufale, anche questa ha vita breve e così Rakewell perde tutte le sue sostanze, causa fallimento dell’impresa. Ciò che ancora conserva in casa vien messo all’asta e venduto dal banditore Sellem, che a un certo punto vorrebbe vendere anche la Turca (rimasta lì dove Rakewell l’aveva immobilizzata). Ma la barbuta torna in sé, consiglia Anne (nel frattempo arrivata ancora a cercare il suo Tom) di prendersi cura del povero amato, e poi torna al suo baraccone.

Dovendo esserci qualcosa di dongiovannesco, ecco che ci troviamo ora in un cimitero, dove Shadow reclama il suo compenso: l’anima di Rakewell. Prima che la mezzanotte scocchi però il diavolo vuol prendersi un’ultima soddisfazione e sfida la sua vittima ad un sadico gioco: indovinare per tre volte la carta che lui estrarrà dal mazzo. Rakewell indovina la prima (Donna di cuori… Anne) e poi la seconda (due di picche, la vanga da becchino caduta a terra in quel momento). Adesso lo sbifido Shadow ne fa una delle sue, per garantirsi la vittoria: rimette nel mazzo la Donna di cuori e la estrae. Ma Rakewell sente la voce di Anne e contro ogni logica nomina ancora la Donna di cuori, e vince. Poi cade svenuto, mentre Shadow sparisce scornato giù nell’inferno, non senza prima aver lanciato sul cliente un’ultima maledizione: farlo pazzo.

Al risveglio infatti Rakewell è fuor di melonera, si crede Adone e così lo ritroviamo trasferito in manicomio, dove la sua Venere (Anne) viene a dargli l’ultimo saluto. Infine, sempre come in Mozart, ecco tutti i personaggi tornare in scena per farci, ciascuno, la sua dovuta morale

Insomma, il soggetto è un – magari sapido – pastiche, ma certo assai più dilettantesco e dozzinale del libretto di DaPonte, non parliamo poi del capolavoro di Goethe. Tanto per esemplificare, i fatti che possiamo chiamare preternaturali sono di ben diversa portata nei modelli rispetto al testo musicato da Stravinski: nel Don la statua del Commendatore ha una valenza simbolica e drammatica eccezionale; nel Faust abbiamo il ringiovanimento compiuto da Mefistofele, anche qui un evento di immensa portata filosofica. Invece nel Rake troviamo dei miracoli piuttosto banalotti: un’eredità (concreta, stando agli sviluppi) che arriva a Tom da uno zio inesistente; poi la macchina del pane che viene presa sul serio dalla Borsa (neanche nella nostra new-economy-delle-bolle si dà retta a certe bufale…)

Certo, nel Rake possiamo vedere tanti aspetti di sottile critica della nostra società post-industriale, di fenomeni che erano già in essere in USA a metà del secolo scorso e che sono poi arrivati anche da noi (le televendite o il mito del successo a buon mercato) e di stereotipi di comportamenti individuali (Tom l’arrivista e Anne la pia, Baba la diva, Sellem il venditore di tappeti e Shadow il potere demoniaco della TV). Ma il livello estetico generale a me pare francamente abbastanza bassino, ed anche nel piccolo ci sono trovate proprio da avanspettacolo (neanche Broadway…) come la povera Baba che rimane ibernata - con la parola never rimastale in bocca a metà – per giorni, se non addirittura settimane o mesi!

E a proposito di scimmiottature un filino dissacranti, nel Rake c’è perfino qualcosa di Parsifal: la scena del bordello (il castello di Klingsor) dove le prostitute (ragazze-fiore) si contendono Rakewell che poi viene usucapito dalla loro tenutaria (Kundry).
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Dal punto di vista musicale Stravinski, con una logica da… orso russo, spiegò che, essendo il soggetto ambientato nel ‘700, allora gli parve normale musicarlo con gli strumenti di quell’epoca (opera a numeri chiusi e con recitativi secchi). Impiegando la stessa logica potremmo immaginare quale musica avrebbero dovuto comporre Verdi per Aida o Wagner per Lohengrin! Invece, forse, Stravinski pensava furbescamente di schivare l’ormai usurato tardo-romanticismo senza però trarne le logiche conseguenze. Un po’ come chi, in economia, per superare Marx non trova di meglio che… retrocedere ad Adam Smith.

Ecco perché personalmente trovo la musica del Rake piuttosto artefatta, pretenziosa ed estetizzante; l’incredibile varietà degli ingredienti utilizzati finisce per renderla stucchevole e addirittura quasi noiosa e indigeribile. Ecco, magari bella, ma fredda e francamente poco coinvolgente…

Certo nella partitura non mancano particolari interessanti o curiosi e spunti di riflessione; mi limito a citarne solo alcuni.
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Le tre apparizioni di Shadow – in corrispondenza dei tre desideri espressi da Tom - sono sempre accompagnate da un arpeggio del clavicembalo, che evoca proprio una specie di pof! da cui si materializza la presenza del demonio, pronto a soddisfare (ma per il proprio tornaconto) le voglie dello scansafatiche. Questi tre arpeggi hanno una struttura comune, costituita da un gruppo di veloci biscrome (12 per i primi due, 11 per il terzo, sempre sulla lunghezza di una semiminima) con andamento ondeggiante, seguito da una nota lunga, ma sono sempre diversi nell’altezza, calando ogni volta di una terza minore (attacco sul FA-RE-DOb e chiusura sul RE-SI-LAb):

Insomma: è come se il diavolo abbia sempre meno necessità di far colpo sulla sua vittima, che è sempre più soggiogata…

Inoltre un quarto arpeggio compare nel momento in cui (scena del cimitero, estrazione della terza carta) Tom, che ha appena udito la voce di Anna, dichiara di non avere più altri desideri (I wish for nothing else):


Come si può constatare, qui le 16 biscrome seguono una linea praticamente a singhiozzo: poichè Shadow si è accorto di esser sul punto di perdere la partita che già credeva vinta! 
    
Troviamo poi alcuni interessanti richiami tematici. Uno collega l’inizio e la fine della scena del cimitero: è dapprima in SOL minore, a preparare l’atmosfera drammatica dell’ultimo incontro Tom-Shadow; poi nella relativa SIb maggiore, a sottolineare l’arrivo dell’alba e il risveglio dell’ormai inebetito, anzi ammattito Tom:


Un altro mette fra loro in stretta relazione telepatica due esternazioni: quella di Tom che si prepara ad indovinare la terza carta (scena del cimitero) e quella di Anne al momento di decidere di partire alla ricerca dell’amato (cabaletta alla fine dell’Atto I):

Come non ammirare infine la ninna-nanna in LAb con cui Anne-Venus fa addormentare il suo Tom-Adonis, prima di dargli l’ultimo addio:

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Come ci è stata proposta a Torino? Intanto si è fatta – cosa abbastanza solita - una sola pausa, qui dopo la seconda scena dell’Atto II, al momento del trionfo di Baba.

La regìa di McVicar (proveniente da Glasgow) è come sempre rispettosa della lettera, prima ancora che dello spirito dell’opera: ambienti, costumi e… suppellettili sono del tutto appropriati, con poche e sempre utili varianti (due scimpanzé in carne ed ossa che Baba si tiene in casa insieme ai più strampalati oggetti; o la palandrana con cui il marito la copre per zittirla, più plausibile della parrucca).

Per il resto un’aderenza quasi maniacale al libretto. Scene ridotte al minimo: quasi vuote per i momenti intimistici e riempite di masse sapientemente manovrate per quelli di carattere pubblico. Costumi d’epoca assai appropriati, mai volgari anche nei momenti più svaccati (memorabili le tettone finte di Mamma-oca!)

E poi il proverbiale magistero di McVicar nel gestire la componente attoriale: dove ogni minimo dettaglio è meticolosamente studiato e nulla è lasciato al caso.
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Sul fronte musicale, note positive come sempre per l’orchestra e il coro: la prima sapientemente mantenuta da Noseda entro i rigidi canoni stravinskiani; il secondo come sempre preparato al meglio da Fenoglio.

Alti e bassi invece a livello voci protagoniste: su tutti lo specialista (di Tom) Leonardo Capalbo, sicuro in una parte che magari non richiede punte acute (non sale mai oltre il LA) ma che abbisogna di lirismo e di… ingenuità.

Alti e bassi invece per Danielle de Niese, che ha cercato di proporre una Anne dolce e devota, ma ci è riuscita bene a livello scenico, un filino meno bene sul canto, in particolare con tendenza al vetroso negli acuti.

Lo Shadow di Bo Skovhus ha ben figurato, guadagnandosi meritati applausi; peraltro, a fronte di grande efficacia nell’ottava alta, ha mostrato qualche debolezza nel registro più grave. Stesso dicasi per la comunque efficace Annie Vavrille (Baba). Discreto anche il Sellem di Colin Judson.

Jakob Zethner (Trulove) Barbara Di Castri (Mamma-oca) Ryan Milstead (guardiano) e Lorenzo Battagion hanno dignitosamente completato il cast.

Per tutti alla fine caloroso successo in un teatro abbastanza affollato.

Fra pochi giorni sarà la Fenice a proporre la sua produzione del Rake – ambientazione moderna, artefice Damiano Michieletto – già andata in scena a Lipsia qualche settimana fa (e dove tornerà a novembre): vedremo la… differenza!

13 giugno, 2014

Orchestraverdi – Concerto n°38

 

La stagione del ventennale de laVerdi si conclude con le tre repliche del concerto diretto da Jader Bignamini, delle quali la prima è andata in onda ieri sera, in un Auditorium abbastanza affollato, anche se non proprio esaurito.

Due le opere in programma, con l’Imperatore a chiudere il ciclo dei concerti beethoveniani, alla tastiera Davide Cabassi. Il quale – lo dico con grande dispiacere, ma senza mezzi termini – mi ha deluso assai. A parte alcuni evidenti svarioni in cui è incappato, ciò che mi è parso censurabile è un generale pressapochismo emerso dalla sua prestazione. Ne è sintomo non secondario la presenza, dentro la cassa dello strumento, dello spartito che il nostro ha continuato a sfogliare per l’intera durata dell’esecuzione: segnale preoccupante di insicurezza e, quindi, di inadeguata preparazione. Mentre dietro di lui Bignamini guidava assai bene l’orchestra a memoria!

Peccato davvero… speriamo che almeno nelle due recite che rimangono le cose migliorino. Poi, con il virtuoso bis di Padre Soler Cabassi ha cercato di recuperare quei consensi non meritati in precedenza.
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Bignamini ha infine diretto da par suo la Quinta di Ciajkovski, opera che l’orchestra ormai conosce come le proprie tasche. E forse per questo ho percepito qua e là qualche pecca, magari dovuta ad eccesso di sicurezza, ma nulla di così grave.

Il Direttore mi è parso quasi perfetto nei primi tre movimenti, prendendosi poi qualche piccola (e perdonabile) libertà con le dinamiche nel movimento conclusivo. Ma in sostanza si è trattato di una prestazione encomiabile da parte di tutti.

E proprio con questa stessa Quinta si aprirà la prossima stagione, il 14 settembre alla Scala, sotto la bacchetta di Zhang Xian.

11 giugno, 2014

La… Herlitzius di Strauss alla Scala

 

Ieri la Scala – in un teatro non propriamente esaurito - ha ospitato l’ultima recita di Elektra, accolta in precedenza da consensi praticamente unanimi, sia per la prestazione musicale di Salonen&C che per la messinscena del compianto Patrice Chéreau.


Devo dire del tutto serenamente che – a giudicare da quest’ultima recita – lo spettacolo è stato salvato quasi esclusivamente dalla Evelyn Herlitzius e – solo in parte – da Salonen. Per il resto siamo in una risicata sufficienza (la Pieczonka, discreta nell’ottava alta ma deficitaria sotto) o addirittura in una desolante nullità (spiace che tocchi alla grande Waltraud Meier, ma quando dal loggione non si riesce a sentire distintamente una sola sillaba di ciò che canta… è detto tutto). Si aggiunga a tutto ciò che il povero Pape è stato in pratica costretto a cantare con mezza voce (e se ne è scusato con eloquenti gesti alla chiamata singola) e il quadro è completo. Tutti gli altri interpreti su un piano di dignitosa routine.

Salonen da parte sua ha fatto suonare assai bene l’orchestra scaligera, però come se in programma ci fosse la… Alpensinfonie! E così le voci (Herlitzius esclusa) già poco o tanto deficitarie di loro, sono state spesso e volentieri coperte dai suoni provenienti dalla buca.

Invece è proprio la straordinaria prestazione della Herlitzius che mi dà lo spunto per sollevare il problema (annoso nella fattispecie) dei tagli che vengono tradizionalmente apportati a questa partitura e che - almeno una volta tanto, quando si dispone come qui del miglior interprete sul mercato - avrebbero potuto essere riaperti, consegnando al pubblico l’opera nella sua splendida interezza. Peccato che così non sia stato: una bella occasione perduta.

In questa produzione ne sono stati praticati cinque (diciamo: statisticamente nella media dei vari allestimenti e incisioni). In termini di durata siamo attorno ai 6-7 minuti, poca roba, che di per sé non giustificherebbe di certo l’operazione. Essendo quasi tutti però sulla parte della protagonista, è comune supposizione che siano fatti per… risparmiarle la voce: spiegazione abbastanza di comodo, direi; e che - fossi nella strepitosa Evelyn - tenderei a respingere decisamente.

Certo, per chi conosce poco il testo e meno ancora sa cavarsela con il tedesco, possono sembrare tagli innocui (se non addirittura… benefici!) ma in realtà innocui non sono proprio per nulla. E che lo stesso Strauss ai suoi tempi li avesse magari tollerati non è un buon motivo per continuare a perpetrarli, specie in produzioni che si vogliono e si definiscono epocali. Purtroppo si tratta di mutilazioni che, piccolo o grande, qualche danno lo fanno: alla musica, privandoci del ritorno di molti dei temi dell’opera, ed anche alla drammaturgia, nascondendoci alcuni interessanti squarci sulla personalità di Elektra. Vediamoli in dettaglio (testi in italiano, traduzione di Franco Serpa per la Scala, con le parti tagliate evidenziate in giallo). Ho indicato i tempi con riferimento ad una delle (due sole?) incisioni complete disponibili sul mercato (Solti/Nilsson).

1. Scontro Elektra-Klytämnestra: dal #240 a #255 della partitura, per un totale di 94 battute (circa 2’10”). È sicuramente il più pernicioso, in quanto devasta letteralmente uno dei momenti topici del dramma, quello in cui Elektra, che ha convinto la madre della necessità di un sacrificio umano (una donna) per esorcizzare i suoi incubi notturni, le annuncia che la vittima sarà proprio lei stessa.

Elettra (balza dal buio verso Clitennestra, sempre più le si accosta facendosi sempre più terrificante)
Quale sangue? Il sangue del tuo collo,
quando t’abbia agguantato il cacciatore!
Sento che corre per le stanze, sento
che alza la tenda del letto: chi scanna
la vittima nel sonno? Egli ti stana,
scappi gridando, e sempre ti è alle spalle:
ti incalza per la casa! Fuggi a destra,
c’è il letto! A sinistra, il bagno fuma
sangue! Dal buio e dalle torce cade
su te rete mortale nero-rossa –
(Clitennestra, sconvolta da muto orrore, vuole rientrare. Afferrandola per la veste, Elettra la trascina in avanti. Clitennestra arretra verso il muro. Ha gli occhi sbarrati, dalle mani tremanti le cade il bastone.)
Giù per le scale lungo i corridoi,
va di portico in portico la caccia –
ed io! io! io che l’ho lanciata,
io sono come un cane sui tuoi passi,
cerchi una tana, addosso mi ti avvento
da un lato, così ancora ti incalziamo –
fino a un muro e lì tutto si chiude,
pur nel profondo buio io lo vedo,
un’ombra, poi le membra e del suo occhio
il bianco vedo, là ci attende il padre:
nulla osserva, ma tutto deve compiersi:
presso i suoi piedi noi ti costringiamo –
Vorresti urlare, ma l’aria ti strozza
l’urlo incompiuto e l’abbandona a terra
giù senza suono. Come ossessa il collo
offri nudato, senti nella sede
della vita vibrare il taglio, invece
egli il colpo trattiene: non è il rito
perfetto. Nel silenzio ascolti il cuore
in petto martellarti: quel momento
– ti si stende davanti come un fosco
golfo di anni. – Il momento ti è dato
per provare quel che il naufrago sente,
quando si perde l’urlo tra le nubi
di caligine e morte, quel momento
ti è dato perché tu possa invidiare
ogni inchiodato al muro della cella,
chi dal fondo di un pozzo invoca morte
come salvezza – perché tu a te stessa,
tu sei tanto inchiodata, come fossi
nel ventre arroventato di una bestia
di bronzo – e come ora non hai grido!
Qui sto io davanti a te, con l’occhio fisso leggi
la tremenda parola che sul volto m’è impressa:
pende dal cappio che tu stessa hai teso,
l’anima, scende l’ascia sibilando,
ed io ci sono e finalmente vedo
la tua morte! Finiscono i tuoi sogni,
né io sognerò più, e chi ancora è vivo
trionfa e della vita può bearsi!

Come si può constatare, il taglio ci priva del racconto dei macabri particolari dell’autentica caccia-alla-donna di cui la regina sarà vittima (secondo le allucinate visioni della figlia) e delle terrificanti pressioni psicologiche prima ancora che delle ferite materiali cui verrà sottoposta.

Soprattutto non ci chiarisce fino in fondo chi dovrebbero essere i giustizieri della regina: il testo mutilato infatti lascia in campo soltanto Elektra e il cacciatore (Orest, come si deduce dal contesto e dai suoi temi musicali) ma non permette di riconoscervi (anche a mezzo della musica!) lo spettro di Agamemnon.

E appunto la musica che si perde è tutt’altro che puro riempitivo: è un drammatico declamato della protagonista, accompagnato da almeno una dozzina di Leit-motive dell’Opera, che come sempre ci chiariscono ciò che nemmeno le parole possono spiegare.  

2. Confronto Elektra-Chrysothemis: sono precisamente tre tagli, a breve distanza uno dall’altro, alla scena in cui – dato per morto Orest - Elektra cerca in tutti i modi di convincere la sorella ad essere sua complice nella vendetta.   

a) da #59a a #68a della partitura, per un totale di 72 battute (circa 1’).

Elettra
Tu! Tu!
Sei forte!
(attaccata a lei)
Sei così forte! T’hanno
fatto robusta le virginee notti.
In ogni membro hai forza!
I tuoi tendini sono di un puledro,
agili sono i piedi.
Come agili e flessuosi –
senza sforzo li abbraccio –
sono i tuoi fianchi!
Nei pertugi ti insinui, tu sai sollevarti
per le finestre! Ch’io ti senta le braccia:
come sono fresche e forti! Se mi respingi,
sento che braccia sono queste. Ciò che stringi
a te, tu potresti schiacciarlo. Tu potresti
soffocare me o un uomo tra le tue braccia.
C’è forza in ogni membro!
Erompe come un freddo
sotterraneo torrente dalla roccia. Scorre
nell’onda dei capelli sulle salde spalle.
Sento dalla freschezza della pelle
il calore del sangue, con la guancia
sfioro il tenue velluto delle braccia!
Sei solo forza e sei bella,
sei un frutto nei giorni del raccolto.
Crisotemide
Lasciami!

b) da #89a a #102a della partitura, per un totale di 120 battute (circa 1’45”).

Crisotemide (chiude gli occhi)
No, sorella.
Non dire queste cose in casa nostra.
Elettra
Oh sì! Più che sorella io ti sono
da questo giorno in poi: io t’ubbidisco
come una schiava. Quando avrai le doglie,
presso al tuo letto resto giorno e notte,
scaccio le mosche, attingo l’acqua fresca,
e quando a un tratto una creatura viva
sul nudo grembo sta, nostro sgomento,
in alto la sollevo, così in alto
che il suo sorriso giù fino al profondo
segreto abisso del tuo cuore scenda
e lì per questa luce il freddo orrore,
l’ultimo, si discioglie e in chiare stille
puoi sfogare il tuo pianto.
Crisotemide
Andiamo via!
In questa casa muoio!
Elettra (ai suoi ginocchi)
Bello hai il labbro,
quando si schiude all’ira! Dalla bocca
pura, forte, tremendo un grido certo
risplende, tremendo come il grido
della dea della morte, se ai tuoi piedi
si giace come io ora.
Crisotemide
Di che parli?
Elettra (si alza)
Prima che me tu lasci
e questa casa, devi farlo!
Crisotemide (vuole parlare)
Elettra (le chiude la bocca)
Altra
strada non c’è che questa. Non ti lascio,
se prima bocca a bocca non mi giuri
che lo farai.

c) da #104a a #108a della partitura, per un totale di 36 battute (circa 30”).

Crisotemide (si divincola)
Lasciami stare!
Elettra (la riafferra)
Giura,
verrai stanotte ai piedi della scala,
quando è silenzio tutto!
Crisotemide
Lascia!
Elettra (la tiene per l’abito)
Donna,
non rifiutarti! Il corpo tuo di sangue
non macchierai: dall’abito imbrattato
nelle vesti nuziali intatta entri.
Crisotemide
Lasciami!
Elettra (sempre più incalzante)
Non esser vile! Se ora
il tuo brivido vinci, avrai compenso
di brividi d’amore notti e notti –
Crisotemide
Non posso!
Elettra
Sì, verrai!
Crisotemide
Non posso!
Elettra
Guarda,
giaccio davanti a te, ti bacio i piedi!
Crisotemide
Non posso!
(Scappa dentro la porta della casa.)
Elettra (le urla dietro)
Maledetta!

Questi tre tagli sul piano strettamente musicale ci privano di alcuni splendidi passaggi, e al contempo mutilano non poco l’evocazione della morbosa, quanto interessata, attitudine di Elektra verso la sorella minore: ci troviamo ammirazione quasi erotica, perfida adulazione e promesse di felicità e di aiuto, in cambio della complicità nell’uccisione di madre e concubino. Insomma, tutte caratteristiche salienti della complessa personalità della protagonista che questa amputazione fa abbastanza sfumare, se non proprio scomparire. Fra l’altro, sul piano drammatico, la stessa imprecazione finale di Elektra finisce per diventare affrettata e meno giustificata, in assenza di tutto quel crescendo di pressione cui invano la sorella era stata sottoposta.

3. Incontro Elektra-Orest: da 7 battute dopo #166a a #171a, per un totale di 33 battute (circa 1’5”).

Elettra (con un grido)
Oreste!
(pianissimo, tremante)
Oreste! Oreste! Oreste!
Non si muove nessuno! Gli occhi tuoi
lascia ch’io guardi, sogno, visione
a me donata, più bella dei sogni!
. . .
Vedi, fratello? Tutto ciò che ero,
io l’ho sacrificato. Il mio pudore
l’ho offerto, il pudore che è più dolce
di tutto, che come un velo lunare
di argenteo chiarore cinge ogni donna
e lei difende e l’anima sua
da ogni vergogna. Vedi, fratello?
Donare al padre ho dovuto la dolce
trepidazione. Non credi che quando
gioivo del mio corpo, non salivano
i suoi sospiri, non saliva il gemito
fino al mio letto?
(con mestizia)
Sì, sono gelosi
i morti: ed egli mi ha mandato l’odio,
l’odio dagli occhi vuoti, come sposo.
Così mi sono fatta profetessa
e da me, dal mio corpo nulla ho tratto,
nulla se non imprecazioni e angoscia!
Perché mi fissi spaventato? Parla!
Parlami dunque! Tremi in tutto il corpo?

Qui perdiamo invece un particolare importante del morboso e ambiguo rapporto di Elektra col padre, che spiega i disturbi psicotici della donna (che erano studiati dalla psicanalisi proprio negli anni della composizione dell’opera) e soprattutto l’immanente presenza (sia pure soltanto in… musica!) di Agamemnon in ogni angolo dell’opera. E lo stesso regista - alla fine delle sue note apparse sul programma di sala - cita il passaggio tagliato (e con apparente rammarico!) proprio per sottolinearne la valenza psicologica.
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Ciò mi dà lo spunto per qualche considerazione sulla regìa. Della professionalità e delle indiscusse capacità di Chéreau di creare emozioni non è certo il caso di discutere. È invece lecito avanzare qualche dubbio su certe sue, diciamo, trovate, che paiono della serie famola strana.

Allora: il sangue. Chéreau, già prima che incominci la musica, ne fa sparire anche le ultime labili tracce, sparse in giro su scale e cortile, mostrandoci le serve che le cospargono di sabbia. Nessuno pretende di vedere (come è capitato altre volte) scene raccapriccianti con docce di sangue sul palcoscenico, e del resto basta leggere il libretto per constatare come di sangue soltanto si parli, ma non lo si veda giammai. Ecco che invece il regista decide di mostrarci i due omicidi (di cui nel libretto abbiamo soltanto notizia da urla strazianti di Klytämnestra ed Aegisth provenienti dall’interno del palazzo) in primo piano: col cadavere della regina trascinato all’aperto da Orest e poi con il truce, disgustoso e verista accoltellamento dell’usurpatore da parte del precettore (?) del medesimo Orest. Davvero non è un bel servizio fatto alla coppia Hofmannsthal-Strauss!

Che dire della scure (quella con cui fu assassinato Agamemnon) che Elektra ha gelosamente conservato - come ha rivelato alla sorella - seppellendola vicino ad una delle porte della reggia? Il relativo Leit-motiv si ode nientemeno che all’undicesima battuta della partitura, però come per il sangue, anche della scure sentiamo soltanto parlare a più riprese da Elektra ma mai la vediamo. Nemmeno allorquando lei cerca di disseppellirla (allo scopo di usarla personalmente contro madre e concubino) dopo il rifiuto della sorella a farsi complice della vendetta e si mette furiosamente a scavare proprio mentre arriva Orest. Distratta dall’intrusione del (non ancora agnito) fratello, lei dimentica l’ascia e se ne ricorda quando è troppo tardi (Ich habe ihm das Beil nicht geben können!Invece Chéreau, in un impeto didascalico, ci mostra Elektra che recupera la scure, la libera dalle bende in cui era avvolta in modo che tutti la possano chiaramente vedere, e però subito la rinasconde (mah…)

Un’altra gratuita libertà che Chéreau si prende riguarda l’arrivo di Orest presso Elektra: nell’originale ciò avviene solo al termine del confronto fra le due sorelle, chiuso dal disperato Sei verflucht! Nun denn, allein! della protagonista. Invece il regista ci mostra Orest, seduto nella penombra, assistere a pochi metri di distanza a tutto il dialogo fra le sorelle, dal quale dovrebbe a questo punto ed in modo inequivocabile scoprire l’identità di Elektra, il cui nome viene ripetutamente fatto da Chrysothemis. Ma ciò contrasta in pieno con quello che accade subito dopo, quando Orest – come da libretto - mostra di non riconoscere per nulla Elektra!  

Anche il finale lascia perplessi: Orest nell’originale non si vede proprio, ma in compenso Chrysothemis ce ne parla come di un eroe portato in trionfo e letteralmente issato sulle spalle dai suoi fedeli. Chéreau invece lo fa entrare in scena e poi uscire da solo, con atteggiamento disgustato, ignorato da tutti. (?)

Quanto ai singoli personaggi, al di là della maestrìa con cui il regista li fa muovere, mi sentirei di criticare la sua Klytämnestra. Ecco come Hofmannsthal ce la presenta:  La regina è sovraccarica di gemme e talismani. Le braccia sono piene di monili. Le dita sono rigide di anelli. E Strauss letteralmente si supera nell’evocare tutto ciò in musica: il Leit-motif dei talismani magici erompe al #177 della partitura, subito prima dell’esternazione della regina (Ich habe keine guten Nächte). È il flauto, accompagnato dai tintinnii del glockenspiel e dagli accordi arpeggianti delle… arpe (qui si anticipa il Rosenkavalier!) a presentarci l’assurda quanto appariscente bardatura di Klytämnestra. Che però Chéreau minimizza, limitandosi ad una collana da bigiotteria elegante e a diversi anelli, su un abito altrettanto sobrio indossato da una donna dai tratti nobili ed apparentemente equilibrata; ed eliminando il bastone su cui si dovrebbe sorreggere la barcollante e nevrotica regina nell’originale.

Se devo citare invece il  momento più riuscito di tutta la rappresentazione, questo è la scena dell’incontro fra madre e figlia che per un momento – splendidamente sottolineato dalla musica di Strauss – esternano i reciproci sentimenti, e dove Elektra ha l’unico sussulto di amor filiale: perché, come acutamente scrisse uno dei massimi esegeti straussiani, Richard Specht, nel suo saggio sull’opera (1921) l’odio di Elektra (verso la madre) è amore pervertito.
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Peduzzi mi sembra uno che porta sempre lo stesso abbigliamento a Capodanno, Pasqua, Ferragosto e SanMartino: ha al massimo il 50% di probabilità di azzeccarci con la stagione. Così le sue scene vanno bene per questa Elektra, come andarono benissimo per la Casa di morti; ridicole invece furono per Tristan, Carmen e Tosca, per citare solo opere viste qui al Piermarini.

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Allego infine un saggio del sommo Quirino Principe su Strauss (una specie di bigino del ponderoso volume dello stesso Autore) apparso su Musica&Dossier del marzo 1988.


07 giugno, 2014

Orchestraverdi – Concerto n°37

  

Per il penultimo appuntamento della stagione principale torna sul podio Zhang Xian. Che apre la serata (invertendo l’ordine dei due brani originariamente previsto) con la mozartiana Jupiter.

Che la cinesina prosciuga di note (saltando ogni ritornello, Minuetto escluso) ma arricchisce di sfumature, a volte persino eccessive nella dinamica, come nel centrale Andante. Insomma, un Mozart ristretto, ma come un eccellente brodo con cui aprire la cena.

Il cui piatto forte è la Quinta di Shostakovich. Opera emblematica dell’indecifrabilità dei comportamenti del suo autore, da sempre oggetto di contrastanti giudizi sul piano umano e su quello artistico. Il sottotitolo di un recente, acuto e già controverso libro di Piero Rattalino recita: Continuità nella musica, responsabilità nella tirannide. Insomma, Shostakovich dissidente dentro e connivente fuori? Prima nel mirino di Stalin-Zdanov e poi apologeta del regime a New York? Artista sovietico contrito, che ritira la Quarta sinfonia (che nessuno aveva ancora ascoltato!) temendo di finire in un Gulag (come minimo…) per comporre in fretta e furia la Quinta, in risposta alle giuste critiche del regime alla sua Lady? O artista libero dentro, che si piegava apparentemente alla brutalità del regime mentre in realtà lo metteva alla berlina usando le sue stesse armi?

Ecco, la Quinta – se la giudichiamo da una prospettiva extra-musicale – è proprio lo specchio di questa ambiguità. Così Shostakovich la descriveva in una sua esternazione pubblica: II soggetto della mia Sinfonia è il divenire, è la realizzazione dell'uomo. Perché è lui, l'individuo umano con tutte le sue emozioni e le sue tragedie che io ho posto al centro della composizione (…) Il mio nuovo lavoro può esser definito una sinfonia liricoeroica. La sua idea principale si fonda sulle esperienze emozionali dell'uomo e sull'ottimismo che vince ogni cosa.

Insomma, se non è il sol dell’avvenir, poco ci manca! Ma ecco cosa ne diceva poi in privato: Ritengo sia chiaro a tutti quel che "accade" nella Quinta. Il giubilo è forzato, è frutto di costrizione, esattamente come nel Boris Godunov. È come se qualcuno ti picchiasse con un bastone e intanto ti ripetesse: "II tuo dovere è di giubilare, il tuo dovere è di giubilare" e tu ti rialzi con le ossa rotte, tremando, e riprendi a marciare, bofonchiando: "II nostro dovere è di giubilare". Si può dunque definirla un'apoteosi quella della Quinta? Bisogna esser completamente sordi per crederlo. Ergo: ma quale sol dell’avvenir! Qui siamo al mangiar la minestra per non saltar dalla finestra…

E il colmo è che doveva essere proprio la Quarta, nelle intenzioni dell’autore, a rappresentare la nuova arte sovietica! Mentre se ascoltiamo la Quinta senza troppi pregiudizi e incrostazioni extra-musicali, magari scopriamo che è una degnissima sinfonia di… Mahler! Soltanto arrivata con 30 anni di ritardo. 

C’è qualcosa che non va? Forse che Strauss non continuò a scrivere musica ottocentesca ben oltre lo Shostakovich del 1937? E allora possiamo anche godercela in santa pace, questa sinfonia, dimenticando che era piaciuta anche a… Stalin! Soprattutto se i ragazzi de laVerdi ce la propongono, per tramite della Xian, con eccezionale efficacia. Meritato quindi il grande successo di pubblico, con applausi ritmati e prime parti chiamate ad alzate singole, con particolari ovazioni per il Konzertmeister Dellingshausen e i fiati, ottoni in testa, che nel finale – insieme alle terrificanti bordate della Viviana, tanto brava quanto pettoruta - han messo a dura prova la resistenza delle robuste strutture dell’Auditorium.

03 giugno, 2014

laVerdi presenta una stagione-monstre

 

Nella splendida cornice della Sala Alessi di Palazzo Marino (unico difetto: le dimensioni, che hanno costretto decine di persone ad assistervi all’impiedi) si è tenuta stamani la conferenza di presentazione della stagione 14-15 de laVerdi.

Una cosa impressionante per quantità, ma anche per qualità. Intanto la stagione principale, che parte canonicamente a settembre 2014, e copre però l’intero 2015, in omaggio alla presenza dell’Expo, per un totale di 64 appuntamenti (su 2 o 3 repliche). Vi si aggiungono 11 concerti de laBarocca della coppia Jais-Capuano, 12 concerti Made-in Italy affidati a Giuseppe Grazioli e 14 concerti di una nuova serie affidata a Francesco Maria Colombo, significativamente intitolata Around the World (sempre in omaggio ai Paesi presenti all’Expo). In più le tradizionali iniziative Crescendo in musica (15 concerti) e Discovery (5 concerti). Infine, ben 20 (leggasi: venti!) Concerti straordinari, fra cui spiccano il Concerto per l’Europa e quello per la Chiusura dell’Expo.

Non mancano all’appello anche contributi di compositori contemporanei, primo fra tutti quello della voce di Radio3 Nicola Campogrande, cui è stata affidata la produzione di ben 24 Expo Variations in omaggio a Paesi presenti alla rassegna universale; poi un divertimento buffo di Luis Bacalov su tema vinicolo (da Cignozzi) e un melologo di Fabio Vacchi su testo di Michele Serra che si ispira all’enorme mare d’acqua su cui è sdraiata Milano.     

Insomma, un impegno di straordinaria levatura, che si accompagna ad una serie fittissima di relazioni con Istituzioni pubbliche e private, quali: La Commissione europea, i Consolati dei Paesi presenti all’Expo, il Forum austriaco di cultura, il Centro ceco, il Teatro alla Scala, il Teatro LaFenice, il Piccolo Teatro, il Conservatorio di Milano, Milano Musica, la Fondazione Ambrosianeum, il Centro Culturale di Milano, il Coro dell’Associazione Nazionale Alpini di Milano, Espressione Danza, l’Orchestra Haydn di Bolzano-Trento, Ricordi Universal e Archivio Ricordi, Classica HD, Charta Best Union e ovviamente con il Comune di Milano.

Anche sul fronte organizzativo e tecnologico ci sono interessanti novità: fra tutte (da informatico…) segnalo la disponibilità di una forma di abbonamento libero che consente al titolare di scegliere di volta in volta e via web il concerto preferito e stamparsi direttamente il biglietto a casa.

Davvero, non c’è che l’imbarazzo della scelta!