affinità bombarole

rinsaldato il patto atlantico

17 maggio, 2014

Orchestraverdi – Concerto n°34

 

Jader Bignamini anticipa di un paio di settimane il suo ritorno sul podio del laVerdi, prendendo il posto che il programma originario della stagione assegnava ad Oleg Caetani.

In programma due pezzi forti del repertorio tradizionale, che si trovano anche agli estremi opposti del secolo XIX, essendo stati rispettivamente composti nel 1800 e nel 1899.

Il Terzo Concerto per pianoforte rappresenta un autentico punto di svolta nell’ambito della produzione concertistica di Beethoven, così come, un paio d’anni più tardi, sarà per l’Eroica in campo sinfonico. Dopo i due concerti di rodaggio che guardano chiaramente ai modelli mozart-haydniani, qui comincia a farsi sentire il Beethoven impegnato, quello per cui la musica è una cosa maledettamente seria. La forma ancora è la stessa delle prime esperienze (lunga esposizione orchestrale prima dell’entrata del solista, modulazioni ardite) ma è il contenuto che davvero fa cambiar musica!

Il non ancora trentenne torinese Gabriele Carcano ce ne dà una vibrante esecuzione, palesando, oltre ad una tecnica impeccabile – condizione necessaria ma non sufficiente a fare un grande interprete – anche una notevole sensibilità, emersa specialmente nel centrale Largo, ma anche nella difficile cadenza del primo movimento. Meritato successo per lui, che regala anche un bis (Schumann?)
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Bignamini, che l’ha evidentemente mandata a memoria, ha infine diretto in modo per me encomiabile la Quarta di Mahler, una sinfonia che tende mille tranelli al direttore, dato il suo carattere ambiguo e indecifrabile. Jader si è tenuto sul sicuro, rispettando meticolosamente anche le indicazioni più sottili della partitura; il che dimostra che – dirigendo Mahler in particolare - il modo migliore per cogliere lo spirito dell’opera è quello di rispettarne scrupolosamente la lettera. E i ragazzi lo hanno assecondato in modo egregio, in tutte le sezioni, fiati ovviamente in testa, ma anche l’arpa e gli archi.

All’interno di un’esecuzione che definirei, nel complesso, memorabile sono poi da incorniciare alcuni particolari passaggi: come l’intervento del corno all’inizio dello sviluppo, e la transizione fra sviluppo e ricapitolazione del primo movimento; o le impertinenti irruzioni del clarinetto nel trio e lo splendido assolo del corno a dialogare con gli archi alla ripresa dello scherzo, nel secondo movimento; o l’incantevole attacco del terzo movimento di viole e celli e quello dolente dell’oboe all’inizio della seconda sezione, seguito dalla straziante citazione dall’Aida (che entrerà nei Kindertotenlieder) di flauti e clarinetti e poi ancora il corno a chiudere prima dell’Allegretto grazioso.   

A cantare l’irriverente filastrocca conclusiva è arrivata Karina Gauvin, che avevamo ascoltato qui poco più di un anno fa nel Gloria di Poulenc. La cicciottella canadese per portarsi al proscenio si è fatta largo fra i leggii dei violini approfittando del fracasso della coda del Ruhevoll. Poi per la verità non ha brillato molto, mangiandosi buona parte delle sillabe e mostrando la corda nella cosiddetta ottava bassa: insomma, una prestazione francamente deboluccia, che ha contrastato assai con quella eccellente di strumentisti e direttore.  

Ma il trionfo non è comunque mancato, in un Auditorium per la verità non propriamente stracolmo.

12 maggio, 2014

Il Tell(enin) di Vick approda a Torino


Il Regio di Torino riprende in questi giorni l’allestimento del Tell di Graham Vick presentato all’ultimo ROF. Solo l’allestimento, chè ogni altro ingrediente del minestrone è totalmente diverso: là il Guillaume originale di de Jouy e Bis, qui il Guglielmo in versione Calisto Bassi (per fortuna ripulito da Paolo Cattelan); là l’orchestra del Comunale di Bologna con Mariotti, qui quella del Regio con Noseda; e (quasi) tutto il cast cambiato.

Anche i contenuti musicali divergono non poco fra le due proposte: a Pesaro andò in scena l’opera (quasi) come da edizione critica della compianta M. Elizabeth C. Bartlet per la Fondazione Rossini (un paio di tagli, rispetto alla prima di Gelmetti del 1995, comunque furono perpetrati anche là: il Pas de deux e l’invocazione degli austriaci a Tell, nella scena della tempesta dell’atto finale). Mentre a Torino si è sostanzialmente seguita la versione Muti (Cattelan) del 1988, che è comunque basata – lingua del testo a parte - sulla versione critica, ma non ne accoglie al 100% i contenuti: quindi esclusa, rispetto a Pesaro, anche l’aria di Jemmy, prima del tiro-alla-mela; in più Noseda ha (forse per coprire manchevolezze degli interpreti?) tagliato alcune ripetizioni alla fine di duetti (Matilde-Arnoldo) e concertati (Giuriamo): beh, diciamo che sono sempre dolorosi ma non proprio… scandalosi, ecco.

Dalibor Jenis è un Tell discreto ma non di più (secondo me, ovviamente): gli manca quel tocco di autorità che sarebbe richiesto per la parte. Insomma, le note le canta, ma non… incanta. 

John Osborn è stato il trionfatore della serata, in virtù della sfilza di DO acuti che ha sciorinato: l’ultimo, sull’all’armi, proprio à-la-Duprez (acuto che Rossini aborriva come verso di bestia sgozzata, e infatti non lo scrisse) emesso con piglio addirittura irridente. Evidentemente, dopo la catastrofe a Santa Cecilia di qualche anno fa, il nostro deve averne fatto un punto d’orgoglio: diamogliene atto!

Angela Meade (Matilde) è davvero una cantante a-tutto-tondo (stra-smile!): ha mostrato buona impostazione, acuti ben portati; mi è parsa un filino meno efficace nelle note basse.

Luca Tittoto (il bieco Gessler) è l’unico superstite del ROF-2013: per me ha confermato la discreta prova di allora.  

Anna Maria Chiuri come Edvige si è ben distinta: voce calda e bene impostata. Lodevole anche la prova di Mirco Palazzi (Gualtiero) un basso che mi pare in continua crescita.

Fabrizio Beggi è un buon Melcthal. Nel video del quarto atto, evidentemente portato da Pesaro, si doveva vedere l’interprete di allora, Simone Alberghini. Invece il proiettore, proprio come Jemmy, è rimasto fermo e immobile: chissà, forse perché Alberghini ha chiesto troppo per i diritti di immagine… (smile!)

Marina Bucciarelli mi è parsa, come Jemmy, un filino sotto la media: voce piccola, poco penetrante ed espressione incerta.

Bravo nella sua parte piccola ma impegnativa Mikeldi Atxalandabaso, assai sicuro nei DO acuti cui è chiamato, per di più proprio a… rompere il ghiaccio.

Luca Casalin (capo degli arcieri) Ryan Milstead (Leutoldo) e Giuseppe Capoferri (un cacciatore) hanno degnamente completato il cast.

Ottimo come sempre il Coro di Claudio Fenoglio.

Quanto a Noseda, ha ancora una volta mostrato grande sensibilità e cura dei particolari. Merito anche dei ragazzi dell’orchestra; peccato che l’assolo iniziale del violoncello di Lukic sia stato rovinato da interventi sconsiderati di alcuni percussionisti dislocati in platea (all’ingresso andrebbe fatto a tutti un test di idoneità delle vie respiratorie…)
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Sulla regìa di Vick ho già scritto abbastanza peste-e-corna in occasione del ROF-2013, quindi mi limiterò a re-citare le due fondamentali negatività di questa produzione. La prima riguarda la scelta, tutta ideologica, del simbolismo (vetero-comunista) impiegato per presentare una lotta di popolo per la libertà e l’indipendenza: il pugno chiuso e le bandiere rosse (purtroppo, dobbiamo ammetterlo) hanno perso ai nostri occhi il loro originale e nobile contenuto, dacchè l’esperienza storica ci ha detto inconfutabilmente che essi non hanno mai portato ai popoli né libertà, né indipendenza, al contrario hanno prodotto sempre dittature e sovranità limitata. Per cui, sostituirle alla gloriosa bandiera rosso-crociata è un autentico delitto.

La seconda negatività riguarda lo spregio dei contenuti testuali e soprattutto musicali dell’opera, come ho esemplificato a suo tempo. Non a caso anche ieri alla fine dei balletti del terzo atto, accanto ai doverosi applausi per l’esecuzione musicale c’è stata una chiara manifestazione di dissenso fra il pubblico del Regio, indubbiamente rivolta contro le efferatezze di cui Vick ha infarcito quella scena.
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In ogni caso, ancora una volta, è la musica ad aver colpito l’immaginazione del pubblico (assai folto) che ha lungamente applaudito tutti i protagonisti.  

La produzione – in forma di concerto, quindi significativamente senza il contributo di Vick – verrà portata il 7 dicembre (proprio SantAmbrogio!) alla Carnegie Hall con lo stesso cast (primo-secondo) di questi giorni.

10 maggio, 2014

Orchestraverdi – Concerto n°33

 

Il singolare concerto di questa settimana è affidato al… fido Giuseppe Grazioli, che impersona nientemeno che Richard Strauss mentre dirige un’orchestra che accompagna la proiezione di un film muto, cosa accaduta realmente in un lontano 1926.
L’anno prima una casa cinematografica austriaca, già in concorrenza con Hollywood, aveva convinto Strauss e il suo librettista-principe Hugo von Hofmannsthal a collaborare (con il regista Robert Wiene e il famoso scenografo Alfred Roller, già curatore dell’originale del 1911) ad un’impresa apparentemente storica, in realtà ridicola: mettere in pellicola (muta, dati i tempi) Der Rosenkavalier ed accompagnarne la proiezione con la musica suonata da una vera orchestra e per di più diretta dall’Autore!

Erano proprio tutti ingenui e fuori-dal-tempo, chè di lì a poco il film sonoro mandò in pensione non solo le pellicole mute, ma pure tutti i musicisti, più o meno da strapazzo (Strauss escluso, s’intende!) che accompagnavano – al pianoforte o con altri strumenti – la proiezione priva di suoni.

A distanza di quasi 90 anni invece questa idea, ripensata con l’ottica del come eravamo (anzi com’erano i nostri nonni o bisnonni!) ha magari un suo senso e (applicata con giudizio e parsimonia) merita pure il plauso dello spettatore. Poche settimane fa è stata presentata a Palermo, con musica diretta dallo stesso Frank Strobel che ne fece la ripresa alla Semperoper di Dresda, in occasione degli 80 anni dalla prima tedesca, nel 2006, ai tempi in cui fra i leggii dei primi violini della Staatskapelle faceva capolino un volto oggi piuttosto familiare qui in Auditorium:


Strobel è anche responsabile della colonna sonora, avendola adattata ad una durata di quasi 2 ore (1h 45’ per la precisione) cioè assai più ampia di quella originale, che supportava una proiezione di meno di 90 minuti. Altri prima di lui si erano cimentati in simili imprese, come ad esempio lo svizzero Armin Brunner che nel 1986 aveva arrangiato per un’orchestra di 17 elementi musiche del Rosenkavalier insieme a quelle di altri autori, quali Johann Strauss e Richard Wagner per accompagnare un’edizione ridotta del film. Ma altre ricostruzioni erano state fatte a partire dall’ultimo dopoguerra, al ritrovamento di spezzoni del film e delle partiture di Strauss.

Il film senza sonoro ha una trama (sulla quale mise poco o tanto le mani lo stesso Hofmannsthal!) piuttosto divergente da quella dell’opera, così come la musica che Strauss preparò alla bisogna, che solo in parte (pur cospicua) riprende quella originale.

Lo specchietto sottostante riporta - con riferimento agli 11 video pubblicati sul tubo della citata ripresa di Dresda - i tratti salienti della trama del film, di cui chiunque abbia un minimo di dimestichezza con l’opera non faticherà a riconoscere le marcate distanze da quella del libretto originale. Essendo andate oltretutto perdute alcune delle bobine del film, la ricostruzione qui presentata ipotizza un finale che è ancor più distante (e invero anche assai più insignificante e dozzinale) rispetto a quello dell’opera.


Ora, è pacifico che schermo cinematografico e palcoscenico abbiano strutturali differenze e possibilità o vincoli tali da imporre soluzioni assai diverse per i due scenari. Si capisce quindi come nel film vengano introdotte scene spettacolari che in teatro sarebbero impossibili (o ridicole) a realizzarsi: feste all’aperto con centinaia di ospiti in parchi sterminati, o battaglie con cariche di cavalleggeri in sconfinate praterie: quest’ultima trovata si accompagna quasi automaticamente alla corposa presenza nel film della figura del Maresciallo, che nell’opera invece viene soltanto citato e mai compare di persona.

Così come è ovvio che in un film muto sia praticamente impossibile riprodurre scene dove, nell’opera, vengono cantate arie o concertati durante i quali gli interpreti se ne stanno normalmente impalati (o quasi) per interi minuti e minuti. Al contrario, le possibilità fornite dal mezzo cinematografico (basti pensare anche soltanto ai primi piani) e l’assenza, in questo caso, del canto, sono tali da consentire al regista infinite trovate a livello di interpretazione: sul terreno serio-drammatico, come su quello gigionesco-macchiettistico. E nel film ci sono innumerevoli esempi dei due tipi, riguardanti, nel primo caso, i personaggi della Marescialla, di Octavian e di Sophie, nel secondo tipicamente Ochs e Faninal.  

Però alcune divergenze del soggetto del film rispetto all’originale non sono spiegabili con le esigenze, come dire, del mezzo tecnico. Ad esempio il ruolo di Annina e Valzacchi, perfettamente delineato nell’opera (incluso il repentino passaggio di campo dei due, da Ochs a Octavian) qui nel film assume contorni grotteschi e incomprensibili: Annina che si fa spia di una Commissione del buoncostume, invenzione questa piuttosto banalotta a dir il vero, poi lei e Valzacchi che, invece di tramare per Ochs, fanno i delatori per il Maresciallo, salvo infine pentirsi in modo quasi inspiegabile; la loro finale riconciliazione è più inspiegabile ancora: dove mai c’era stata la rottura?

Parliamo del rapporto Octavian-Sophie: nell’opera (secondo atto) è magistralmente scolpito in versi e soprattutto in musica il colpo di fulmine che li travolge al primo incontro, quando il Cavaliere reca la Rosa. Nel film invece tutto ciò è diluito in due successivi incontri (quello del Prater e poi quello della consegna della rosa) il che fa francamente scadere la vicenda a simpatica commediola delle sorprese a buon mercato. 

La scena del teatrino di strada, dove si rappresenta – toh, che combinazione! - una vicenda identica a quella vissuta da Sophie è francamente debole e gratuita, una trovata da avanspettacolo, così come la baruffa fra Ochs, Faninal e i rispettivi notai, che sembra proprio un debito a certi stereotipi del film muto, tipo Stanlio&Ollio, per dire.

Insomma, l’impressione che si trae è di un approccio che definirei quasi parodistico e persino bigotto (chissà se erano i costumi della metà anni ’20 ad essere arretrati rispetto a 15 anni addietro, o se era il pubblico delle sale cinematografiche ad essere considerato più arretrato di quello dei teatri d’opera): fatto sta che la scena iniziale – che nell’opera ci mostra nulla meno che l’ultimo amplesso fra la Marescialla e Octavian dopo un’intera notte d’amore – qui ci presenta il giovane che arriva di buon mattino ed entra dalla finestra per fare due innocue moine alla Marescialla, per poi andarsene presto. La conclusione del film, ricostruita di recente, ci presenta (ma certo non per responsabilità dei ricostruttori) accanto alla regolare costituzione della coppia Octavian-Sophie, una del tutto superflua quanto gratuita ricongiunzione fra Annina e Valzacchi, ma soprattutto la riconciliazione fra la Marescialla e il marito, che sembra fatta apposta per ottenere il nulla-osta del vescovo alla proiezione del film negli oratori dei paesini più arretrati della diocesi! Buttando così nel cesso tutta la straordinaria valenza psicologico-socio-politica dell’uscita finale della Marescialla al braccio di Faninal.

Quanto alla musica, il povero Strauss, mancandogli le voci, si vide costretto a ripetizioni di motivi non sempre appropriate o a inclusioni di musica estranea all’opera, come brani del Bourgeois gentilhomme (per la festa all’aperto) o addirittura scritta ad-hoc per supportare scene inventate per il film (vedi tutto ciò che riguarda il Maresciallo, battaglia compresa): insomma, un’operazione che complessivamente mi pare non faccia una buona pubblicità all’opera. Certo, gran parte della musica che si ascolta è proprio quella… e ciò è quanto basta ad accontentare l’orecchio!
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laVerdi e Grazioli sono comunque da encomiare per la serietà e la diligenza con cui hanno affrontato la prova: dalla proiezione – sui due schermi laterali – della traduzione italiana delle didascalie, alla cronometrica precisione con cui l’orchestra ha illustrato le immagini. Oltre che al bellissimo suono (soprattutto il mitico argento straussiano) messo in campo. 

Quindi grande successo, pur in una serata caratterizzata da un’affluenza di pubblico decisamente sotto la media.

02 maggio, 2014

Orchestraverdi – Concerto n°32

 

Torna in Auditorium, dopo tre anni e mezzo, Paul Daniel impegnato in un nuovo appuntamento beethoveniano

Con lui il pianista e compositore Orazio Sciortino, impegnato nel Secondo (cioè primo) concerto di Beethoven, quello in SIb maggiore, Op.19. Che ha in comune con quello in DO (Op.15) ascoltato una settimana fa, la chiara ascendenza settecentesca. Anche qui Beethoven mutua da Mozart (oltre che la tonalità dell’ultimo concerto) la tecnica della doppia esposizione (prima la sola orchestra, poi il solista) e dell’impiego non convenzionale dei temi, che il solista non riprende mai pari-pari rispetto all’orchestra (qui ad esempio il primo tema del solista è mutuato da un fugace inciso dell’esposizione orchestrale) oltre a inserire diverse ed anche ardite modulazioni, tipo il passaggio dal FA minore al REb maggiore – inopinata salita DO-REb - per l’esposizione della seconda idea orchestrale. Dopo il sognante Adagio in MIb, chiude il classico Rondò, ancora in SIb, dove – a fronte della struttura assolutamente simmetrica della successione dei tre temi: A-B-A-C-A-B-A – troviamo ancora interessanti innovazioni, come l’ultima comparsa del ritornello principale in un imprevedibile SOL maggiore.

Accompagnato da un’orchestra di organico proprio settecentesco (4 violoncelli, per dire) Sciortino ci regala un’interpretazione di tutto rilievo, nella quale spicca per delicatezza il centrale Adagio. Ai calorosi applausi il ragazzo siracusano risponde riproponendo il bis di Ravel (sua trascrizione) già da lui eseguito proprio un anno fa, dopo il secondo di Liszt.   
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Dopo l’intervallo ecco un po’ di (ehm, beh…) musica contemporanea: di Francesco Filidei viene eseguita per la prima volta in Italia Fiori di fiori, composizione che ebbe la sua prima assoluta poco più di un anno fa a Colonia, la cui Radio (Westdeutscher Rundfunk Köln) aveva commissionato il brano.

Dovrebbe essere il primo di 5 pezzi (gli altri 4 di là da venire) dedicati dall’organista Filidei ad altrettanti organi - dislocati in diverse chiese europee - su cui a suo tempo posò le dita (e i piedi…) Girolamo Frescobaldi: in questo caso è l’organo Biagi di San Giovanni in Laterano. E il titolo del brano non lascia dubbi su quale sia stata l’ispirazione per l’Autore.

In realtà qui si ascolta poca musica (come normalmente intesa) e un sacco di rumore; rumore che in questo caso evoca i rumori che si sprigionano dall’organo quando esso viene impiegato per produrre suoni. Ecco cosa dice di Filidei uno dei suoi maestri, Salvatore Sciarrino: Provate a immaginare una musica cui vengano sottratti i suoni: resta un brulicare, uno scheletro leggero ma ricchissimo di rumori meccanici, di sfioramenti e strisciate delle mani sugli strumenti. Questa è la musica di Francesco Filidei. Sottrarre alla musica i suoni? e questo sarebbe ancora musica? A proposito di… The rest is noise!

In sostanza, in Fiori di fiori Filidei vorrebbe trasmetterci le sensazioni che si hanno (diciamo: che lui prova) sedendo alla consolle di un organo (per suonarvi magari la Messa della Beata Vergine) dove – prima ancora del suono che esce dalle canne - si odono i rumori dei tasti toccati o della pedaliera pestata, dei registri innestati o disinnestati, dei mantici che spingono l’aria a scorrere nelle canne, e così via. Per fare ciò Filidei impiega un’orchestra sinfonica (dove gli archi, per dire, usano l’archetto come produttore di fruscio per agitazione nell’aria) e una bizzarra batteria di percussioni, fra cui una pompa di bicicletta, richiami per uccelli e fischietti vari. (Nel suo Macchina per scoppiare i pagliacci impiega anche: clacson, lingua di suocera (!?) cuscino e pure una centrifuga da insalata, con o senza l’insalata, chissa? smile!) Ecco, anche al buon Filidei si può applicare la massima che Frescobaldi scrisse in calce al ricercare della citata messa:

Intendomi chi può che m’intend’io.

Ahimè, che devo dire: che io non intendo proprio… Per carità, nessuno (e certo nemmeno io) mette in dubbio che Filidei faccia sul serio e non si diverta a prendere tutti per il… sedere, anzi: che dietro queste produzioni ci sia fatica, scienza, studio e fantasia non si discute. Che sia arte si potrà anche (non facilmente, peraltro) sostenerlo. Ma la domanda è: ammesso che sia arte, che c’azzecca con l’arte della musica, se vi mancano i suoni e restano - salvo un breve squarcio in fin dei conti neanche disprezzabile - solo i rumori? Fino a prova contraria chi va in una sala da concerto si aspetta di ascoltare musica, non rumore (di cui c’è già un gigantesco eccesso nella vita quotidiana): insomma, bisognerebbe tenere ben distinte pere da mele, biciclette da astronavi, come del resto si fa anche nelle discipline sportive (cosa diremmo se in un torneo di calcio ci si infilasse una partita di rugby?)

Naturalmente gli applausi non sono mancati (oggi si fischia caso mai Kaufmann…): per direttore, suonatori e anche per l’autore, presente in sala. Ecco, anche il fioretto del 1° maggio è fatto.
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Chiude la serata la Quinta di Beethoven, che non ha bisogno di presentazioni, né deve essere scoperta dall’Orchestra, che l’ha eseguita innumerevoli volte. Come sempre accade quando si ascolta qualcosa di arci-noto, il pericolo è di rilassarsi e perdere concentrazione, col risultato di apprezzare poco l’esecuzione. O anche, per il Direttore che sa di dirigere un pezzo inflazionato, il rischio è di voler a tutti i costi farsi notare, magari prendendo iniziative… eterodosse.

Mi è parso che Paul Daniel non sia caduto in questa sindrome del differenziarsi, e che la sua direzione sia stata assai sobria, privilegiando la razionalità sull’emotività. Bravissimi i ragazzi e meritato trionfo finale, in un Auditorium ancora una volta piacevolmente affollato, a dispetto di feste e ponti.

27 aprile, 2014

Troiani ancora in trionfo alla Scala

 

Ieri la penultima recita di Les Troyens ha riscosso, come le precedenti del resto, un grande successo di pubblico (certo, un pubblico scarsino già di per sé, forse causa ponte, e ulteriormente scarseggiatosi ad ognuno dei tre intervalli).


Tutto si può dire di quest’opera tranne che non sia grande musica, però una grande musica è condizione necessaria, ma certo non sufficiente a fare una grande opera di teatro musicale. E a Les Troyens mancano appunto alcuni degli ingredienti necessari alla bisogna. Uno per tutti, non c’è un plot degno di questo nome: il tutto si riduce a scene liberamente tratte dall’Eneide, e a due storie – del tutto disgiunte – di crisi esistenziali di donne diversamente tradite dai maschi.

Quattro ore di musica eccellente non bastano a conferire all’opera quel che di attraente e di coinvolgente che solo un adeguato disegno drammatico potrebbe garantire. Insomma, assistere a Les Troyens è come (mutatis mutandis) ascoltare un concerto che abbia in programma la Fantastique, la Dramatique, la Grande symphonie funèbre et triomphale e, come intermezzi, l’Harold e Le carnival romain. Se ne esce francamente sazi (stra-smile!)

Detto ciò va dato atto ad Antonio Pappano di non aver impiegato ipocritamente l’arma del taglio (che sarebbe controproducente) per ovviare ad inconvenienti che risalgono alla natura stessa dell’opera. Le sue pochissime - e tutto sommato innocue – sforbiciatine hanno riguardato:

Primo atto, Danza dei lottatori (N°5): il da-capo;

- Terzo atto Coro generale (N°23): la prima parte del coro e il da-capo;

- Quarto atto, Pas des Almées (N°33): secondo da-capo;
- Quarto atto, Danse des Esclaves (N°33): fine prima sezione; seconda sezione; parte della terza sezione; penultimo da-capo.

In effetti si tratta soltanto di modesti interventi su ripetizioni o varianti di temi di scene di balletto o di coro: nessun motivo scritto da Berlioz in origine è andato perduto.

E Pappano è stato di sicuro l’artefice del successo di questa produzione, che per il resto si è mantenuta (a mio modestissimo parere) su un livello di assoluta dignità.

Parlando di voci darei la priorità al Coro di Mario Casoni, che in quest’opera la fa davvero da protagonista e che merita un elogio incondizionato.

Le due protagoniste hanno dato il meglio di sé forse più sul lato attoriale (merito anche del regista, certo) che su quello canoro, dove non sono mancate le mende (l’ottava bassa dell’Antonacci e quella alta della Barcellona). Con loro è spiccato Kunde per straordinaria presenza scenica e dignitosissima prestazione vocale (mi è parso meglio che alla prima, udita peraltro per radio).

Capitanucci (Corebo) sufficiente, ma non più, come il Panthée di Duhamel; meglio di loro Mukeria come Iabas; non male l’Hylas di Fanale (appollaiato su un trespolo a mezz’aria); ordinaria la prestazione di Prestia come Narbal e decisamente insoddisfacente l’Anna della Radner. Poco sopra la Gardina (en-travesti) come Ascanio. Tutti gli altri come da specifiche tecniche… con una menzione alla carriera per la Zilio (Ecuba) che ancora ha un vocione che sfida gli spazi siderali del Piermarini (!) 
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Sulla regìa di McVicar poco da… condannare: come suo solito lui non inventa Konzept cervellotici (che so, la Regina Elisabetta che si innamora di Osama bin Laden) o simili ri-ambientazioni lunatiche. Direi proprio che il suo sia un approccio didascalico: propinare al pubblico la storia di Virgilio come vista dalle lenti deformanti di Berlioz. Tutt’al più con pochi tocchi della serie famola strana, tipo:  

- Astianatte vestito di nero e non di bianco come la madre;
- il cavallone che sembra piuttosto il drago di Alberich o addirittura Fafner in persona (e pensare che Berlioz nemmeno voleva si vedesse in scena, l’enorme equino di legno, figuriamoci);
- Enea che arriva, si ferma, saluta e ossequia con tanto di inchino Andromaca e pargolo che escono di scena e poi, allo scoppio orchestrale, parte a razzo come un centometrista per raggiungere il proscenio e dare, tutto esagitato, la tremenda notizia della fine di Laocoonte (scottish humor?)
- tutto il coro che alla fine del primo atto, invece di rimanere sullo sfondo, invade il proscenio, col che priva Cassandra dello spazio vitale per mettere in risalto la sua ossessione (che questo sia l’obiettivo dell’Autore è fuor di dubbio);
- Didone issata in orizzontale dai fedeli cartaginesi come un allenatore dai suoi calciatori dopo la vittoria in una coppa;
- saltimbanchi che prendono il posto dei rappresentanti delle corporazioni;
- Enea e Didone che amoreggiano en plein air (anziché ingrottarsi sotto l’uragano) con ninfe e fauni che gli tengono bordone;
- nessuna differenziazione fra i soggetti dei balletti (Almee, Schiave e Schiave nubiane);
- Ascanio, che Berlioz aveva tanto faticato a sostituire a Cupido (vedi Virgilio) che invece McVicar rimette nei panni (anzi nelle… ali) del putto dell’amore, che poi l’anello di Didone (dono di Sicheo) se lo frega proprio…
  
Ma insomma, l’importante è che, nella buona sostanza, l’originale sia stato dignitosamente rappresentato, perfino negli aspetti più banalotti, come il fuoco che durante la tempesta  incendia l’albero, i cui rami fiammeggianti vengono portati in giro con sprezzo dei divieti dei VV.FF. (smile!)   
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Lo considero il punto più alto della presente stagione scaligera.

26 aprile, 2014

Orchestraverdi – Concerto n°31

 

Gaetano D’Espinosa, uno dei tre Direttori Principali Ospiti, propone per il suo ritorno sul podio de laVerdi un abbinamento assai interessante: Beethoven e Bartók.

Del genio di Bonn va in scena il Primo dei cinque Concerti per pianoforte (di cui sentiremo l’integrale in questo fine-stagione) interpretato dal 35enne reggino Giuseppe Albanese.

Come anche il secondo (in realtà sappiamo che i primi due concerti furono numerati… a ritroso) questo fu poco considerato dall’Autore medesimo, che invece era convinto di far breccia con il suo Terzo: effettivamente fra quest’ultimo e i primi due, pur essendo tutti abbastanza vicini come data di composizione, c’è quasi un abisso, proprio il passaggio dal ‘700 all’800.

Però che ‘700! Quello dei migliori Haydn e Mozart, di cui Beethoven aveva letteralmente divorato la tecnica formale, sulla quale innestava la sua già spiccata ispirazione. In particolare da Mozart troviamo nell’iniziale Allegro con brio un uso ardito della forma-sonata, con l’esposizione orchestrale che presenta il maschio tema principale in DO maggiore che ingloba il secondo in MIb maggiore, poi modulante a FA e SOL minore, quindi a FA maggiore e MIb, prima di tornare al DO; mentre quella successiva del solista vede il primo tema assai addolcito e divenuto quasi spiritoso ed il secondo, canonicamente, esposto in SOL maggiore. Come non sentire poi nel Largo riflessi e atmosfere del K467… 

Albanese ci regala un’interpretazione paradigmatica della natura di questo concerto: leziosità proprio settecentesche alternate a squarci eroico-romantici, tipo il FA in ottava che precede la scala discendente in chiusura dello sviluppo, dove la meccanica del pianoforte deve aver corso qualche serio rischio (smile!)

Beethoven scrisse, una buona decina d’anni dopo il concerto, ben tre (mah dai, facciamo due e mezza…) cadenze per il primo movimento: di queste la terza è senza ombra di dubbio la più impegnativa, anche per la sua lunghezza invero spropositata. Ecco, Albanese non ha voluto essere da meno dei grandi interpreti di ieri e oggi e ha scelto di proporci proprio questa, con un piglio a dir poco travolgente! 

Accoglienza calorosissima (il pubblico non era proprio da pienone, ma secondo me era comunque oceanico, stante il… ponte) e non poteva quindi mancare un bis che, tanto per ribadire il concetto, ci ha mostrato un Albanese scatenato nel Moto perpetuo dalla Prima sonata di C.M. von Weber!

Ma Albanese ha sfoggiato anche qualcosa di davvero glamour:


Ohibò! (anche i pedali hanno diritto ad un trattamento particolare…)

A completamento del programma ecco il Concerto per Orchestra del compositore ungherese. Il quale ebbe vita assai grama negli USA e scomparve proprio alla fine della guerra (di cui resta un tragicomico ricordo nell’Intermezzo-interrotto, col richiamo alla Leningrado di Shostakovich). Un suo compatriota, che invece dopo i guai della guerra se l’è spassata mica male, diventando addirittura sir, qui rende omaggio al grande Béla proprio interpretandone questa che fu una delle sue ultime composizioni, di cui contribuì anche a mettere a punto l’edizione critica.

Come dice il titolo, qui l’orchestra è trattata non come un reggimento di soldatini, bensì come un cenacolo di solisti, e tutti hanno la loro brava parte di evidenza, dalle arpe ai timpani (per citare solo due strumenti spesso impiegati a far da riempitivo). laVerdi ha ormai questo pezzo nel suo repertorio, proprio a dimostrazione di come l’orchestra sia formata da notevoli individualità, che poi suonano meravigliosamente insieme. E così – merito anche del Direttore, ovviamente - è stato anche ieri sera.

16 aprile, 2014

Orchestraverdi – Concerto n°30

 

Nella settimana pasquale è ormai tradizione de laVerdi proporre una delle Passioni bachiane: ad anni alterni la monumentale Matthäeus e la primigenia Johannes, che è di turno quest’anno. Sul podio, come sempre, Ruben Jais, con 30 strumentisti, 31 coristi di Erina Gambarini (tre dei quali – Daniele Caputo, Francesco Frasca e Livia Fumagalli – interpretano anche parti solistiche) e 6 solisti di canto.

Come sempre, grande successo per tutti, a conferma della levatura dei complessi de laVerdi, anche fuori dal loro tradizionale repertorio otto-novecentesco. E non a caso, oltre alle due serate del programma ufficiale dell’Orchestra, questa sera (mercoledi 16) la Johannes-Passion verrà replicata in Cattedrale, alle ore 20:30, con ingresso libero, nell’ambito dei Dialoghi di Quaresima 2014.   

E proprio l’Arciprete del Duomo di Milano, Gianantonio Borgonovo, ci fa notare, sul programma di sala, la stretta corrispondenza riscontrabile fra la struttura narrativa del racconto giovanneo e quella del testo dell’opera di Bach.




12 aprile, 2014

Orchestraverdi – Concerto n°29

 

Sappiamo che Zhang Xian è venuta su (musicalmente parlando) in casa di Lorin Maazel (a NewYork) e che dal Maestro e mentore ha mutuato approccio e stile direttoriale. Così deve aver deciso di festeggiare le sue (di lui!) recenti 84 primavere per metterne in programma il pastiche sul Ring

Solitamente questa trovata del simpatico Lorin viene condannata senza appello per i reati di vilipendio e scempio di capolavoro. Raro invece che gli stessi reati vengano imputati a registi che impiegano il Ring (o altri consimili capolavori) per farsi i cazzi loro i loro belli affari a buon mercato e a spese di tutti: opera, autore e pubblico. Amen.

Detto ciò bisognerà pur riconoscere a Maazel almeno l’onestà intellettuale di non pretendere di spiegarci in 75 minuti di soli suoni ciò che Wagner racconta in 15 ore di musica, canto, testi e didascalie (gli ultimi due sostantivi sono per i registi di cui sopra). Lui ha semplicemente messo insieme una suite del Ring pescando i brani di musica che più riteneva appropriati. E sulle sue scelte si può ovviamente discutere e dissentire, salvo il proporre di… vietarle!

Insomma, nessuna pretesa di surrogare l’originale, ma solo l’opportunità offerta al pubblico di ascoltare della musica che è grande di per se stessa e – perchè no! e per chi il Ring lo conosce almeno un filino – di vivere un piacevole amarcord, riandando mentalmente alle emozioni che si provano quando si ascolta un Ring vero. Immagino (potrei sbagliare) che proprio pensando a quest’ultima fascia di ascoltatori Maazel abbia voluto rispettare rigorosamente, nella sua antologia, la sequenza drammaturgica originale: considerandomi appartenente a quella fascia, gliene sono sommamente grato.

E allora vediamo cosa ha scelto per noi il maestro della Xian (lo specchietto sottostante riassume in modo sintetico le componenti principali del lavoro, con riferimento sonoro ad un’incisione dello stesso Maazel con i Wiener, ascoltabile sul tubo):



Intanto, un’occhiata alla distribuzione dei tempi (per quanto possa valere, intendiamoci): dei 75 minuti totali, Rheingold ne occupa meno di 12; Walküre meno di 17; Siegfried circa 7 e Götterdämmerung i restanti 40 minuti. Che dire? Che Maazel ha sfacciatamente privilegiato il Crepuscolo a scapito degli altri drammi, e soprattutto di Siegfried?  

Possiamo intanto notare come l’inizio e la fine dell’universo wagneriano vengano presentati praticamente nella loro completezza; così come il Rheinfahrt e la Trauermarsch, che sono classici pezzi da antologia.

Dal punto di vista strettamente musicale, Maazel ha cercato di cucire i pezzi nel modo più… indolore possibile: qua e là peraltro emergono inevitabilmente delle soluzioni di continuità, avvertibili anche da un non-esperto-wagneriano.

In definitiva, un lavoro che non ha pretese stratosferiche e che va – secondo me – apprezzato per quel che è e non disprezzato per ciò che non è e non avrebbe mai potuto essere.
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In questa occasione, chissà, forse per non… esagerare, Xian ha pensato bene di proporre un bigino-del-bigino! Rispetto ai contenuti elencati più sopra, ha cassato tutta la parte del primo atto della Walküre e le ultime battute (tema del Patto) dopo l’addio di Wotan. Poi ha anche eliminato tutta la parte derivata dall’Atto I del Siegfried. Infine, del terz’atto di Götterdämmerung, niente Rheintöchter e niente ultimo accorato saluto di Siegfried a Brünnhilde, si è in pratica partiti dalla Trauermarsch. Il tutto è quindi durato meno di un’ora. 

Quanto ai ragazzi, loro si sono impegnati al massimo e il risultato è stato più che dignitoso… date le circostanze. Del resto il gene wagneriano non è qualcosa che si possa acquisire dall’oggi al domani: una interessante esperienza per loro e una serata tutto sommato rilassante per noi che li siamo stati ad ascoltare.

09 aprile, 2014

Il Berlioz di Pappano da Radio3

 

Dunque ieri la coppia Pappano-McVicar ha debuttato alla Scala importandovi (da Londra) Les Troyens. Radio3 ha diffuso in diretta questa prima, consentendoci almeno di prendere dimestichezza con l’interpretazione musicale dell’ipertrofico dramma di Berlioz (quanto allo spettacolo per gli occhi… vedremo più avanti).


A mio modesto parere il trionfatore della serata è stato Antonio Pappano, che ha guidato le sterminate masse orchestrali e vocali con una chiarezza assoluta; nulla gli è sfuggito (e ci ha fatto sfuggire) dei segreti di questa partitura: dalle macro-strutture ai minimi dettagli, dalle enfatiche scene corali alle sfumature dei passaggi più intimistici. Insomma, ha compiuto il miracolo di valorizzare al meglio un’opera che è facilissima da banalizzare se non la si padroneggia come si deve. E a parte un paio di ritornelli nei balletti dell’Atto quarto, non ha tagliato una sola battuta di musica.

Col beneficio del dubbio (legato alla ripresa audio) la Antonacci e la Barcellona mi pare abbiano ben figurato nei due ruoli principali: non giudico per ora l’aspetto strettamente vocale (la tecnologia fa sempre brutti scherzi…) ma la grande cura della dizione e dell’espressione che entrambe hanno mostrato, ciascuna nel proprio ruolo (e sono due ruoli abissalmente diversi). Forse mi aspettavo di più da Kunde, dico la verità: ho avuto l’impressione che sia arrivato in-riserva alla grande (e obiettivamente micidiale) aria del quinto atto.

A giudicare da ciò che si è udito per radio, pareva di essere al MET: tifo letteralmente da stadio, cosa assolutamente inconsueta per la Scala e per una prima in particolare! Meglio così.