affinità bombarole

rinsaldato il patto atlantico

02 dicembre, 2013

Alla Fenice un’africana un filino… impoverita


Ieri la Fenice ha ospitato l’ultima delle sei rappresentazioni de L’Africaine di Giacomo Meyerbeer. Segnalo che MediciTV ha mandato in onda in diretta la recita del 29 (primo cast) e che – per qualche tempo ancora, quanto non è dato capire – la mette meritoriamente a disposizione sul suo sito-web.

Altre lodi si merita l’ufficio gestione-immagine-e-promozione-culturale del Teatro: il giorno successivo alla prima il pregevolissimo programma di sala era disponibile in web, ad arricchire il già sterminato archivio online: roba da meritare alla Fondazione un supplemento agli scarsi fondi FUS!

Venendo invece allo spettacolo, arrivano note un poco meno liete: purtroppo – a mio modestissimo avviso – si è trattato di una proposta discutibile, quanto meno poco coraggiosa, nel senso che non si è presentata nemmeno la versione Fétis, che pure sappiamo fu ottenuta attraverso dolorose ferite al corpo dell’opera come lasciato da Meyerbeer, bensì una sua riduzione di cui fatico (io, perlomeno) a cogliere i razionali.

Salvo la solita preoccupazione relativa al timing: dove l’imperativo categorico sembra quello di non superare le tre ore nette di musica, costi quel che costi. Tanto per dare un’idea ed un riferimento ormai consolidato, è lo stesso obiettivo che si era posto l’ormai antica edizione Verrett-Domingo (San Francisco, 1971 e poi 1988). Non a caso parecchi tagli sono presi direttamente da lì, con alcune importanti differenze, che può essere interessante analizzare, se non altro per curiosità.

Nel primo atto qui alla Fenice si rispetta quasi completamente Fétis, di cui si taglia solo l’inizio (e non la quasi totalità, come a San Francisco) del Terzettino (Don Diégo, Inès, Don Pédro) e un paio di passaggi del finale, meno tagliato quindi della versione americana.

Nel secondo atto viene soppressa la strofa centrale (Je vois, dans la grande île) e la seconda entrata di Fille des Rois (Atto II, aria di Nélusko) il che è un autentico scempio musicale, e poco conta che fosse perpetrato anche nella citata edizione californiana. Dalla quale si mutuano anche i due tagli al settimino finale (alla scoperta da parte di Inès del non-tradimento di Vasco e a quella di Vasco delle nozze di Inès con Don Pédro); tagli che gioveranno senza dubbio ai cantanti, meno al pubblico (almeno a quella parte che ne conosce il contenuto…)

Nel terzo atto – quello già massacrato da Fétis! - vengono cassati, come a San Francisco, il coro femminile d’entrata, il quartetto dei marinai, poi l’intervento di Don Pédro e marinai fra i due couplets di Adamastor e infine la parte conclusiva del coro degli Indiani: tutta musica che si fa rispettare, ma anche classici squarci da grand-opéra. Si mantiene invece (quasi) intatto il duo Vasco-Don Pédro, assai più decurtato a San Francisco.

Ma è all’inizio del quarto atto che viene perpetrata l’offesa più grave al concetto stesso di grand-opéra: la solenne e pomposa entrata di sacerdotesse, bramini, amazzoni, giocolieri, guerrieri e, infine, della Regina, viene totalmente rimossa dalla scena (a San Francisco ciò non accadeva). Quanto all’orchestra, a sipario chiuso, nemmeno suona il brevissimo Entr’acte e poi si limita a ripetere (abbastanza noiosamente, direi) le sole prime sezioni in RE minore della Marche indienne, privandoci del trio in RE maggiore all’entrata delle sacerdotesse (con il bel tema affidato alle trombe); poi subito dopo di quello in LA maggiore; poi ancora del primo (adesso in SIb) all’entrata dei bramini; e di tutto il resto della musica che dovrebbe accompagnare una scena sfarzosa ed enfatica. Buonanottealsecchio!

Sempre nel quarto si penalizza fortemente – come  a san Francisco – la scena dove Nélusko ha la sua crisi al momento di dover giurare il falso riguardo le nozze Sélika-Vasco; si taglia un po’ meno che in California la prima benedizione del gran sacerdote agli sposi; poi si fanno quasi gli stessi tagli al finale, salvo opportunamente eseguire (parte clamorosamente amputata a San Francisco) il celestiale Remparts de gaze, vero contraltare della marcia nuziale del Lohengrin.

Il quinto atto qui è letteralmente devastato! Non solo viene ignorata la scena iniziale con Inès e Vasco (che a San Francisco avevano meritoriamente ripescato dal cestino di Fétis) ma si butta in discarica, oltre all’Entr’acte, tutto il successivo e drammatico duetto Sélika-Inès. In sostanza viene unito, senza soluzione di continuità, il finale dell’Atto IV alle le prime battute (di Fétis) dell’Atto V, dove Sélika impreca al tradimento di Vasco e ordina a Nélusko di spedire a casa i portoghesi; poi si fa un lungo cambio scena (invece di due, ad onor del vero) e si passa direttamente al finale, con Sélika sul promontorio, nei pressi dell’albero della mancinella. 

Insomma, sono tutte mutilazioni piuttosto deleterie sia per la drammaturgia, sia perché ci privano di fior di musica e di canto. Nel complesso una scelta di fondo piuttosto infelice, sulle cause della quale a noi poveri mortali non resta che farci le solite domande oziose: timore di russate generali in platea e nei palchi? di fughe di massa fra un atto e l’altro? O il problema erano per caso i cantanti, incapaci di arrivare in fondo ad un’esecuzione di dimensioni non dico meyerbeeriane, ma almeno normali (chez-Fétis, per intenderci)? Già il libretto è farraginoso la sua parte; già Fétis ha confuso le idee ripristinando un titolo fuorviante e ha tagliato la partitura col machete; se poi anche il direttore e i cantanti decidono di suonare/cantare soltanto ciò che pare e piace a loro (chissà, forse per evitare… figuracce?) ecco raggiunto il poco esaltante risultato!

Altre domande (sempre di quelle da sesso degli angeli): ma allora, non sarebbe stato preferibile rinunciare del tutto a mettere in cartellone un’opera come questa, e spendere meglio gli scarsi quattrini disponibili? O comunque anche un suo torso, privo di arti, è reputato utile a promuoverne conoscenza e apprezzamento presso il vasto pubblico? Oppure l’obiettivo è di far bella figura proponendo un titolo difficile quanto desueto pur non disponendo di un cast adeguato e allo stesso tempo senza impegnare troppo un pubblico considerato ignorante e irrecuperabile, propinandogli qualche mezz’ora di musica più o meno accattivante, e chi se ne frega di tutto il resto?
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Fatte queste premesse – che gettano una luce non proprio limpida sui protagonisti, facendo insorgere nei loro confronti sospetti di inadeguatezza ai ruoli, che si sarebbe cercato di mascherare cambiando… le carte in tavola – vediamo come se la sono cavata i quattro principali.

La Sélika di Veronica Simeoni merita ai miei occhi un’ampia sufficienza; alle mie orecchie la sufficienza si striminzisce un filino e mi domando come sarebbe… morta (smile!) se prima di aspirare il veleno della mancinella avesse dovuto sostenere il drammatico confronto con Inès (dove, incidentalmente, dovrebbe anche spiegare al perplesso pubblico perché deciderà di fare quella brutta – o bella – fine).

Vasco de Gama era Gregory Kunde, gran professionista, che ha come al solito fornito una prestazione di tutto rispetto, anche se non la definirei superlativa. Comunque nella famosa grand air ha dato il meglio, accolto da un’autentica ovazione, mentre nel duetto con Sélika (che per sua fortuna è l’ultima parte che canta, poi rientra in camerino un atto – qui mezzo atto - prima degli altri…) ha ben mascherato qualche appannamento. Il trionfo finale è anche alla carriera, oltre i meriti della serata.   

Jessica Pratt ha impersonato Inès senza infamia e senza lode; si è pure risparmiata - seguendo abbastanza disciplinatamente (e direi giudiziosamente) lo spartito - quello svolazzo tanto sovracuto quanto gratuito che alla prima aveva esibito (dicono) in chiusura della romanza di esordio.

Anche sul Nélusko di Angelo Veccia pesano i… tagli che gli sono stati concessi (o che si è fatto concedere per cavarsela?) Bella voce, calda e passante, per una prova discreta (ma è come correre i 110-ostacoli con sole 7 barriere su 10…)

Degli altri direi abbastanza bene del Don Pédro di Luca dall’Amico e dei due… porporati: il cattolico Mattia Denti e il braminico Ruben Amoretti, tutti bassi, come si vede.

Il resto della compagnia (Don Alvar di Emanuele Giannino, Don Diégo di Davide Ruberti e la Anna diAnna Bordignon) ha onestamente fatto il suo dovere.

Bene invece il coro di Claudio Marino Moretti e l’orchestra, che il concertatore Emmanuel Villaume ha guidato in modo pulito, diciamo con una sana routine.
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L’allestimento (di stampo abbastanza tradizionale) di Leo Muscato, con scene di Massimo Checchetto e costumi di Carlos Tieppo ha avuto il merito di non complicare una trama che già Scribe ha reso farraginosa la sua parte (anche perché a complicarla ci hanno pensato i responsabili della parte musicale…) Peraltro ciò che si è visto credo abbia poco a che fare con il grand-opéra, o al massimo ne è un modellino tipo rivarossi, inclusi i filmetti pretenziosi e puerilmente didascalici che introducevano i vari atti.

Morale: ci dobbiamo accontentare?

30 novembre, 2013

Orchestraverdi – Concerto n°11

 

Indisposto il titolare Ivor Bolton, è stato chiamato Damian Iorio a dirigere i ragazzi de laVerdi (reduci dalla storica ottava mahleriana e guidati da Nicolai Freiherr von Dellingshausen) in un concerto ultra-tradizionale, sia come impaginazione che come contenuti.  

Si apre con la Ouverture zu den Hebriden (Fingals Höhle) composta dal giovane Mendelssohn dopo una gita alle Ebridi, in particolare a Staffa, dove si trova la celebre grotta marina che dal ‘700 ha preso il nome dall’eroe scozzese Fionn mac Cumhaill (per gli amici… Fingal):


L’Ouverture, canonicamente in forma-sonata, è tutta pervasa da atmosfere ossianiche, che si ritroveranno anche nel movimento iniziale della sinfonia scozzese, concepita, guarda caso, nello stesso periodo, anche se completata anni e anni più tardi.

Bravi i ragazzi – gli archi soprattutto - a trasmetterci queste sensazioni di mistero, fra folate di vento e squarci di sole sul desolato paesaggio nordico.
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Poi arriva una bella gnocca spagnola (smile! ma è brava quanto attraente!) a nome Leticia Muñoz Moreno per deliziarci con quello che è forse il più fischiettato (insieme a quello di Ciajkovski) dei Concerti per violino: l’op. 64 del compositore amburghese.


Qualche problema di concentrazione, prima di attaccare, grazie a rumori molesti, fra cui l’immancabile suoneria di un portatile, poi però questa ragazza col fisico da modella si scatena in un’interpretazione tutta nervi e spigoli, nel primo movimento. Quindi il centrale Andante è esposto con grande ispirazione, certo la parte migliore del concerto; nel  finale, la 28enne spagnola fa sfoggio di gran tecnica e trascina il pubblico ad applausi ritmati. E dopo Mendelssohn, il bis non poteva essere che Bach.
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Chiude Beethoven con la Pastorale. Iorio si fa recapitare sul leggio la partitura edizione Bärenreiter (quella di Jonathan Del Mar) ma francamente mi è impossibile dire se anche le parti degli orchestrali fossero coerenti con quella; del resto le peculiarità di questa edizione sono dettagli piuttosto (o del tutto) difficili da cogliere ad un ascolto dal vivo.

In ogni caso, un’esecuzione di tutto rispetto assai apprezzata dal foltissimo pubblico (molti i giovanissimi, forse tifosi della bella Leticia…) illustrato anche dalla presenza della neo-senatrice-a-vita Elena Cattaneo

Quindi – tenuto anche conto del repentino cambio di… podio - gran successo per Iorio e i ragazzi.

23 novembre, 2013

Orchestraverdi – ogni traguardo è possibile

 

Le due serate al MiCo con la sinfonia dei mille hanno consacrato laVerdi come un’Istituzione cui nessun traguardo ormai è precluso.

Non parlo soltanto dell’aspetto strettamente musicale (di livello più che accettabile, anche se non c’è bisogno di essere dei pedanti per trovare più di un difettuccio alle due esecuzioni) ma anche di quello, come dire, organizzativo.

Aver saputo immaginare, preparare, costruire e poi realizzare e governare un evento come questo è segno di altissima professionalità e di grande potenza di fuoco. Tanto per restare in campo nazionale, l’analoga impresa di due anni fa del MiTo (con replica a Rimini) era stata resa possibile dalla cooperazione di addirittura quattro diverse Istituzioni (RAI, Regio e Conservatorio di Torino e Maggio Musicale) oltre naturalmente al supporto delle risorse del festival.

Il successo di pubblico poi è stato davvero clamoroso: dopo il pienone della prova aperta del 20, altrettanti tutto-esaurito hanno caratterizzato le due serate del 21 e 23, dove si è riempita come un uovo una vera e propria piazza d’armi da oltre 3000 posti! 

Non sto ad entrare in dettagli capziosi su singoli aspetti delle prestazioni (come detto più di un appunto si potrebbe muovere a suonatori e, soprattutto, cantanti) ma mi limito a testimoniare la mia totale soddisfazione per aver potuto provare emozioni che solo un ascolto (e visione!) dal vivo di quest’opera può regalare.

A laVerdi dico soltanto: grazie, grazie, grazie!

22 novembre, 2013

Venezia ospita una indo-africana (3)


Si è già accennato al fatto che la stesura della versione dell’Africaine divenuta celebre in tutto il mondo - fin dalla prima di venerdi 28 aprile 1865 - si deve a François-Joseph Fétis, che ne ricevette l’incarico dalla vedova del compositore, Minna (toh, finalmente scopriamo l’unica cosa che avevano in comune Meyerbeer e Wagner: il nome della moglie!) e dalla direzione dell’Opéra, che vantava i diritti sul lavoro. Fétis apportò al materiale prodotto da Meyerbeer una serie di modifiche, alterazioni e tagli da lui giustificati con le più svariate ragioni, legate ad altrettante supposte necessità emerse durante la lunga e travagliata fase di messa-in-scena dell’opera. Lo spartito per voce e pianoforte di Fétis è stato pubblicato in diverse edizioni e lingue, che si differenziano di poco fra loro.


Le considerazioni di Fétis relative ai suoi interventi sono sommariamente riportate nella prefazione alla sua edizione della 2a parte dello spartito, che reca (quasi) tutto ciò (22 brani) che Fétis modificò o espunse rispetto al lavoro di Meyerbeer al momento di predisporre la sua edizione dell’opera: si tratta di considerazioni tutt’altro che peregrine (che sono state in parte condivise anche da chi ha curato la recente messa in scena del Vasco a Chemnitz) anche se la notoria attitudine del professor Fétis a correggere i difetti di altri compositori (a partire da tale Beethoven, di cui ritoccò disinvoltamente le sinfonie!) lascia più di un dubbio riguardo all’effettiva necessità, opportunità e bontà dei suoi interventi.

Per i quali, una delle motivazioni principali addotte riguarda la durata dello spettacolo. Durante le prove del 1865 all’Opéra, lui fece cronometrare un’esecuzione senza tagli, che risultò protrarsi per 4h30’ (intervalli esclusi, ovviamente). Ciò fu giudicato inaccettabile dalla direzione del Teatro e costrinse Fétis ad apportare (di malavoglia, dice lui) i numerosi tagli che la recente versione di Schläder – come presentata a Chemnitz - ha quasi interamente riaperto (tranne il Courons dell’atto II, il secondo couplet di Adamastor del terz’atto, il primo coro delle donne portoghesi e il notturno del quarto e una parte del duetto Sélika-Inès del quinto) durando precisamente 4h11’ (52+47+55+54+43).

Si noti che le rappresentazioni della versione tradizionale di Fétis, anche quando non ulteriormente tagliata (ma tagli più o meno barbari sono immancabilmente all’ordine del giorno…) difficilmente superano le 3 ore. Ad esempio la storica, si può dire, incisione dal vivo di Domingo-Verrett del 1971 a San Francisco nemmeno ci arriva, a toccare le 3 ore (42+37+25+40+34) nonostante riapra il taglio dell’inizio dell’atto V (Inès); e quella, sempre con gli stessi protagonisti, di 17 anni dopo, le supera di poco. Dopodichè si può discutere all’infinito se i tagli (originali di Fétis o praticati dai vari concertatori) siano o meno giustificabili e rendano l’opera più o meno digeribile. Al proposito, stando al sito web del Teatro, tre ore nette durerà anche lo spettacolo alla Fenice, spettacolo la cui struttura (90+30+60) lascerebbe immaginare – prendendo come base l’edizione Domingo-Verrett - una maggior corposità dei primi tre atti e qualche taglio in più negli ultimi due. (Ma staremo a… sentire!)

Vediamo quindi un po’ più in dettaglio come si configura la versione dell’opera edita da Fétis - che ha determinato il successo del lavoro per tutto l’800, prima del declino dovuto anche all’ostracismo nazista - rispetto a quella originariamente predisposta da Meyerbeer.

Al fine di avere dei chiari punti di riferimento, ho predisposto questo documento in cui ho assemblato tutti i testi (disponibili ai comuni mortali) dell’opera, evidenziandone le diverse componenti a seconda dell’origine. La parte in colore nero rappresenta (a meno di piccole discrepanze) il testo che Fétis incluse nella sua edizione per l’Opéra, da allora ed ancor oggi impiegata per le sue rappresentazioni, incluse le prossime (fatti salvi i tagli…) alla Fenice (ma qui ci chiarirà tutto il programma di sala, che sarà certamente ricco e rigoroso, come è costume del teatro veneziano).
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Intanto, un particolare proprio da nulla: il titolo! Fétis cestinò quello nuovo (Vasco de Gama, ou le Cap des tempêtes) e ripristinò quello originale di L’Africaine (nome che peraltro lo stesso Meyerbeer continuava ad usare in privato, per comodità…) La ragione principale essendo che il vasto pubblico aspettava da decenni di vedere in cartellone quel titolo: e chi se ne frega se Sélika, la protagonista del nuovo libretto, non fosse per nulla africana, tantomeno di pelle nera, bensì indiana, in omaggio e in coerenza con la meta dei sogni e dei viaggi del grande Vasco. Del resto abbiamo già visto come lo stesso Scribe avesse dovuto inventarsi un Madagascar indiano per trarsi d’impaccio!

Nell’Atto I – il meno strapazzato fra i cinque - Meyerbeer aveva lasciato due versioni della romanza di apertura di Inès Adieu, mon beau (doux?) rivage, in SOL minore (versi che torneranno a farsi sentire nel terzo e poi, più corposamente, nel quarto atto). Differiscono – solo nella musica, il testo non cambia - nella sezione centrale, 6/8 in SOL maggiore (Pour celle qui m'est chère). Fétis si è limitato a scegliere quella che reputò (direi a giusto titolo) più convincente. Per il resto non ci sono né alterazioni né tagli rispetto al Vasco.

Nell’Atto II Fétis comincia a tagliare: fa aprire la scena da Sélika che si avvicina a Vasco, di cui vengono tagliate le parole pronunciate nel dormiveglia Vogue, vogue, mon beau navire, nella stessa tonalità di MIb maggiore su cui il corno solo apre l’atto con un bellissimo recitativo, che serve proprio ad introdurre quella frase di Vasco, e torna anche poco dopo. Invece, se la frase viene omessa, si passa inopinatamente ed inspiegabilmente dalla sognante introduzione del corno al cupo intervento della schiava. Per questo in alcune edizioni dello spartito – inclusa una in lingua italiana – il frammento di Vasco viene re-incluso.

Fétis taglia anche alcuni versi di Sélika poco dopo (Son front me brûle, hélas!) in cui la schiava ricorda come Vasco avesse venduto i suoi gioielli e le sue armi per acquistarla: in effetti è un riferimento che sarebbe più appropriato al Fernand della stesura del 1843; Vasco più verosimilmente acquistò i due schiavi indiani con fondi… pubblici del Regno di Portogallo, e non di tasca sua.

Fétis sceglie poi una delle due versioni della famosa ninna-nanna di Sélika Sur mes genoux, quella che presenta più passaggi di agilità per il soprano. In effetti le due hanno parecchio in comune: tutta la sezione centrale (in FA e FA# maggiore, da Hélas, mon coeur faiblit…) e quella finale che torna in LA minore (da Il dort en paix…)

Più avanti Fétis taglia qualche battuta a Nélusko e Sélika nella scena del tentato omicidio (da À prix d'or au marché nous lui fûmes vendus); non fa esplicitamente menzione di questo taglio nella sua appendice allo spartito. La ragione sembra comunque evidente: i due schiavi ricordano il momento in cui vennero venduti al mercato e fanno riferimenti assai pertinenti allo scenario del 1843, allorquando erano stati acquistati da Fernand, e sappiamo bene con quali diverse motivazioni rispetto a quelle di Vasco. Il taglio sembra quindi abbastanza plausibile; un po’ meno la riapertura che ne fa Schläder.

Per il resto la scena e, soprattutto, la grande aria di Nélusko (Fille des rois e poi Quand l'amour m'entraîne) rimangono fortunatamente intatti. Invece Fétis taglia la prima parte del recitativo e duo di Sélika e Vasco Le maître a-t-il faim? Qui se ne va un frammento (À Vasco de Gama gloire! À lui l'univers!) abbastanza interessante sia sul piano drammatico che su quello musicale.

Nel grande duo Combien tu m'es chère, dopo che Sélika ha dato a Vasco lezioni di navigazione attorno al Capo, Fétis taglia di netto la strofa (da Près de moi tu resteras pour toujours) che vira abbastanza suggestivamente dal MIb maggiore d’impianto ad un momentaneo SI maggiore, prima del ritornello e della cadenza che chiude il duetto. In questa strofa i due sognano di risalire la costa orientale africana, e da lì esplorare altri territori più lontani, di incontrare nuovi popoli e nuovi climi. Ecco, questo taglio mi risulta francamente incomprensibile, sotto ogni punto di vista.  

Ecco infine l’ultimo taglio in quest’atto (mantenuto anche nella produzione di Chemnitz): il recitativo e arioso di Vasco-Sélika-Nélusko Courons, sortons! Qui Fétis ci dà una duplice spiegazione drammaturgica (permettendosi di correggere Scribe!) La questione sta in questi termini: alla fine del duetto fra Sélika e Vasco, che si chiude con i due emozionati e festanti, dopo che la schiava ha mostrato al navigatore la rotta giusta per doppiare il Capo, Scribe aveva introdotto – lo abbiamo visto nella precedente puntata - una nuova scena, quella dove Vasco torna a disperarsi e poi ode lo scampanìo in lontananza che Nélusko gli spiega come festeggiamento per le nozze di Don Pédro e Inès. Ecco perchè Fétis pensa che ciò rovini, poco dopo, la sorpresa di Vasco all’apprendere da Inès che lei ha sposato proprio Don Pédro.

Secondo poi: questa scenetta abbastanza insulsa (per Fétis, quantomeno, ma personalmente tenderei a condividerne il giudizio) toglierebbe totalmente drammaticità alla successiva entrata di Inès e Don Pédro, che  non troverebbero più Vasco e Sélika in atteggiamento sospetto. E ciò farebbe perdere significato alle prime parole di Don Pédro (visto? li abbiamo beccati in flagrante…) Ecco quindi che tutta la scena viene rimossa, in modo da proporre il seguente colpo di teatro: Don Pédro e Inès che entrano nella prigione e trovano Vasco e Sélika in piena esultanza.

Ecco poi il settimino finale (arrivo di Inès e Don Pédro e tutto ciò che segue) che Fétis – per fortuna, verrebbe da dire – non ha toccato per nulla. Ci sono qui un paio di concertati dove l’ascoltatore dovrebbe poter distinguere almeno 4-5 diverse, a volte contrastanti, espressioni di stati d’animo, cantate da personaggi che sovrappongono le rispettive voci: cosa praticamente impossibile anche a chi conosca il testo a memoria. Ma questo è un difetto (o un pregio?) del melodramma: il finale secondo di Aida ne è altro esempio preclaro.

L’Atto III è proprio nel mirino di Fétis, che ci apporta tagli piuttosto corposi. Dopo i cori delle donne e dei marinai (inclusa la gregoriana implorazione a SanDomenico) si comincia con l’eliminazione del canto del marinaio (Il est franchi, ce cap terrible)  che inneggia al doppiaggio del Capo e prende in giro Nélusko per le sue inavverate premonizioni sull’arrivo di Adamastor; tagliato poi il richiamo al pasto mattutino e infine il rondo bacchico dei marinai (Il faut du vin, du vin, du vin) dove a Scribe era sfuggito il riferimento – coerente nella prima versione del 1843 - alle coste messicane! Il taglio si porta via anche il breve lamento di Inès che riprende quello dell’inizio del primo atto (Adieux rives du Tage) e che crea un evidente contrasto con l’esuberanza dei marinai. Insomma, anche se non indispensabile sul lato della drammaturgia, questo scorcio eliminato da Fétis era invece assolutamente funzionale allo spettacolo, e la musica che lo supporta è tutt’altro che da buttare.

Si passa quindi direttamente al colloquio fra Don Pédro e Don Alvar, ma anche qui Fétis elimina la parte della scena dove il membro del Consiglio confida i suoi sospetti su Nélusko al Comandante (Êtes-vous bien sûr qu’il ne vous trahit pas?): che viceversa nomina lo schiavo come ufficiale di bordo, esecutore di tutte le pene da lui comminate, eccitandone tutta l’aggressività. Si tratta di un passaggio che dovrebbe servire a chiarire le cattive intenzioni dell’indiano.

Intenzioni che comunque Nélusko non tarda a manifestare, riconoscendo che il vascello è vicino ai paraggi dove incrociano i suoi compatrioti e cantando quindi la famosa ballata di Adamastor.

Adesso arriva la nave di Vasco, che sale a bordo. Fétis taglia due parti del duetto della lite fra Don Pédro e Vasco: Généreuse perfidie! (in cui troviamo un cupo accompagnamento del violoncello solo) dove i due si rimpallano la responsabilità della sorte di Inès (Fétis lo fa probabilmente per non… gettare un’ombra sul disinteresse di Vasco); e poi alcune battute da Eh bien! c'est moi qu'indigne en fin tant de bassesse.

Poi, come detto, altri barbari tagli: viene eliminato in pratica l’intero settimino, dove troviamo Sélika che punta il pugnale al cuore di Inès (Ah! qu’à défaut du ciel, l’enfer me soit propice!) Se ne va di conseguenza anche il successivo Qu’on l’entraine à l’instant, dove Don Pédro fa imprigionare Vasco nella stiva e cerca invano di obbligare Nélusko a frustare Sélika, con la conseguente offerta dei due di essere giustiziati insieme. Si tratta di scene assolutamente valide dal punto di vista drammaturgico, come è ad esempio la crisi di Nélusko, tanto spietato con gli stranieri, quanto inorridito al dover castigare la sua Sélika.

In pratica, da poco dopo l’arrivo di Vasco, la lite (abbreviata) con Don Pédro e la decisione di quest’ultimo di farlo fucilare, si salta direttamente e sbrigativamente alla chiusura dell’atto, con l’urto del vascello contro la scogliera e l’arrivo delle orde di indiani che fanno tutti prigionieri, per l’esultanza di Nélusko. Ma anche l’accoglienza dello schiavo ai suoi compatrioti, con annessa presentazione della loro futura regina Sélika e coro finale (Mais ceux-ci, quels sont-ils?) se ne vanno nel cestino di Fétis!

Insomma, il musicologo belga ha veramente massacrato questo atto, buttandone via almeno il 40%! E si tratta di scene tutt’altro che insignificanti e di musica assolutamente degna di essere apprezzata!

L’Atto IV si apre con il solenne ingresso in scena di sacerdotesse, bramini, amazzoni (il corpo di guardia femminile di Sélika), saltimbanchi, guerrieri e infine di Sélika in persona, il che dà modo a Meyerbeer di propinarci quasi 10 minuti di musica retorica e pomposa (pur gradevole!) come era d’obbligo nel GrandOpéra.

Poi abbiamo la scena del giuramento della nuova Regina e dei suoi sudditi, in qualche modo offuscata da due eventi poco felici: la notizia della giustizia sommaria degli invasori portoghesi maschi (che fa sobbalzare Sélika a proposito di Vasco) e il canto delle portoghesi femmine (subito dopo Quel est ce bruit? con richiamo dell’Adieu mon beau rivage! del primo atto) mandate a morire sotto la mancinella, come ci avverte Nélusko. Peccato che questo canto venga tagliato da Fétis (quel lamento si ripeterà alla fine d’atto) insieme al successivo coro dei sacrificatori Soleil, qui sur nous te lèves brûlant.

A parte che quest’ultimo coro – per quanto enfatico – è musica notevole, il suo taglio crea una gratuita discontinuità drammaturgica: dopo che Nélusko ha spiegato dove vengono condotte le donne, ecco che arriva di punto in bianco la famosa Grand Air di Vasco (O Paradis!) Invece quel coro serviva proprio ad introdurla, oltretutto anticipando versi che i sacrificatori cantano anche dopo l’aria di Vasco. A proposito della quale si è già accennato nella precedente puntata al fatto che Fétis ne cambiò un po’ il testo, introducendovi proprio l’invocazione (O Paradis!) che le diede il titolo.

Vasco è portato davanti ai sacerdoti per l’esecuzione, e Sélika lo salva costringendo (in pratica con un ricatto… sentimentale) Nélusko a testimoniare il falso (il matrimonio da lei contratto con Vasco in Portogallo). E qui Nélusko canta la sua cavatina (L'avoir tant adorée! che in realtà per la prima parte è un concertato con Vasco, Sélika e il coro) in cui manifesta tutto il suo cruccio per la costrizione che subisce, amare la sua regina e dover mentire per consegnarla al rivale straniero!

Il Gran Sacerdote benedice l’unione fra Vasco e Sélika, che restano soli. Qui, prima che si odano di lontano le invocazioni dei sacerdoti a Brahma, Fétis taglia la parte centrale del duetto (il notturno Ô douce Provideance don’t je bénis les soins) che serviva ad introdurre il successivo dialogo fra i due, che porta alla dichiarazione di reciproco amore.

Del finale (Remparts de gaze cachez l’extase) dove vediamo Sélika attorniata dalle sue ancelle che le fanno la toilette da sposa, Fétis pubblica una delle varianti (la più breve) predisposte dall’Autore, che manca fra l’altro dell’inciso di Sélika. Dove risentiamo comunque i lamenti di Inès e delle donne portoghesi ormai morenti sotto la mancinella.

L’Atto V presenta subito un gran taglio, che ci fa perdere grande musica, come l’aria Fleurs nouvelles, arbres nouveaux e il successivo arioso di Inès Ô toi, que j'adore. Ed anche la musica della scena con Vasco. Fètis invece cestina tutto l’Entr’acte, Arioso et scène in cui vediamo Inès arrivare mezza morta per aver respirato il profumo della mancinella e incontrare un Vasco vivamente turbato, per essere poi sorpresa con lui da Sélika in atteggiamento sospetto. Così invece l’atto inizia direttamente con l’entrata di Sélika (con Inès, circondata da soldati) che sorprende Vasco. Qui francamente il taglio di Fétis e l’aggiustamento relativo creano parecche perplessità sulla consistenza della drammaturgia: vediamo perchè.

Alla fine del quarto atto Inès è con le donne portoghesi portate a morire. Ora la troviamo, circondata da soldati, insieme a Sélika. Dobbiamo perciò immaginare (ma ce ne vuole, di immaginazione!) che Inès sia scampata alla strage e in seguito sia stata bloccata dagli uomini di Sélika e consegnata alla regina. Però, che c’entra Vasco? Il poveraccio si trova in quei paraggi a buon diritto e a pieno titolo (ha appena sposato la regina, caspita!) Quindi, perchè Sélika accusa i due portoghesi (che ancora nemmeno si sono incontrati, se dobbiamo prestar fede alla didascalìa) di tresca? Insomma, un saltus difficilmente giustificabile. (Meritoria quindi la decisione presa a suo tempo a SanFrancisco dal duo Domingo-Verrett di riaprire il taglio!)

Poi segue il duetto fra le due donne, quello dove Sélika decide di sacrificarsi, di cui Fétis taglia l’ultima parte (Oui, les transports de cette haine ardente): che è magari pleonastica dal punto di vista drammaturgico, ma ancora una volta è musica che è un autentico crimine buttare.

Qui arriva Nélusko, Sélika gli ordina di accompagnare i due portoghesi alla loro nave e poi di raggiungerlo al promontorio. Nélusko la implora di star lontano dalla mancinella, ma lei è irremovibile.

Nella scena al promontorio, la cavatina (La haine m'abandonne) del perdono a Vasco è purtroppo mutilata della strofa Je t'ai donné mon coeur, di cui Fétis non lascia traccia nemmeno nella sua appendice, e che ritroviamo grazie a Schläder.

Poi abbiamo il recitativo di Sélika in preda all’estasi mortale prodotta dal profumo dei fiori della mancinella (Ô riante couleur! ô fleur vermeille et belle!) dove Sélika vede un cigno che trascina un carro su cui arriva Vasco, cui dovrebbe seguire un’aria della protagonista, di cui Meyerbeer scrisse nientemeno che tre versioni: 1) Ô douce extase, transports heureux; 2) Non, cette ecstase ne trompe pas (questa viene direttamente dalla stesura del 1843!); e infine 3) Vasco, te voilà donc?

Ebbene, Fétis ce le nega tutte e tre! Poi, non contento, taglia anche il meraviglioso coro etereo (Ô céleste séjour).

Così si arriva al finale (Ah! je veille encor! Je suis sur terre) ma anche qui Fétis lo rimaneggia  (magari non senza plausibili ragioni) e chiude con l’appello di Nélusko e la morte di Sélika accompagnata dal solo coro etereo, tagliando le ultime parole (e il sacrificio) di Nélusko e gli avvertimenti del popolo.
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In conclusione, credo sia giusto dare atto al musicologo belga di aver cercato e magari quasi trovato un onesto compromesso fra il rispetto del lavoro di Meyerbeer (che comunque possiamo star certi sarebbe stato parecchio emendato dallo stesso compositore, ne avesse avuto il tempo) e le esigenze almeno comprensibili, se non giustificabili, della messa-in-scena.

In generale mi sentirei di fare il tifo, per il futuro, per l’edizione Schläder che, almeno all’ascolto, mi sembra meglio rispettare l’equilibrio fra le due caratteristiche della partitura: quella legata agli stereotipi del grand-opéra (scenario storico e retorica magniloquenza) e quella più debitrice alla tragedie-lyrique (più intimista e di scavo dei sentimenti). Troppo lunga? Forse sì, ma almeno è merce più genuina (smile!)
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Comunque sia, per ora non ci resta che aspettare Venezia…  

20 novembre, 2013

Orchestraverdi – Chailly scalda i motori


Prova aperta al MiCo della sinfonia dei mille (quelli di quarto… oggiaro, smile!) A parte le battute, un evento clamoroso (3700 posti esauriti nella gold plenary) per ascoltare i 500 e rotti Musikanten nella messa cantata di Mahler. 

Motore a 7 cilindri, invece che 8, dato il forfait (si spera rientri per le due serate che contano!) di Markus Werba: nell’inno di Hrabanus ci si poteva anche non far caso alla sua assenza, ma nella Schlußszene ascoltare dell’Ewiger Wonnebrand solo l’accompagnamento orchestrale non è stato proprio il massimo…


Per il resto, sembra tutto a posto: ottima prospettiva, visto che domani e sabato si paga (smile!

    

Venezia ospita una indo-africana (2)


Abbiamo visto come già verso la fine del 1843 Meyerbeer avesse completato l’abbozzo de L’Africaine, ma avesse poi rinunciato a portare avanti il lavoro (strumentazione, balletti e prove in teatro) a causa di forti dubbi insorti sulla validità del soggetto.

Tuttavia negli ambienti musicali parigini l’attesa per quest’opera era rimasta assai viva e Meyerbeer si sentiva quasi in debito di essa verso il pubblico, così ancora per anni e anni ci tornò sopra, chiedendo a più riprese a Scribe (e dopo la morte di costui, nel 1861, a Charlotte Birch-Pfeiffer) di rivederne il libretto, che in effetti cambiò abbastanza drasticamente i suoi connotati, essendovi introdotti diversi elementi e componenti che erano del tutto assenti nella versione originaria. Di cosa si tratta?

Innanzitutto – hai detto proprio niente! - del macro-scenario in cui è ambientato il soggetto. Che diventò, da abbastanza vago e generico qual’era, molto precisamente caratterizzato sul piano storico, come esigeva la moda del tempo. Siamo retrocessi di circa un secolo (da fine ‘500 a fine ‘400, appena dopo la scoperta di Colombo); ci siamo spostati dalla Spagna in Portogallo e il deuteragonista è nientemeno che il grande Vasco da Gama. Lui diventerà il primo doppiatore del Capo delle Tempeste (poi di Buona Speranza) dopo il fallimento di Bernardo Diaz, e le sue missioni non sono verso le Americhe, ma hanno come obiettivo l’apertura della via marittima verso le Indie (prima della fine del secolo XV Vasco arriverà finalmente a Calicut, l’odierna Kozhikode, sulla costa occidentale dell’India).

In effetti si potrebbe dire che il leggendario navigatore portoghese assuma il ruolo di primo protagonista della nuova versione dell’opera, tanto da dare il suo nome - francesizzato (o… spagnolizzato) in Vasco de Gama - al nuovo titolo con cui Meyerbeer la completerà nel 1864. Attorno alla figura di Vasco si muovono adesso tutte le problematiche politiche legate al fenomeno della colonizzazione e della formazione delle grandi potenze marinare.   

Come è immaginabile, il cambiamento di scenario generale produsse una reazione a catena su quasi tutto il resto del soggetto. Ad esempio lo spostamento di focus dall’Africa all’India comportò anche un diverso inquadramento delle personalità dei due alieni (che cambiano poco o tanto il nome, da Sélica e Yoriko in Sélika e Nélusko) in particolare di Sélika: tanto per fare un esempio, il suo non essere più di pelle nera rese fuori luogo il relativo accenno che la Sélica africana vi faceva nell’atto IV, nel corso del duetto con Fernand; accenno che infatti si perde nel nuovo duetto fra la Sélika indiana e Vasco.

Ma soprattutto c’è un diverso trattamento della problematica relativa alla schiavitù: che era messa abbastanza in primo piano (con la scena - nel primo atto - dell’arrivo della nave di Pedrillo, carica di schiavi neri da avviare al mercato) e che ora resta più sfumata ed appare comunque in una luce assai diversa. Mentre il buon Fernand aveva acquistato dal mercante Pedrillo i due africani essenzialmente mosso da spirito umanitario (rendergli la cattività meno pesante) Vasco acquista in Africa i due schiavi indiani per ragioni profondamente diverse, tutte politiche e di potere: supportare il suo sconfinato orgoglio e le mire colonialiste della potenza marittima portoghese, che aveva come obiettivo la conquista di territori e relative risorse pregiate, più che di esseri umani da usare come bestie. Ecco quindi che Vasco porta in patria i due schiavi allo scopo di mostrarli ai massimi responsabili istituzionali come reperti di mondi degni di essere conquistati e prima ancora (e soprattutto grazie a lui!) esplorati. E così si spiega anche perché il nuovo titolo dell’opera, invece che L’Indienne, fosse diventato Vasco de Gama, ou le Cap des tempêtes.

Il nuovo scenario portò con sé anche l’introduzione di nuovi personaggi di contorno: l’anonimo conte Salvator (navigatore e rivale di Fernand nella prima versione) diventa Don Pédro, nientemeno che Presidente del Consiglio del Re di Portogallo; il padre di Inès non è più un personaggio (per quanto vicerè) puramente citato da altri, ma diventa l’ammiraglio Don Diégo, che partecipa attivamente (pur nel solo primo atto) alle discussioni politiche riguardo le operazioni di esplorazione e conquista delle colonie; Don Alvar è un altro personaggio nuovo, un giovane e progressista membro del Consiglio; sempre nel primo atto abbiamo l’ingombrante presenza, insieme a non meno di otto Vescovi, del Grande Inquisitore di Lisbona, che mette becco, e come!, in tutte le decisioni di natura politica.

Ci sono poi pochi dubbi che la nuova prospettiva generale si sia trascinata dietro anche conseguenze sul piano squisitamente musicale: intere scene mutarono radicalmente e con esse la musica che le doveva accompagnare, basti pensare al primo atto, totalmente ri-ambientato. Interessante notare come il nuovo scenario abbia ispirato (a Scribe e Meyerbeer) almeno un paio di nuovi, o assai modificati, numeri musicali della massima rilevanza. 

Il primo consiste nel mutamento, nel terzo atto, della canzone di Yoriko (dove si accennava a Lucifero e al Corsaro nero, buoni per ogni mare e a qualsiasi latitudine…) in quella di Nélusko, che diventa uno dei momenti più drammatici dell’opera: è il richiamo ad Adamastor, figura spaventevole evocante i pericoli e le maledizioni che si abbattono su chi cerca di doppiare il Capo (l’Olandese wagneriano ne sa qualcosa!)

La seconda è la nascita dell’aria più famosa di tutta l’opera, quella di Vasco del IV atto (O Paradis!) che presenta risvolti… colonialisti (!); risvolti che sarebbero stati del tutto fuori luogo nel contesto originale, dove Fernand non è un conquistatore, e comunque capita su quelle coste africane praticamente per sbaglio.

Quanto alla vicenda narrata nell’opera, dal terzo atto in avanti ha un canovaccio simile a quello della prima versione, salvo che i vascelli portoghesi (di Don Pédro e di Vasco) sono presso il Capo e perfettamente in rotta (contrariamente a quanto accadeva a Salvator, diretto in Mexico e finito in… Africa) e che gli assalitori non sono africani ma indiani e che il quarto e quinto atto hanno luogo in un territorio dove si esercita il culto di Brahma, quindi territorio indiano e non certo africano (resta l’incongruenza dell’albero della mancinella, che non cresce né in Africa, né in India, cui si aggiunge quella dell’isola, come vedremo nel second’atto).

Della versione originaria del 1837-43 resta in piedi tuttavia l’aspetto legato, per così dire, al relativismo culturale, in particolare la rilevanza della figura della protagonista femminile, sulla quale si concentra l’intera parte finale dell’opera, già a partire dall’atto IV: Sélika (indiana anziché africana) resta pur sempre una donna nobile (di censo ma soprattutto di animo) capace di sacrificare la vita per amore di un uomo che rappresenta un’altra civiltà, in qualche modo ostile, quanto meno percorsa da gravi pregiudizi. È ancora lei a chiudere l’opera in chiave, per così dire, mistica, proprio come faceva la sua alias africana. 
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Vediamo quindi come si presenta il Vasco de Gama che Meyerbeer completò nel 1864 e quali sono le principali differenze rispetto alla stesura del 1843. Prima però mi preme sottolineare come questa nuova stesura del 1864 non sia quella che, dalla prima del 1865 e fino ai giorni nostri, è stata e viene rappresentata in tutto il mondo, col titolo L’Africaine: la quale è opera del musicologo belga François-Joseph Fétis e sarà oggetto della prossima puntata di questo escursus.

Come si può allora conoscere il lavoro originale di Meyerbeer? Ad esempio procurandosi questa pubblicazione della Cambridge Scholar Publishing, dove il libretto completo è stato ricostruito a partire dalle diverse fonti disponibili (le edizioni di Brandus del 1865 e i manoscritti dei 5 atti, di cui 4 giacenti a Cracovia e l’ultimo a Berlino). Oppure facendo riferimento ad uno studio abbastanza recente del professor Jürgen Schläder dell’Università di Monaco: costui ha predisposto quella che si potrebbe impropriamente definire come una prima versione critica dell’opera, che verrà pubblicata da Ricordi (col titolo L’Africaine, tanto per confondere le idee!) Sulla base di essa è stata data una serie di recite da febbraio a giugno 2013 a Chemnitz e il CD relativo è già disponibile. Il libretto – della produzione di Chemnitz (non dell’edizione di Schläder-Ricordi!) - è pure scaricabile dalla rete a questo indirizzo.

Direi che la versione del Vasco presentata a Chemnitz – il cui ascolto è assolutamente affascinante, a prescindere dalla qualità, per chi ha presente le (poche) incisioni de L’Africaine - assume particolare importanza poiché ci consente, almeno a grandi linee (non è certo che essa rispetti al 100% l’edizione di Schläder) di farci un’idea concreta del contenuto originale dell’opera, contenuto che Fétis ritoccò in misura notevole, fino a sfigurare, secondo taluni, il lavoro originale di Meyerbeer.
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Nell’Atto I apprendiamo da Inès (che lo confida al nuovo personaggio di Anna, sua ancella) del suo amore per Vasco, che però è in mare da due anni; e vediamo il suo dolore all’infausta notizia che dà Vasco per morto nei paraggi del Capo delle Tempeste al seguito di Bernardo Diaz, mentre l'ammiraglio Don Diégo, suo padre, ha deciso di mandarla sposa a Don Pédro. Quindi veniamo portati nel bel mezzo di un Consiglio del Re, dove capi politici, militari e religiosi discutono piani di esplorazione e colonizzazione, mostrandosi assai scettici al riguardo, dopo il fallimento di Diaz al Capo.

Vasco, creduto morto laggiù insieme al suo comandante, arriva invece a sostenere la causa dell’opportunità e necessità delle esplorazioni, chiedendo per sé risorse (uomini e mezzi) per ritentare l’impresa di doppiare il Capo e dirigersi da lì verso le Indie. Per convincere politici e religiosi presenta loro due schiavi (Sélika e Nélusko) comprati in Africa ma provenienti da più remoti paesi, e di razza sconosciuta: la terra che li ha generati non può che essere un paradiso, meritevole quindi di conquista. Dalle parole di Nélusko abbiamo però la conferma che i due schiavi adorano Brahma (nell’originale invocavano il dio d’Ismaele!) quindi son proprio indiani.

Don Pédro strumentalizza la contrarietà del Grande Inquisitore alle esplorazioni di nuovi mondi (ovviamente il prelato non crede a nulla che non sia scritto sui libri canonici!) per far bocciare dal Consiglio i piani di Vasco, che viene pure accusato di insubordinazione e condannato seduta stante all’ergastolo! Vedremo presto come nel contempo Don Pédro si farà assegnare tutte le risorse necessarie per intraprendere una nuova spedizione verso il Capo, che sarà lui a guidare.   

Come si può notare, rispetto alla prima versione si passa da uno scenario storico tutto sommato abbastanza circoscritto (alla vendita di schiavi) ad un altro ad altissimo e planetario tasso d'importanza politica e strategica.

L’Atto II ha luogo nella prigione dell’Inquisizione dove Vasco è stato rinchiuso con i due schiavi: qui c’è qualche vago punto di contatto con la versione originaria, anche se con rimescolamento di tempi e sequenza. All’inizio vediamo Vasco che sogna viaggi e conquiste, poi invoca Inès; Sélika allora gli canta una specie di ninna-nanna e poi lo sveglia per salvarlo da Nélusko, arrivato per ucciderlo.

Invece abbiamo una fondamentale novità – sempre conseguente al mutato scenario generale – rappresentata dalla confidenza di Vasco a Sélika riguardo la sua idea di come doppiare il Capo, e il consiglio della donna, di portarsi più a destra (cioè ad est…) e risalire verso la grande isola, la sua isola. Ma di che isola si tratta?

Ecco, qui davvero bisogna prendere atto di una patente incongruenza (anzi, falsità geo-storica bella e buona) di questa parte del nuovo libretto: l’obiettivo di Vasco è l’India e Sélika è indiana (come si è appreso già nel primo atto). Però lei e Nélusko sono stati comprati da Vasco in Africa (dopo il naufragio di Diaz nei pressi del Capo, possiamo supporre). Com’è potuto accadere che in Africa fossero presenti schiavi indiani? Sèlika ha affermato di essere stata catturata dopo che la sua barchetta (mon canot fragile) era andata alla deriva, provenendo dalla sua isola. Ecco che allora Scribe deve far quadrare il classico cerchio: avvicinare l’India, o almeno territori occupati da indiani, al Capo, altrimenti dovrebbe farci credere che la barchetta di Sélika se ne fosse andata alla deriva dall’India all’Africa (?!) Non solo, ma altrettanto improponibile sarebbe stato poi lo spostamento del quarto e del quinto atto sul continente indiano, a migliaia di km di distanza dai luoghi dove si svolge il terz’atto.

Insomma, dobbiamo berci la storia di indiani che arrivano da una grande isola non lontana dall’Africa, a destra del Capo; ora, questa grande isola non può che essere il Madagascar. Peccato però che anche lì non ci sia mai stata, storicamente, la benché minima traccia di civiltà, né di religione indiana!

Vasco e Sélika esultano per la prospettiva di doppiare il Capo, poi però Vasco torna a disperarsi per il suo stato di prigioniero e Sélika cerca di consolarlo promettendogli che sarà sempre al suo fianco. Adesso Vasco ode uno scampanìo in lontananza e Nélusko (chissà come fa a saperlo) gli spiega che è per la celebrazione delle nozze di Don Pédro, Presidente del Consiglio e parente del Re, che comporterà una qualche amnistia di cui anche loro potranno godere. Non dice chi sia la sposa, e Vasco dice che non gliene importa un fico secco, ma insomma, se non è Inès, chi altri potrebbe essere?

Ed ecco che arriva proprio Inès, ma non per caso, come nella stesura originaria, bensì con il marito Don Pédro (più Anna e Don Alvar) per recare a Vasco l’ordine di scarcerazione. Anche qui scopriamo che la figlia dell’ammiraglio ha preso un granchio riguardo a Sélika, pensando che il suo innamorato l’abbia preferita a lei. Per questo dà l’addio per sempre a Vasco (lei appunto ha già sposato Don Pédro, per vendicarsi del presunto tradimento di Vasco con la schiava, confermato ai suoi occhi dall’atteggiamento in cui ha trovato i due al suo arrivo). Anche qui abbiamo poi il tardivo chiarimento del malinteso fra i due (lui le cede i due schiavi a conferma del suo amore per lei). Don Pédro paga gli schiavi e si prepara a partire per la missione verso il Capo, affidando a Nélusko la responsabilità delle rotte da seguire. Vasco lo accusa di averlo derubato dei suoi piani e a Inès, distrutta, non resta che invitare l’amato a nuove imprese e a tornare da lei, ma… sulla sua tomba.

Qui non c’è traccia di richieste di duelli (come in origine, fra Fernand e Salvator) ma l’atto si conclude con un concertato in cui i vari personaggi manifestano i loro diversi stati d’animo: esultanza per Don Pédro e Nélusko, disperazione per Vasco e le due donne innamorate di lui. Come si vede l’atto ha un andamento assai divergente da quello della versione originaria: là Fernand era in fuga e veniva arrestato, qui Vasco è prigioniero e viene liberato; e i fatti che vi accadono hanno una loro stringente logica, mentre nella stesura del 1843 quasi tutto era lasciato al caso e ai capricci del tempo.

Nell’Atto III siamo sul vascello di Don Pédro, ormai veleggiante attorno al Capo. Le donne al seguito di Inès (fra cui Sélika) cantano lietamente e i marinai attendono alle loro mansioni, inneggiando a SanDomenico, ma anche al… vino (il canto bacchico di questa scena viene dalla stesura del 1843, e vi sono rimasti erroneamente persino i versi che accennano alla meta messicana del viaggio!) Don Pédro ha però perso le sue due navi-appoggio e Don Alvar è certo che il responsabile di ciò sia Nélusko, cui Don Pédro ha voluto affidare la scelta delle rotte e al quale il comandante conferma la sua fiducia, anzi lo nomina (come nella stesura originale) ufficiale di bordo: in fin dei conti hanno già doppiato il Capo! Ma Don Alvar gli fa presente che prima di loro l’ha già doppiato un’altra nave (sapremo poi che è quella di Vasco…)

Adesso Nélusko ci spiega il suo piano: portare anche la nave di Don Pédro verso nord, a fracassarsi e ad essere preda dei suoi compatrioti indiani. Per spaventare l’equipaggio e costringerlo a seguire le sue intenzioni sabotatrici, egli canta la famosa canzone del mostruoso Adamastor.

Ora però sta arrivando Vasco su un’altra nave, quella che precedeva Don Pédro: sale a bordo ed afferma di essere lì per salvare i portoghesi (e in particolare Inès!) dalle trame di Nélusko, ma Don Pédro, invece di ascoltarlo, lo fa catturare e lo condanna a morte. Qui ritorna dall’originale la scena di Sélika che minaccia Inès con un coltello, per indurre il marito di lei a rinunciare alla fucilazione di Vasco. Ed anche il cedimento di Don Pédro, che fa imprigionare Vasco nella stiva e chiede a Nélusko di punire Sélika per il suo gesto. Nélusko rifiuta e i due schiavi si offrono entrambi come vittime. Mentre Inès e Don Alvaro chiedono a Don Pédro di risparmiarli, il vascello si schianta sugli scogli e Nélusko accoglie trionfalmente i compatrioti indiani (ovviamente, non più africani) che salgono a bordo, mostrando loro Sélika, la loro prossima regina.

In sostanza quest’atto reca moltissime tracce della stesura originaria (anche se vedremo che non poche ne perderà… grazie a Fétis). Peraltro introduce anche differenze non da poco, come ad esempio il ruolo di Nélusko: nella prima stesura Yoriko si era fatto amico l’ufficiale di bordo, non Salvator, mentre qui è DonPédro in persona che lo protegge, anche contro gli avvertimenti di Don Alvar. Inoltre qui Vasco arriva con buone intenzioni anche verso Don Pédro (lui tiene sopra ogni cosa alle sorti della patria e delle missioni coloniali!) mentre là Fernand arrivava con l’obiettivo principale e privatissimo di vendicarsi di Salvator.

Passiamo ora all’Atto IV, che presenta qualche differenza più o meno importante rispetto alla versione del 1843. L’atto si apre ancora con cortei e processioni per l’incoronazione  di Sélika. Il gran sacerdote annuncia che tutti i portoghesi sono stati giustiziati, ma Nélusko viene informato che uno di loro (Vasco) è ancora in vita, ed ordina di giustiziare anche lui, e al più presto. Si odono i lamenti delle donne portoghesi, fra cui Inès, che vengono deportate al promontorio, sotto l’albero venefico della mancinella, per morirvi. (Ricordiamo che nella stesura del 1843 Inès veniva invece risparmiata e aggregata al gruppo delle ancelle di Sélika).

I boia (o meglio, i… sacrificatori) di Vasco si apprestano a giustiziarlo, ma lui invece, pacifico e beato, canta la più bella e famosa aria di tutta l’opera (quella in SOLb maggiore, O Paradis!) ammirando lo straordinario spettacolo naturale che lo circonda e che lui, da buon conquistatore, fa subito… proprio (Sois donc à moi, ô beau pays!) Una curiosità interessante che emerge fra le righe della proposta di Schläder è una variante al testo (non alla musica, per fortuna, salvo pochissime battute iniziali): evidentemente il musicologo tedesco la deve aver scovata nei manoscritti di Meyerbeer: le differenze non sono poi così marcate, però, tanto per dire, nella variante riscoperta manca proprio il… paradiso! In entrambe le versioni comunque il testo lascia apertamente trasparire (magari per metterli in cattiva luce…) i risvolti colonialisti del soggetto (Je t'ai conquis, tu m'appartiens, canta l’intrepido navigatore, parlando evidentemente a nome dei mercanti suoi compatrioti e mandanti).
  
Poi Vasco chiede ai suoi carnefici, come ultimo favore prima dell’esecuzione, di riportarlo alla sua nave, per salutare i suoi amici in modo che possano almeno essere testimoni, al loro ritorno in patria, della sua impresa e delle sue scoperte, garantendogli così la gloria, sia pur da… morto. I sacrificatori non sentono ragioni e si preparano ad immolarlo come gli altri portoghesi. Ma anche qui Sélika riesce a salvarlo, obbligando Nélusko alla falsa testimonianza riguardo il presunto matrimonio fra lei e lo straniero, lassù in Portogallo. Il Gran Bramino benedice l’unione e fa bere ai due il filtro dell’eterno amore, che evidentemente fa il suo effetto, visto che subito dopo abbiamo per l’appunto la scena d’amore fra Sélika e Vasco, che nella stesura originaria chiudeva l’atto in grande esaltazione, mentre ora è seguita dalla cerimonia nuziale, durante la quale si odono improvvisamente le voci di Inès e delle altre portoghesi, che richiamano Vasco alla realtà (l’effetto del filtro evidentemente è durato poco!)

Nell’Atto V troviamo Inès che arriva trafelata nei giardini della regina, dopo aver visto le sue compagne morire asfissiate dal profumo dei fiori sotto l’albero della mancinella. Adesso incontra Vasco, che vedendola va in preda ad una profonda crisi (un po’ come nella stesura originaria) amando sempre Inès, ma non potendo tradire la promessa fatta a Sélika. La quale arriva a sorprenderli e poi ha lo scontro con Inès, più o meno come nella versione 1843. Sélika decide quindi di sacrificarsi e ordina a Nélusko di condurre Vasco e Inès alla loro nave perché possano tornare in patria.

E da qui fino alla fine abbiamo più o meno lo stesso canovaccio primitivo: Sélika va sotto l’albero della mancinella e ne respira il profumo, ha le visioni, crede di vedere Vasco che torna da lei. Torna invece Nélusko trionfante e la trova esanime: mentre il popolo lo avverte di star lontano da quell’albero e il coro etereo inneggia all’amore, lui resta con lei e si sacrifica per la sua regina. 
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Ma come detto, la versione dell’opera che si rappresenta da sempre si discosta non poco nei contenuti da quanto sopra descritto, essendo quella edita da Fétis. Nella prossima puntata esamineremo quindi più in dettaglio come, dalla versione predisposta in origine da Meyerbeer, si sia arrivati a quella che ha tenuto (e tiene tuttora) banco in tutte le rappresentazioni, comprese quelle dei prossimi giorni alla Fenice.

(2. continua)