sarà vero?

una luce in fondo ai tunnel

26 aprile, 2013

Orchestraverdi – concerto n.32


Riecco Wayne Marshall in doppia veste di direttore e organista, con un programma tutto dedicato a Francis Poulenc.

Dopo il Concerto per 2 pianoforti della scorsa settimana, ecco altre due composizioni dello stesso periodo (gli anni ’30 dello scorso secolo) e una più tarda (fine anni ‘50).

L’impaginazione del concerto è tale per cui vi sono impegnati dapprima solo i fiati, poi solo gli archi e infine tutto il corpo strumentale-vocale de laVerdi: insomma, una specie di passerella tutta in crescendo per i componenti di questa splendida realtà.

Il primo dei tre brani in programma è la Suite française, composta nel 1935 come musica da eseguirsi in un’opera teatrale: si tratta di sette brani di danza, di cui sei sono trascrizioni dal musicista cinquecentesco Claude Gervaise, mentre una è di mano completa di Poulenc. Il tipo di composizione segue quindi le indicazioni programmatiche del manifesto del Gruppo dei Sei (scritto da Jean Cocteau sotto il titolo di Il Gallo e l’Arlecchino): in esso si irrideva (ma è un eufemismo) a Wagner, Debussy (!?) e a tutte le avanguardie e si propugnava, fra l’altro, un ritorno alla tradizione, di cui faceva parte precisamente la forma della Suite, che storicamente si era costituita come assemblaggio di musiche di danza (nello standard: allemanda, corrente, sarabanda e giga, ma affiancate anche da pavana, gagliarda, siciliana, saltarello, …)

Quindi un brano neo-classico, che fa un po’ il verso – 15 anni dopo - a simili iniziative di Stravinski (vedi il pergolesiano Pulcinella). L’organico è una piccola orchestra composta da soli 9 fiati (2 oboi, 2 fagotti, 2 trombe e 3 tromboni) più una batteria e un clavicembalo.

Musica pienamente diatonica, come sempre sarà quella di Poulenc, rimasto del tutto impermeabile alle invenzioni di scuola austro-tedesca; qui basata su modelli rinascimentali e piena di inflessioni modali. Scarse o del tutto assenti le modulazioniEccone un’interpretazione di George Prêtre.
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Si apre con Bransle de Bourgogne. La Bransle (o Branle, in italiano: Brando) era una danza dal tempo binario, che prevedeva più che altro spostamenti laterali. Eccone lo spigliato motivo, preceduto dal rullo del tamburino ed esposto dalle trombe, cui rispondono gli oboi:


Il brano è monotematico, con la semplice apparizione di un controsoggetto e di una cadenza. Queste tre componenti vengono ripetute per tre volte, semplicemente variando la strumentazione o l’ottava di partenza. La tonalità è SOL sfociante a DO maggiore.

Poi ecco la Pavane, sull’etimologia del cui nome non c’è unanime accordo: chi la individua nel pavone, chi nell’origine padovana (!)

Si noti come qui Poulenc copi perfettamente la prima frase di Gervaise (in FA maggiore) mentre per la seconda (che chiude in RE minore) invece della semplice ripetizione, con i due punti del da-capo, opti per una impercettibile variante ed una diversa strumentazione:

La sequenza (senza ripetizioni e variata) verrà ripresa in chiusura, dopo una sezione centrale che presenta due nuovi motivi, caratterizzati da moderate dissonanze.

Segue una Piccola marcia in SIb, aperta dagli ottoni con crome sempre staccate:
Dopo che il motivo principale è stato ripetuto, ne subentra un altro che gli è assai parente; ancora il primo tema ripetuto, poi due nuovi motivi più mossi che sfociano nella doppia ripresa del tema principale.

Il quarto brano è l’unico composto da Poulenc e non preso da Gervaise. Il titolo Complainte ricorda canzoni malinconiche, cantilene dal soggetto triste. È l’oboe ad aprirlo, in SOL minore, con una struggente melopea:
Gli fa eco il clavicembalo, poi oboi e fagotti, infine anche trombe e tromboni. Il brano in realtà fa da introduzione lenta a quello successivo, cui si concatena senza soluzione di continuità: è un’altra danza campestre – Bransle de Champagne – sempre in SOL minore:
Sono le trombe ad esporre inizialmente il motivo che dominerà l’intera danza. Subito lo riprende il primo oboe. In realtà, al motivo principale si affianca un controsoggetto tematicamente assai vicino, che lo accompagna anche alla ripresa, che avviene dopo un intermezzo occupato da clavicembalo, poi fagotto e tromba.

Il sesto brano è una Siciliana, dal caratteristico ritmo ondeggiante, tonalità DO maggiore:
Sono ancora le trombe ad esporre inizialmente la melodia, seguite dai tromboni. Il clavicembalo, poi oboi e fagotti chiudono piuttosto mestamente la frase musicale, che viene ripetuta da-capo, seguita da una cadenza finale di tromboni e clavicembalo.

Chiude la suite il Carillon, veloce danza (ancora in DO) a forma di Rondo dove sono sempre le trombe ad introdurre per prime il tema che viene ripetuto e seguito da una risposta in SOL, pure ripetuta.
Il solo clavicembalo ripete due volte il tema, poi un nuovo motivo in SOL fa da cerniera portando verso la riproposizione del primo tema, ancora nelle trombe e poi nel clavicembalo, chiusa da una robusta cadenza e da due accordi di settima e tonica sul DO.

Ora il clavicembalo torna a ripetere due volte il tema, poi ecco un nuovo motivo, sempre legato tematicamente ai precedenti, ripetuto. Quindi torna il tema principale, prima nel clavicembalo, poi nei fiati. È seguito dalla risposta in SOL e poi dalla cadenza già udita poco prima.

Infine è il tamburino a preparare la chiusa, dove il tema principale è ripresentato due volte, fino al conclusivo accordo sulla dominante SOL.
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Beh, è una cosa semplice-semplice e senza troppe pretese, sono poco più di 10 minuti di musica, ma gradevole e rilassante, non c’è che dire, che i ragazzi ci hanno proposto con grande cura, precisione e attenzione ai dettagli, ricevendo una calorosa accoglienza da un pubblico non proprio oceanico, forse a causa della ricorrente festività e del ponte incombente
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Ecco poi Wayne Marshall sedersi all’organo (e nascondendosi dietro l’imponente cassone dello strumento) per assumere anche il ruolo di solista nel Concerto in SOL minore, finito di comporre, dopo lunga gestazione, nel 1938. Fu un periodo particolare della vita di Poulenc, che proprio in quegli anni cominciò ad avere visioni… mistiche, che lo porteranno più avanti a comporre, dopo Les dialogues, proprio il Gloria che chiude la serata.

L’organico strumentale prevede solo archi e timpani, oltre all’organo; la cui scrittura non dev’essere proprio proibitiva, per poter essere padroneggiata dalla dedicataria – Principessa Edmond de Polignac – che era una musicista dilettante, e soprattutto una grande mecenate dell’arte e della musica in particolare. La struttura non presenta soluzione di continuità, nel senso classico, non essendo il Concerto suddiviso in movimenti. Peraltro vi si distinguono sette parti, contrassegnate da Poulenc attraverso precise indicazioni metronomiche, in aggiunta a quelle agogiche. Una perfetta simmetria fa alternare sempre un movimento piuttosto lento (1-3-5-7) ad uno veloce (2-4-6).

Anche qui Poulenc è più che fedele alla tonalità, semplicemente arricchita qua e là da qualche dissonanza o digressione del tutto innocenti. Quanto ai contenuti, pare di trovarsi di fronte ad un certo sincretismo di stili e stilemi, che parte sì da Bach, ma che non esclude riferimenti a quell’800 romantico bandito per principio dal manifesto del Gruppo dei Sei.    
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È un Andante ad aprire l’opera, con l’organo che espone un motivo pieno di energia, conferitagli dalle coppie di semicrome  (che richiamano vagamente l’apertura della settima di Mahler…):
Subito però l’atmosfera diviene rarefatta, sempre con l’organo in evidenza, interrotto da un pesante accordo degli archi; risponde l’organo reiterando il motivo introduttivo, che prelude (Molto dolce ed intenso) ad un dialogo fra archi e organo (tre interventi dei primi e due del secondo) chiuso dal solista con pesantissimi accordi dissonanti.

Ecco ora il primo dei momenti veloci, un Allegro giocoso, aperto dagli archi e timpani con un secco accordo di SOL minore subito seguito da un tema assai agitato (che ha un che di Shostakovich…):
Lo sviluppa anche l’organo, con salite e discese sulle scale di SIb maggiore e minore, poi di FA# (!) Il tema principale torna in RE minore, poi si modula a DO maggiore dove violini e viole espongono un motivo che diventerà una specie di motto per tutte le tre sezioni veloci del concerto:
L’ostinazione del motivo continua, interrotta brevemente dal tema principale, poi riprende per chiudere la sezione in SOL maggiore (accordo però assai sporco!) con una caparbietà che ricorda nientemeno che Bruckner!
 
Ora ecco una sezione lenta (subito Andante moderato) dove spetta all’organo esporre un motivo in LA minore:
È una specie di siciliana (croma puntata più semicroma) che sfocia in un bellissimo controsoggetto in LA maggiore:

Una lunga serie di modulazioni ci fa passare per DO#, poi più volte per DO, FA, fino all’emergere di un languido motivo come questo, che ricomparirà ciclicamente nella successiva sezione lenta:
Poi ecco un crescendo, sottolineato da veloci biscrome di violini secondi e viole, culminante in una sospensione che ancora richiama Bruckner:
L’organo suggella il tutto con due pesantissimi accordi di LA, minore e maggiore.

Ora abbiamo un Tempo Allegro, molto agitato, introdotto da un motivo in LA minore con ostinate volute attorno alla tonica, seguito da una risposta molto mossa negli archi:
Anche qui assistiamo a continue modulazioni, finchè improvvisamente sbuca il motto (qui in REb) nell’organo e poi nei violini:

Spetta al solista condurre ora la danza in modo concitato, ma poi, accipicchia, gli archi sembrano proprio portarci al movimento finale della Patetica (!):

Introducendo quindi una nuova sezione lenta (Molto calmo, lento) dove è ancora l’organo ad esporre un motivo assai struggente:

Poco dopo sono i violini a rispondere riprendendo il bellissimo motivo già udito nel precedente Andante moderato (si noti anche l’inciso del violoncello):


Qui l’organo sembra proprio voler disturbare un’atmosfera di raccoglimento, e spara feroci accordi che distruggono l’incantesimo, preparando l’arrivo del successivo Tempo dell’Allegro iniziale, dove subito ricompare, in SOL maggiore e in bella evidenza, il nostro motto:

Motto che terrà ampiamente banco in questa sezione, rimbalzando dal solista agli archi, fino a quando sarà ancora l’organo a porvi fine in maniera a dir poco tracotante, con un accordo ferocemente dissonante: FA# - SIb – DO – MIb – RE – FA.

Sul Tempo dell’Introduzione, largo riudiamo precisamente il motivo esposto originariamente dall’organo (la sua prima metà, peraltro) in SOL minore. Poi l’atmosfera si tinge di religioso raccoglimento. Gli archi disegnano un’atmosfera rarefatta, in cui la viola fa fiorire il suo nobile canto:

Poco dopo tocca anche al violoncello emergere da questa calma che pare ormai destinata a chiudere l’opera. Invece è l’organo che esplode una cosa che ricorda l’incipit della Toccata e Fuga di Bach, chiamando anche il resto dell’orchestra ad una chiusura pesantissima, su un generale unisono di SOL:
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Che dire, una composizione un po’ fuori dagli schemi, dalle scuole e dalle mode del tempo, ma personalmente la trovo più che dignitosa e godibile: per dire, le Variazioni op. 31 di Schönberg, di 8-10 anni più vecchie, mi lasciano assai meno… tranquillo (smile!) 

E Marshall e gli archi de laVerdi ieri ce l’hanno propinata veramente con grande passione, meritandosi una calorosissima accoglienza. Purtroppo la regolazione del volume del suono dell’organo era totalmente sballata, un sacco di decibel di troppo, il che ha soprattutto nuociuto ai passi di concertato, dove il registro pieno dello strumento era tale da sovrastare completamente il suono degli archi. 

Marshall ha poi approfittato dell’occasione per esibire ancora le sue doti di organista: già nel Concerto ha infilato, all’inizio dell’ultima sezione, una sua personale e lunghissima cadenza solistica; poi ci ha offerto due bis: il primo era una sua trascrizione del primo tempo della Sinfonietta di Poulenc, il secondo una specie di improvvisazione su uno dei più diffusi ringtone di cellulare, mescolato a melodie (pare) di Glière.
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Dopo l’intervallo arriva il soprano Karina Gauvin, 47enne canadese francofona, per cimentarsi, con il Coro di Erina Gambarini, nel monumentale Gloria, opera del 1959-60. La cui prima fu diretta il 14 febbraio 1961 dal grande Charles Münch a Boston, città del committente (meglio: della Fondazione del defunto) Koussewitzky.

Un’opera dove – come spesso per la verità – Poulenc ci mette ingredienti mutuati dalla sua fede religiosa, mescolandoli con altri francamente irriverenti, se non proprio blasfemi. Si passa così con la massima disinvoltura da solenni atmosfere chiesastiche a squarci impertinenti di café-chantant (che il nostro frequentava con la stessa frequenza di monasteri e basiliche…) Ma questo è proprio Poulenc, come lui stesso si auto-definiva! Certo, a noi scafati post-conciliari certe cose non fanno effetto, abituati come siamo ad ascoltare (però raramente in sala da concerto) messe rock o pop o variamente esotiche; ma per i nostri papà o nonni o bisnonni di 75 anni fa la cosa non dovette essere troppo digeribile (smile!)

La struttura di questa specie di cantata prevede sei sezioni, in tre delle quali (3-5-6) oltre al classico coro misto (S-A-T-B) udiamo anche la voce del soprano solista. L’orchestra è di dimensioni quasi tardo-romantiche, anche se – per essere un’opera a sfondo religioso – vi manca l’organo.
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Si inizia con il Gloria (tempo Maestoso) aperto da un motivo in SOL maggiore, esposto inizialmente dagli archi, di carattere epico, che si appoggia sulla sensibile:

L’inciso iniziale, come vedremo, tornerà proprio nell’ultima sezione dell’opera. Il motivo è ripetuto, variandone l’armonizzazione finale, per altre due volte, prima dai fiati, poi dai soli ottoni, e fa da introduzione all’ingresso dei bassi del coro che espongono il primo verso:
Esso dà l’impronta al resto del brano, caratterizzato da una struttura di corale, senza alcun contrappunto fra le voci (questa peraltro sarà la caratteristica del tessuto musicale del coro per tutta l’opera: nessuna parvenza di contrappunto, di fuga, di polifonia delle voci).

La chiusura, invero bizzarra - una specie di urletto (biscroma-semicroma) seguito da un accordo (RE-SI) di ottoni gravi, arpa e timpano – sembra anticipare la leggerezza (non in senso nobile, ma quasi offensivo…) della successiva sezione.

Che è Laudamus te (Molto veloce e gioioso, tonalità base DO). Introdotto da ridicole crome dei tromboni, ha per lo più un ritmo sincopato, jazzistico (in termine di metrica, antispasto: corta-lunga-lunga-corta) qui esemplificato:

Sul Gratias agimus abbiamo un momentaneo ritorno alla serietà dovuta al… luogo. Ma dopo che il Propter magnam gloriam tuam (in MIb) ci aveva illuso di un rinsavimento del compositore, ecco che torna il Laudamus a smentirci, chiudendo addirittura con una specie di sberleffo:
Per fortuna col successivo Domine Deus (Molto lento e calmo, SI minore) dal piano-bar si torna… in chiesa ed il soprano fa la sua prima apparizione, cantando una severa e nobile melodia, subito accompagnato dal coro:
Tutta a sezione (strutturata in tre parti, A-B-A) mantiene una grande compostezza, meritandosi l’ammirazione e i giudizi positivi che sempre l’hanno accolta.

Ecco però subito dopo un’altra stramberia di Poulenc, con il Domine Fili unigenite (ancora Molto veloce e gioioso, tonalità base SOL) che già dalle prime battute degli archi mostra tutta la sua vena dissacrante:
E anche la chiusa è in linea col resto: una specie di sberleffo.

Il successivo Domine deus, Agnus dei (Ben lento) reintroduce la giusta atmosfera. Gli strumentini sembrano proprio imitare l’organo, nella loro introduzione, prima che il soprano faccia la sua seconda apparizione:
Tutta questa sezione è magistralmente condotta da Poulenc attraverso continue variazioni armoniche (la tonalità è sempre sfuggente, in chiave mancano gli accidenti) che restituiscono splendidamente il significato del testo, il richiamo al Signore perché tolga i peccati del mondo.

Il conclusivo Qui sedes ad dexteram Patris (tempo Maestoso, poi Allegretto, SOL maggiore) torna ciclicamente all’origine, a partire dall’inciso che avevamo udito negli archi e che ore compare negli ottoni:

Esso tornerà ancora a sottolineare i passaggi salienti del brano. Uno dei quali è rappresentato dall’ingresso del soprano, sulla prima comparsa dell’Amen:
Mirabile la chiusa, sulla dominante RE, ultima nota emessa dal soprano, esalando l’ultimo Amen.
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Marshall ha tenuto, come per il resto della serata, tempi sempre assai serrati e direi che la cosa sia del tutto condivisibile. Il coro ha risposto molto bene, sui suoi standard di alto livello. La rotondetta Gauvin ha sciorinato una bella voce, forse un poco sforzata e troppo di petto negli acuti, ma insomma ha contribuito al successo di questo originale (per non dire bizzarro) Gloria.
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Maggio vede il ritorno sul podio di Zhang Xian con ben tre concerti consecutivi, il primo dei quali fondato su con un’accoppiata… di famiglia.

19 aprile, 2013

Orchestraverdi – concerto n.31


Wayne Marshall si ripresenta in Auditorium con un programma tutto pepe.

Intanto, ancora anniversari: stavolta ricorrono i 50 anni dalla morte di Francis Poulenc, autore che monopolizzerà anche il prossimo concerto (ancora con Marshall). Allora approfitto per allegare uno scritto su Poulenc di Marco Spada per Musica&Dossier del luglio 1993.

Si apre quindi con il Concerto per due pianoforti, interpretato da Benedetto Lupo e dal residente Simone Pedroni. Opera non ancora della maturità, composta nel 1932, poco dopo l’uscita dei due concerti raveliani, ma già esempio di quel sincretismo (per qualcuno: volgare kitsch) che caratterizza molta della produzione di Poulenc. Opera ricca di atmosfere classicheggianti, mescolate a effetti esotici (il gamelan che Poulenc aveva conosciuto in occasione dell’Esposizione coloniale di Parigi del ’31) ed anche a motivi da piano-bar o da organetti da strada.

Meticolose le indicazioni presenti sul frontespizio della partitura Salabert, dove si legge, ad esempio, che in nessun caso va modificato il numero degli archi (8-8-4-4-4) e dove viene indicata la disposizione degli strumenti, di fatto quella ormai tradizionale con i violini a sinistra e gli altri archi a destra del podio:
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Il Concerto si compone dei tre tradizionali movimenti, ma strutturati al loro interno con molta libertà e spesso con (solo apparente?) caoticità. Così l’iniziale Allegro ma non troppo (in RE minore) è per buona parte un movimento lento. La sezione iniziale, dopo una breve introduzione aperta da due secchi accordi e che bizzarramente salta dalla tonalità di RE a quella di DO# (!), espone almeno tre motivi (in RE minore, Fa maggiore e DO maggiore):
Si noti nel primo, dopo le veloci discese, l’inciso di 4 crome, tutto mozartiano. Il secondo è vagamente marziale, il terzo sembra una impertinente parodia di musiche di film muto. I motivi in maggiore sono sempre intercalati da quello in minore, che poi si trasforma in un vorticoso moto perpetuo (tipo Sostakovich…) portando ad una sezione Lento subito, dove si presenta un tema elegiaco, in DO minore, che poi sfuma modulando ripetutamente, verso LA minore:
Ecco poi il ritorno (Subito Tempo I°) all’Allegro, con un nuovo motivo in MIb:

Ma subito - Un poco affrettando (Pressez un peu) – ecco che l’atmosfera cambia ancora, con un pesante intervento dell’orchestra, cui però i pianoforti rispondono in modo impertinente, riproponendo il tema in DO maggiore, cui segue ancora un passaggio in MIb che conduca ad un nuovo Lento subito, solo due battute di intervento degli archi e tre di pausa interrotta da uno schiocco di castagnette. Ecco poi il Molto calmo (Très calme) in SIb, dove i due pianoforti instaurano un tappeto di sgocciolanti semicrome sulla quale emerge un languido motivo:

È una tipica atmosfera da gamelan, che si trascina fino alla chiusura del movimento, con un irridente sberleffo dell’ottavino seguito da due semplici accordi dei pianoforti. Insomma, a parte qualche parvenza di forma, con ripresa di motivi, il tutto più che un primo tempo di concerto sembra una fantasia, un put-pourri di motivi più o meno gradevoli buttati lì in qualche modo; insomma, una narrativa che si fatica assai a comprendere.

Il Larghetto centrale, in SIb come la chiusa del precedente movimento,  è spesso apparentato a Mozart (il K467) ma personalmente l’incipit del motivo conduttore mi ricorda caso mai Domenico Scarlatti:

Dopo che il tema è stato ripreso in MIb, con ampi interventi dell’orchestra, ecco un secco accordo preparare l’arrivo di una sezione centrale Molto più andante  (Beaucoup plus allant) in chiave di FA minore dove i solisti presentano un caratteristico tema danzante (semiminima puntata – croma):

L’orchestra interviene poi a ribadirlo, quindi ancora i solisti tornano in primo piano per riportarci (Tempo I°) al tema principale in SIb, su cui si chiude il movimento, con un secco accordo dei due pianoforti.    

Il Finale è una vaga specie di Rondò, Allegro molto che inizia in RE maggiore con un tema spigliato esposto dal solo primo pianoforte, che poi dà il cambio al secondo per una risposta in SI maggiore. Si modula poi a SIb minore e quindi DO maggiore, dove appare un nuovo motivo. Poco dopo sembra persino di ascoltare una parodia di funiculì-funiculà:


Più avanti, dopo una specie di rincorsa folle, su un Rallentando (Céder un peu) ecco un nuovo motivo, esposto dal primo pianoforte:


Motivo che il secondo solista ripete una quinta più in alto e che poco dopo ritorna, variato, per avviare la conclusione del concerto, su un tempo Agitato (Agité) dove una melodia con pesanti accordi ribattuti porta (ancora su un rallentando) ad una specie di cadenza lenta del primo solista, cui rispondono gli archi in modo davvero romantico. Tornando a Tempo I° subito i due pianoforti si esibiscono in un’accelerazione chiusa da una battuta di pausa. Dopodiché tornano sonorità gamelan, create dalle ondeggianti crome dei due pianoforti, prima del precipitare degli accordi conclusivi di RE minore.
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Per la cronaca, Marshall ha ampiamente disatteso la prescrizione sul numero di archi, schierando praticamente l’intera sezione de laVerdi; al piano-1 si è seduto Pedroni, al piano-2 Lupo.

Ottima l’esecuzione dei sue solisti, ben assecondati da Marshall, che evidentemente trova qui ambienti vicini alle sue attitudini estetiche. Grandi applausi e bis con un walzerino dove fa capolino o mio babbino caro
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Il clou della serata è la Swing Symphony di Winton Marsalis. Come dice il titolo, una sinfonia in 6 movimenti di swing, il che pienamente giustifica la presenza, insieme all’orchestra principale, di una Jazz-band coi fiocchi, quella di Paolo Tomellieri.

La prima avvenne a Berlino meno di tre anni fa, con Simon Rattle, i Berliner e il complesso Jazz at Lincoln Center dello stesso Marsalis, presente con la sua tromba:




Poi ne fu fatta una rappresentazione arricchita da bellissime e sgargianti coreografie: chi è registrato (operazione peraltro gratuita e semplice) alla Digital Konzert Hall dei Berliner si può godere quella performance.

Qui in Auditorium l’esecuzione era stata originariamente programmata nella stagione scorsa, poi a causa di conflitti di interesse fra istituzioni musicali (e… ubi Albion, minor cessat) fu rimandata a quest’anno.

La band di Tomellieri era schierata al centro, davanti al direttore, praticamente circondata dall’orchestra principale.

Una straordinaria prestazione di tutti e un successo incredibile, a dimostrazione che l’idea di coniugare generi musicali diversi è tutt’altro che peregrina, anzi può dare risultati davvero eccellenti.
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Prossimamente ancora e solo Poulenc, sempre con Marshall. 

17 aprile, 2013

Normariella ci prova a Bologna


Uno degli eventi più attesi del millennio (smile!) si sta consumando a Bologna, dove è in scena una Norma… fuori-norma. O almeno tale ritenuta da molti sacerdoti del culto del soprano drammatico, che considerano una bestemmia e una provocazione che il ruolo della terrificante sacerdotessa gallica venga sostenuto da una vocina più adatta, caso mai, ad impersonare la mite e patetica Adalgisa. (La quale Adalgisa, per inciso, qui è Carmela Remigio, che fa la… pendolare - smile! - proprio dal ruolo di Norma, quasi a dimostrazione che l’uno vale l’altro, ahahaha!)

Personalmente mi tengo alla larga da simili diatribe, anche perché se l’alternativa è fra un soprano drammatico che bercia e uno leggero che canta, ho pochi dubbi sulla scelta…  
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Sui contenuti e sul soggetto (e le incongruenze storico-geografiche) dell’opera ho già dissertato (smile!) in occasione di una rappresentazione di un anno addietro al Regio torinese, e colà rimando l’eventuale lettore masochista… Allego piuttosto uno scritto di Friedrich Lippmann su Bellini, apparso su Musica&Dossier nel giugno 1987.

Dirò quindi due cose sull’allestimento di Federico Tiezzi, una co-produzione del triangolo Bologna-Trieste-Bari (al Petruzzelli andò in scena nel lontano e infausto 27 ottobre 1991).

Le tre immagini che seguono danno vagamente l’idea delle diverse prospettive sotto le quali si può vedere l’opera: la prima (ripresa al San Carlo nel 1987) riproduce quella di Alessandro Sanquirico per la prima alla Scala del 1831, in cui è evidente lo stile neoclassico; la seconda presenta un bozzetto di Felice Casorati (atto IV, quadro II) del 1935 per il Maggio, un approccio chiaramente realista e paganeggiante; la terza mostra la celebre struttura lignea astratta di Mario Ceroli, per l’allestimento di Mauro Bolognini, che imperversò alla Scala per anni, a partire dal 1972.



Ecco, Tiezzi e lo scenografo Pier Paolo Bisleri (che riprende i fondali originali di Mario Schifano) propongono un’ambientazione, diciamo, sincretizzata, dove troviamo qualche riferimento neoclassico (colonne-quinte) e naturalistico (alcuni fondali) innestati su una base simbolista, rappresentata dall’Irminsul stilizzato e dalla Luna di Schifano). La scena è quasi sempre sgombra, o popolata da pochissimi oggetti. I costumi di Giovanna Buzzi sono anch’essi di epoche diverse: ottocenteschi-napoleonici quelli dei romani, più neoclassici (vedi le lunghe tuniche) quelli dei galli. Anche le suppellettili di casa-Norma (ridotte peraltro a due sedie e poco più) sembrano settecentesche, mentre il trenino-giocattolo del figlio della profetessa ci riporta necessariamente nel primo ottocento.

I movimenti dei personaggi e delle masse sono in sintonia con l’austerità delle scene (e del libretto) e tutta la regìa è quindi orientata alla concentrazione sui conflitti psicologici che caratterizzano il soggetto. Il che è da apprezzare in pieno.
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Della parte musicale dirò subito – tanto per introdurre il discorso-Devia – che Casta Diva è stata cantata in FA e non in SOL (tonalità originaria in cui fu composta la cavatina, ergo più adatta ad una voce… leggera) e che quindi la Mariella si è attenuta alla tradizione, senza cercare di… approfittare di una circostanza teoricamente a lei favorevole. Qui abbiamo la sua performance alla prima, dove si può notare un particolare interessante, che testimonia dell’originalità e della cura che la Devia ha messo nella sua preparazione: l’esposizione della prima frase, a 2’15” (a noi volgi il bel sembiante) è eseguita scrupolosamente secondo partitura, con la salita dal SI naturale al LA acuto (sillaba sem) seguita da 3 forcelle sul bian, poi da un respiro e quindi dalla quarta forcella sul LA con salita al SIb acuto e successiva discesa all’ottava inferiore (sempre sulla sillaba bian); invece alla ripresa del motivo (spargi in terra quella pace) a 5’00”, la Devia, dopo la salita dal SI al LA (sulla parola quella) canta anche la parola pace tutta in legato, senza forcelle e senza prese di fiato intermedie (respira più avanti, prima di che regnar):


Un esempio credo legittimo, questo, di intervento sullo spartito, intervento del tutto normale ai tempi del bel canto, dove era anzi richiesto all’interprete di portare, nelle ripetizioni, il suo valore aggiunto rispetto all’originale.  

Ora, avanzare accademici distinguo sulla prestazione della Devia sarebbe non solo irrispettoso verso la straordinaria professionalità di questa cantante, ma anche piuttosto pretestuoso e scarsamente sostenibile proprio in termini estetici: perché ciò che conta è – anche qui, come in politica o nello sport - il risultato. E il risultato complessivo (parlo ovviamente per me e per nessun altro) è stato più che soddisfacente (per gran parte del pubblico… anche di più, a giudicare dal calore generale dell’accoglienza riservata alla protagonista). E non solo per il Casta Diva, ma per l’intera performance della Devia, culminata in un In mia man alfin tu sei, dove la Mariella, oltre ad evitare il naufragio, ha tirato fuori unghie insospettabili!  

L’altra peculiarità di questa edizione – in omaggio al Wagner bi-centenariato, ma anche in ragione dell’ammirazione incondizionata che il genio di Lipsia nutriva per Bellini e a conferma della vocazione wagneriana di Bologna - è rappresentata dall’impiego della variante (Norma il predisse, o Druidi, WWV52) composta da Wagner a Parigi (1839) per l’aria di Oroveso che nell’originale belliniano inizia con Ah, del Tebro al giogo indegno (scena V, atto II, brano invero splendido e con chiari rimandi tematici al precedente Non partì). Ecco il fascicoletto col contributo wagneriano fare capolino dal volume della partitura di Mariotti, nel bel mezzo dell’atto secondo:


Detto fra noi, e con tutto il rispetto per Wagner (sia ben chiaro) a mè mme pare… ‘na padanada! Ci si sente qualche folata dell’Holländer (toh!) mescolata a scimmiottature dei Puritani, compresa la conclusione con un protervo accordo generale, laddove Bellini chiude in pianissimo! Insomma: una cosa davvero deplorevole, che francamente ci poteva essere risparmiata!
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Del cast di Torino-2012 tornano qui alcuni protagonisti, a cominciare dal padrone di casa Michele Mariotti, il quale conferma in pieno la sua notevole caratura, oltre che il suo approccio all’opera: tempi piuttosto trattenuti, è vero, ma mai grevi, né tali da spossare i cantanti; attacchi sempre precisi e controllo appropriato del volume, attenzione alle minime sfumature… insomma, una direzione autorevole (a proposito, scusate, voi lassù in cima alla Scala… state mica cercando qualche giovine al posto di Barenboim?)

Poi Aquiles Machado, che magari col tempo è un filino migliorato, anche se ancora non mi è parso un Pollione veramente all’altezza (e viene il dubbio che difficilmente lo sarà mai, ahilui). Infine Gianluca Floris, che è stato un Flavio dignitoso.

Sergey Artamonov è un Oroveso di gran presenza scenica; quanto al canto… non mi ha proprio entusiasmato. In più, non vorrei che abbia messo lo zampino nella scelta dell’aria wagneriana, solo per esibire qualche nota (e nemmeno perfetta) in più…  

Carmela Remigio in Adalgisa mi pare stia proprio a… casa sua. Una prestazione pulita e convincente, una partner ben affiatata della Norma di Mariella.

Alena Sautier ha dignitosamente interpretato Clotilde.

Più che apprezzabile anche la prestazione del Coro di Andrea Faidutti, capace di rendere al meglio sia le parti più platealmente enfatiche, che quelle intimistiche, come l’intercalare su Casta Diva.  
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Come detto, gran trionfo per Mariella e per tutti (comunque qualche dissenso, nel clamore generale, mi è parso di percepirlo…): una Norma che magari non farà storia, ma che a chi ha avuto la ventura di assistitervi (senza pregiudizi, come il sottoscritto) ha davvero lasciato il segno!

15 aprile, 2013

DonCarlo festeggia i 40 anni del Regio moderno


Mercoledi 10 aprile si celebravano i 40 anni dalla riapertura (con rocamboleschi Vespri) del teatro torinese (i festeggiamenti proseguiranno sino a fine giugno) e Don Carlo è stato scelto per onorare la ricorrenza (poi per una qualche insondabile ragione la prima è slittata di 24 ore…) Ieri la seconda, in un teatro piacevolmente gremito in ogni ordine di posti. E dove alla fine il pubblico si è accalcato sotto il palco per tributare un autentico trionfo a tutti i protagonisti, non essendosi risparmiato prima applausi a scena aperta al termine di tutte le stazioni di questo meraviglioso calvario che è il Don.

Qui siamo proprio in un teatro-della-città, che i cittadini sentono come loro proprio e di cui giustamente apprezzano la serietà, la professionalità e lo stare-con-i-piedi-per-terra, fornendo prodotti di qualità senza pretendere (non essendolo) di essere i primi al mondo e soprattutto senza pretendere di attribuirsi porzioni sproporzionate dei finanziamenti pubblici. Il riferimento alla Scala è evidente: il quale ormai non è più il teatro dei cittadini milanesi, ma è una meta turistica per stranieri neo-ricchi, dove la maggioranza del pubblico passa di lì per caso e, soprattutto, senza cognizione di causa.
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Lo spettacolo riprende l’allestimento del 2006 di Hugo de Ana, mentre sul podio sale il padrone di casa, Gianandrea Noseda da Sesto San Giovanni.

Regìa che gli snob con la puzza al naso tacceranno di ammuffita musealità (o di zeffirellite rafferma) poiché le scene copiano quasi alla lettera le architetture dell’Escurial e di Valladolid, i costumi sono precisamente quelli che vediamo nei quadri e nelle pitture cinquecentesche e ciò che avviene in palcoscenico è al 100% rispettoso delle didascalie prescritte in partitura. Ah, che noia, che barba, che noia, vuoi mettere qualche bel cappottone ddr e l’ambientazione nella Dallas di JR ?!

Per la verità la regìa, col Don Carlo (o Carlos) un problemino ce l’ha sempre, ed è una faccenda di… taglie: datosi che il povero Infante, all’inizio del secondo atto, deve scambiare la Eboli per la Regina (della quale Regina conosce meglio di chiunque altro, e per evidenti ragioni, le… dimensioni, smile!) è necessario che soprano e mezzosoprano che impersonano le due signore abbiano corporature almeno vagamente compatibili. (La benda che copre l’occhio offeso della Eboli non è un problema, essendo prudentemente nascosta dalla maschera e dal velo da lei indossati.) Ora, la defezione della Frittoli (annunciata dall’altoparlante alle ore 14:29) sostituita dalla Kasyan (che ha due taglie in meno…) qui ha provocato invece un palese… scompenso volumetrico, talchè ha fatto piuttosto sorridere il Carlo che scambiava la giunonica Barcellona per l’esile georgiana (cose che capitano solo in teatro, smile!)  
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Ma a proposito di inverosimiglianze, sappiamo che il dramma di Schiller e il libretto di Méry-DuLocle, mentre presentano uno sfondo storico-politico assolutamente rigoroso, contengono invece una versione ampiamente romanzata e fantasiosa delle relazioni personali intercorrenti fra Carlo, Elisabetta e Filippo.

Per fare un minimo di chiarezza storica, bisogna ricordare alcune date: Filippo II (nato nel 1527) succede al padre Carlo V (tramite abdicazioni successive) nel 1556-58 (Carlo V muore appunto nel ‘58). Ha già all’attivo due matrimoni, dal primo dei quali è nato il Carlo della nostra vicenda, nel 1545. Quindi quando Filippo eredita (parte del) l’impero del padre, ha 29 anni e suo figlio Carlo ne ha 11.

Veniamo ora ai due giovani: ammesso che si siano incontrati a Fontainebleau, la cosa deve essere avvenuta assolutamente prima del 1559 (anno del matrimonio, il terzo, di Filippo con Elisabetta). Ora, a quel tempo DonCarlo ed Elisabetta (che erano coetanei, classe 1545) avevano 12, massimo 13 anni! Praticamente dei bambini insomma, le cui eventuali promesse di matrimonio corrisponderebbero a quelle che oggi si fanno due sbarbati delle scuole medie! (Invece pare verosimile che i due fossero destinati, magari a loro insaputa, ad un qualche matrimonio di Stato).    

È storicamente accertato che Filippo sposò Elisabetta nel 1559, quando lui aveva 32 anni e la francesina ne aveva solo 14, e ancora stava uscendo dalla pubertà (ebbe la prima gravidanza, abortita, 5 anni dopo). Ed è verosimile che i fatti narrati nell’opera siano anteriori al 1564, anno in cui Elisabetta ebbe appunto la prima delle sue 4 gravidanze (successivamente ebbe due femmine - ’66 e ’67 - e un altro aborto nel ’68). In effetti il libretto reca l’indicazione verso il 1560: il che comporta che Carlo ed Elisabetta, ai tempi dello scandalo narrato nell’opera, dovessero avere 15 anni al massimo (!?)

Quanto a Filippo, che spesso viene rappresentato come un ottuagenario decrepito, aveva appunto 32 anni quando sposò Elisabetta, e 33 ai tempi della vicenda dell’opera, il che contrasta abbastanza con il crin bianco da lui stesso citato nella famosissima Ella giammai m’amò… Però qui a Torino Filippo è impersonato nel primo cast dal 36enne Abdrazakov, il che tutto sommato rende giustizia alla… storia!  
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Tornando a bomba, la versione rappresentata al Regio è Don Carlo e non Carlos, dal che si deduce essere quella in italiano (Scala 1884) e in soli (smile!) quattro atti (3 ore nette di musica) avendo abbandonato oltralpe l’idilliaco Fontainebleau. Edizione qui meritoriamente esente anche da pseudo-filologie-a-buon-mercato (tipo riscoperte dell’america di Peregrine o Lacrymose assortite, per intenderci, o di pagine di partitura rifatte di sana pianta da Verdi medesimo in occasione dell’edizione scaligera).

Per gli aficionados di Radio3 allego, dall’archivio di Musica&Dossier, due scritti sull’opera verdiana, apparsi sui numeri di aprile 1988 e di novembre 1992 a firma di due vecchie conoscenze: Stefano Catucci e Guido Barbieri.
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Come detto, ieri gran trionfo per tutti gli interpreti, fra i quali mi sembra spetti di diritto la priorità di menzione a Svetlana Kasyan, che ha dovuto forzatamente anticipare il suo debutto di due giorni, causa l’indisposizione della Frittoli. Bene, questa giovane georgiana, alle prime esperienze forti, è stata davvero una piacevolissima sorpresa, mostrando grande tecnica, una bella voce e soprattutto una sicurezza da cantante navigata: per essere un esordio, davvero splendido.

Accanto a lei un Ramón Vargas abbastanza efficace, senza sbavature, anche se la voce non è abbastanza… eroica (non sempre, ovvio, ma quando ciò sarebbe necessario).

Ildar Abdrazakov è un Filippo convincente (come detto, anche… anagraficamente): voce calda e mai cavernosa, bella espressività e portamento davvero regale, incluse le tremende contraddizioni che animano il personaggio.

Ludovic Tézier per me ha fatto un figurone: un Posa di grande spessore e autorevolezza, cui è difficile trovare lacune.

Molto bravo anche Marco Spotti, che ha restituito con durezza, ma senza esagerazioni macchiettistiche, la figura dello sbifido cerbero Inquisitore.

Roberto Tagliavini ha dignitosamente prestato la sua voce (che arrivava più che altro dalle… profondità della cripta) al Frate-CarloV.

Lascio per ultima Daniela Barcellona: dopo la (tutto sommato) positiva comare Quickly alla Scala, la statuaria mula triestina si cimenta in un altro, e invero impegnativo, ruolo verdiano: quello di Eboli. Ecco, una prestazione di livello non assoluto, stante le caratteristiche… somatiche della sua voce, che non collimano precisamente con quelle del personaggio, soprattutto nelle scalate più ardite. Tuttavia un risultato complessivo più che accettabile, raggiunto anche, se non soprattutto, grazie alla impeccabile capacità di stare in scena.     

I comprimari erano Sonia Ciani (Tebaldo en-travesti) Erika Grimaldi (Voce dal cielo) Dario Prola (Lerma) e Luca Casalin (Araldo).

Fabrizio Beggi, Scott Johnson, Federico Sacchi, Riccardo Mattiotto, Franco Rizzo, Marco Sportelli (gli ultimi tre sono membri stabili del Coro del Regio) hanno ben recitato la parte dei bistrattati Deputati fiamminghi.

Sempre all’altezza il Coro di Claudio Fenoglio, sia nelle parti di canto arcano e sommesso dei frati, che in quelle di grande e smaccata sonorità, davanti ad Atocha.

Il Kapellmeister Noseda si conferma ancora una volta solido ed affidabile concertatore: cava dall’orchestra i suoni più cupi e introversi, come i fracassi più enfatici. Guida le voci da par suo, senza mai metterle in difficoltà e tiene tempi mediamente serrati, senza però andare mai oltre i limiti della correttezza interpretativa. Insomma, un nome, una certezza!
  

12 aprile, 2013

Orchestraverdi – concerto n.30


Oleg Caetani (Markevitch) si ripresenta al suo affezionato pubblico con una cosa (relativamente) moderna che apre la strada a Mahler

Dapprima l’ex-bambino-prodigio armeno Alexander Chaushian (oggi rispetto al video ha una trentina d’anni in più e… tutti i capelli in meno, smile!) interpreta il Concerto per violoncello di Witold Lutoslawski. Opera scritta su commissione della Royal Philharmonic Society, dedicata a Slava Rostropovich e da questi eseguita in prima assoluta a Londra nel 1970 (qui autore e interprete insieme).

Lutoslavski vi sperimenta alcune delle sue più o meno geniali trovate (lui si inventò anche una sua personale dodecafonia) come ad esempio l’aleatorietà (limitata) degli sviluppi dei suoni: in alcune sezioni (normalmente definite ad-libitum) gli strumentisti sono liberi di suonare le note scritte in partitura (certo, non altre!) un po’ come pare e piace a loro, quindi non rispettando necessariamente la sincronizzazione dei propri suoni con quelli dei colleghi, ma limitandosi ad obbedire ad un cenno del direttore che segnala (anche lui a sua discrezione) la fine dell’ora d’aria e il rientro in cella (smile!) cioè l’allineamento di tutti in vista del passaggio alla sezione successiva. In queste sezioni si ottengono quindi sia tempi che armonie variabili ad ogni esecuzione, i primi legati alla sensibilità del direttore, le altre ai limiti consentiti dalle possibili combinazioni delle note dei diversi strumenti che suonano insieme. Eccone un tipico esempio:


Al battere del direttore sul segno (7) le tre trombe entrano in modo aleatorio (cioè non necessariamente in sincrono) e ciascuna esegue la sua parte indipendentemente dalle altre. Le armonie derivanti dalla sovrapposizione dei suoni dei tre strumenti sono quindi aleatorie, ma limitatamente a quelle rese possibili dalle combinazioni (casuali) dei suoni emessi dai tre strumenti.

In questo caso la prima tromba suona dei LA e dei DO# (su ottave diverse); la seconda suona dei LAb e dei RE (sempre su diverse ottave) e la terza suona dei SOL e dei MIb (ancora su diverse ottave). Ne consegue che le armonie possibili sono date dalle 8 combinazioni dei 6 suoni (a 3 per volta) più i rivolti derivanti dalle diverse altezze (di ottava) degli stessi 6 suoni di base. Per esempio, ne possono uscire dei cluster (tipo SOL-LAb-LA) o accordi di nona costituiti da due quinte sovrapposte (SOL-RE-LA) e così via permutando…

Essendoci un segno di da-capo sui righi delle tre trombe, la sezione viene rieseguita. Quando il direttore segna il battere (8) i tre strumentisti devono finire le rispettive sezioni e tacere fino al nuovo battere (9) del direttore, dove inizia una nuova sezione.

Insomma, una specie di caos organizzato! Che trova il suo culmine qui, all’inizio del finale, dove 23 fiati, 3 percussionisti, il pianoforte e tutti gli archi devono suonare ciascuno indipendentemente dall’altro (leggere attentamente la nota a piè pagina) e dove in verticale compaiono tutte le 12 note della scala cromatica!


Altra caratteristica della scrittura (soprattutto per il violoncello, ma anche per gli altri archi) è la notazione di quarti e trequarti di tono; che serve a far produrre all’esecutore intervalli inferiori al semitono, ma più netti rispetto ai tradizionali glissando. I simboli usati e il loro significato sono riportati nella prefazione alla partitura. Ecco un esempio di queste notazioni sulla parte del violoncello solista:

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La struttura del concerto prevede quattro segmenti, che si susseguono senza soluzione di continuità e configurano una vera e propria tenzone sonora fra il solista (saltuariamente spalleggiato da altri strumenti) e gli ottoni, che sembrano impersonare un nemico, o un’autorità piuttosto… tirannica:

1. Introduzione affidata al solo violoncello, a mo’ di cadenza; alterna momenti di annoiata staticità (semicrome di RE ad intervalli di 1 secondo e in numero variabile da 10 a 20, con agogica indifferente) a guizzi improvvisi e spiritosi (grazioso, un poco buffo ma con eleganza, flautando, marziale) che si vanno infittendo per poi ricedere il posto all’atmosfera indifferente, dove però le semicrome di RE si trasformano in semibiscrome ribattute, oppure vengono precedute da acciaccature, a nota singola, poi doppia, poi tripla. Qui arriva una prima brusca intromissione delle tre trombe, che pian piano (dapprima singolarmente, poi insieme) prendono il sopravvento sul povero RE del violoncello, fino a zittirlo completamente.

2. Quattro episodi - protagonista il violoncello dialogante con strumenti diversi - interrotti da altrettante irruzioni degli ottoni.
Nel primo episodio la linea del violoncello, sempre caratterizzata da momenti di sonnolenza rotti da improvvisi risvegli, viene sporadicamente accompagnata dall’arpa, poi anche da clarinetto e violoncelli, quindi da viole, altro clarinetto, ancora da tutti gli archi, poi dalle percussioni (timpani, tomtom e tamburi, rullante e senza corde); sono proprio le percussioni ad accompagnare il solista fino all’irruzione della tromba, quindi – dopo una timida risposta del violoncello - di altra tromba e tromboni, che troncano l’episodio.
Nel secondo il violoncello dialoga con clarinetti, arpa e poi anche con il pianoforte; quindi entrano altre percussioni (vibrafono e campanelli) con tutti gli archi; poi ecco anche flauto, clarinetto basso, campane e celesta, cui si aggiunge il pianoforte; c’è poi un tutti che si spegne lasciando in vita, accanto al violoncello che si agita sempre più, soltanto poche percussioni, prima che un trombone intervenga perentoriamente, spalleggiato poi da altri due, a por fine bruscamente all’episodio, con il violoncello che sembra proprio un cagnolino, redarguito dal padrone, che si va ad accucciare.
Nel terzo episodio abbiamo interventi di percussioni, pianoforte, arpa e clarinetto basso, poi un frusciante passaggio di flauti e clarinetti, quindi ancora percussioni e poi celesta, arpa e pianoforte, mentre il violoncello si muove sempre alternando momenti di quiete a scatti improvvisi, sull’ultimo dei quali arrivano, proterve, le tre trombe a ristabilire… l’ordine.
Il quarto episodio è una specie di crescendo in cui entrano praticamente tutti gli strumenti, salvo gli archi alti: anche qui sono le tre trombe ad intervenire, dapprima con scarso successo, visto che violoncello, tastiere e fiati cercano di resistere; ma poi si aggiungono due tromboni a fare una specie di ramanzina collettiva, e così la… ricreazione è finita!   

3. Cantilena, affidata al violoncello solista che, dopo una serie di soliti RE cadenzati, espone meste linee melodiche, caratterizzate da continue acciaccature, supportato dai soli archi, che sembrerebbero quasi volerlo rincuorare; in effetti qualcosa si muove, in corrispondenza dell’entrata di tastiere, arpa e fiati, poi la melopea del violoncello riprende, accompagnata dall’agitarsi degli archi; finchè subentra una specie di crescendo, come di un treno che si mette in moto: violoncello e archi in unisono sembrano voler marciare con decisione verso… dove? e vengono bruscamente zittiti dall’intervento… dell’esercito (smile!) Sono tutti gli ottoni (trombe, tromboni, corni e poi, per poco, la tuba) che impongono una specie di legge marziale che annichilisce il violoncello, mentre gli archi continuano la corsa, ma stridendo precisamente come i freni di un treno che ha innestato la rapida! Gli ottoni (tuba esclusa, ribadiscono la loro autorità, spalleggiati dal pianoforte e portano verso il…

4. Finale, dove protagonista è dapprima l’intera orchestra, in un ribollire di suoni concitati e invero caotici; il violoncello sembra voler cominciare una frase, ma è brutalmente zittito da uno schianto sonoro; poi però riprende a… parlare, suonando una frase abbastanza lunga, ma qui tutta l’orchestra lo interrompe con quattro pesanti semicrome; adesso il violoncello prova per ben cinque volte a smozzicare qualche sillaba, sempre brutalmente interrotto dalle martellanti semicrome dell’orchestra. Poi si fa coraggio e (furioso, recita l’agogica) si imbarca in una serie di volate infarcite di quarti di tono e alternate a note testardamente ribattute, il tutto assecondato da sporadici interventi di tre ottavini, dei tomtom, xilofono, tamburino e campane, infine del pianoforte che precede un primo intervento repressivo di tutti i fiati. 
Adesso l’atteggiamento del violoncello diventa molto patetico, però sfida i tromboni, supportato a tratti da qualche percussione e dai violini, poi dall’arpa, fino al prossimo intervento bruciante degli ottoni. Ancora il violoncello insiste con note doppie ondeggianti, alternate ad altre ribattute con forza, sfidando i rimbrotti di trombe e corni, poi dei tromboni. Ancora intervengono percussioni, arpa, violini e contrabbassi, quindi il pianoforte e poi le viole, sfidando altri interventi di tutti i fiati, poi di corni e tromba e quindi ancora di tutti i fiati e degli archi. 
Ora abbiamo il redde-rationem: l’intera orchestra esplode precisamente 10 cannonate, seguite subito da un’esplosione tremenda (che deve durare dai 12 ai 15 secondi!) e qui il violoncello, accompagnato dai soli archi, si mette letteralmente a guaire come un cane bastonato, dando l’impressione di… tirare le cuoia (perdendo, recita l’agogica).
Sembra tutto finito (male) ma ecco comparire una coda, riservata al violoncello solista, con fugaci interventi di grancassa, archi e arpa. Ora persino gli ottoni paiono restare attoniti, e così il violoncello chiude la faccenda con 10 caparbie ripetizioni di un LA acuto (la dominante del solito RE, innalzata di un’ottava…)
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A dispetto delle ripetute affermazioni del compositore che sempre asserì trattarsi di musica pura, senza alcun riferimento esterno, c’è chi invece vi vede una scoperta allusione (con conseguente denuncia in… suoni) ai conflittuali rapporti fra l’individuo (in particolare l’artista) e le autorità-fantoccio filo-sovietiche che, da Gomulka al famigerato generale Jaruzelsky, nel secondo dopoguerra tennero per decenni la Polonia sotto il tallone comunista, prima che la premiata coppia Walesa-Wojtila mettesse fine allo scandalo. Il violoncello rappresenterebbe l’individuo, che invano cerca di esprimersi liberamente, venendo ogni volta messo a tacere dalla brusca invadenza delle tiranniche autorità (impersonate principalmente dagli ottoni). Peraltro la coda del concerto starebbe a rappresentare la possibilità per l’individuo medesimo di farsi beffe, se non altro nella sfera privata, della prepotenza del regime.

Questa è musica difficile da digerire, tranne forse che per gli esecutori, per via della libertà, sia pur vigilata (che sia anche questo un riferimento alla Polonia del dopoguerra?) di cui possono, una volta tanto, godere e che li mette al riparo da ogni critica sulla correttezza e pulizia degli attacchi (smile!)

In effetti solista e orchestra danno a vedere di divertirsi assai, mentre al pubblico andrebbe magari più a genio qualcosa come lo Schiaccianoci o la Moldava… E qualche dubbio sulle preferenze musicali dello stesso compositore nasce dallo scoprire che – fra una sinfonia e un concerto, diciamo… moderni – lui componeva clandestinamente polke, mazurke e walzeroni a gogò (smile!)

Comunque a Chaushian – che per la cronaca ha eseguito all’inizio 17 RE (l’Autore ne propone dai 15 ai 20!) - e a tutti vanno doverosi applausi per l’impegno profuso, e così l’armeno ci regala un bis con un brano popolare della sua patria lontana.
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Ecco, diciamo che questo antipasto è servito a farci apparire quasi dolciastra nientemeno che la Quinta di MahlerDella quale ho già altre volte scritto qualcosa, per cui mi limito qui a far parlare l’illustre Paolo Petazzi, allegando uno stralcio del suo corposo studio su Mahler, apparso nel settembre del 1989 su Musica&Dossier.

Sinfonia che Caetani ha interpretato con ragionevolezza, quanto a tempi staccati, e cercando di mettere in evidenza tutti i dettagli di questa complessa partitura. Strana invece la disposizione dell’orchestra, un ibrido visto poche volte, con violini secondi al proscenio (come da tradizione alto-tedesca) ma con archi bassi al centro-destra e viole a sinistra, dietro i violini primi… mah.

Purtroppo, dopo una partenza promettente (i primi due movimenti) le cose non sono propriamente andate per il giusto verso, a cominciare dal pasticcio del primo corno (si dice il peccato, ma non il peccatore) precisamente all’attacco dello Scherzo. Dopo un Adagietto un filino stiracchiato, il Finale è stato costellato da una serie di imprecisioni (di ottoni, corni e trombette in particolare, ma non solo) chissà, dovute magari all’abitudine dei ragazzi all’aleatorietà ereditata da Lutoslavski (stra-smile!)   

Gli applausi non sono comunque mancati, da parte di un pubblico assai folto (e questa è una buona notizia comunque).
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Prossimamente una strepitosa primizia (per quanto… rimandata di un anno) con il funambolo Wayne Marshall.