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19 dicembre, 2012

La Lucia del circuito chiude la corsa a Pavia


Dopo essere passata da Como, Brescia e Cremona, la Lucia donizettiana chiude il suo percorso lombardo al Fraschini (oggi la seconda e ultima rappresentazione).

La locandina online (così come il programma cartaceo della stagione del teatro pavese) annuncia un finale a sorpresa: Nel cimitero dei Ravenswood, Edgardo, non potendo sopportare di continuare a vivere senza Lucia, verrà ucciso da Enrico. Ecco, mi ero detto, un’altra invenzione di qualche regista troppo amico dell’alcool (perché nemmeno l’originale di Scott la racconta così…) Invece l’invenzione è evidentemente del redattore del programma, quindi tranquilli, Edgardo si suicida, proprio come da copione, nell’apprendere della fine dell’amata.

E la regìa di Henning Brockhaus è in effetti assai rispettosa dell’originale di Cammarano, limitandosi ad una delle consuete (in questo caso innocue) deviazioni: ambientazione (ma lo si desume solo dai costumi di Patricia Toffolutti, chè altro in scena quasi non v’è) spostata di qualche secolo in avanti nel tempo. Per il resto l’allestimento è dominato dalle immaginifiche scene del compianto Josef Svoboda, che si riducono ad un velario mobile e semitrasparente - sul quale appaiono immagini che rimandano di volta in volta ai contenuti psicologici (o psichiatrici…) del dramma – ad uno scalone che occupa in larghezza l’intero palco e su cui si muove prevalentemente il coro, oltre ad ospitare l’arpa solista nella terza scena; e a qualche semplicissimo piece-of-furniture (un tavolo, una cassa, le bare degli avi miei…)    

Sul piano musicale, il giovane e bravo Matteo Beltrami – che ascoltavo dal vivo per la prima volta e mi ha fatto un’eccellente impressione alla guida dei ragazzi dei Pomeriggi - propone per la pazzia una variante alla tradizionale cadenza Marchesi-Melba, che dà modo a Ekaterina Bakanova di mettere in mostra le sue ottime qualità.

Il sestetto del second’atto è, con la suddetta scena della pazzia, uno dei piatti forti dell’opera: personalmente fatico sempre a liberarmi, ascoltandolo, dal truce ricordo della famosa Balena disneyana (da 25”) che per prima mi portò quella musica alle orecchie, quando ancora portavo le braghe corte (smile!) Un po’ come il rossiniano finale del Tell, cui non mi riesce di non associare quella specie di catena-del-dna che chiudeva le prime trasmissioni TV. Peccato, perché è grande musica, che sembra fare da cerniera fra Bellini e Verdi, incastonata com’è fra il Per te d’immenso giubilo, che richiama il belliniano Suoni la tromba, e il finale Esci, fuggi il furor, di cui Verdi si ricorderà nel Nabucco.

A fianco della Bakanova, dignitosi tutti gli altri (vedi locandina, compreso il sostituto di Giovanni Battista Parodi) che hanno dato vita, con il coro di Antonino Greco, ad un’esecuzione più che accettabile, accolta con (contenuto) entusiasmo dal non proprio oceanico e piuttosto infreddolito pubblico del Fraschini.

Al ritorno a casa, accendo la TV è chi ti trovo? Lord Enrico Asthon che proclama l’abolizione dell’IMU per Ravenswood!  

15 dicembre, 2012

Ultimi strascichi del Freudhengrin della Scala


Ieri sera, in una Scala non proprio esaurita (solo causa-neve?) e ulteriormente spopolatasi nei due intervalli, terza rappresentazione dell’opera che ha inaugurato l’ultima celebrazione centenaria di Wagner (+Verdi) dell’era moderna. Perché dico ultima? Perché son pronto a scommettere (oh... tutte le ricchezze di Berlusconi, mica noccioline eh!) che nel 2113 e oltre, di Wagner e Verdi (e forse, ma questo non è sicuro, anche del suddetto Berlusconi) si sarà persa ogni e qualsivoglia traccia. Gli unici teatri d’opera in attività saranno piccole sale esclusive di Pechino e Shanghai frequentate dall’élite del PCC, dove si rappresenterà ininterrottamente Turandot, tassativamente col finale di Hao Weiya, e con Calaf cantato alternativamente da tenori nordcoreani e tibetani.  

Dell’allestimento di Guth si è già (e ho già) scritto abbastanza, e certo non è che a teatro, dal vivo, le cose siano cambiate rispetto a quanto visto in TV. La sola trasposizione dell’opera in epoca moderna ne comporta l’irrimediabile castrazione (via il testicolo storico, via il testicolo religioso, hai detto niente!) Dopodiché tutto si focalizza su… Hauser e Freud, cioè sulla gratuita psicanalisi di Lohengrin ed Elsa.

Parliamoci chiaro: sovvertire la rappresentazione dei caratteri dei personaggi di un’opera - da come emergono in modo inequivocabile (parole e musica) dal testo originale dell’Autore – per inoltrarsi nella sfera del loro subconscio, o del loro inconscio, è operazione massimamente riprovevole, truffaldina e disonesta, in quanto consente al regista di cambiare a suo piacimento (quindi subdolamente, perché nessuno lo può contraddire, fatti alla mano) e addirittura di stravolgere completamente quei caratteri, con ciò stravolgendo anche l’intero impianto e l’intera natura di quell’opera.

Una volta sconfinato sul terreno freudiano, Guth potrebbe tranquillamente proporci Lohengrin nei panni di Hitler (che pure subì, come Hauser, una reclusione fisica, prima di essere cooptato come Führer) ed Elsa in quelli di Winifred Wagner (che ben sappiamo quale infanzia travagliata avesse vissuto) trasformando l’opera nel racconto delle compromissioni di Bayreuth col Terzo Reich (il che non sarebbe poi nemmeno una novità…)

Per di più, questo trucco è strumento miserabile, perchè buono per tutte le stagioni e per tutte le opere che hanno un tenore e un soprano per protagonisti: applicandosi indifferentemente a Lohengrin-Elsa come ad Alfredo-Violetta o a Pollione-Norma, a Tamino-Pamina e persino a Lindoro-Rosina…      

Ma non c’è bellezza nè genialità di presentazione che possa mascherare la (quasi) totale incoerenza fra l’originale e… l’originato. L’unica eccezione è lo squarcio finale del second’atto, dove la recitazione dei personaggi è consistente con l’originale, ma per la semplicissima ragione che lì era stato proprio Wagner ad introdurre una buona dose di psicanalisi! E a parte questo scorcio, se a Wagner fosse stato chiesto di musicare il soggetto di Guth, non avrebbe tenuto buona una sola nota di quelle che vergò sui pentagrammi del suo Lohengrin. È la musica di Wagner che sconfessa ignominiosamente un Konzept siffatto: it’s the music, stupid! In definitiva, qui da psicanalizzare sarebbe il regista, per scoprirne le remote, oscure e rimosse ragioni del suo disprezzo per questo capolavoro. Siamo quasi ridotti a invocare: aridatece li topi…!

Passando alla musica, ancora un’osservazione che si ricollega alla regìa: dopo la prima, si sono alzate alcune voci dispiaciute per la forzata assenza della Harteros. La cosa inquietante è che il rammarico di costoro non riguardasse l’interpretazione della Elsa di Wagner, ma quella della Elsa di Guth! O tempora, o mores! (ecco perché un tri-centenario non ci sarà…)
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Di Kaufmann ormai si sa tutto ed è inutile sperare che lui cambi (in meglio, s’intende): un grande, anzi grandissimo attore che canta assai bene quando la parte prevede voce aperta e spiegata; per il resto canta di… esofago (o al massimo di naso).

La Harteros essendo tuttora in convalescenza (le presenti nevicate le daranno un motivo in più per disertare anche le restanti repliche? smile!) è stata la Petersen ad impersonare Elsa, facendo quasi quasi rimpiangere la pur modesta Dasch: la dote naturale di voce c’è, e come, ma è tutta potenza che… non si scarica a terra, come direbbe il talent-scout Briatore.

Herlitzius come al solito: ci mette tutto il suo mestiere, che non è poco, però non sempre la foga dà buoni risultati sul piano squisitamente musicale. Comunque ne esce dignitosamente e quasi più applaudita del bel Jonas.

Tomasson è costretto a sbraitare e schiamazzare a più non posso, per non far la figura del… pesce: e così, matematicamente, alla fine (e meno male per lui che è quella del secondo atto, smile!) più non ne può, accidenti a lui.

La professionalità di Pape garantisce qualcosina in più del minimo sindacale, ma francamente non è il massimo per un Teatro che ha le pretese di… Lissner.

Lucic è appena appena meno-peggio di Tomasson, anche se ne mutua l’espressione, costantemente quanto gratuitamente truce; ci dobbiamo accontentare?

I quattro brabantini passano davvero inosservati e soprattutto… inascoltati (smile!

Il coro di Casoni così-così, non so se per colpa della regìa che lo relega quasi sempre all’interno di… ma cos’era, Alcatraz o un Holiday Inn anni ’50?    

Barenboim non mi ha particolarmente entusiasmato: ho l’impressione che – avendo mille impegni, musicali e soprattutto extra - faccia ormai della comoda routine, vivendo sugli allori e cercando di adattarsi alle qualità non superlative della sua orchestra, invece di provare ad alzarne il livello (ma appunto: per questo servirebbe… provare!) Imperdonabile il fracasso del finale primo, dove ha coperto tutte le voci (a parte quella della Petersen). In più ha voluto far vedere (anzi… sentire) che lui rispetta alla lettera la partitura (sarà mica una frecciatina a Guth? smile!) e così nella scena finale, oltre a quelle che suonavano ai due lati in palcoscenico, ha piazzato due coppie di trombe – per nulla impeccabili, fra l’altro - anche in loggione, col risultato di rompere i cog… timpani a qualche decina di spettatori colà dimoranti. Peccato che le didascalie di Wagner prescrivano, oltre alla dislocazione a quadrilatero delle trombe, anche quella di cori e di… cavalli (sic! e Wagner pretendeva fossero in carne ed ossa!) Insomma, questa di Barenboim mi è proprio parsa una gigionata pazzesca.
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Concludo ripetendo una litania che ormai sta annoiando (accezione anglosassone)  anche me medesimo: tra allestimenti lunatici e prestazioni musicali appena sufficienti, l’andazzo scaligero si mantiene su un livello di performance/price ampiamente deficitario. Ho ancora davanti agli occhi (e nelle orecchie) l’accoppiata lagunare Otello-Tristan, che pure non fu certo stratosferica: ebbene, il raffronto è (per monsieur Lissner) piuttosto imbarazzante.

14 dicembre, 2012

Orchestraverdi – concerto n.13


Decisamente questa stagione dovrebbe farsi esorcizzare, perché mai le sono piovute addosso in poche settimane tante defezioni di Direttori. Stavolta a venir meno quasi all’ultimo momento – pare per una banale scivolata - è toccato ad Aldo Ceccato (titolare del ciclo del suo amatissimo Dvorak) e al suo posto sul podio è stato catapultato in fretta e furia il canguro Daniel Smith, un trentenne con la faccia da ragazzino, che bazzica spesso in Italia.

Il programma ha la classica struttura che prevede un brano per orchestra seguito da un concerto solistico e in chiusura da una sinfonia. Il percorso che facciamo è precisamente a ritroso nella cronologia delle composizioni di Dvorak: si parte dal 1896, si retrocede al 1894, per chiudere con il 1880.

L’apertura è quindi affidata al poema sinfonico Vodník, il primo di una fitta serie di cinque che Dvorak compose in meno di due anni, fra il 1896 e il 1897. Brahms era ormai in pensione (morirà proprio nel 1897) e anche Hanslick aveva fatto il suo tempo (tuttavia gli sopravviverà di qualche mese, pur avendo una quindicina d’anni più di lui); insomma, i suoi vecchi protettori erano forse meno agguerriti di un tempo e così lui pensò di potersi affrancare dalla loro soffocante tutela, facendo un’autentica indigestione di quel genere di composizioni che ai due suddetti esteti provocava regolarmente l’orticaria!

Il soggetto letterario della composizione è un poemetto fiabesco di Karel Jaromír Erben, in realtà una fiaba piuttosto truculenta e con una conclusione addirittura raccapricciante: Vodník (letteralmente il folletto acquatico) è una specie di elfo anfibio che si diverte (!?) a catturare belle fanciulle per… usarle e gettarle, trasformandole in pesciolini. E così si prepara a fare anche con una ragazza che, incurante dei profetici avvertimenti materni, si avvicina allo stagno e vi precipita finendo direttamente nelle sue braccia; dopo averla sposata (e prima di essersene stancato) il folletto mette al mondo anche un pargolo, che la mammina cerca di consolare con delicate nenie; le quali fanno però imbestialire lo sposo che minaccia di far fare alla moglie la fine delle altre prede. La ragazza lo impietosisce ottenendo una libera uscita di poche ore per rivedere la madre; l’incontro fra le due è assai triste e viene interrotto dall’elfo che dichiara finita l’ora d’aria. All’opposizione della madre della ragazza di ridargli la figlia, il simpaticone che ti fa? Recapita sulla soglia di casa delle due donne il corpo del figlioletto… in due pacchi separati: uno contenente la testolina e l’altro il corpicino (!!!)    

È davvero incredibile come Dvorak abbia saputo poetizzare questo soggetto, a prima vista ributtante, costruendoci sopra una specie di Rondo dove il tema principale (di Vodník) si alterna in modo mirabile a quelli della ragazza e della madre.

Una curiosità: il dolce tema della ragazza ha certo un fondo di Boemia, ma richiama anche scopertamente (pur con diversa scansione ritmica e tonalità) quello celeberrimo del beethoveniano Freude schöner

Esecuzione più che dignitosa dei ragazzi de laVerdi sotto la guida del… ragazzo Smith.

Riecco poi in Auditorium Enrico Dindo per interpretare quell’autentico gioiello che è il Concerto per violoncello. Del tutto convincente la sua prestazione, che si cala in pieno nello spirito (tardo)romantico di questo capolavoro. Gran trionfo per lui e bis bachiano.

La serata si chiude con la Sesta sinfonia. Pubblicata col titolo di prima, per Dvorak in effetti era la seconda, dato che il compositore considerava le sue prime quattro come semplici esercizi, non degni di essere messi in lista. E chissà che non sia stata questa circostanza a portare Dvorak ad ispirarsi ad un’altra Seconda, ben più famosa, quella del suo quasi-idolo e sponsor Johannes Brahms. Lo testimonierebbero la pastoralità del contenuto e persino la tonalità e il tempo (RE maggiore, 3/4) del primo movimento.

Sinfonia assolutamente legata ai modelli formali classici, mentre i contenuti vengono come al solito dalla tradizione popolare boema (uno su tutti: la furiant che caratterizza lo Scherzo). Opera che però, insieme ad una fresca inventiva, porta con sé anche qualcosa di stucchevole, come di dolciastro e affettato: di certo è (a mio modesto parere) ancora lontana dai risultati che si materializzeranno nelle tre successive sinfonie.

Ottima prestazione dell’Orchestra (eccellente il corno di Amatulli, chiamato a lunghi e difficili passaggi) lungamente applaudita con il suo Direttore… improvvisato.

Ruben Jais ci terrà compagnia con Mozart (e Vacchi) prima di Natale.

09 dicembre, 2012

Cosa non va nel Lohengrin di Guth?


Sì, sì, lo so che farei prima a dire cosa va… me la caverei in mezza riga. Ma siamo qui per cazzeggiare, giusto?

Intanto è doveroso precisare (non vorrei ricevere una richiesta di rettifica, smile!, da parte del drammaturgo) che il Konzept del Lohengrin scaligero è il risultato di una fatica a due mani, compiuta dal regista e dal suo compare Ronny Dietrich.

Il quale pare sia andato a scovare, con perspicacia degna di miglior causa, il vero elemento scatenante del dramma di Lohengrin, nella testa di Wagner. Altro che leggende medievali, come credevamo da 160 anni noi poveri pirla (inclusi individui come Dahlhaus, Newman, Nattiez, Mila, Principe, Serpa…) no no, ciò che ha mosso l’immaginazione di Wagner fu la storia del Fanciullo d’Europa, a nome Kaspar Hauser.

Costui fu un povero ragazzo (quasi coetaneo di Wagner) cresciuto fino ai 15-16 anni fra maltrattamenti e sevizie (sempre chiuso, incatenato, in una fossa buia) che avevano lasciato segni evidenti ed indelebili sulla sua psiche (non sapeva chi fosse, né da dove venisse, e trovava inspiegabile qualunque cosa e minacciosa qualunque persona vedesse intorno a sé) e che Wagner pare avesse incontrato di persona (a 20 anni) a Norimberga poco prima che venisse assassinato. Per di più, il ragazzo era stato affidato per un certo tempo ad un avvocato che per caso era il padre di Ludwig Feuerbach, il filosofo di cui Wagner aveva provvisoriamente abbracciato le idee (prima di traslocare c/o… Schopenhauer).

Ecco allora come la coppia Guth-Dietrich ha costruito il suo sofisma: accertato che Wagner fu colpito profondamente dalla vicenda di Hauser, ne viene di conseguenza che lo stesso è il vero ispiratore - magari nell’inconscio dell’artista (così ci mettiamo anche un po’ di Freud, che non guasta mai) - della figura dell’argenteo cavaliere. Ergo, se Lohengrin è Hauser, allora anche Lohengrin deve essere uno che non sa chi sia, da dove venga, cosa stia a farci al mondo, e perché sia capitato dalle parti di Elsa. Ecco, da questa premessa imbecille (perché totalmente, radicalmente contraddetta dal testo – e soprattutto dalla musica! – del Lohengrin di Wagner) derivano tutte le scemenze di questo allestimento.

Un esempio lampante: ecco come Guth-Dietrich giustificano la loro visione della personalità (Hauser-like) di Lohengrin:

La potente esplosione musicale che accompagna l’entrata in scena di Lohengrin è in sorprendente contraddizione con le sommesse, introverse prime parole da lui pronunciate, che fanno pensare a un uomo confuso più che a uno consapevole del proprio compito.

Ora, a parte che nel terzo atto Lohengrin racconterà - per filo e per segno e con dovizia di particolari - tutto, ma proprio tutto di sé, di Monsalvat, del Gral, di Parzival e dei propri compiti (quando e da chi avrebbe appreso tutto ciò, nel frattempo, devono saperlo solo Guth e Dietrich…) leggiamo il libretto di Wagner in quel punto dove Lohengrin apparirebbe come un uomo confuso, più che consapevole:

(Non appena Lohengrin fa il primo movimento per abbandonare la navicella, su tutti scende un silenzio carico di tensione.)
Lohengrin
(con un piede ancora sulla navicella, si china verso il cigno)
Grazie a te, mio caro cigno!
Attraverso l’ampia distesa dei flutti, ritorna
là donde mi ha portato la tua navicella!
Ritorna, mira soltanto alla nostra felicità,
e così fedelmente si compia il tuo servizio!
Addio! Addio, mio caro cigno!
(Il cigno volge lentamente la direzione della navicella e, nuotando, si allontana dalla riva. Lohengrin lo osserva per un po’, con malinconia.)

Allora, questo sarebbe un uomo confuso e inconsapevole? In preda a convulsioni isteriche, raggomitolato per terra proprio nella posizione cui il suo modello Kaspar era stato costretto  per anni e anni, rinchiuso e incatenato, a piedi nudi (!) in una fossa?

E 20 secondi dopo ecco come Lohengrin scambia i saluti con Re Heinrich:

Lohengrin
(s’inchina dinanzi al Re)
Salute, re Enrico! Propizio e presente
sia Dio accanto alla tua spada!
Glorioso e grande, il tuo nome
mai svanisca da questa terra!
Re
Grazie! Perché io intenda quale sia la forza
che in questa terra ti ha portato, dimmi:
è per voler di Dio che ti avvicini a noi?
Lohengrin
Mia missione, mio compito è scendere in campo
per una fanciulla gravemente
accusata. È tempo che io veda se si fondi
il mio impegno per lei su buon diritto.

Allora, è uno che non sa chi è, né cosa ci stia a fare lì? E che diffida di chiunque lo avvicini e cerca di scansarlo e di nascondersi in tutti i modi? Uno che si muove barcollando come un idiota, mentre il popolo che lo sta accogliendo così lo descrive:

Gli uomini e le donne
(pieni di commozione, sottovoce, sussurrando)
Un dolce, santo brivido ci afferra!
Quale amabile forza ci tiene avvinti!
(Lohengrin si allontana dalla riva e procede lento e solenne verso il proscenio.)
Com’è bello a vedersi, come incede sovrano,
colui che un simile prodigio portò alla nostra terra!

??? E così via, non c’è bisogno di altri dettagli, quindi passiamo a Elsa, così inquadrata dal duo di geni Guth-Dietrich:

Elsa, un essere apparentemente angelico, che si rivela progressivamente come una giovane donna segnata dal suo passato. Proprio all’inizio dell’opera apprendiamo, attraverso Telramund, quali traumatici eventi abbiano marchiato la sua infanzia: la perdita dei genitori, la scomparsa del fratello, di cui per di più è stata incolpata. E lo stesso Telramund, al quale il padre in punto di morte aveva affidato la tutela dei figli, abusa della fiducia di Elsa negli adulti nel momento in cui la vuole come sposa.

Conseguenze di tutto ciò sono, per Elsa, un forte senso di colpa a causa del proprio presunto fallimento nonché un’esagerata ansia da abbandono, il che a sua volta la porta a un’eccessiva idealizzazione del partner. Tra le facoltà caratteristiche di personalità gravate da simili esperienze rientra il “pensiero magico”, analizzato, tra gli altri, da Sigmund Freud. Tale concetto identifica una forma dello sviluppo infantile per cui una persona ritiene che i suoi pensieri, le sue parole o i suoi atti possano influire su eventi che in realtà hanno altre cause, o addirittura provocare un determinato evento.

Quindi: il pensiero magico di Freud? E quindi: l’arrivo di Lohengrin avrebbe altre cause? E quali sarebbero, cari Guth-Dietrich, queste altre cause? Il puro caso, che fa incontrare il povero Hauser e la povera Elsa in un parco (con laghetti e canne) di Norimberga? Oppure dovremmo pensare che tutto ciò che Wagner ci vuol proporre sia null’altro che un sogno di Elsa? Compresi i fatti storici (Heinrich) e il conflitto religioso paganesimo-cristianesimo (Ortrud)?

Ridicolo. In compenso, ecco come Elsa viene descritta dal popolo, mentre si presenta al processo

(Elsa entra. Indugia un po’ nel fondo della scena; poi avanza molto lentamente, con grande timidezza, verso il centro del proscenio. La seguono alcune donne, che però, in un primo tempo, rimangono sul fondo, all’estremo limite della Corte di Giustizia.)
Tutti gli uomini
Guardate! si avvicina, con il suo peso di severe accuse.
Ah! come appare luminosa e pura!
Chi osa darle carico di tanto gravi crimini
dev’essere davvero ben certo della sua colpa.

Ecco, questa sarebbe la descrizione (luminosa e pura!) di una poveretta che ci viene mostrata come una qualunque drogata, e per di più colpevole di qualche misfatto, manifestando i classici tic di queste condizioni, come il grattarsi nervosamente e il cercare perennemente di nascondersi?

Anche qui, non serve entrare in ulteriori particolari per stigmatizzare questa concezione dissacrante e – in fin dei conti – sprezzante, che Guth-Dietrich hanno del capolavoro wagneriano. Il quale viene da loro letteralmente sequestrato, rivoltato come un calzino e rimontato secondo le loro idee lunatiche.

Insomma, un ennesimo caso di volgare adulterazione. Qui sì che ci sarebbe da chiamare i carabinieri, mica - come vorrebbe qualche zelante - per zittire quattro (o quaranta) buhatori di loggione. Dico e ripeto: chi fabbrica e smercia Lacoste e Rolex (o VanGogh) contraffatti, secondo le nostre leggi rischia la galera, o sbaglio? E anche nel caso che i falsi siano più apprezzati, agli occhi di qualche snob, degli originali.   

07 dicembre, 2012

Davvero notevole questo… Kaspar Hauser!


Decisamente, questa nuova opera che la Scala ha commissionato a Claus Guth ha un soggetto intelligente, interessante, di una sconvolgente attualità e di un’assoluta modernità; e per di più è messo in scena in maniera superlativa.

Salta però subito all’orecchio che le parole e la musica di questo mirabile dramma del terzo millennio siano copiate – ma proprio alla lettera, incredibile! – da quelle di un’opera semi-sconosciuta (il cui soggetto sta peraltro agli antipodi rispetto a questo di Guth) di tale Richard Wagner: un vecchio rudere, un residuato bellico di quasi due secoli fa, un’opera romantica (hahaha!) dissepolta da metri di polvere che la ricoprivano in un qualche scantinato di un qualche museo tedesco. Un testo ridicolo e inutilizzabile anche come coadiuvante soporifero per bambini ingenui, e una musica stomachevole, al cui confronto Papaveri e Papere pare Gruppen di Stockhausen… 

Peccato davvero perchè, con un testo e una musica adeguati, questo soggetto di Guth avrebbe tutte le carte in regola per diventare un autentico capolavoro: possibile che non si riesca a trovare un librettista e un compositore in grado di rivestirlo con qualcosa di meno imbarazzante, in modo da farne un’opera immortale?

06 dicembre, 2012

La OSR con Repin in Auditorium


L’Auditorium di Milano ospita, da oggi al 7 aprile 2013, la mostra Costruttori di Armonie, dedicata all’arte della liuteria italiana, una mostra che sarà anche accompagnata da una miriade di iniziative collaterali.

Ieri sera una sontuosa anteprima musicale ha visto sul palco la prestigiosa Orchestre de la Suisse Romande, che raggiunse fama mondiale nel periodo in cui fu guidata dal suo glorioso fondatore Ernest Ansermet e che ancor oggi è fra le migliori compagini strumentali di livello internazionale.

Sotto la guida del giovane ma autorevole Kazuki Yamada ci ha regalato una splendida esecuzione dell’Eroica e delle Antiche arie e danze respighiane (n° 1 e 3 dalla Terza Suite) prima che il virtuoso siberiano Vadim Repin chiudesse da par suo la serata con il (piccolo) Concerto in RE minore di Mendelssohn. Nell’occasione Paolo Bodini, Presidente della Fondazione Stradivari di Cremona, ha affidato a Repin, per i bis (chiusi dal Carnevale paganiniano) un prezioso esemplare di Stradivari di fine ‘700.

Pubblico selezionato (la serata era ad inviti, organizzata da Vacheron Constantin, mecenate della cultura) ma foltissimo quanto caloroso.

05 dicembre, 2012

Lohengrin visto (sommariamente) da Guth


In attesa di vedere (prima in TV e poi dal vivo) questo nuovo Lohengrin, propongo qualche considerazione su ciò che il regista ci racconta in alcune brevi note che immagino compaiano sul Programma di sala e che sono anche accessibili dalla pagina web del teatro. (Non so se è un problema del software di Bill Gates III sul mio computer, ma il link funziona se accedo da Chrome, mentre va a meretrici se accedo da IE, ma pazienza… vuol dire che riporterò anche i singoli passi delle note del regista.)

Nell’opera di Richard Wagner ricorre costantemente un medesimo schema: una persona o un gruppo di persone si crea un salvatore – un idolo – un capo. In virtù di un’apparizione misteriosa e di vaghe dichiarazioni sulla propria vita, questo personaggio attrae su se stesso la proiezione di ideali altrui. Ovvero: sull’individuo vero e proprio in questione viene steso il manto di un modello precostituito. Tutto ciò funziona alla perfezione: il senza patria è amato, ammirato e adorato; i suoi ammiratori hanno trovato qualcuno che colma il loro intimo vuoto e soddisfa il loro anelito. 
  
Intanto mi permetterei umilmente di contestare il costantemente: ciò che Guth presenta come una regola in Wagner, è in realtà riscontrabile, e molto, molto vagamente, in Rienzi, Tannhäuser, Lohengrin e Parsifal; non certo in Holländer, né in Siegfried, né in Tristan e tanto meno in Walther. Nel caso di Lohengrin, è vero che il cavaliere misterioso arrivato da lontano fa subito colpo su Elsa, sul popolo di Brabante e sui seguaci di Re Heinrich, che lo accolgono come l’uomo-della-provvidenza, ma è da dimostrare che su Lohengrin venga steso il manto di un modello precostituito, fondato su ideali altrui. Prendiamo l’aspetto personale: non è certo Elsa a proiettare su Lohengrin i suoi ideali, ma esattamente il contrario: è Lohengrin che pretende di ricevere da Elsa un amore umano che a lui, divino, non dovrebbe essere concesso. Sul piano pubblico, Lohengrin accetta l’investitura a Protettore del Brabante del tutto spontaneamente e senza condizionamento alcuno, tanto è vero che alla fine dà - per così dire - le dimissioni dalla carica non perché si accorga di aver addosso quel manto di un modello precostituito, ma perché è venuta meno l’unica e vincolante ragione della sua permanenza lassù.

Il problema ha inizio nel momento in cui tale personaggio, dopo una prima fase di entusiasmo, si rende conto di essere stato preso non per quello che realmente è, bensì soltanto quale veicolo di un’idea di altri. A questo punto egli scopre il proprio vuoto interiore, benché tutti lo amino – ma di un amore che nasce da premesse falsate. Allorché egli insiste per essere quello che realmente è, il sistema crolla: la vera personalità che sta dietro la maschera protettiva si rende visibile, e la bolla scoppia; ha luogo una dis-illusione – non era lui l’oggetto della suprema epifania emotiva. L’altro è altro.

Beh, qui ho proprio l’impressione che Guth abbia scambiato Lohengrin per Tannhäuser! (o abbia fatto cut&paste di una sua nota scritta per quell’opera?…)

Elsa, colei che viene sempre abbandonata
Perde precocemente i genitori, il tutore (Friedrich) diventa suo pretendente; l’unico compagno affidabile che le resta, sola com’è in un mondo a lei estraneo, è il fratello Gottfried; poi però il fratello scompare, e la colpa è sua: avrebbe dovuto sorvegliarlo. Che sia annegato? Quale tipo di uomo desidera una giovane donna con un simile orizzonte di vita? Un partner che sia in simbiosi con lei come lo era il fratello, e soprattutto che sia affidabile e comprensibile, uno che, semplicemente, rimanga al suo fianco!

Qui sembra tutto a posto salvo un piccolo, ma importante particolare: quell’aggettivo comprensibile. No, Elsa non pretende questo, almeno finchè ragiona con la sua testa: crede ciecamente nel cavaliere che ha visto in sogno e che è arrivato per davvero a salvarla. Sarà soltanto in seguito all’azione delle forze del male (rappresentanti le religioni pagane pre-cristiane) che pretenderà che il partner le diventi anche comprensibile.

Lohengrin, colui che sempre abbandona
Figlio di Parsifal – Parsifal, l’eroe manovrato da altri, che è stato scelto da altri come portatore di felicità. Il figlio segue percorsi simili: continuamente inviato a salvare qualcuno, non riesce a trovare la propria identità. Gli altri vedono sempre qualcosa in lui, ma lui, in se stesso, che cosa vede? Chi sia, non lo sa: il suo compito è essere qualcosa per gli altri. Svolge il proprio incarico come se fosse un intermediario; l’essenza della sua missione gli rimane estranea. Unica via d’uscita, una donna, che dovrà capirlo per quello che egli è, riconoscerlo al di là della sua missione e dirgli chi egli sia, ma senza chiedergli quale sia il suo compito.

Intanto Parsifal. Manovrato, scelto da chi? Certo a Monsalvat aspettavano una nuova guida, ma Parsifal non lo diventa a seguito di plagio, ma perché prende coscienza, individualmente e personalmente, del peccato di Amfortas e si guadagna così lo status di Erlöser. Quanto a Lohengrin, la descrizione che ce ne fa il regista è abbastanza gratuita e soprattutto denigratoria: Lohengrin sa benissimo chi sia e quale sia la sua missione, ne è talmente cosciente da desiderare di andare al di là di essa, sperimentando un amore umano che al suo status sarebbe precluso. Il suo dramma deriva proprio dal suo essere perfettamente padrone delle sue azioni e delle sue aspirazioni, ed esplode nel momento in cui deve purtroppo constatare che queste ultime non trovano possibilità di compiuta realizzazione. L’ultima frase poi è per me del tutto incomprensibile: ciò che Lohengrin si aspetta dalla donna è di esserne amato – non capito (Gefühl vs Verstand) - come uomo; di avere da lei amore, non spiegazioni su chi egli sia; e ciò che lei non deve chiedergli è proprio il suo nome e la sua provenienza, non certo il suo compito, che è chiaro a lui e a tutti da sempre.  

Ortrud, colei che sa
Al pari di Elsa, ha avuto un’infanzia cupa e tumultuosa – perdita del potere da parte dei genitori, aperta rinuncia alla propria religione/fede –, ma sceglie una strada completamente diversa per sottrarsi a tale impronta iniziale. Laddove Elsa si ritira nel proprio mondo interiore, elaborando un ricco mondo fantastico, Ortrud intraprende un viaggio verso il potere reale e concreto, servendosi di qualunque mezzo: la profonda conoscenza dell’animo umano e l’attenta osservazione degli altri sono i suoi strumenti.

Da dove Guth ricavi l’idea che Ortrud abbia fatto aperta rinuncia alla propria religione/fede mi risulta davvero incomprensibile: le sue esternazioni (secondo e terzo atto) ci dicono esattamente il contrario! E la sua figura incarna precisamente i residui delle religioni pagane ancora presenti alla fine del primo millennio, soprattutto nell’Europa centro-settentrionale. E in Lohengrin lei vede per l’appunto un rappresentante del Cristianesimo, quindi il nemico da abbattere, per tramite di Elsa, verso la quale lei sa perfettamente impiegare lo strumento del plagio. Vero è che la donna cerchi anche di riconquistare il potere materiale (e verosimilmente, attraverso di esso, quello religioso).

Friedrich von Telramund, il sensibile
Con ogni probabilità, si è profondamente innamorato della ragazza che avrebbe dovuto proteggere come un padre, dopo la prematura morte dei genitori di lei. La scomparsa del fratello e la bugia di Elsa mandano in fumo il suo sogno d’amore. Quando Ortrud calunnia apertamente Elsa, l’amata gli è definitivamente preclusa. La biografia di Friedrich quale personaggio autonomo termina qui, molto prima che egli effettivamente muoia, ormai diventato un’arma telecomandata nelle mani di Ortrud.

Nessun dubbio che Telramund sia un burattino nelle mani di Ortrud. Che fosse sinceramente innamorato di Elsa è possibile. Quale sia la bugia di Elsa non saprei proprio capire. Piuttosto è lui che cade in una chiara contraddizione già all’inizio del processo: dapprima dichiarando di aver spontaneamente rinunciato alla mano di Elsa, dopo essersi convinto della sua colpevolezza; e subito dopo accusando Elsa di aver sdegnosamente rifiutato la sua mano, perché invaghitasi (dice lui) di un altro. Una contraddizione che non può essere attribuita ad una svista di Wagner, ma che evidentemente deve servire a noi per inquadrare da subito l’inaffidabilità dell’uomo e della sua accusa.

La collettività, coloro che ardentemente desiderano
In tempi di cambiamenti sociali estremi – il capitale dà forma nuova alle strutture, una guerra è alle porte –, tutto viene riorganizzato razionalmente, eppure le cose appaiono sempre più confuse. Il mondo viene registrato e catalogato, eppure si desidera ardentemente proprio ciò che va oltre la ragione. Solo uno che venga da fuori, un’anima vergine, può fare da guida in un contesto simile, può soddisfare tale aspirazione collettiva. Tuttavia, guai a chi improvvisamente non dovesse più rispondere alle aspettative…

Ecco, qui siamo alla trasposizione della vicenda medievale ai giorni di Wagner, con tanto di proclama anti-capitalista e vetero-marxista! Ora, che Wagner avesse in odio l’andazzo che aveva preso la società dei suoi tempi è fuori discussione. Ma a lui non stava a cuore Das Kapital, né l’anarchismo di Bakunin, a lui stava a cuore… se stesso! Non poteva sopportare – lui che si credeva (e magari era pure) un Artista dalle qualità quasi messianiche - di non avere successo, di non essere amato, perché non capito. Lo scenario che Guth immagina – l’aspirazione collettiva dell’avvento di un’anima vergine, che guidi un mondo sempre più confuso, sarebbe casomai quello della Germania del 1925, non certo quello della Sassonia del 1845, men che meno quello nordeuropeo della fine del primo millennio. E che significa guai a chi improvvisamente non dovesse più rispondere alle aspettative? Se stiamo parlando di collettività (non di Elsa, quindi) ciò che vediamo nel Lohengrin (quello di Wagner, sarà il caso di sottolinearlo) è che la collettività che accoglie l‘argenteo cavaliere non si riprende mai indietro (neanche sull’ultima battuta dell’opera) la fiducia che aveva riposto in lui: anche se effettivamente quella fiducia e quelle aspettative lui  le delude, abbandonando quella collettività al suo destino, e per ragioni squisitamente personali.

Insomma, se dovessimo prestar fede a queste note, dovremmo preventivamente esprimere pollice-verso a questa concezione del Lohengrin. Possiamo solo sperare che ciò che viene rilasciato per la pubblicazione sui programmi di sala siano solo parole al vento… Gli under-30 avranno già potuto verificare; noi matusa aspetteremo ancora un paio di giorni.   

04 dicembre, 2012

Le turbe di Richard Loherangrin


Se Elsa è un enigma (l’amore umano allo stato puro, oppure… una povera donnicciuola senza spina dorsale) Lohengrin a sua volta non è mica un tipo facile da inquadrare. Com’è che il suo disegno (farsi amare come uomo, e non adorare come super-uomo) se ne va a meretrici?

Una spiegazione l’ha data lo stesso Wagner, nel suo pamphlet del 1851 intitolato Una comunicazione ai miei amici. Ecco la sua versione dei fatti: Lohengrin (che come appartenente alla comunità del Gral è di fatto un essere sopra- o super-naturale) ambisce ad un amore terreno, umano, e approfitta (per così dire) della sua missione umanitaria di soccorso ad Elsa per soddisfare con (o su di) lei questa sua (più o meno legittima) aspirazione.

Per garantirsi che l’amore di Elsa sia genuino e non condizionato dal suo status - insomma, una vicenda abbastanza simile a quella che vede protagonisti una tale Rosina e un tal Lindoro (alias Conte di Almaviva) in un certo dramma (smile!) di Rossini - decide di non rivelare ad alcuno la sua vera identità e proibisce tassativamente ad Elsa (e le ripete la proibizione due volte, per non essere frainteso) di chiedergli notizie di sé.

Peccato che – è sempre Wagner a riferircelo – a Lohengrin non riesca proprio di farsi passare per un normale essere umano: tutti lo guardano da subito come un agente divino (Gottgesandter Mann) un uomo-della-provvidenza al quale il popolo intero è pronto a restare fedele (e difatti lo rimarrà fino alla fine, esclusi 6 individui). La punta di diamante dei 6 scettici, o dei nemici di Lohengrin, è Ortrud; ed è lei (con il veleno dell’invidia) che – scrive Wagner – instilla scientificamente il dubbio nell’animo di Elsa, che contravverrà così al divieto di chiedere. Ergo, Lohengrin conclude di essere adorato e non amato, e non può far altro che rinunciare al suo sogno, rivelando la sua vera identità e tornandosene, distrutto, alla comunità del Gral.

Uno dei massimi studiosi dei drammi wagneriani, Carl Dahlhaus, ha pensato bene di prendere Wagner in castagna su questo punto preciso, avanzando una diversa spiegazione alla disobbedienza di Elsa. Che non sarebbe conseguenza del plagio da parte di Ortrud, ma di un marchiano errore di valutazione dello stesso Lohengrin. L’obiettivo del quale – passare per un uomo qualunque, quindi amato come tale e non adorato come un semidio – viene vanificato dallo stesso strumento che lui impiega per raggiungerlo (nascondere la sua vera identità). Sì perché, osserva Dahlhaus, a nessuno verrebbe in mente di chiedere spiegazioni e identità a Dio (o a un semi-Dio) che si adora, mentre è del tutto naturale farlo ad un uomo che si ama.

Ora, l’osservazione critica di Dahlhaus è stata sottoposta sotto forma di quesito da Enrico Girardi a Daniel Barenboim durante la presentazione della prima scaligera tenutasi giorni fa presso l’Università Cattolica (dove per la verità si è parlato di tutto, fuorchè del Lohengrin…) A 29:40” del filmato si vede Girardi porre la questione al Maestro, il quale la liquida facendo quasi una… pernacchia (smile!) e mostrando di infischiarsene altamente delle spiegazioni e delle dietrologie extra-musicali e buttando la palla nel campo della regìa!

C’è da dire però che Wagner stesso ebbe non pochi dubbi e ripensamenti riguardo al finale dell’opera, arrivando al punto di immaginarne un (quasi) lieto fine, fedelmente mutuato dai racconti di Wolfram von Eschenbach, dove Loherangrin e la Duchessa di Brabante vivono felici e contenti e mettono pure al mondo diversi figli, finchè (la crisi del settimo anno? smile!) lei gli pone le domande fatali e così manda all’aria il matrimonio.    

Insomma, un’opera che – se si guarda al di fuori di quanto messo, nero su bianco, in libretto e partitura - si presta a mille interpretazioni. E quindi vedremo cosa Guth si inventerà al proposito: certo, dalle scarne note che si possono leggere sul programma di sala, le premesse non mi sembrano precisamente entusiasmanti.

03 dicembre, 2012

Gli enigmi di Elsa…


Ormai siamo entrati nella settimana di SantAmbrogio e quindi, dalle sponde del Lambro (eh sì, perché anche Milano ha la sua Schelde) già vediamo in lontananza un cigno che arriva trascinando una barchetta con dentro Lohengrin.  Prepariamoci allora a riceverlo come si deve, quando entrerà – oltre che nel più costoso ed esclusivo caravanserraglio del pianeta - anche nelle nostre umili dimore, grazie alle diavolerie visuali e auricolari che allietano le nostre esistenze.

Ma Lohengrin non sarebbe Lohengrin senza… Elsa, come non potrebbe esistere un Holländer senza Senta, o un Tannhäuser senza Elisabeth. Ma che tipo è la nostra sfortunata ragazza, che nel giro di un paio di giorni compie un percorso di 360° pieni, passando dalla polvere e dallo sconforto più totale alla beatitudine più alta e alla gioia più grande e poi di nuovo alla disperazione più nera?

Il libretto (oh, pardon, nel caso di Wagner è meglio usare il termine poema) ci presenta una ragazza piuttosto, diciamo, invertebrata, che spera di difendersi da un’accusa di omicidio del fratellino Gottfried (per quanto falsamente sostenuta) attraverso i servigi di un cavaliere mandato da Dio, che lei ha visto in sogno e che è pronta a ricompensare offrendoglisi in moglie. Il cavaliere (meraviglia delle meraviglie, ma mica poi tanto, essendo appunto mandato direttamente da Dio) arriva per davvero, la scagiona dalle accuse e accetta di sposarla, a patto che lei… si faccia gli affari suoi, evitando di fargli domande indiscrete (il Frageverbot, che nell’opera ha il suo bel tema, che ricompare mille volte).

Ma lì attorno ci sono due cattivoni, anzi per la verità una (Ortrud) che è l’autrice dell’omicidio di cui ha poi incolpato Elsa, abbindolandone l’ex-promesso (Friedrich): questi mettono in atto un piano semplice e sicuro per mandare all’aria la felicità di Elsa e sostituirsi a lei e alla sua casata nel dominio del Brabante. Piano consistente nell’approfittare dell’ingenua ragazza per lavarle ben bene il cervello onde portarla a fare a Lohengrin le domande proibite. Cosa che accade puntualmente (durante la prima ed unica notte di nozze) col risultato di mandare Lohengrin in bianco e subito dopo… a casa sua.

Insomma, una donna davvero miserella, questa Elsa, della quale il povero Lohengrin – un mezzo uomo e mezzo dio, che similmente a Giove con Semele (come ci ricorderà lo stesso Wagner) vorrebbe vivere un amore terreno, umano – crede di potersi fidare, venendone però amaramente deluso.         

Ecco, francamente le femministe avrebbero di che lamentarsi di fronte ad un siffatto personaggio, una che prima crede al principe azzurro e poi però non sa restare fedele alla parola datagli.

Ma allora, dove stanno gli enigmi?
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Ce li propone lo stesso Wagner, a posteriori. Dunque, il nostro aveva composto il Lohengrin fra il 1845 e il 1848, cioè in una fase della sua evoluzione artistico-estetica antecedente alla presa di coscienza rivoluzionaria, che si materializzerà – fra il 1848 e il 1851 - in una serie di opere, diciamo filosofiche, in cui Wagner spiegherà al mondo le sue idee sul futuro del teatro musicale. Idee che verranno poi compiutamente applicate (anche se, per nostra fortuna, con mille eccezioni) a partire dal 1852, nel Ring e nei drammi successivi (Tristan, Meistersinger e Parsifal).

Uno di questi documenti, di lettura piuttosto noiosa ma illuminante, è Eine Mittheilung an meine Freunde (Una comunicazione ai miei amici) scritta a metà del 1851, quando Wagner era alle prese con ciò che (ma solo di lì a un paio d’anni) sarebbe diventato il Ring, cioè le due opere relative a Siegfried. In questo documento il compositore intende presentare il percorso evolutivo della sua arte, a partire dai lavori giovanili (Die Feen e Das Liebesverbot) per passare poi a Rienzi, Holländer, Tannhäuser e Lohengrin. Giustificando quindi le discrepanze, che alcuni critici gli imputavano abbastanza ingiustamente, fra tali opere e le sue rivoluzionarie idee, esposte nei recenti scritti teorico-programmatici.  

Wagner rivela come il furore rivoluzionario avesse cominciato a prendere la sua mente in seguito ai (mezzi) fiaschi di Holländer e soprattutto di Tannhäuser, che gli avevano resa manifesta la sua propria condizione di Artista incompreso dall’establishment (teatri e critici) che lo circondava. E attribuisce tale incomprensione alla deriva dei costumi del suo tempo, che non apprezzava l’artista attraverso il sentimento (Gefühl) ma solo attraverso l’arida ragione (Verstand).

Ebbene, Wagner racconta come proprio la vicenda di Lohengrin (da lui in un primo tempo ignorata perché considerata priva di contenuti drammatici) fosse tornata prepotentemente alla sua attenzione proprio perché vi aveva scorto una specie di specchio della sua condizione esistenziale: in sostanza, Lohengrin gli era apparso come l’Artista respinto da un mondo (Elsa) che è incapace di comprenderlo attraverso il sentimento, e quindi di amarlo. Ma mentre Lohengrin subisce le conseguenze di questo stato di cose, e abbandona Elsa e gli umani per tornarsene… lassù, Wagner decide di prendere di petto la situazione e diventa rivoluzionario.   

Ed un aspetto di questa sua repentina conversione riguarda precisamente Elsa, come archétipo del femminino (weiblichen Herzens). Qui Wagner si dilunga in una rievocazione del suo aver saputo calarsi nei panni della donna (cosa che darà appiglio a critici ed esegeti per ipotizzare un Wagner androgino) per comprenderne l’intima natura. Elsa vista come l’altra metà (das andere Theil) di Lohengrin, nella quale l’uomo cerca il completamento della sua propria natura.

Ed ecco quindi che Elsa si trasforma improvvisamente – ed anche abbastanza sorprendentemente, rispetto a ciò che ascoltiamo in scena – in un modello di donna-in-amore: la sua proibita domanda a Lohengrin altro non sarebbe che la più pura ed alta e nobile espressione d’amore, che solo una donna può manifestare, anche sapendo che ciò le costerà la perdita della persona amata e della propria felicità. La Donna che – sola – può rappresentare, agli occhi del Wagner del 1851, la prospettiva di salvezza e di redenzione dell’Uomo da tutte le sue colpe e i suoi peccati.  
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Ora, qual è la vera Elsa? La donna indifesa che si innamora (superficialmente e a-priori) del suo salvatore e che poi si lascia plagiare dalle forze del male per tradirlo… oppure l’agente cosmico che redimerà, una volta per tutte, l’Uomo?