affinità bombarole

rinsaldato il patto atlantico

13 maggio, 2011

Stagione dell’OrchestraVerdi - 34


Per il concerto n°34 della stagione, ecco una strana coppia: Rossini&Menotti. L'omaggio al creatore del Festival dei due mondi è doveroso almeno per due motivi: il centenario della nascita ed anche il sodalizio che lega l'Orchestra a Spoleto, dove è ospite frequente.


Menotti è stato un esempio fulgido di come si potesse – e si potrebbe – anche ai giorni nostri comporre musica piacevole per l'orecchio impiegando in primo luogo la propria felice ispirazione, al cui servizio poi mettere la tecnica e la tecnologia musicale. Insomma, l'esatto contrario di ciò che – soprattutto dalla metà del secolo scorso – hanno fatto le cosiddette avanguardie, prevalentemente impegnate a trovare surrogati tecnologici o fonologici al vuoto di ispirazione. Purtroppo Menotti ha fatto la fine di tutti quegli onesti riformatori che sono stati regolarmente emarginati da più o meno mascherate dittature: forse sarebbe tempo di restituirgli ciò che si merita. Ed è quanto, nel suo piccolo, ha fatto questo programma de laVerdi.


Il Concerto per violino (1952) è scritto nella classica forma tripartita (Allegro-Adagio–Allegro) e non sfigura affatto rispetto ad altre composizioni del novecento storico (Prokofiev, Shostakovich, per dire). Qui un'esecuzione del grande Ruggiero Ricci. Ad offrircelo è il nostro Luca Santaniello, che per l'occasione ha lasciato la sua sedia di Konzertmeister a Danilo Giust (che normalmente siede alla sua sinistra): bravissimo nel mettere in risalto i passaggi virtuosistici del concerto, ma anche quelli più intimistici, in specie nell'Adagio. Gran trionfo per lui, che regala un bis insieme ai colleghi della sua sezione (più l'arpa della brava Elena Piva) eseguendo – proprio come si deve e dovrebbe! - l'Intermezzo di Cavalleria.


La Suite dal balletto Sebastian (1944) è un altro esempio della grande ispirazione che anima la musica di Menotti: qui siamo praticamente a teatro (dove il nostro ha lasciato alcune vere perle) e la Suite concentra in sette numeri le principali vicende di questa specie di favola veneziana che ha per protagonista un Sebastiano laico che fa però la stessa fine del Santo. Qui un'esecuzione a Spoleto. Da incorniciare la Barcarole (n°2) e la conclusiva Pavane.

Ad incastonare le due opere di Menotti, tre sinfonie rossiniane, che Francesco Maria Colombo ha diretto da par suo, con piglio e autorevolezza. Strepitoso il finale della Gazza Ladra dove – nelle 36 battute del Più mosso, prima dei due accordi conclusivi – ai violini è stato chiesto un forsennato sprint degno del miglior Cipollini (smile!) Ma le sinfonie del genio di Pesaro sono anche grandi palestre per autentici solisti. E così Luca Stocco ha modo di scatenarsi nelle tremende volate dell'oboe della Scala di seta; infine, nel conclusivo Guglielmo Tell, dapprima Mario Grigolato con il suo pacchetto di violoncelli e poi Antonio Palumbo con il suo corno inglese si guadagnano meritatissime lodi.

Insomma, una serata di grande musica, che prelude al prossimo ritorno ai concertoni: con Mozart e Bruckner.
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10 maggio, 2011

Gianandrea Noseda: profeta in patria?



Ieri sera al Piermarini concerto della Filarmonica della Scala (in veste di associazione autonoma e quindi ospite – pagante, per i costi della tecnica – del Teatro).

Il mio concittadino Gianandrea Noseda prosegue la sua marcia di avvicinamento a Wagner, evviva e auguri! Nella prima parte del concerto ha affrontato due fra le pagine sinfoniche più impegnative di Meistersinger e Götterdämmerung, intercalate da due monumentali monologhi di Sachs e Wotan, protagonista Matthias Goerne, che sta anche lui muovendosi a piccoli passi verso Wagner.

Si apre con il Preludio dei Meistersinger, pagina tanto nota quanto difficile (o facile a deturparsi…) dove gli ottoni, in particolare, sono chiamati a suonare con nobiltà e seriosità, ma senza scivolare nel volgare, nell'enfasi gratuita, o nel becero fracasso: impresa dura per una sezione che purtroppo si è fatta la non invidiabile reputazione di tallone d'Achille dell'orchestra. Che sia stato merito di Noseda non saprei dire (sarebbe bello per lui…) ma il risultato non ha per nulla fatto gridare vendetta: certo, orchestre che suonano l'opera per intiero un mese sì e l'altro pure forse fanno di meglio, ma dobbiamo accontentarci. (Però vien da chiedersi: ma c'è almeno uno, dico uno, dei tanti repertori o delle tante singole opere, in cui la Scala sia al top?)  

Il monologo di Hans Sachs, che chiude la terza scena del second'atto (Was dufted doch der Flieder), ha il suo culmine nello struggente ricordo del canto di Walther, che Sachs intuisce essere qualcosa che sgorga da sé, per dono di natura, proprio come accade all'uccellino che, senza studiare le regole della Tabulatur, sa cantare perché – di natura, appunto – lo deve

Lenzes Gebot,
die süße Not,
die legt' es ihm in die Brust:
nun sang er, wie er musst';
und wie er musst', so konnt' er's, -

(Un comando di primavera, un dolce affanno, glie lo ha posto nel petto: egli ha cantato come doveva; e come doveva, così potè... traduzione del sommo Manacorda).


L'accordo che sorregge la prima sillaba di quel sü-ße rivaleggia in tutto e per tutto con quello del Tristan, quanto a capacità sbudellanti:

Goerne (lo sentivo per la prima volta in Wagner) mi ha fatto una buona impressione: voce scura, proprio di basso-baritono, buon portamento, ci sono insomma gli ingredienti per farne un possibile buon ciabattino luterano (che poi sarebbe… Wagner medesimo, parliamoci chiaro).

La Siegfrieds Trauermarsch del Crepuscolo è – parole di Wagner, riportate da Cosima nel suo diario del 28 settembre 1871 – un coro, ma un coro cantato dall'orchestra. Un coro senza parole, come giustamente commentò quell'impenitente wagneriano che fu Teodoro Celli. Suonata ed ascoltata fuori dal suo naturale contesto è una pagina di grande musica, di fronte alla quale restare sempre ammirati, almeno se eseguita dignitosamente, come ieri. Ma chi ha in testa il Ring non può non rimanerne anche emozionato, poiché lì vi è distillata, come in un alambicco, tutta la straordinaria vicenda, umana ed eroica, di Siegfried. Cioè una buona parte di quell'universo che Wagner ha messo in musica nella sua divina commedia.   

L'Addio di Wotan è un altro test attitudinale per un basso-baritono che aspiri ad entrare nella cerchia degli interpreti wagneriani; ed è perciò del tutto logico che Goerne, oggi 44enne, ci si cominci ad avventurare. Con risultati, mi è parso, abbastanza incoraggianti, che testimoniano quanto meno del possesso di requisiti naturali minimi (per il ruolo) e della sensibilità richiesta all'interprete di pagine di grandezza stratosferica come questa. Orchestra abbastanza pulita (anche negli ottoni, tubette comprese) ed abbastanza efficace, pure se – giocoforza – le arpe sono solo due e non sei e l'ottavino è singolo, per cui l'incantesimo del fuoco si riduce a focherello, ma va bene così.

In estrema sintesi, mi pare che sia Noseda che Goerne abbiano superato positivamente questo piccolo esamino di pre-ingresso nel mondo del Wagner importante. Forza dunque, li aspettiamo a prove più toste! In particolare il Direttore, firmando autografi dopo il concerto, a una domanda su cosa ci dobbiamo aspettare in campo wagneriano, ha risposto sorridendo con un ottimistico: Vedremo, vedremo!

Dopo l'insalatona wagneriana, si passa al più sereno e meno impegnativo Dvorak dell'Ottava sinfonia. Una specie di pastorale del boemo, reduce dalla sua tragica (la settima).

Il primo movimento ha una specie di motto, che torna all'inizio delle diverse sezioni (e poi sarà la cellula generatrice del tema del finale) esposto inizialmente dal primo flauto, e che ricorda un canto d'uccello:


Nell'Adagio, che principia in DO minore, è sempre il flauto ad esporre – virando al DO maggiore - il delicato tema principale:



Segue poi l'Allegretto grazioso, in 3/8, che occupa il posto di uno scherzo. Bellissima la melodia del Trio, tipicamente boema, e sempre affidata al flauto:



Melodia che nello sviluppo viene contrappuntata da trombe e timpani con incisi giambici sul secondo tempo, che danno sempre l'impressione che gli strumentisti sbaglino le entrate (se suonano come si deve!)

Il finale Allegro ma non troppo è un tema con variazioni, caratterizzato da motivi rigorosamente di 8 battute, ripetuti due volte. Il principale – che mostra chiaramente il suo DNA - lo espongono inizialmente i violoncelli:



Noseda in questa sinfonia (parlo dei movimenti esterni) concede forse troppo all'enfasi e alla platealità, ma tutto sommato stiamo parlando di Dvorak (con tutto il rispetto) e non – che so – del suo mentore Brahms, quindi non c'è da scandalizzarsi più di tanto. Grande feeling con l'orchestra, si direbbe, a giudicare dai reciproci e ripetuti complimenti. 

Successo caloroso, in un teatro per la verità afflitto da parecchi vuoti.
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09 maggio, 2011

L’Aida cinese del Maggio

 


Quarta rappresentazione, ieri pomeriggio al Comunale di Firenze, dell'Aida, che il 28 scorso aveva inaugurato la stagione estiva del Maggio.

Già diffusa in audio (alla prima) e in video (alla seconda) è stata accolta da reazioni mixed, come si usa dire: fra entusiastiche (campanilistiche?) ovazioni in loco e tiepidi, quando non freddi, commenti altrove.

Come giustamente ammonisce Amfortas, "Aida è… un lavoro intimista e lirico, poetico, che contempla anche un'esteriorità spettacolare che però non deve mai essere fine a se stessa." Il difficile è, naturalmente, trovare la quadra (ma qui credo che Bossi – visto lo scempio che fa abitualmente del và, pensiero - non ci possa proprio aiutare, smile!) Insomma, come riuscire a far emergere i sentimenti e i drammi personali dei protagonisti senza contemporaneamente castrare quelle qualità spettacolari che sono a loro volta profuse a piene mani nel libretto e soprattutto nella musica?

Personalmente sono convinto che poche opere richiedano, come Aida, un'assoluta intesa – prima di tutto programmatica, e poi esecutiva, naturalmente – fra regista, direttore e cantanti. E già fin dalla prima scena, perché lì vengono presentate sia la mortale triangolazione affettiva Radamès-Aida-Amneris, che le due insopportabili contraddizioni che dilaniano le menti e i cuori dei due protagonisti. A cominciare da Radamès, la cui romanza d'esordio non è una pura e semplice dichiarazione d'amore (donna non vidi mai… con tutto il rispetto per Puccini) per Aida, ma descrive la tremenda dissociazione – ancora inconsapevole - dell'animo dell'uomo che per acquisire meriti presso l'amata è portato a desiderare imprese guerresche che all'amata recheranno soltanto lutti e dolore. E non per nulla i cieli e le brezze che Radamès – o forse il suo subconscio - si ripromette di procurare ad Aida stanno lassù, vicino al sol (cantato morendo, almeno secondo Verdi) e non certo su questa terra. E Aida è a sua volta dilaniata da opposti sentimenti: l'amore per lo straniero e l'ancestrale richiamo del sangue e della patria. Insomma, il dramma che si profilerà alla fine del secondo atto e si materializzerà nel terzo e quarto è già tutto presente qui, in questo esordio apparentemente tradizionale e routinario. In questa Aida le cose per la verità non cominciano troppo bene, con Berti che sale sicuro e potente al SIb del sol, ma lo chiude in modo stentoreo e forte, senza la più piccola espressione. Meglio di lui fanno la He e la D'Intino, meno male.

Il finale secondo poi è la quintessenza del dualismo fra spettacolarità e dramma dei sentimenti: perché il fracasso e l'apparente tripudio del concertato generale nascondono invece mille stati d'animo. Precisamente sette: intanto quelli dei tre cori (sacerdoti con Ramfis, popolo col Re, prigionieri e schiavi) che manifestano sentimenti diversi: preoccupazione per le sorti dell'Egitto, giubilo per la vittoria, e rispetto per la magnanimità del nemico che ha restituito la libertà. E poi quelli dei quattro protagonisti, a partire da Amonasro che già medita la sua vendetta; e dei tre personaggi principali, ciascuno dei quali vive quel momento in modi del tutto diversi: Aida letteralmente disperata, Amneris al settimo cielo e Radamès che si rende conto del vicolo cieco in cui si è cacciato. Qui non abbiamo un Rossini buffo, dove il concertato è tipicamente un puro quanto mirabile esercizio vocale… e certo non è semplice per nessuno – regista, direttore, interpreti - far emergere in modo efficace tutte queste specificità, ma il peggio che si possa fare – e troppo spesso si fa - è presentare un'ammucchiata di gente indistinta e un minestrone di voci che si confondono in un gigantesco quanto incomprensibile grammelot (lascio immaginare cosa si può capire da ciò che mostrano ad un ascoltatore poco preparato le due righe del display!) In questa Aida per lo meno vediamo i tre cori (col Re e Ramfis) chiaramente distinguibili dai costumi che indossano e dalla posizione separata in scena, anche se poi son tutti lì impalati e cantano privi di espressione, o meglio, con la stessa espressione; quanto ai quattro protagonisti, la faccia di Amneris sembra ancor più da funerale di quella di Aida! Insomma, qui qualcosa di meglio magari si poteva pretendere (ecco, questa mi parrebbe una efficace soluzione, MIb acuto compreso, smile!)

A proposito di regìa e allestimento, l'impostazione del tutto tradizionale di Ozpetek potrà anche sembrare poco stimolante, ma personalmente certi stimoli – tipo ambientazione in un collegio, con Aida nel ruolo di sguattera – li regalo volentieri agli amanti delle novità. La scenografia di Ferretti è – a confronto di Zeffirelli – assai sobria e però sufficientemente appropriata; ben dosate, in tutte le scene, le luci di Calvesi (che nel finale ha la meticolosità di presentarci il sole che tramonta lentamente); più o meno appropriati i costumi di Lai e abbastanza convenzionali (quindi probabilmente ridicole agli occhi degli scafati) le coreografie di Ventriglia.

Il fronte musicale ha visto – nel gran trionfo generale di un Comunale stipato all'inverosimile – l'indiscussa preminenza dell'Aida di Hui He, voce penetrante, dal timbro scuro, ma caldo e capace di emozionanti acuti in pianissimo. Cosa ignota, quest'ultima, a Marco Berti, che pure mi è parso un Radamès più in palla del suo recente Calaf scaligero. Luciana D'Intino pare ormai dare tutto – e bene – sugli acuti, mentre la sua Amneris poco si fa udire dal centro in giù. Ambrogio Maestri ha sfoderato il suo vocione, ma la cattiveria di Amonasro dovrebbe – credo io, almeno - manifestarsi con mezzi diversi dallo schiamazzo; e poi, accidenti, più cerca di incarognire la sua espressione del viso, e più ti aspetti che se ne esca con un Udite, udite, o rustici (…smile!) Tagliavini e Prestia han fatto più che dignitosamente la loro parte di Re e Gran Sacerdote, con qualche problema a non farsi coprire nelle scene dove cantano assieme al pregevole coro di Piero Monti. Saverio Fiore e Caterina Di Tonno hanno degnamente completato il cast. Quanto a Zubin Mehta, ha diretto con la sicurezza e l'aplomb di un santone indiano (smile!): approccio prevalentemente intimistico – ergo appropriato – salvo le canoniche effusioni del trionfo e gli schianti sulle sguaiate imprecazioni di Maestri… Per lui pare ormai aperta la via della beatificazione in Santa Croce.

Insomma, un piacevole pomeriggio in una Firenze tutta imbandierata di blu europeo.


07 maggio, 2011

Stagione dell’OrchestraVerdi - 33



Un'opera praticamente postuma ed una incompiuta per questo concerto all'Auditorium, che vede sul podio il 53enne nipponico Junichi Hirokami, un tizio scelto perché si adatta perfettamente al podio super-alto della Xian (smile!)

Il Concerto per Violino di Schumann in realtà è un'opera pienamente compiuta, ma che è rimasta allo stato di manoscritto per decenni, causa un ottuso ostracismo alla pubblicazione e all'esecuzione da parte del dedicatario, Joseph Joachim, che la considerava opera di un pazzo (e il bello è che convinse di ciò anche Clara…) Finalmente nel 1937 la composizione è tornata alla luce e può essere oggi eseguita, ascoltata ed apprezzata come si merita. Ricordo una delle prime esecuzioni italiane, anni '70 alla Scala, solista l'indimenticabile Pina Carmirelli.

Certo non è né un pezzo di gran virtuosismo (à la Mendelssohn) né di pura romanticheria (à la Bruch o Wieniawski) ed effettivamente può anche apparire frutto di instabilità psichica (soprattutto il Finale); tuttavia possiede una grande coerenza formale e unità tematica, come dimostra la parentela fra motivi dei due movimenti estremi:



A porcelo è Kolja Blacher, che alterna le esibizioni solistiche a quelle di Konzertmeister e anche di direttore. Tecnica impeccabile coniugata a grande sensibilità, quanto mai richiesta per mettere in risalto le qualità nascoste di questo concerto. Caloroso successo e bis con Bach.

Come è noto, la Decima di Mahler è stata oggetto di misteri, racconti romanzati, prudèrie varie, fino a quando Alma non si decise a rendere pubblico il contenuto dei faldoni che ne contenevano gli abbozzi (decisione maturata più per ragioni, diciamo, di cassetta, che per rispetto della volontà del defunto). Il mondo ha quindi potuto farsi un'idea della situazione materiale ed esistenziale in cui versava Mahler mentre scriveva quelle note. Insieme alle rivelazioni sul colloquio/seduta-psicanalitica avuto con Sigmund Freud a passeggio per le vie di Leiden, ci dipingono un Mahler afflitto da sensi di colpa (nei confronti della moglie) ma anche da presentimenti di una fine ormai incombente.

Il completamento portato a termine da Derick Cooke, con l'ostracismo prima e il pieno appoggio poi (a impresa compiuta ed eseguita) di Alma, ci permette oggi di ascoltare ciò che Mahler aveva messo su carta di tutto quello che aveva in testa: cinque movimenti, di cui uno (Adagio) orchestrato interamente, un altro sommariamente, un altro ancora in piccola parte, e il resto (altri due movimenti) solo abbozzati.

Ciò che quindi ascoltiamo grazie a Cooke è comunque qualcosa di sicuramente diverso da ciò che sarebbe stato il possibile prodotto finito. Se per la Nona e il Lied possiamo almeno avere la certezza riguardo l'impianto generale delle opere (sicuri peraltro che Mahler, avesse potuto ascoltarle, vi avrebbe apportato nei particolari chissà quali e quanti ritocchi) per la Decima, oltre a un mare di note che il compositore non fece in tempo a scrivere (e che Cooke si è dovuto - più o meno plausibilmente - immaginare) ci manca addirittura una ragionevole certezza sulla macro-struttura della sinfonia, a partire dalla disposizione stessa dei movimenti, per la quale Mahler lasciò contraddittorie indicazioni (e conoscendo le sue perenni incertezze su come posizionare i movimenti interni della Sesta, possiamo star tranquilli che l'ordine che si desume dai manoscritti è tutto fuorchè intoccabile). E mancano spessissimo indicazioni sull'agogica-dinamica, che Cooke ha dovuto ipotizzare per analogia con altre composizioni di Mahler. Per non parlare addirittura della formazione orchestrale, abbastanza difficile da configurare, in presenza di pochi righi musicali anonimi.

Qualcuno ha fatto un parallelo fra il completamento di Cooke e quello che Alfano scrisse per la pucciniana Turandot. Il paragone in realtà calza fino ad un certo punto poiché, mentre del finale di Turandot Puccini lasciò soltanto vaghi scarabocchi, ma nessun chiaro impianto (fosse pure scritto su due soli righi) nel caso di Mahler fu completata quantomeno la cosiddetta particell (2 o 3, massimo 5 righi con la presentazione dello sviluppo fondamentale di tutti i movimenti) che è un po' come un torso di una scultura; della quale poi ci mancano quasi tutti i particolari, ma il torso ci dà un'idea almeno delle fattezze generali di quel corpo, cosa che è invece del tutto assente nel caso del finale di Turandot, dove Puccini lasciò una serie di tessere (vagamente colorate) di un mosaico, ma senza la più pallida indicazione dell'oggetto che tali tessere avrebbero dovuto - una volta opportunamente collocate - raffigurare! Quindi: pollice-verso per Alfano (+ complici) e pollice… orizzontale per Cooke.

Tornando a Mahler, ecco un esempio di particell del supposto (poiché il frontespizio reca non meno di sei diverse indicazioni, via via cancellate o corrette) quarto movimento:



Qui invece una pagina della partitura completata da Cooke del quinto movimento, dove si vede, in basso, la particell schizzata da Mahler, e sopra ciò che Cooke ne ha derivato:



Come si vede, Mahler tratteggiò l'idea generale, che poi il musicologo albionico ha arricchito di particolari e/o di riempitivo, inventandoseli per similitudine con altre parti completate dall'Autore, o addirittura con altre sinfonie: un po' come un chirurgo plastico prende brandelli di pelle da una parte del corpo per trapiantarli in un'altra (magari di due persone diverse!)

Cooke ha sempre tenuto a presentare il suo lavoro non come completamento, ma come realizzazione di una versione eseguibile di ciò che Mahler ci ha lasciato. In realtà di completamento bell'e buono si tratta (a meno di non voler giocare con le parole) sia pure prevalentemente relativo alla dimensione verticale della partitura (armonia e contrappunto) più che a quella orizzontale (melodia) oltre che di aggiunta di moltissime indicazioni dinamico-agogiche.

L'Adagio di apertura – come brano a sé stante - è ormai entrato da anni e anni nel repertorio di tutte le Orchestre e nulla v'è da aggiungere a quanto si può leggere ovunque in proposito.

Lo Scherzo (secondo movimento) che richiama vagamente l'atmosfera del Rondo-burleske della Nona, è un'espressione di autentica schizofrenia tradotta in musica: basti pensare che nelle 164 battute della sezione iniziale (prima del primo Trio) ci sono non meno di 114 cambi di tempo (3/2, 2/2 , 5/4, 3/4, 2/4), mediamente più di uno per ogni battuta e mezza. Roba proprio da Freud!

Il centrale Purgatorio (ma Mahler aveva anche scritto Inferno sui suoi appunti) è uno dei movimenti più brevi – brevità francamente sospetta - di tutta la letteratura mahleriana, un Allegretto moderato che sembra fare da spartiacque fra la prima e la seconda parte della sinfonia. Che è completata da un altro Scherzo (definizione apocrifa, peraltro giustificata dalla forma, che presenta due Trii) di un carattere fosco e quasi demoniaco. È chiuso quasi dalle sole percussioni: timpani, piatti da grancassa, e infine da un solo colpo di tamburo militare, completamente coperto (quello che a Manhattan accompagnava il funerale di un pompiere, che i Mahler osservarono da una finestra del loro albergo); e poi dal lunghissimo Finale, aperto ancora dai colpi sordi del tamburo coperto, intercalati da scale ascendenti della tuba; movimento che fa da contrappeso all'Adagio iniziale, in una struttura quindi perfettamente – fin troppo! - simmetrica. Emozionante il ritorno (nei corni, almeno secondo Cooke) del bellissimo recitativo che le viole avevano esposto proprio all'esordio della sinfonia, prima che il tutto si stemperi in un Adagio sempre più adagio, finchè, dopo un estremo innalzarsi di violini e viole, che glissano (a Cooke così piacendo…) dalla sottodominante aumentata fino alla sopratonica, due ottave più in alto, si arriva alla dissoluzione nell'accordo di FA# maggiore.

Questa Decima va in ogni caso ascoltata (Adagio a parte) come un vago e lontanissimo simulacro di ciò che essa avrebbe potuto essere ma – ahinoi – non fu. Hirokami ha il merito di non aver aggiunto altra farina estranea a Mahler a quanta già ne contiene questa controversa versione. Almeno se si escludono le sue escandescenze sul podio: dopo essersi contenuto con Schumann (per rispetto del solista, spero) si è letteralmente scatenato con Mahler (o Cooke, fate voi…) impersonando alla perfezione una di quelle tipiche caricature ottocentesche del direttore d'orchestra mezzo pazzo e vanesio per intero.

Ma per ciò che si è sentito, si merita un bravo, da estendere – con la lode - a tutti gli strumentisti, ieri capitanati dal sempre più autorevole Gianfranco Ricci.

Prossimamente avremo un'accoppiata bizzarra: Rossini e Menotti! Ma prima un'altra grande serata bachiana con Jais e la Barocca.
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06 maggio, 2011

Alla Scala qualcosa di nuovo (?)

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Ogni tanto capita che un teatro, o un'orchestra, o un festival, o magari un club di sommelier commissioni ad un musicista una nuova opera. Stavolta è successo alla Scala di commissionare (ma quanto pagano?) un'opera all'attuale Direttore Artistico della Biennale Musica di Venezia, il milanese Luca Francesconi.

Il quale, in un mondo globalizzato quale il nostro, ha pensato bene di prendere lo spunto da un dramma in prosa tedesco della seconda metà del '900, a sua volta ispirato da un racconto francese della seconda metà del '700, e di stenderne il libretto in lingua inglese (airport-english, come ci tiene a precisare l'Autore medesimo, cioè un inglese così poco oxfordiano da essere facilmente comprensibile da un lappone, da un basco, da un vietnamita, da uno zambiano e persino da un londinese). Il titolo dell'opera resta però in tedesco (lingua madre, quando si tratta di certa musica): Quartett (così siamo sicuri che ci arriva anche un bresciano come me, smile!)

Comincio col riportare alla lettera una critica pubblicata di recente:

L'apporto di Alex Ollé e della Fura dels Baus penso sia molto importante proprio come "antidoto" a una lettura banalmente post-espressionista o ideologica di Heiner Müller, e che aiuti a proiettarlo invece da un lato in una dimensione epocale legata alle sorti della civiltà occidentale, dall'altro su un piano più universale.
Lo stesso percorso che la musica intende seguire.
L'opera è una grande macchina, un laboratorio alchemico dove questa babele di pulsioni e di lingue può trovare uno stato di fusione.
E questo grazie all'effetto di febbrile "alterazione", di alta temperatura percettiva che la musica soltanto è in grado di indurre.
L'elaborazione elettronica di suoni e spazi è l'altro agente chimico che reinscrive l'esperienza in una nuova dimensione di ascolto: moderna, veloce, attenta, multidimensionale.
Ciò che in fondo il teatro d'opera ha sempre voluto sognare.
Il rapporto con un luogo sacrale come La Scala non è conflittuale né compiacente.
È impensabile ignorarne la forza immaginifica e storica. Ma è forse possibile, se non necessario, metabolizzarlo e integrarlo nel mondo; in un mondo che va oltre i suoi muri ed anzi lo contiene, come il mare un magnifico corallo.

Ma di chi mai sarà una così profonda e illuminata recensione? Di Isotta, Mattioli, Foletto, Arruga, Stinchelli, o del Corriere della Grisi? No, è di un tal Luca Francesconi, che dev'essere un omonimo, e pure sosia, dell'Autore!

Ora, se il soggetto di Müller è sufficientemente urticante - ancorchè imbevuto di pretenziosa retorica anti-borghese made-in-DDR – la musica che Francesconi gli ha cucito attorno mi è parsa ancor più velleitaria e incapace di suscitare non dico emozioni, ma nemmeno grande interesse, a dispetto delle tecnologie IRCAM impiegate in larga scala e degli accorgimenti (fra l'altro non nuovi, come le due orchestre, ancora poche) previsti per l'esecuzione.

Che si possa andare a teatro anche per piangere o meditare sulle miserie umane è perfettamente ammissibile, per carità… ma evidentemente ai giorni nostri si pretende che il pubblico soffra per davvero, ma proprio fisicamente: sarò banale e disfattista, ma temo proprio di sapere come un certo Fantozzi – l'io profondo di (quasi) tutti noi - avrebbe commentato la serata (smile!) Personalmente, alla domanda: "cosa preferisci, vedere ancora quest'opera, o un'altra Tosca di Bondy?" non avrei dubbi su come rispondere; perché la Tosca di Bondy – basta chiudere gli occhi – qualche emozione te la dà comunque, garantito. E poi se Jonas stona, lo becchi subito in castagna, perdio.

Si può commentare tecnicamente lo spettacolo? Credo proprio di no. Il regista e il resto della troupe hanno potuto – cosa rara – lavorare gomito-a-gomito con l'autore di libretto&musica, quindi se avessero fatto cazzate sarebbero proprio da rinchiudere. Quanto ai musicisti, con musica come questa come si fa a decifrare se il soprano ha stonato sul SIb della scena 5, o se la direttrice d'orchestra ha strascicato eccessivamente i tempi nel duetto della scena 10?

In compenso si può apprezzare il mirabile piano schematico dell'opera, esattamente come uscito dalle proprie mani dell'Autore:



L'impressione è che anche questa, come purtroppo molte altre opere contemporanee, sia – programmaticamente? – destinata a ricevere il suo successo di stima (musically-correct, si potrebbe dire con una parafrasi) - successo che è puntualmente arrivato anche ieri sera, da un pubblico scarso e non propriamente entusiasta, che ha evidentemente premiato l'abnegazione della Cook e di Adams, e l'impegno di Mälkki, Lavoie, Casoni, coro, orchestre e allestitori - per poi venire ridimensionata a concisa entry nel catalogo dell'Autore. Ma in fondo anche il Wagner rivoluzionario (mica quello di Bayreuth, ovvio) farneticava di festival dove si eseguissero due, massimo tre volte delle opere nuove, per poi dare alle fiamme tutto quanto, dalle partiture ai palchi!
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29 aprile, 2011

Stagione dell’OrchestraVerdi - 32


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Quasi tutto francese il programma del concerto di questa settimana. Sul podio Tito Ceccherini, trentottenne di belle speranze, già però in via di trasformazione in altrettanto belle realtà.

Apertura con il Concerto in SOL di Maurice Ravel, interpretato da una vecchia conoscenza de laVerdi, il bravissimo Roberto Cominati.

Concerto composto a cavallo del 1930, dopo che Ravel (1928) aveva girato gli USA in lungo e in largo ed era quindi venuto a contatto diretto con la musica di laggiù (quantunque il jazz fosse già ampiamente di moda anche a Parigi) passando anche diverso tempo con Gershwin. E ascoltando il clarinetto piccolo esporre il motivo in FA#:

uno non può non pensare appunto a Gershwin e all'attacco della Rapsody in Blue.


Tutto il concerto (a parte l'Adagio) mostra chiare influenze jazzistiche, con ampio uso di ritmi sincopati; nell'iniziale Allegramente sentiamo anche del blues, come qui:

Cominati sembra voler alleggerire in tutti i modi lo spessore di questa musica, accentuandone la liquidità, piuttosto che le esasperazioni percussive.


Il lungo centrale Adagio assai è noto per aver impegnato Ravel fino alla consunzione fisica (parole sue). Le prime 33 battute (3/4, MI maggiore) sono affidate al solo pianista, che con la mano sinistra scandisce un ritmo quasi di walzer in 3/8 (battere su nota singola, levare su accordi di due note, e continuerà così – con rare eccezioni - per il resto del movimento) mentre la mano destra descrive la melodia:

Sui tempi di esecuzione si discute sempre all'infinito, però allorquando l'Autore, oltre alla tradizionale indicazione agogica, ha prescritto il tempo in modo perentorio e… meccanico (leggi: metronomo) bisognerebbe pur tenerne conto, cercando almeno di stare all'interno di una forchetta ragionevole (dove il ragionevole potrebbe essere, che so, il più-meno 5%, ma non – direi proprio – il più-meno 20%, pena presentare una parodia delle originali intenzioni dell'Autore).


Un'indagine che può fare chiunque su Youtube ci dice che i diversi interpreti di questo movimento tendono regolarmente a rallentare rispetto al metronomo di Ravel (76 crome). Ad esempio Argerich sfora di meno del 4% nelle prime 33 misure (che sono un po' il biglietto da visita) ed è un metronomo lei stessa, perché in diverse occasioni stacca sempre lo stesso tempo; con Dutoit nel 1990 poi, sul totale dell'intero movimento sfora di meno del 2% rispetto alla durata nominale. Il grandissimo (mio conterraneo) Michelangeli sfora di circa il 5% all'inizio e di poco più del 7% sull'intero movimento. Invece tale Bernstein (imitato anche da Cabassi, per dire…) va talmente da lumaca al punto da sforare di più del 18% nelle prime 33 misure, e di più del 22% sul totale! Ecco, questa è una cosa per me inaccettabile e ingiustificabile da alcun punto di vista estetico (dopo tutta la fatica che Ravel ha fatto per comporre quel pezzo!) Se poi a qualcuno piace anche così… vuol dire che gli piace anche la Gioconda ritoccata con i baffi (smile!)

Posso garantire – ma basta poco allenamento per farsi un'idea della velocità, anche senza un cronometro - che Cominati ha staccato qui un tempo ragionevolmente vicino (pur sempre più lento, ma mai come Bernstein) all'idea di Ravel: e la cosa non ha soltanto una valenza freddamente tecnica, ma squisitamente estetica (quanto meno rispetto alla prospettiva estetica dell'Autore).

Da encomio in questo movimento il lungo, bellissimo intervento del corno inglese di Antonio Palumbo.

Il breve Presto conclusivo è una palestra di virtuosismo, e non solo per il pianista. Ad esempio i due fagotti sono chiamati, nella sezione centrale, ad autentiche acrobazie, con inebrianti volate di semicrome, e lo stesso avviene verso la fine per tutti gli strumentini. Pezzo davvero di grande effetto, che Cominati chiude splendidamente, accolto da un autentico tripudio. Che lui ripaga con una parafrasi della Chanson bohème (tanto per restare in ambientazione spagnola in salsa francese).

Sylvano Bussotti è l'autore – oggi quasi ottantenne – della composizione successiva, praticamente inedita, il dramma in due parti e cinque atti Pater doloroso, di cui vengono eseguiti due frammenti: Sinfonia e Cielo. Vi suona qui anche Nicola Moneta con il suo gigantesco octobasse (il jumbo-contrabbasso) che darà poi il suo contributo anche al Bolero, affiancando i suoi… nipotini.

A me, che di Bussotti avevo ascoltato dal vivo – ma è passata un'eternità – soltanto il suo quartetto I semi di Gramsci, ha fatto un certo effetto ascoltare musica quasi diatonica (!) e per nulla astrusa, né (apparentemente, almeno) complicata. Quando Ceccherini abbassa le braccia, il primo ad applaudire, da centro platea, è un vecchietto che evidentemente quella musica deve conoscere a memoria: l'Autore! Che sale sul palco a ricevere meritati applausi… alla carriera.

Dopo l'intervallo eccoci a Debussy e le sue immagini di Iberia, un trittico incastonato in un altro trittico più ampio (fra Gigues e Rondes de Printemps). C'è chi ha descritto la tecnica compositiva qui usata da Debussy come puntinismo (pointillisme, una scuola pittorica vicina all'impressionismo, i cui adepti usavano dipingere quadri coprendo la tela, anziché di pennellate tradizionali, di una miriade di puntini; una specie di anticipazione manuale dei pixel dei moderni monitor!) In effetti la partitura di Images è ricchissima di piccoli dettagli di colore, che creano uno straordinario effetto d'insieme. Proprio mentre Debussy componeva Iberia, Maurice Ravel aveva appena pubblicato la sua Rapsodie espagnole, che una qualche influenza deve aver avuto sul più anziano e famoso Claude.

Il primo brano (Par les rues et par les chemins) ha un tempo ternario (3/8, da seguidilla, per intenderci) e sono i clarinetti ad esporne il tema principale, in SOL:



Sembra proprio di sentire suoni (e polifonie) che escono da case e locali di un tipico ambiente spagnolo, o semplicemente il brusio della gente che passa o i rumori del traffico. Al centro del brano c'è una sezione più lenta in 2/4 (ma suddivisi in 12/16, quattro terzine) quasi una pausa per la siesta (smile!) o l'inoltrarsi su stradicciole fuori mano. Qui c'è ampio impiego di rubato, prima del ritorno del tempo 3/8, che ci riporta ad una certa concitazione urbana, fino alla chiusura su una mirabile cadenza, che preannuncia il crepuscolo.

Il secondo brano (Les parfums de la nuit) è una cosa davvero strepitosa, un'evocazione di sensazioni che si provano guardando il cielo stellato, ascoltando un usignolo lontano, o inspirando i profumi che emanano dai giardini fioriti. Proprio mentre Debussy completava quest'opera, un suo ammiratore – e amico intimo di Ravel - Manuel de Falla, iniziava a comporre Noches en los jardines de España: che certo deve aver tratto ispirazione da questo brano, oltre che da Ravel. Peraltro de Falla, da spagnolo verace, ha un approccio forse più descrittivo, che non evocativo, rispetto ai suoi colleghi francesi. Tornando a Les parfums, in esso arpa, celesta e xilofono, assieme alle campane che emergono nel finale, vengono sapientemente usati per creare l'atmosfera notturna, una notte dove si fa però risentire anche il tema del primo brano, ad evocare il giorno passato ed anticipare quello che si appresta a sorgere.

Ed infatti il terzo brano (Le matin d'un jour de fête) si apre in modo ancora sonnolento, poi le campane annunciano la festa, che si scatena in ogni dove. C'è anche un intermezzo quasi comico, col violino che improvvisa un bizzarro assolo, disturbato due volte dai sordi colpi del tamburo basco (sembra quasi Sachs che rovina la serenata a Beckmesser, smile!) prima che il tutto precipiti verso una esilarante conclusione in SOL, che suscita grandi applausi del pubblico per l'orchestra e per Ceccherini.

Il concerto si chiude in bellezza (per la verità una bellezza un pochettino volgarotta, ammettiamolo) con il raveliano Bolero, che pare essere il brano di musica (cosiddetta) classica più eseguito al mondo (qualcuno ha calcolato che venga suonato – in un qualche posto del pianeta - in media ogni quarto d'ora!) e che abbia creato un'autentica montagna di quattrini (in diritti d'autore) finiti però nelle tasche di svariati approfittatori. Si dice che Ravel – figlio di un ingegnere meccanico e lui stesso dotato di una mente matematica - vi volesse immortalare in musica l'incessante martellamento di magli o macchine utensili di fabbriche e officine, mentre qualche psichiatra tende a vederci piuttosto i segni di incipiente demenzialità (smile!)
Chissà cosa ne pensa al proposito lo strumentista più impegnato qui - giacchè non ha letteralmente una sola battuta di pausa – ossia l'addetto al primo dei due tamburi militari. Il quale ha da eseguire quest'unica cosuccia:

Roba da nulla, parrebbe, se non fosse che il povero malcapitato – Ivan Fossati, per l'occasione sistemato proprio davanti al Direttore, come un solista che si rispetti - è tenuto a ripeterla ininterrottamente per 169 volte, non una di meno: una vera e propria tortura cinese! (Magra consolazione: per le ultime 24 ripetizioni il nostro tamburino è raggiunto anche dal suo secondo, che lo sostiene così nell'ultimo supremo sforzo.) Poi resteranno solo due battute per finirla lì, dopo un quarto d'ora (più o meno) di menata di torrone:



E ancora a proposito di durate, Ravel ha indicato (ma dopo vari ripensamenti, in questo caso) il metronomo di 72 semiminime al minuto. Datosi che le battute sono 340 in 3/4, e non vi è mai alcun cambiamento di agogica, si può dedurre matematicamente la durata nominale del brano: 14 minuti e 10 secondi. Si narra che nel 1930 Toscanini suonò il Bolero con la sua NYPO a Parigi, Ravel presente, e tenne come suo solito tempi assai stretti, chiudendo in 13'25". Ci mancò poco che Ravel gli togliesse il saluto! Ma si scoprì che Toscanini aveva – come quasi sempre – ragione: sulla copia della partitura in suo possesso era chiaramente indicato il metronomo 76, corrispondente – ma proprio al secondo - al tempo da lui tenuto. E infatti Ravel aveva, ma solo sulla sua personale copia, impiegata per una incisione con la Lamoureux, corretto il 76 in 66 (corrispondenti a 15'25", due minuti pieni in più). Alla fine il compositore optò per una via di mezzo (72, appunto).

Tornando a bomba, su quell'ossessionante ritmo si appoggiano due soli temi, A e B, entrambi in DO maggiore, ma con il secondo pesantemente inquinato da gradi diminuiti.
Entrambi i temi si estendono su 18 misure, suddivise in 8 (prima sezione del tema) più 8 (seconda sezione) più 2 (transizione). Vengono presentati accorpati in una cellula strutturata in A-A-B-B (per un totale quindi di 72 misure), cellula ripetuta per 4 volte. Dopodichè viene riesposto il tema A, seguito immediatamente dal B, ma un B modificato nella seconda sezione per sfociare nella cadenza conclusiva (che passa fugacemente dal MI maggiore).

Parliamoci chiaro, una simile mappazza, già di per sé stomachevole, risulterebbe del tutto indigeribile se non fosse presentata con qualche opportuno facilitatore digestivo. Che per Ravel consiste in due abili trucchi: sul lato della melodia, far suonare le 18 ripetizioni dei temi A e B ogni volta da strumenti (dapprima singoli, poi a gruppi) diversi; su quello dell'accompagnamento ritmico, aggiungendo di volta in volta al tamburo militare l'intervento di altri e diversi strumenti.

Un ulteriore accorgimento impiegato dal compositore risiede nel far progressivamente aumentare il volume del suono, sia incrementando gradatamente la dinamica dal pianissimo al piano al mezzo-piano al mezzo-forte, al forte, per arrivare al fortissimo di tutta l'orchestra in vista della perorazione finale; sia ingrossando via via le fila degli strumenti in azione: inizialmente uno soltanto e successivamente 2,3,4… fino alla piena orchestra. E un altro accorgimento consiste – a partire dalla terza esposizione della cellula AABB – nel far raddoppiare la melodia a strumenti in tonalità diverse dal DO (ad esempio MI, come nella quinta proposizione del tema A, nell'ottavino).

Tutto ciò e riassunto nello specchietto consultabile qui (costruito a partire dall'edizione Eulenburg 8023 EE6865 del 1994). Anche se la scala orizzontale non rispetta le proporzioni fra i gruppi di battute, dalla figura si ricava un colpo d'occhio immediato del progressivo addensarsi dei suoni e della distribuzione dei compiti fra i diversi strumenti dell'orchestra. Si noti come le melodie dei due temi principali siano in misura preponderante affidate agli strumentini e come agli archi venga riservato prevalentemente un ruolo di armonizzazione e ai corni quello di sottolineatura del ritmo (dettato dal primo tamburo militare). Curioso (e dispendioso assai!) il limitatissimo impiego della celesta (che suona, con i due ottavini, la quinta esposizione del tema A) come quello di piatti, grancassa e tam-tam, che compaiono solo nella cadenza conclusiva.

Inutile dire dell'immancabile successo, con pubblico ubriacato e delirante: ma sì, con i tempi che corrono, cosa si pretende di più…

Il prossimo appuntamento vedrà il ritorno dell'accoppiata Schumann-Mahler. Con opere che – per ragioni del tutto diverse – sono uscite allo scoperto decine di anni dopo essere state composte.
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27 aprile, 2011

Teatro alla Scala e Filarmonica della Scala: rapporto virtuoso o vizioso?

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Si legge sempre più spesso su stampa, e soprattutto su blog, del progressivo decadimento delle prestazioni dell'Orchestra scaligera, nel repertorio operistico e più ancora in quello concertistico. E parecchia confusione sotto il sole esiste fra Orchestra del Teatro alla Scala e Orchestra Filarmonica della Scala. La struttura e la natura dei rapporti fra le due istituzioni meritano qualche osservazione e considerazione.
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Fino al 1982 il Teatro alla Scala aveva alle sue dipendenze gli orchestrali, che per contratto dovevano coprire la stagione principale (opera/balletto) ed anche la stagione sinfonica, che Toscanini aveva voluto a suo tempo per alzare il livello professionale dei musicisti, in base alla considerazione che la musica operistica sia (con rispetto parlando) di serie-B rispetto a quella strumentale-sinfonica e che quindi l'impegno in quest'ultima non possa che giovare ad innalzare la qualità della prima.


Nel 1982, da un'idea di Abbado e con il supporto di alcuni mecenati (Canale5 in testa, Confalonieri però, mica Berlusconi!) nacque l'Associazione Filarmonica della Scala: in sostanza, orchestrali dipendenti del Teatro alla Scala si costituirono in entità separata (l'Associazione) al precipuo scopo di operare in profondità nel campo strumentale e sinfonico. La cosa era fatta dichiaratamente in imitazione dei Wiener Philharmoniker.

I quali Philharmoniker sono sì un'Associazione formata esclusivamente da componenti dell'Orchestra della Staatsoper (oggi 127 su 141) ma con questa hanno un rapporto chiaro ed univoco: la stagione di opera e balletto, punto, e per quella soltanto sono stipendiati. Salvo rarissime eccezioni (una sarà proprio quest'anno, il 18 maggio con Daniele Gatti, per ricordare Mahler, che fu direttore lassù) la Staatsoper non ha un programma di concerti, ma produce esclusivamente opera e balletto. E va da sé che i contratti di lavoro dipendente degli orchestrali con la Staatsoper prevederanno tutti i vincoli e la remunerazione legati al supporto della stagione opera-balletto. Rispettati quei vincoli, i Philharmoniker hanno poi, e la gestiscono in proprio, la loro stagione di concerti, principalmente al Musikverein (che nulla ha a che fare con la Staatsoper, essendo la sala della Società degli Amici della Musica) e poi a Salzburg e in altre tournée. E ovviamente gestiscono tutto il business indotto a livello media.

Esiste quindi una chiara distinzione di attività fra Opera/Balletto (pertinenza del Teatro, che per questo paga gli strumentisti dipendenti) e Concerti (pertinenza dei Philharmoniker, che si autogestiscono). Ed esistono per le due attività controparti ben distinte e trasparenza massima fra prestazione e remunerazione. L'ampiezza dell'organico della Staatsoper – che oggi include anche una seconda orchestra (Das Bühnenorchester der Wiener Staatsoper) composta da ben 41 strumentisti (non eleggibili ad entrare nei Philharmoniker) - consente anche frequenti sovrapposizioni di date fra il calendario operistico e l'attività autonoma dei Philharmoniker.

Al proposito, un caso speciale è rappresentato dalla Staatskapelle Dresden, forse la più antica orchestra esistente (da quasi mezzo millennio!) che suona prevalentemente alla Semperoper di Dresda, sia per darvi i propri concerti che per supportare la stagione operistica di quel Teatro. Anche loro hanno un organico che gli permette l'ubiquità, ad esempio – il prossimo 10 maggio - accompagnare alle 19 una Gazza ladra a Dresda con il nostro bravissimo Michele Mariotti, e contemporaneamente – alle 20 - tenere un concerto a Parigi col venerabile Eschenbach!

Come funziona invece la cosa a Milano? Intanto c'è una notevole differenza di organici, rispetto a Vienna. L'Orchestra della Scala ha oggi 116 dipendenti e la Filarmonica 97 associati. È evidente che l'una e l'altra dovranno ricorrere spesso ad ingaggiare musicisti esterni per far fronte ai diversi impegni (in nessuno dei due organici è specificamente presente il ruolo del timpanista!) In ogni caso – a differenza di Vienna e Dresda – qui non c'è mai sovrapposizione fra attività di Teatro e di Filarmonica.

Ma la differenza fondamentale rispetto a Vienna riguarda i cartelloni. Il Teatro alla Scala, oltre alla stagione principale (opera/balletto) ha in calendario – a differenza della Staatsoper – anche una propria stagione sinfonica (5 titoli per 15 concerti nel 2010-2011, più altri concerti diversi). Questa stagione non è da confondersi con quella della Filarmonica della Scala (nel 2011: 12 concerti in Scala e 12 fuori-sede) anche se capita che qualche concerto delle due stagioni abbia contenuti simili e stessi protagonisti (direttori, solisti di strumento e di canto).

La cosa curiosa è che entrambe le stagioni sono coperte dalle prestazioni di un unico organismo: la Filarmonica! In sostanza accade che gli strumentisti della Filarmonica, come i viennesi, sono allo stesso tempo lavoratori dipendenti (del Teatro) e lavoratori in proprio (nella loro Associazione, per la propria stagione, e per lo sfruttamento commerciale della loro attività) ma in più qui sono anche prestatori d'opera esterni nei confronti del Teatro (di cui in gran parte sono anche dipendenti!) per coprirne la stagione sinfonica.

Già a questo punto un ingenuo non capisce perché non si sia fatto come a Vienna, cioè il Teatro non si limiti alla stagione opera/balletto e la Filarmonica – rispettati i vincoli di tale stagione – non si faccia totalmente in proprio tutti i concerti che vuole. Vero è che a Milano non esiste un Musikverein, ragion per cui la Scala, reclamando la sua fama, pretende (ma deve?) anche rimanere sede di concerti, ma è altrettanto vero che un teatro non è proprio il luogo più adatto per questo tipo di spettacolo.

Ma passiamo oltre: essendo, per la stagione sinfonica del Teatro (i 15 concerti) i Filarmonici un fornitore esterno e indipendente, essi dovrebbero – secondo sane leggi di mercato - intrattenere con il Teatro medesimo un regolare rapporto di fornitura, che preveda condizioni, prezzi e l'invio di regolare fattura di prestazione, che il Teatro dovrebbe regolarmente pagare. In un regime di mercato poi, il Teatro dovrebbe essere libero di affidare di volta in volta la propria stagione concertistica al miglior offerente, scelto con regolare gara d'appalto, in base a criteri di price/performance (quindi non esclusivamente alla Filarmonica).

Invece le cose stanno in tutt'altro modo. La prima cosa bizzarra è che per queste prestazioni concertistiche la Filarmonica non incassa un solo Euro dal Teatro! Come si spiega questa apparente stranezza? Ecco, il tutto è sancito in una convenzione Teatro-Filarmonica, dove i concerti della stagione del Teatro sono definiti come concerti in restituzione: ma restituzione de chè? Evidentemente di quella parte di stipendio che gli orchestrali continuano bellamente a percepire dal Teatro come ai tempi in cui con esso avevano anche impegni di lavoro dipendente di tipo concertistico, in aggiunta a quelli di tipo operistico.

Altra considerazione: la metà o più dei concerti della Filarmonica (12 quest'anno) si tengono comunque dentro il Teatro alla Scala, dove vengono anche effettuate quasi tutte le prove. Quindi la Filarmonica, per le sue attività, diventa cliente del Teatro, da cui acquista l'impiego della struttura, di cui però paga solo una parte dei costi (costi della tecnica, come definiti in gergo nella suddetta convenzione) quindi anche qui non certamente un prezzo di mercato.

Insomma, per riassumere:
1. Il Teatro ha alle sue dipendenze un organico orchestrale per la sola stagione opera/balletto;
2. Gli orchestrali (oggi 97 su 116) sono anche riuniti in Associazione Filarmonica indipendente;
3. Il Teatro ha in cartellone anche una stagione sinfonica, la cui copertura è appaltata in esclusiva alla Filarmonica, e a costo zero;
4. La Filarmonica utilizza le strutture del Teatro per tenervi prove e concerti della propria stagione, e ne paga soltanto parte dei costi.
I punti 3. e 4. sono regolamentati da una convenzione fra Teatro e Associazione (che prescinde quindi da ogni legge di mercato).

Ora, non c'è bisogno di pensar male nell'immaginare che una situazione di questo genere, che presenta (come minimo) assai scarsa trasparenza, sia stata – come spesso accade da noi – creata a bella posta in modo da lasciare aperti enormi spazi di discrezionalità (a tutte le parti e a tutti i livelli) e consentire i soliti giochini, aumma-aumma, intrallazzi e privilegi diversi.

Insomma, abbiamo messo in moto un'imitazione che temo - come molte cose fatte all'italiana - abbia da Vienna copiato puntualmente i problemi, senza invece conseguirne i benefici. A proposito dei quali: lo scopo principale della fondazione dei Wiener (promossa da Otto Nicolai attorno al 1840, quasi 150 anni prima che ad Abbado venisse la stessa idea) fu quello di far crescere la qualità dell'orchestra – tramite l'impegno concertistico – da cui poi potesse trarre vantaggio la Hofoper (oggi Staatsoper) per la stagione operistica.

Ecco, da quanto si sente e si sente dire, almeno ultimamente, pare che a Milano ci sia invece una rincorsa verso il peggio.
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22 aprile, 2011

AAA cercasi urgentemente regista per il Ring del bicentenario


Per la verità neanche il Kapellmeister sembra più così sicuro. Si vocifera che Kirill Petrenko – che proprio dal 2013 succederà a Nagano all'Opera di Stato bavarese, un posticino che non gli lascerà troppo tempo libero - non abbia ancora messo nero su bianco il contratto con le sorelline Wagner… Ma in ogni caso qui non ci sarebbero problemi, anzi: il de-facto direttore musicale di Bayreuth, Christian Thielemann, è lì pronto e a disposizione per ogni bisogna.

 
Più complicate le cose sul fronte regìa, dopo la recente rinuncia di Wim Wenders, dovuta a diversità di …vedute (leggi: pecunia) con le discendenti del grande Richard. Pare che il regista volesse ricavare anche un film in 3D dalla nuova produzione e ciò ne avrebbe fatto salire i costi di una bazzecola, 3 milioni e mezzo di Euri, da spillare alla società di Kathi Wagner che gestisce tutto il media del Festival. Ritorni? Se ne sarebbe parlato non prima del 2015-16, e poi come sarebbero stati ripartiti gli (eventuali) utili? Ecco, la sbrigativa co-direttrice non ci ha pensato due volte e ha mandato Wenders a quel paese, cosa che lui ha prontamente fatto un paio di settimane fa.

Però adesso bisogna trovare qualcuno e in fretta, per non rischiare il mezzo flop del precedente ciclo, affidato in fretta e furia a Dorst dopo la rinuncia di vonTrier e salvato solo dalla presenza di Thielemann sul podio. C'è chi ipotizza che sia proprio la megalomane Kathi ad auto-assegnarsi l'incarico, visto lo strepitoso successo (smile!) dei suoi Meistersinger. Poi c'è qualcuno che ha fatto già dei poll (di quelli per la verità abbastanza ridicoli, che hanno un campione di qualche decina di votanti, fra i lettori di blog). Da uno di questi è uscito vincitore Stefan Herheim (di cui si rappresenta ancora quest'anno Parsifal, con Gatti). Qui invece preferiscono Calixto Bieito, un nome, un programma!
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20 aprile, 2011

Stagione dell’OrchestraVerdi - 31


Settimana Santa. E chi meglio di Bach per santificarla?

Ruben Jais (il papà de laVerdi Barocca) sale sul podio dell'Orchestra maggiore per dirigere la monumentale Passione secondo Matteo (tre ore e un quarto nette di musica!)

Ieri sera il primo dei tre appuntamenti, introdotto proprio da Jais con una eccellente presentazione dell'opera, subito prima del concerto. Jais ha ricordato le tradizioni luterane che introdussero la consuetudine delle sacre rappresentazioni e più da vicino le vicende legate alla produzione delle Passioni bachiane a Lipsia e in particolare alla Matthäus-Passion. Di cui ha sottolineato l'impiego di due formazioni strumentali-coristiche, a supporto dei solisti, ricordando come ai tempi di Bach le risorse disponibili fossero assai scarse e ben lontane dall'ipertrofismo di certe esecuzioni moderne (à la Richter, per intenderci) e come certe tecniche (vedi il vibrato) fossero allora di rarissimo impiego, a causa delle caratteristiche delle corde (di budello, e non metallo). Interessante anche il legame ideale con le modalità gregoriane (che Bach contribuì peraltro a superare in favore della tonalità) testimoniato in questo caso dall'impiego, nell'introduzione, della tonalità MI, legata al deuterus, considerato il modo mistico per eccellenza.

Sul palco le due orchestre sono disposte a sinistra (la prima) e a destra (la seconda) guidate rispettivamente da Santaniello e Ricci. Il coro degli adulti e quello delle voci bianche (che è presente nella prima parte) sono sul fondo e a loro volta divisi in due, associati alle due orchestre. Al centro organi e continuo e, nella seconda parte, Amélie Chemin con la viola da gamba. In tutto, meno di 50 strumentisti. Nove i solisti di canto, molti già apparsi in Auditorium in precedenti simili occasioni: tutti encomiabili, con punte di eccellenza per il tenore Sakurada (Evangelista) e il controtenore Hansen (che ha cantato le parti previste per il contralto).

Come sempre pregevole la proiezione sugli schermi dei testi (originale tedesco e traduzione italiana – di Quirino Principe) cosa che nei teatri che pur dispongono di display alla poltrona non viene fatta mai in occasione di concerti.

Pubblico foltissimo, nonostante l'orario anticipato di inizio (19:30, per evitare di chiudere a mezzanotte!) e che ha tributato a tutti - esecutori e maestri/e - un lunghissimo e meritatissimo applauso.

Personalmente mi viene di citare, di tutta una prestazione eccellente a dir poco, il momento della morte di Cristo, quando l'Evangelista recita Aber Jesus schriee abermal laut und verschied. Ecco, il corale successivo (Wenn ich einmal soll scheiden) è emerso in pianissimo, con un effetto emozionante, da stringere il cuore: davvero una perla fra le perle di questa esecuzione.

Dopo Pasqua (ma all'Angelo ci sarà ancora Jais con la Barocca) la stagione principale riprende con il Novecento francese (con intermezzo italico).
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19 aprile, 2011

Gergiev fra una Turandot e l’altra


In questo periodo Valery Gergiev deve aver preso alloggio alla Scala, dato che quasi tutte le sere vi sale sul podio, o per una delle tante repliche di Turandot o per dirigere i tre concerti della Stagione Sinfonica, per i quali l'Orchestra Filarmonica agisce in veste di fornitore esterno di prestazione al Teatro.

Ieri sera secondo concerto (il terzo giovedi 21) con un programma tutto slavo.

Che prevede dapprima il celebre Concerto per violoncello di Dvorak, interpretato dal grande Mario Brunello.

Sappiamo ahinoi che i corni non sono propriamente la punta di diamante dell'orchestra, ma devono anche essere vittima di una discreta dose di sfiga, diciamolo pure. A battuta 56 dell'Allegro iniziale, assai prima dell'entrata del solista, c'è (ritardando, un poco sostenuto) il bellissimo intervento del primo corno, 9 misure, che espone la struggente melodia in RE maggiore:


poi proseguita dal clarinetto. Insomma, non sembrerebbe poi così impegnativa come l'apertura del Till… eppure ci scappa una inopinata, quanto clamorosa stecca, proprio sull'ultimo FA#. Managgia! Perché per il resto, Ciajkovski compreso, le cose non andranno neanche tanto male, anche se la perfezione è molto lontana.

Brunello suona invece da dio, riuscendo a suscitare, da questa pagina pur inflazionata, grandi emozioni, in specie nel centrale Adagio, ma non troppo. Gergiev fa di tutto per lasciargli sempre il primissimo piano, o per far emergere altre voci solistiche (in specie i clarinetti) e facendo poi sfogare l'orchestra nei pochi fracassi di prammatica. Gran trionfo per il solista che regala anche un bis.

Ecco poi Ciajkovski e il suo estremo capolavoro, la Patetica. Gergiev la conosce ovviamente a memoria (Dvorak invece lo leggeva, smile!) ma ogni volta ci mette qualcosa di nuovo. Quando tale Hanslick ascoltava cose come queste, affermava che si tratta di musica che puzza (sic!) Ora, Gergiev, specie nel movimento iniziale, deve aver cercato di dar ragione in tutti i modi al burbero critico ottocentesco. Forse non era proprio puzza quella che emanava dai suoni, magari era pure un profumo, ma di quelli ottenuti buttando melassa sull'incenso. Ecco, tutte le possibili esagerazioni sono state messe in campo: ammiccamenti gigioneschi, brodo di giuggiole in quantità, tempi stirati continuamente, dal lento esasperante ad improvvise quanto gratuite accelerazioni. Insomma, una cosa abbastanza disdicevole.

Dopodichè, tutto d'un fiato, i restanti tre movimenti sono tirati via da Gergiev quasi con fretta e supponenza, come a dire: la mia inventiva ve l'ho propinata all'inizio, il resto sarà per un'altra volta. Il pubblico ringrazia e aspetta la prossima occasione.
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