affinità bombarole

rinsaldato il patto atlantico

12 aprile, 2011

Pappano e una grande Cecilia alla Scala


Ieri sera i santi romani della Cecilia, guidati da Antonio Pappano, sono stati ospiti della Scala per un Concerto benefico, a favore della CRI. Teatro non propriamente esaurito, ma questa volta gli assenti hanno avuto decisamente torto.

Qualcuno forse ricorderà che esattamente un anno fa una analoga visita già programmata da tempo (con la Seconda mahleriana in locandina) venne inopinatamente cancellata per non disturbarne un'altra, evidentemente considerata di priorità superiore (parlo del forestale ritorno di Abbado). Poi il destino (o qualcos'altro, per chi non gradisce gli eufemismi) ci mise lo zampino e così i milanesi, dalla possibilità di ascoltare due Auferstehung interpretate a breve distanza di tempo dalla prima orchestra italiana (guidata da un italo-albionico immigrato in Italia) e dall'orchestra del primo teatro italiano (guidata da un italiano che l'ha abbandonata da tempo per emigrare fra i crucchi) si ritrovarono con un pugno di mosche.

Ecco, la visita di ieri era una specie di risarcimento per il danno subito. E che risarcimento, accipicchia. Schumann-Brahms, un'accoppiata tanto classica quanto corposa, due cosucce proprio da niente: la Quarta e il Requiem!

Con Schumann si ha subito l'idea del valore di questa Orchestra (disposta precisamente secondo il layout tradizionale tedesco, violini secondi al proscenio e archi bassi al centro-sinistra) compatta in ogni sezione, suono chiaro, pulito e senza sbavature (gli ottoni hanno subito modo di mettere in mostra le loro qualità) e del suo Direttore, il cui gesto può magari sembrare goffo, ma dev'essere assolutamente efficace, a giudicare dai risultati. Una Quarta tirata tutta d'un fiato, con punte di diamante nella Romanza, con oboe e primo violino in bella evidenza, e nello strepitoso Presto conclusivo, dove il suono sale progressivamente dagli strumenti bassi (strepitosa qui la prestazione di contrabbassi e violoncelli) a quelli alti, come una serie di ondate successive.

Dopo l'intervallo arriva anche il coro di Ciro Visco, in uno con i solisti Rebecca Evans e Peter Mattei, per deliziarci con il brahmsiano Ein Deutsches Requiem. Le cui note hanno risuonato ieri a Milano dopo aver riempito di sé sabato e domenica l'Auditorium di Renzo Piano, prima di tornarvi ancora questa sera stessa.

Un Requiem tedesco: Brahms in effetti lo pensò come Una specie di Requiem; e nemmeno tedesco, ma semplicemente… umano! Che l'ispirazione musicale sia venuta da Bach non stupisce affatto (Mendelssohn aveva ormai resuscitato il grande Johann Sebastian) ed è stata ammessa candidamente dallo stesso Brahms, che rivelò di aver preso spunto per i temi del primo e secondo brano da un famoso corale di Bach, normalmente individuato come Wer nur den lieben Gott (quello della cantata BWV93). Il motivo è però rintracciabile prima ancora in un'altra cantata, la BWV27 (Wer weiss, wie nahe mir mein Ende?):

Quest'ultimo testo si avvicina fra l'altro in modo assai chiaro a quello del N°3 del Requiem: Herr, lehre doch mich, dass ein Ende mit mir haben muss.

La radice dello stesso tema si trova anche nel famoso Inno dell'Imperatore, musicato da Haydn in un quartetto e oggi Inno nazionale tedesco. E Brahms la richiamerà ancora vagamente, nel suo secondo concerto per pianoforte.

E non c'è dubbio che Brahms abbia anche pensato a Schumann (che aveva incluso un Requiem nei suoi incompiuti programmi): è stato già notato il richiamo ad un passo del Paradies und Peri nella seconda sezione del N°2:


Ma il momento (per me) più emozionante dell'intero Requiem è (nel N°3) il passaggio dal Nun, Herr, wes soll ich mich trösten (Adesso, Signore, con chi mi debbo consolare?) - ripetuto in piano dopo essere stato gridato in fortissimo - al canone di Ich hoffe auf dich (Io ripongo la mia speranza su di te). È il passaggio da una domanda angosciosa, quasi sconfortata, alla speranza – appunto - nel Creatore:
E che introduce la successiva fuga di proporzioni gigantesche, su Der Gerechten Seelen sind in Gottes Hand (Le anime dei giusti sono nelle mani di Dio).

Ma a proposito di fughe colossali, come non restare colpiti ed ammirati da quella, in SIb maggiore, principiante con Die erlöseten des Herrn (I redenti dal Signore) che chiude il N°2. E poi da quella in DO maggiore, che conclude il N°6: Herr, du bist würdig zu nehmen Preis und Ehre und Kraft (Signore, tu sei meritevole di ricevere elogio e onore e potenza). Veri e propri monumenti eretti ad imperitura gloria di una stagione della civiltà musicale occidentale, anzi mitteleuropea, che non ha (for the time being) uguali al mondo.

Si è giustamente scritto che il Requiem brahmsiano è distante le mille miglia da quelli cattolici, tutti incentrati sul tremendo - e assai poco divino, diciamolo chiaramente - Dies Irae (ecco, se Dio è soggetto all'ira… ma che c. di dio è?) e non per nulla nel N°6 Brahms musica versi del tutto lontani dalla liturgia cattolica:

Poichè la tromba suonerà,
e i morti saranno resuscitati
incorruttibili,
e noi saremo trasformati.
Allora si adempirà
la parola, che sta scritta:
La morte è divorata nella vittoria.
Morte, dov'è il tuo aculeo?
Inferno, dov'è la tua vittoria?

(Peccato che Lutero non ce l'abbia fatta a valicare le Alpi, smile!!!)

Ecco, musica come questa sa conciliare come null'altro fede e ragione, anelito al trascendente e orgogliosa rivendicazione delle straordinarie prerogative dell'Uomo. Merito di Pappano, Visco e dei loro eccezionali musicisti, oltre che degli impeccabili Evans-Mattei, di averci emozionato ancora una volta ascoltando questo capolavoro. Alla fine grandi ovazioni per tutti (con qualche isolata disapprovazione per il solo Pappano? Forse c'era qualcuno dai gusti troppo raffinati o dal cuore troppo freddo…) Certo è che alla Scala non capita spesso di ascoltare musica a questi livelli.

08 aprile, 2011

Stagione dell’OrchestraVerdi - 30


Per l'appuntamento del concerto n°30 abbiamo un trio di Autori e composizioni di fine '800. Sul podio il 47enne John Gunnar Rafael Storgårds, che si aggiunge alla nutrita falange dei direttori finnici che vanno oggi per la maggiore.

E in omaggio alla sua Suomi, ecco l'antipasto di Sibelius: l'OP.16, riscritta per tre volte, dalla prima versione del 1894 fino a quella del 1903, chiamata Vårsång (Canto di primavera) in FA maggiore. È il periodo in cui il Sibelius trentenne comicia a farsi largo come compositore e soprattutto viene gratificato di un generoso vitalizio statale, che gli permetterà poi di vivere più che decentemente, fino alla venerabile età di 92 anni, a carico del pantalone finnico, in cambio di qualche pretenziosa ed anacronistica sinfonia e di musiche di circostanza. E chiamalo stupido!

La Vårsång è una lunga melopea, aperta dall'esposizione del tema principale, in FA:


Che poi viene sviluppato, con moderate modulazioni, per il resto del brano; e che sembra volerci trasmettere sensazioni che si provano al cospetto di un ampio e solitario paesaggio, quando la natura si risveglia dal torpore invernale; fino ad esplodere nel suo pieno fulgore, in fff, con abbondante scampanìo, su una modulazione napoletana a RE bemolle. Nella quale tonalità l'incipit del tema si fa risentire, piano, un'ultima volta, prima del ritorno a FA maggiore per la trionfale, quanto pesante ed enfatica chiusa.

Vien da chiedersi perché il burbero Jean abbia rinunciato ad impiegare l'arpa (o se ne sia dimenticato…) in un pezzo così lirico. Che dura circumcirca 7 minuti, e di questo siamo tutti grati a lui. Oltre che al suo connazionale direttore e soprattutto agli orchestrali de laVerdi, per averci sapientemente indorato la pillola.

Il verdiano residente Radovan Vlatkovic arriva poi ad interpretare il Primo Concerto per Corno, composto da un Richard Strauss non ancora diciottenne, e dedicato originariamente al paparino Franz Joseph, esimio cornista a Monaco, oltre che feroce anti-wagneriano (dal che si deduce che il mago di Lipsia dai cornisti pretendesse assai!) Però anche il giovine Richard, che wagneriano lo diventerà solo più tardi, non scherza di sicuro con il solista, a cominciare dagli accidenti messi in chiave; nell'Andante centrale sono il massimo possibile: sei, LA bemolle minore (e nella sezione centrale: 5 diesis, MI maggiore!)

Il corno è di sicuro uno degli strumenti più affascinanti (oltre che difficili da suonare) e il concerto di Strauss richiede invero doti virtuosistiche fuori dal comune. Qui una fulminante guida all'esecuzione - proposta da un professore che oggi occupa il posto del dedicatario del concerto - che presuppone l'impiego del moderno corno a pistoni in FA (ai tempi di Strauss, che lo ha prescritto in partitura per il solista, era una novità) con valvola di bypass a SIb.

Vlatkovich è a sua volta un'autorità e proprio sul concerto di Strauss lo vediamo qui impegnato come titolare di master-class.

Già nel tema dell'Allegro si distingue distintamente il piglio deciso, quasi weberiano, del futuro creatore di cosucce quali il Rosenkavalier:
A proposito: se Sibelius fu un mangia-pane-a-tradimento, va detto che anche Strauss fu un uomo venale come pochi: si battè ferocemente per il riconoscimento dei diritti d'autore (con quelli di Salome si costruì la sontuosa villa a Garmisch) e non scrisse una sola nota senza averci prima costruito attorno un profittevole business-case. Però, accidenti, lui aveva qualche dono di natura che all'alcolizzato finlandese faceva totalmente difetto!

Tornando al nostro corno, l'Allegro si chiude con due arpeggi degli strumentini che, senza soluzione di continuità, vengono ripresi dai violini per introdurre l'Andante, come detto in LAb minore, dove il corno sembra voler farci sognare, e poi in MI maggiore, un passaggio più eroico, prima del ritorno del tema iniziale.

L'attacco del Rondò finale ci riporta allo spirito originario dell'Allegro:


Chiude una strepitosa stretta (con bravura) fino alla discesa dominante-tonica che suggella il tutto.

Il grande Radovan è autore di una prestazione eccezionale: legati pulitissimi, note tenute perfettamente in piano, virtuosismi mozzafiato. Insomma, una cosa grande. E come bis ci regala questa cosuccia che Rossini scrisse nientemeno che per 4 corni!

Infine la Prima di Mahler, sinfonia che sta diventando più eseguita dell'Eroica, a conferma che l'Autore, quando diceva (così dicono) il mio tempo verrà, ci credeva sul serio. Nel quadro del programma di divulgazione mahleriana, l’opera è stata analizzata, prima del concerto, da un puntuale intervento di Cesare Fertonani.

A differenza del rivedere per la 50a volta Indovina chi viene a cena, dove uno ormai non solo ricorda i dialoghi a memoria, ma sa anche perfettamente prevedere l'increspatura di sopracciglia di Spencer Tracy quando scopre la verità… ascoltando per la 50a volta questa sinfonia uno può sempre porsi domande epocali (aggettivo oggi in voga, smile!) del tipo: ma il LA iniziale, Dellingshausen&C lo faranno proprio con tutti gli armonici, o se ne mangeranno una parte? E poi il Direttore farà il ritornello del primo movimento, ri-passeggiando sui prati di buon mattino, o tirerà dritto, per sopraggiunti crampi ai garretti (o allo stomaco)? E la Viviana sarà in vena come al solito per centrare come un cecchino tutti quei RE-LA dei timpani, disseminati in modo paranoico nelle ultime 12 battute del primo movimento? E fra-martino-campanaro sembrerà davvero una filastrocca (come sostengono debba essere alcuni soloni mahleriani) o un serio tema da sinfonia, come molti direttori tendono a presentarlo? E i corni nel finale - si accettano scommesse - quante stecche faranno?

Insomma, la musica è (quasi) l'unica delle arti dove ogni volta si deve ricostruire da zero (meglio: dall'arida carta) l'opera che il compositore aveva immaginato e poi trascritto imperfettamente (molto imperfettamente) su quell'arida carta. E questa è la sua croce-delizia, oltre che fonte di reddito per addetti-ai-lavori (critici in prima fila) o pretesto per semplici tifosi che abbisognano di argomenti per discussioni da bar… o da blog (smile!)

Qualche citazione sul Titano da giudizi (di incisioni) di un famoso critico albionico:

Kubelik ci tirava fuori il grottesco, l'assalto al cielo, il romantico.
Horenstein aveva un gran senso dello spazio e aggiungeva mistero.
Walter, nel terzo movimento, riconosce l'elemento parodiante, ma va ben oltre: mescolandovi un pizzico di tragedia per rendercelo ancor più significativo.
Nel Trio dello Scherzo, Barbirolli riesce a rimanere a pochi passi dal manierismo e l'effetto è quello di un commento ironico su ciò che immediatamente precede e ciò che seguirà.
Bernstein, nello Scherzo, non sa resistere a deliri ed esagerazioni che questa musica non può sopportare: cerca di farla troppo mondana e il risultato è affettazione.
Quello di Chailly è un approccio romantico, ma non tale da portarlo a manierismo, né ad auto-indulgenza.
Con Boulez, nel progredire del primo movimento si ha una reale sensazione che ogni suono venga nuovamente vagliato e affinato, ma mai a spese di lirismo ed espressione naturale.
Solti ci propina solo ciò che sta in superficie, null'altro.
Tilson-Thomas è ammirevole per come capisce quando essere serio e quando no.
Muti vede il secondo movimento solo come un piacevole insieme di danze. Forse lui qui è troppo poco raffinato per scavare sotto la crosta.

Se lo dice lui… Ma poi siamo sicuri che quelle incisioni non siano state editate in qualche modo, prima di uscire in CD? Comunque, dovendo proprio scegliere a chi dei citati interpreti Storgårds si sia avvicinato di più, io direi a Tilson-Thomas (smile!) A parte gli scherzi, il nordico Direttore mi è parso piuttosto rilassato nei tempi, salvo poi prendere brusche quanto eccessive accelerazioni in qualche momento topico (ad esempio le conclusioni dei movimenti, terzo escluso). Non sempre perfetto il bilanciamento del suono, con linee secondarie (degli ottoni, per lo più) venute troppo spesso, e a sproposito, in primo piano.


Insomma, una lettura piuttosto anonima e non accuratissima, mi è parso (ma forse, chissà, è l'effetto-sazietà della 50a audizione); peccato perché invece l'orchestra ha suonato splendidamente, meritandosi un gran trionfo.


Orchestra che adesso si prepara alla Pasqua (che sarà all'insegna di Bach) con un'Apocalisse fuori programma e fuori sede.
... 

05 aprile, 2011

Chailly con Mahler alla Scala


Ieri sera Riccardo Chailly è tornato sul podio della Filarmonica scaligera per proporci la (celebre?) Settima Sinfonia di Gustav Mahler. Musicologi, analisti, editori ed esegeti non si sono mai accordati su quale sia la tonalità di impianto del primo movimento: c'è chi dice MI minore (sono i più, e lo conferma la locandina cartacea) e chi invece propende per SI minore (quest'ultima è effettivamente la tonalità dell'incipit). Forse è per questo che il sito della Filarmonica ha tagliato la testa al toro e, per accontentare tutti, ha salomonicamente indicato RE minore. Meno male che almeno il minore è rimasto (smile!) Vero è che almeno un movimento (il terzo dei cinque) è effettivamente in quella tonalità.

Nella romanzata sequenza delle sinfonie del boemo, questa sarebbe una di quelle dove l'eroe (perché attenzione: c'è sempre un eroe come protagonista, siamo ancora nel romanticismo, sia pure tardo, chiaro?) in qualche modo risorge, o si purifica, o si reincarna, o magari semplicemente chiede scusa per essersi suicidato (ma solo per finta!) nella sinfonia precedente.

Così la seconda porta al camposanto l'eroe uscito faticosamente vittorioso - nella tenzone contro il temibile fra-martino-minore - dalla prima; ma nella terza l'eroe salito al cielo impara ad ascoltare la natura, i prati, gli animali, le campane e, ovviamente, dio; nella quarta l'eroe – sempre da morto – prende in giro un po' tutti, compresa la morte medesima e il paradiso; ma nella quinta risorge e, dopo aver per la verità rischiato di ri-morire subito (a Venezia, smile!) torna più vivo e in carne che mai; poi però nella sesta si martella per tre volte (sadico!) i coglioni e ne esce distrutto, finito, annichilito e polverizzato.

Ecco, a questo punto bisogna spiegare all'ascoltatore che quella era tutta una finta, un'affettazione; insomma: una roba tardo-tardo-tardo (3 martellate, per l'appunto) romantica; e come tale da non prendersi troppo sul serio. A trasmettere tale messaggio è finalizzata la settima, una sinfonia prosaica, con passeggiate notturne - allietate da chitarre e mandolini, una cosa a metà fra la Ronda di Rembrandt e la Ritirata di Boccherini - e walzeroni sguaiati, insieme a scimmiottature di maestri-cantori. Insomma, la parodìa della parodìa. Ma per l'apoteosi si dovrà ancora aspettare l'ottava, dove il nostro eroe dalle mille morti e millanta vite verrà finalmente attratto in alto dall'eterno femminino (ma questo eterno femminino cosa aspetta, di grazia, ad attirare in alto – e non nei sotterranei del bunga-bunga - il nostro amatissimo PM? strasmile!)

Dopodichè, a forza di gridare al lupo al lupo, per Mahler la vita si farà maledettamente dura per davvero; e serissime assai saranno di conseguenza le sue tre ultime opere.

Ma torniamo alla settima e soprattutto a come ce l'ha propinata il Riccardone per interposti Trepper. Quello di Chailly mi è parso un approccio à la Klemperer-tardo, in particolare nel primo movimento, piuttosto strascicato. Le Nachtmusiken avevano caratteristiche più soporifere che sognanti. Lo scherzo un po' troppo in punta di piedi, nemmeno fosse un menuetto… E il Rondò ha solo in parte riscattato una prestazione così-così, inquinata anche dai soliti incespicamenti degli ottoni, nessuno escluso (no, forse la tuba). Il migliore è stato l'addetto ai timpani (smile!):


Il pubblico ha comunque voluto premiare tutti, e va bene così…
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01 aprile, 2011

Stagione dell’OrchestraVerdi - 29



Riecco Wayne Marshall sul podio per un altro programma assai …pesantuccio.

L'apertura è dedicata a Bohuslav Martinů e al suo Concerto per due pianoforti. Martinů fu compositore tanto prolifico (15 opere, 6 sinfonie, 14 balletti!) quanto poco è ancora eseguito: certo assai meno dei connazionali Janacek o, peggio ancora, Dvorak e Smetana… (Tuttavia al Massimo di Palermo si darà fra poco la prima italiana di The Greek Passion.)

Scritto nel 1943, poco dopo l'emigrazione in USA (dove il 5 novembre fu eseguita la prima da Genia Nemenoff e Pierre Luboschutz – dedicatari virtuali dell'opera - con la Philadelphia di Ormandy) il Concerto ha una struttura (ed anche un'orchestra) tradizionale, con i classici tre movimenti: 1. Allegro non troppo 2. Adagio 3. Allegro; e soprattutto è saldamente ancorato alla tonalità (RE minore-maggiore, SIb minore, SIb maggiore) anche se le digressioni sono all'ordine del giorno.

Alle tastiere dei due pianoforti contrapposti, privi di coperchio e sistemati dietro il podio, siedono Jennifer Micallef e Glen Inanga: lei maltese, lui nigeriano (e poi dicono che a Malta prendono i migranti a fucilate, smile!) formano da tre lustri coppia fissa nelle sale da concerto di tutto il mondo. E mostrano anche qui il loro perfetto affiatamento, con un'esecuzione convincente, nei vivaci movimenti estremi, come nelle sommesse cadenze dell'Adagio. Ci regalano anche un bis, in cui fa capolino il mio babbino caro, forse in omaggio alla dolce attesa della bella Jennifer.

Il piatto forte della serata è costituito dai Carmina Burana di Carl Orff. Chissà se la scelta è stata fatta per approfittare della presenza sul palco dei due pianoforti (smile!) prescritti anche dalla partitura del compositore tedesco. Il quale - in pieno nazismo, di cui ancor oggi si fatica a capire se fosse vagamente simpatizzante o semplicemente tollerante - musicò testi venuti alla luce in un monastero medievale benedettino (oggi di proprietà dei salesiani di DonBosco, ma impiegato nella seconda guerra mondiale come scuola-ufficiali della Wehrmacht!) Nome tedesco Benediktbeuern, dove il beuern starebbe, pare, per abitazione, casetta. In latino fa bura (che significa tutt'altro: un componente dell'aratro) da cui il titolo dei testi medievali e dell'opera di Orff.

I testi, che hanno carattere prevalentemente goliardico, spesso scurrile e/o blasfemo (un'anteprima della moderna Ifigonia in Culide, smile!) sono più di 300, suddivisi in alcuni gruppi principali (morali e satirici, amatori, libatori e ludici) e sono scritti prevalentemente in lingua latina (assai maccheronica) ma anche alto-tedesca e con tracce di provenzale. Orff ne ha musicati 24 (il primo ripetuto alla fine) in prevalenza provenienti dalla sezione amatoria – anche se ha evitato accuratamente i passi più… osé - e raggruppati e posti secondo una sequenza che non rispetta quella (del resto astrusa) dei manoscritti. (In appendice una mappa di corrispondenza fra i testi di Orff e l'originale).

Musicalmente si tratta di una vera e propria mappazza di non facile digeribilità, in quanto vi manca totalmente (e volutamente, peraltro) qualunque contrappunto. C'è invece un continuo incedere per brutali, rozze ed arcaiche armonie, o sgradevoli unisoni, come ci chiarisce da subito la prima pagina del manoscritto:


Per nostra fortuna c'è anche qualche squarcio lirico, come il famoso richiamo primaverile di oboi e flauti:


O come l'Omnia sol temperat (n°4) del baritono, o l'orchestrale Tanz (n°6). O ancora i due interventi del soprano ai numeri 17 (Stetit puella) e 21 (In trutina).

Non mancano le difficoltà per i solisti. Ad esempio, al n°12 (Olim lacus colueram) il tenore deve salire per ben tre volte al RE acuto (a meno che non si trinceri dietro il minuscolo 8 posto sotto la chiave di violino, smile!):

Al n°15 (Amor volat undique) il soprano dovrebbe (uso il condizionale) tenere un RE centrale per ben 28 semiminime, che a metronomo 96 (e con una misura pochissimo ritardando) significano più o meno 18 secondi: una bella apnea!

Al n°16 (Dies, nox et omnia) il baritono deve salire addirittura al SI acuto:


Naturale che lo faccia in falsetto (anche se la partitura in questo caso nulla dice…)

Infine, al n°23 (il brevissimo Dulcissime) il soprano deve a sua volta scalare il RE acuto, al termine di una non facile cadenza, tutta in legato:


I tre solisti erano: il soprano Maureen Brathwaite, che ha mostrato una bella voce calda e si è disimpegnata benissimo anche nelle parti più difficili cui è chiamata; il controtenore David Allsopp, che non ha dovuto virare al falsetto, perché ce l'ha incorporato (smile!) e il baritono Carmelo Corrado Caruso, che invece ha regolarmente falsettato al n°16 e per il resto si è disimpegnato più che discretamente.

Bravissimi sia l'Orchestra (trombette in gran spolvero, chiamate a passaggi davvero impervi) sia i Cori di Erina Gambarini (grandi) e Maria Teresa Tramontin (piccoli).

Alla fine gran trionfo per tutti e, dopo ripetute chiamate, il pubblico reclama il bis. Che viene concesso da Marshall, a condizione che anche il pubblico canti (!?) Ma senza i testi proiettati sugli schermi, il Fortuna è ricantato solo dai cori, il che è tutto sommato una… fortuna. Persino musica come questa un minimo, ma proprio minimo, di rispetto lo merita.

Torneremo in pieno tardo-romanticismo con il concerto n°30.
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Fortuna Imperatrix Mundi
1. O Fortuna (Carmina moralia et satirica - De avaritia – 17)
2. Fortune plango vulnera (Carmina moralia et satirica - De avaritia – 16)

I

Primo vere
3. Veris leta facies (Carmina amatoria – 138.1-2-4)
4. Omnia sol temperat (Carmina amatoria – 136)
5. Ecce gratum (Carmina amatoria – 143)

Uf dem anger

6. Tanz
7. Floret silva nobilis (Carmina amatoria – 149)
8. Chramer (Supplementum – 16 – Maria Magdalena)
9. Reie
    Swaz hie gat umbe (Carmina amatoria – 167a)
    Chume, chum geselle min (Carmina amatoria – 174a)
    Swaz hie gat umbe (Carmina amatoria – 167a)
10. Were diu werlt alle min (Carmina amatoria – 145a)

II

In Taberna
11. Estuans interius (Carmina potoria – 191.1-5)
12. Olim lacus colueram (Carmina amatoria – 130.1-3-5)
13. Ego sum abbas (Carmina potoria – 222)
14. In taberna quando sumus (Carmina potoria – 196)


III
Cour d'amours
15. Amor volat undique (Carmina amatoria – 87.4)
16. Dies, nox et omnia (Carmina amatoria – 118.5-6-2)
17. Stetit puella (Carmina amatoria – 177.1-2)
18. Circa mea pectora (Carmina amatoria – 180.5-6-7)
19. Si puer cum puellula (Carmina amatoria – 183)
20. Veni, veni, venias (Carmina amatoria – 174)
21. In trutina (Carmina amatoria – 70.12a-12b)
22. Tempus est iocundum (Carmina amatoria – 179.1-2-4-7-5-8)
23. Dulcissime (Carmina amatoria – 70.15)

IV

Blanziflor et Helena
24. Ave formosissima (Carmina amatoria – 77.8)

Fortuna Imperatrix Mundi

25. O Fortuna (Carmina moralia et satirica - De avaritia – 17)
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Fool’s day



Trascrizione verbatim di una chat che ha avuto luogo (o avrà luogo, fa lo stesso) su un famoso blog, durante una diffusione in streaming, da una famosa OperaHouse, di un celebre melodramma italico.

Scriventi sulla chat:
Gioberta, Natalino, Salieri, Fontanella, Venerdi, Maddalena, Destri

Chat:

G: solito pubblico: guardate quella signora tutta ingioiellata!
N: il direttore sembra piuttosto inquieto: che abbia le emorroidi?
S: l'accordo di apertura pareva una pernacchia
N: il primo violino ha l'unghia del mignolo troppo lunga
G: con quelle unghie da pornostar, poi
F: secondo me ha solo una caghetta bestiale
V: solita solfa
S: ho già capito che è un battisolfa
F: ma potrebbe anche essere sifilide
V: non sento alcun calore mediterraneo
M: sono riuscita a collegarmi solo adesso, colpa di quel merdoso i-provider
S: quello porta di sicuro sfiga
N: io invece sento brividi di freddo
G: meno male che la sinfonia dura poco
N: occhio che il soprano entra subito
M: a giudicare dall'ultimo accordo, ha il parkinson
S: ma questa l'avrà studiata la parte per almeno mezza giornata?
V: per come è stata stuprata, dura fin troppo
D: scusate il ritardo
N: più che battisolfa, a me pare un quadrupede
M: avrà dato un'occhiata allo spartito sì e no mezz'ora prima
D: la cigna era tutta un'altra cosa
V: sì, proprio una bestia
G: che ne dite dell'aids?
N: oggi comanda il marketing, non la voce
S: un maiale, direi
M: anzi, forse solo un quarto d'ora
G: il tenore sul passaggio fa ridere
S: in qualunque teatro di provincia lappone cantano meglio
F: scusate, ero andato un attimo in bagno
V: lo streaming sembra buono
M: no, fa cagare proprio
D: regia cerebro-demenziale, al solito
N: il baritono è sponsorizzato dalla gdd
V: vorrei essere lì per mandarli a cagare tutti
F: ho fatto solo pipì
G: anche qui è perfetto
D: http://youtube.com/battistini_1904_cavatona/watch?v=hg9ThyHSf3p
M: hanno uno stock di pastrani ddr da smaltire
S: a samarcanda a quest'ora i buh si sprecherebbero
N: sul si bemolle il soprano pareva un topo squartato
G: scusate, ero al telefono con la suocera, acc…
M: dammi retta, quella è proprio un'associazione a delinquere
F: la cabaletta del tenore pareva dove sta zazzà
S: a timbuctu non arriverebbero di sicuro a fine-serata
D: qui da squartare è il baritono
N: certo, battistini…
F: un coniglio scuoiato vivo
G: novità?
D: in scena c'è anche una topolino anteguerra
S: quella dove schipa nel '42 aveva infilato un si finto
M: appunto, un quadrupede
V: ossequi alla suocera
N: e pensare che ha il microfono fra le tette
F: anzi, pareva una gatta in calore
D: e dire che battistini non lo cagava nessuno
S: il teatrino di schwetzingen al confronto sembra il marinski
N: no, guarda che era nel '39
G: ho perso qualcosa di importante?
M: fanno incidere cd anche alle rane
V: io la mia la friggerei viva
F: quella lì, il garcia la mandava a battere
S: fra poco il finale, preparate i pomodori
V: non toccatemi battistini
M: con apicella al bunga-bunga?
F: le forchette non sa cosa siano
G: io ho qui un sacco di coltelli
V: molto meglio schipa
S: meglio ancora l'atomica
N: caricate… puntate
D: battistini sta cagandosi addosso nella tomba
S: mirate prima al tenore, mi raccomando
M: e hanno il coraggio di applaudire
G: qualcuno ha registrato?
D: notte a tutti
V: fortunati loro che non c'ero io sul posto
N: perché, vuoi morire due volte?
F: pubblico bue
G: ne ho persa metà, come faccio a scrivere la recensione?
S: a viggiù li portavano via tutti d'urgenza con i pompieri
M: adesso metto su un 78 giri con pertile
V: vado, mi sta venendo la dissenteria
S: la stessa della settimana scorsa, va sempre bene
F: questa è la morte del teatro lirico
G: quello con la stignani?
N: no, con la neurodeliri
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30 marzo, 2011

Pappano alla Scala per la CRI



Lunedi 11 aprile Antonio Pappano e gli accademici di Santa Cecilia si esibiranno alla Scala in un concerto benefico a favore della Croce Rossa Italiana, Sezione femminile.

In programma la Quarta di Schumann e il Requiem brahmsiano.

Qualcuno ha voluto preparare un breve video promozionale: la musica che si ascolta è sì un Requiem diretto da Pappano con S.Cecilia, ma è quello di Verdi. Come diceva quel tale? Tanto per la precisione
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Ultimi Vespri al Regio di Torino

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Se ne riparlerà nel 2061. Chissà se il signore qui sopra sarà ancora lì ad accogliere gli spettatori dei Vespri del 200°. O se invece a quel tempo sarà in atto – a Torino - un nuovo, vero vespro, protagonista una popolazione a maggioranza islamica in rivolta contro l'occupante cinese. Una cosa è certa: io non sarò là a godermi né l'uno, né l'altro spettacolo…

Coccarde, bandierine, siparioni tricolori, inno nazionale cantato dal pubblico con la mano sul cuore… e soprattutto lezioni di italianità e di impegno civile impartite dal marketing del 150°. Tutto in smobilitazione, compreso l'allestimento che, fuori dal brodo retorico delle celebrazioni in cui era stato concepito, e dall'atmosfera patriottarda della diretta-TV (a proposito di TV-spazzatura, smile!) appare oggi ancor più insensato e offensivo. Chissà come lo prenderanno ad Oslo, o se a Lisbona Livermore metterà in scena la Giovanna de Guzman ambientandola ai tempi di Salazar (ri-smile!) Intanto qui pare non l'abbiano presa troppo bene, a giudicare dalla netta maggioranza (70-30) dei commenti pubblicati sul sito del Teatro. Peccato davvero perché si lascia una macchia sul lodevole impegno di un'Istituzione che oggi come oggi è la migliore in Italia (ah oui, monsieur Lissner) dal punto di vista del livello complessivo della gestione.

Ma mettiamoci sopra una pietra e abbassiamo le palpebre: in teatro si è tornati a suonare e cantare – ieri per l'ultima volta nella stagione – I Vespri di Verdi. Opera difficile, controversa, incompresa, equivocata e tradita fin dal suo nascere (e per mano nientemeno che del suo Autore!) Opera francese, per genere, libretto e produzione. Composta da un non-francese, come innumerevoli altre da rappresentarsi nel tempio parigino. Grand Opéra, appunto, e non solo per i 30 minuti di balletto rigorosamente collocati, come da regolamento, nel terzo atto (mica nel primo, come fece quel villanzone presuntuoso di Wagner, giustamente ricompensatone con il licenziamento in tronco).

Opera in seguito stravolta, per poter transitare indenne dalle dogane di casa nostra: quelle amministrativo-censorie (altro titolo, altra ambientazione) e quelle estetiche (via i balli, e non certo per penuria di ballerine, ma di autarchici Jockey Club, smile!) Però Verdi è Verdi, anche quando tradisce le proprie creature, trasformando un Grand Opéra in un Ernani (non dico in un Trovatore, ma poco ci manca). E possiamo ancora godercelo – qui a Torino ad occhi rigorosamente chiusi - se chi dirige, suona e canta lo fa come hanno saputo fare Noseda, l'orchestra, il coro e i cantanti, ancora ieri sera.

Il mio concittadino Kapellmeister non si è smentito ed ha padroneggiato alla grande una partitura ostica e, come detto, di non facile approccio, stanti le sue origini e vicissitudini: salvo che nella sinfonia (un gioiellino di per suo conto, dove sono giustificate) non si sono sentite enfasi o esplosioni bandistiche (più adatte ai Vêpres che ai Vespri) mentre sono uscite al meglio (grazie anche agli interpreti) tutte le innumerevoli sfaccettature psicologiche e i caratteri dei diversi personaggi. Orchestra con grande equilibrio fra le sezioni; strumentini su tutti, se proprio devo dare un premio speciale: come non ricordarli nello strepitoso coro del finale terzo! A proposito del quale, il minimo che può capitare è che ne esca uno sguaiato berciare di alpini al termine di una delle loro enologiche feste: qui invece, una cosa proprio grandiosa, ma dal puro lato estetico.

Il forfait della Radvanovsky dopo la sola prima ha caricato sulle spalle di Maria Agresta tutte (meno una) le restanti recite di Elena. A volte sono colpi del caso come questo che fanno la fortuna di un cantante. Ma bisogna anche e soprattutto essere dotati e bravi, per poter cogliere la palla al balzo. E la ragazzona ha confermato di avere doti naturali e bravura acquisita evidentemente in anni di duro studio. La sua provenienza dalla categoria mezzo le dà (pare a me) quella solidità e robustezza di impianto necessaria a ruoli come questo. Brava anche nel far trascolorare col canto la sua personalità, da nobile gelida e vendicativa, a donna sinceramente (ma non per Livermore) innamorata. Un paio di urletti non bastano a scalfire la sua prova.

Di Gregory Kunde si è giustamente scritto che non ha l'età (non solo anagrafica) per il ruolo di Arrigo. In compenso ha esperienza da vendere, e soprattutto deve sapere perfettamente come amministrare le proprie risorse per arrivare in fondo senza farsi massacrare da una parte davvero micidiale. Il tocco del RE acuto in falsettino in chiusura dell'incontro con Elena nell'ultimo atto è solo la simpatica ciliegina su una torta assai ben cucinata.

Il cattivone-paterno Monforte di Franco Vassallo è stato (forse) l'unico della compagnia ad essere piuttosto bistrattato dalla critica nei giorni scorsi. Dico però che il mio palato lo ha sopportato senza reazioni di rigetto, quindi non gli darò di certo l'insufficienza (né l'ha data il pubblico, anzi!) anche se non ci ha risparmiato qualche bercio da osteria. Bravo lui, con Kunde, nel duetto del terzo atto.

Ildar Abdrazakov impersonava il patriota-terrorista Procida. Voce sontuosa e piglio da vero brigatista pronto a tutto, fin troppo (smile!) Alla fine il trionfatore è stato proprio lui.

Tutti gli altri (Russo, Ferrari, Lanza, Stier, Olivieri, Mease Carico, Aimé) meritevoli di stima e approvazione. Claudio Fenoglio è ormai una certezza come conduttore dello splendido Coro.

Bene, qui chiudo la mia personale stagione 10-11 al Regio: Boris, Parsifal, Vespri. Dimenticando Livermore e qualche velleità russa di troppo, un tris da leccarsi i baffi!

25 marzo, 2011

Stagione dell’OrchestraVerdi - 28



Il funambolico Wayne Marshall si cimenta con musica contemporanea e novecentesca per l'appuntamento n°28 dei concerti all'Auditorium, incentrato su astrologia e astronomia, due campi diversi, ma contigui e in parte sovrapposti; discipline che hanno fin dalla notte dei tempi attirato l'attenzione e l'interesse dell'uomo.

Di Sofija Asgatovna Gubaidulina sono state eseguite – prima in Italia – le variazioni Sotto il segno dello Scorpione, per bayan (fisarmonica russa) e orchestra. La Gubaidulina è una compositrice russa di origini tatare (compirà 80 anni in autunno) di cui, prima del concerto, Fausto Malcovati e Federico Lazzaro hanno tratteggiato la fisionomia umana e artistica: lei, ragazzina ai tempi di Zdanov - e poi guardata con sospetto, dagli eredi del custode della cultura staliniana, per la sua innovatività - fu per fortuna sostenuta da Shostakovich, che le conferì una specie di laurea in contestazione, stimolandola a insistere sulla sua strada.

Solista alla fisarmonica lo straordinario Davide Vendramin, che era pure stato ospite della conferenza introduttiva, spiegando le caratteristiche foniche del bayan con l'esecuzione di altri spezzoni di opere della compositrice russa. Queste variazioni sono un pezzo di digeribilità complicata, e non solo perché mai udito qui da noi, né ancora inciso su disco. Tanto per esemplificare: anche chi ascolta per la prima volta l'Ottava di Beethoven, subito dopo è in grado di fischiettarne i temi principali; e senza dover sapere che il rapporto di altezze fra dominante e tonica è tre mezzi nel sistema pitagorico e radice dodicesima di due elevato alla settima potenza, in quello a temperamento equabile. Viceversa qui, per apprezzare un tema (o una sequenza) bisognerebbe conoscere da quali numeri della successione di Fibonacci è stato ottenuto; e per individuarne il punto culminante si dovrebbe calcolarne la sezione aurea. Con il risultato di non riuscire comunque poi a fischiettarlo (smile!)

Non ho dubbi che eseguire musica come questa richieda agli orchestrali molto più studio che non suonare per l'ennesima volta l'Ottava di cui sopra, e per questo meritano un applauso. Come naturalmente Vendramin, che ci elargisce anche un bis. Forse molti in sala (a partire dal sottoscritto) avrebbero gradito la Celebre mazurka variata di Migliavacca… ma il tempio e il tempo non lo consentono. OK, ok, così abbiamo fatto il nostro fioretto quaresimale da devoti penitenti.

Poi The Planets di Gustav Holst, albionico purosangue, a dispetto del nome (dal quale fece togliere persino il nobiliare von, per distanziarsi dagli odiati crucchi durante la Grande Guerra). Ai tempi (1914-16) i pianeti riconosciuti erano 8 (Terra inclusa) e quindi Holst musicò i 7 extraterrestri. Né volle aggiungere un ottavo movimento a questa specie di sinfonia delle palle (oh, pardon… sfere) celesti quando, anni dopo, Plutone venne ammesso nel club esclusivo dei satelliti del Sole. E fece bene perché, quasi 100 anni dopo, Pluto l'abbiamo meritatamente declassato a Paperino ed espulso seduta-stante dal club, e così oggi l'opera di Holst è potuta finalmente tornare a pieno diritto di attualità: fra gli astronomi (smile!) come nelle sale da concerto (stra-smile!)



A parte il titolo, la composizione tratta i pianeti dal punto di vista della loro identità mitologica, che poco ha a che vedere con quella astronomica (del resto è forse più facile comporre musica mediocre su concetti quali guerra, pace, gaiezza, e così via, che non sul calore di Mercurio o i ghiacci di Marte, o le brume di Venere, o gli anelli di Saturno). Per questo anche la sequenza in cui ci vengono presentati i pianeti non ha probabilmente nulla di astronomico (anche se diversi esegeti hanno buttato via tempo prezioso, sbizzarrendosi a ricercare improbabili razionali di questo tipo) ma è più verosimilmente legata a scelte estetico-musicali (!?) dipendenti a loro volta dalle significanze immateriali degli oggetti descritti.

Il primo a presentarsi è proprio il guerresco Marte, tempo 5/4, scandito dal primo timpano e dagli archi, che introducono gli ottoni, come da copione:


Si era in piena Grande Guerra e pare proprio di sentire il passo delle fanterie e dei primi mezzi corazzati che aravano i campi di battaglia. C'è in effetti più rumore che suono in questo primo brano della Suite, che in certi momenti pare un antesignano dei Pini della via Appia di Respighi.

Poi tocca a Venere, che porta pace (l'amore sarebbe troppo…): due arpe e la celesta creano atmosfere calme e cullanti; il tempo di base è Adagio, con qualche breve intermezzo in Andante e Animato. Chiude quasi mahlerianamente, dondolandosi fra sesta e dominante di MIb.

Segue Mercurio, messaggero alato. È una specie di scherzo, in 6/8, una cosa che ricorda un poco Shehérazade e un altro poco l'Allegro molto vivace della Patetica. Ma tutto leggero ed aereo, come si addice al volante protagonista. Naturale poi che siano strumentini, arpe e celesta ad avervi la parte del leone.

L'allegria (ma sempre?) la porta Giove. È peraltro un'allegria tutta sussiegosa e britannica (non certo da hooligans, però…) che si apparenta ad elgariane Pump&Circumstance (infatti un tema verrà poi associato ad un canto patriottico) e a popolari Londonderry air, oltre che anticipare musica da film western: insomma, tipica merce da notte finale dei Proms.

Saturno ci ricorda che invecchiamo (ma pare che sul nostro PM abbia altri effetti, smile!) Solennità, ordine, calma, frequente scampanìo sono i tratti principali di questo brano. Che inizia con un'introduzione lenta, dalla quale emerge dapprima un promettente motivo ascendente, nei tromboni, poi in tromba, corni, clarinetti e violini, che però rapidamente sfuma in una specie di Dies Irae che via via si anima, accompagnato dalle campane. Dopo una sosta di meditazione, sono i corni a riprendere l'iniziale solennità, conducendo il brano verso una conclusione quasi eterea, scandita dagli armonici delle arpe.

Ecco poi Urano, il mago. Ergo: le sorcier, e infatti Dukas vi fa subito capolino! Si sente anche un vago richiamo al faustiano coro dei soldati di Gounod, prima che il nostro mago svanisca nel nulla, su un vuoto accordo di MI dell'arpa e dei timpani.

Si chiude con il mistico Nettuno. Come per Marte, anche qui il tempo è in 5/4 (3+2). Per sottolineare il misticismo, e un poco anche la lontananza da noi del pianeta, perso laggiù nelle profondità dello spazio, Holst prevede l'intervento di un coro femminile (diviso in 6 parti) nascosto agli occhi dello spettatore, che non canta alcun testo, ma un unico lamento, una specie di ah… Troviamo qui effetti che – guarda caso – richiamano un po' quelli che Kubrick ci proporrà 50 anni più tardi - 2001, Space Odyssey (poco a che spartire con l'attuale Odyssey dawn, che tradurrei odissea giù di sotto) - impiegando Ligeti. Con grande meticolosità la didascalia in partitura prescrive che il coro e l'eventuale suo maestro vengano dislocati in una sala attigua, di cui non si dovrebbe vedere nemmeno la porta. Porta che andrebbe lentamente chiusa sull'ultima battuta (da ripetersi ad-libitum) esalata dal coro, proprio per ottenere l'effetto di far sfumare la musica nel nulla:



Qui in Auditorium non c'è nemmeno la porta aperta e le voci delle signore di Erina Gambarini si odono proprio come fossero perdute nel vuoto siderale.

Prestazione accolta da grandissimi e lunghissimi applausi: di sicuro indirizzati a esecutori e direttori, forse meno all'opera in sé, francamente di livello estetico discutibile.

Ancora Marshall di scena, la settimana prossima, sempre alle prese col '900 …diatonico.
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23 marzo, 2011

Un Flauto poco magico alla Scala


Ancora uno spettacolo appena-appena degno del teatro più importante del mondo (modestissima auto-definizione della Scala). Una produzione che arriva dal Belgio ed è già transitata dal SanCarlo, anni fa. Di livello accettabile nella parte musicale e pretenzioso, ma con risultati così-così (ai miei occhi, s'intende) in quella dell'allestimento. Che ha comunque il non disprezzabile merito di non ambientare l'opera nel variegato mondo e sottobosco delle logge P2, P3, P4 e così via P-contando. (Ma qualche geniale regista prima o poi ci arriva, matematico.)

Dico subito che la ripresa TV di domenica scorsa aveva ulteriormente fatto danni, con inquadrature quasi sempre generali che davano l'impressione di assoluta monotonia e piattezza. In teatro le cose sono andate un filino meglio, ma certo non in misura sufficiente a sollevare il livello della rappresentazione da dignitoso ad eccellente.

Sulle vicissitudini dell'opera e sui relativi caratteri, incongruenze e bizzarrìe, ho già scritto la mia qualche tempo fa, e non sto a ripetermi.

I testi parlati sono stati – come sempre, e non a torto – pesantemente tagliati, anche se in modo tale da garantire un plausibile senso logico allo sviluppo dell'azione. Mi domando però - stante il fatto che l'opera è in lingua crucca e per lo spettatore medio capir qualcosa dai sottotitoli è impresa più ardua dell'imparare i testi a memoria prima di assistere allo spettacolo – se non convenga eliminarli del tutto (come si fa nelle esecuzioni concertanti) rimpiazzandoli con la proiezione di immagini (live o registrate) che spieghino o mimino ciò che dovrebbe essere solo recitato e che – proprio per questo – viene spesso e volentieri tagliato.

Un esempio, assai circoscritto, ce lo propone proprio il regista William Kentridge nel trattamento delle scene 9 e 10 del primo atto, scene di solo parlato ma che hanno (o dovrebbero avere) una certa importanza, trattandosi del primo impatto che lo spettatore ha con il mondo di Sarastro. Nella prima compaiono tre schiavi che si rallegrano della fuga di Pamina, che dovrebbe avere come conseguenza la punizione capitale di Monostatos, suo carceriere e loro aguzzino, da parte di Sarastro (che non ci farebbe propriamente la figura di un capo nobile e illuminato, ma di uno schiavista che applica giustizia sommaria). Nella seconda, si ode Monostatos ordinare agli schiavi di preparare le catene per Pamina, che lui ha riacciuffato. Ecco, Kentridge taglia al completo – come sempre accade - il parlato delle due scene (e già che c'è toglie anche dalla locandina i personaggi dei tre schiavi) però recupera parte del contenuto di esse con un siparietto in controluce – accompagnato dal fortepiano - in cui si vede Pamina che si divincola dal bavoso Monostatos (che cerca di ingropparsela) e scappa… per poi arrivare in scena nelle grinfie dell'aguzzino, che è riuscito a riagguantarla, e iniziare il N°6, Terzetto.

Kentridge – che non è un regista di professione, e questo potrebbe anche essere un merito (smile!) – imposta la sua messinscena partendo dalla contrapposizione oscurità-luce (chiave dell'opera) che lui materializza nell'oggetto/concetto macchina fotografica: dove chiaro e scuro si invertono, da negativo a positivo, dove la luce penetra nella camera oscura, che la filtra prima di portarla all'occhio; e l'occhio, sappiamo, è uno dei simboli massonici, incastonato nel triangolo, nel numero tre, altro simbolo esoterico, centrale nel mondo della massoneria. Di passaggio segnalo qui una particolarità: in partitura si legge che le tre Dame escono dal Tempio armate di argentei giavellotti e con quelli ammazzano il serpentone, tagliandolo precisamente in tre pezzi. Strano che Kentridge, così attento alla simbologia, trascuri questo particolare.

Tornando all'allestimento, l'idea originale del chiaro-scuro dell'apparecchio fotografico viene applicata di continuo, attraverso la proiezione di immagini in bianco-nero (fisse o in movimento, per simulare movimenti) e soprattutto di linee bianche: rette, continue o tratteggiate, o curve, che costruiscono in tempo reale, su fondo scuro (tipo lavagna) figure e simboli legati alla dottrina massonica. Peccato che la cosa, alla lunga, finisca con lo stancare l'occhio dello spettatore, o per distoglierne la mente – impegnata a decifrare simboli – dall'azione e soprattutto dalla musica. Inoltre, il concetto chiaro-scuro non pare applicato con coerenza: nel procedere dell'azione, dalla notte di Astrifiammante alla luce solare di Sarastro, ci si aspetterebbe che quelle linee trascolorino al nero e che i fondi trascolorino al bianco. Invece no, anche la scena finale avviene nella camera oscura, con le linee bianche e una luce che sembra rimanere un miraggio, più che un elemento che si imponga, inondandola completamente.

In conclusione, un'idea intelligente che mi è parsa realizzata in modo troppo stucchevole e monotòno. Quanto ai personaggi, una regìa apprezzabile, tenuto conto del soggetto.

Sul fronte musicale note positive per Alex Esposito (trionfatore della serata) che mostra di identificarsi perfettamente con la personalità di… Schikaneder!

Albina Shagimuratova è stata una più che discreta Astrifiammante. Oltretutto ha eseguito in modo abbastanza corretto i suoi impegnativi svolazzi sui FA sovracuti (dove domenica aveva francamente palesato qualche difficoltà).

Sui FA gravi ha invece mostrato la corda Günther Groissböck, per il resto un Sarastro per nulla disprezzabile, anche come presenza.

Steve Davislim e Genia Kühmeier se la sono cavata discretamente, ma senza suscitare (almeno nel sottoscritto) particolari entusiasmi.

Nella normalità anonima tutti gli altri, eccetto Peter Bronder che ha interpretato un Monostatos schiamazzante, sparando esclusivamente berci invece di suoni.

Lodi meritate, come sempre, per i cori (adulti e piccoli) di Casoni. Roland Böer pare un giovane di solida preparazione, si vede che con questo Mozart si trova a casa sua. E l'orchestra lo ha ben assecondato.

Pubblico timido – o non entusiasmato – negli applausi alle singole arie. Più deciso nell'approvazione generale, a fine spettacolo. (Il campionato riprenderà prossimamente.)
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20 marzo, 2011

Il Presidente ospite de laVerdi


Specialissimo concerto – questa sera all'Auditorium - in onore di Giorgio Napolitano, a Milano nelle sue interminabili peregrinazioni per celebrare i 150 anni di casa nostra (e anche, di passaggio, le 5 giornate!)

Si sa che il Presidente (quello buono) qui è in famiglia, anche per ragioni affettivo-politiche (mica c'è da vergognarsi del passato, caspita!) Questa sera poi c'è stato un autentico abbraccio collettivo al nostro arzillo vecchietto che davvero - di questi disgraziatissimi tempi - è un autentico dono della Provvidenza (per chi ci crede).

Impressionante il silenzio assoluto, durato almeno 5 minuti, mentre tutto l'Auditorium - dagli spettatori delle ultime file di galleria, al coro schierato sul fondo del palcoscenico – attendeva l'ingresso del Presidente. Silenzio che è poi stato rotto da un lunghissimo, oserei dire amorevole applauso.

Jader Bignamini, che solitamente vediamo schierato in Orchestra con il suo clarinetto, è salito sul podio per l'occasione, guidando i colleghi in una serie di brani legati alle celebrazioni in atto. Oltre all'Inno di Mameli (che non capita spesso di ascoltare completo di tutte le 5 strofe) sono stati eseguiti brani di Rossini e Verdi (cori e sinfonie d'opera) ma anche altra musica risorgimentale o legata alle 5 giornate. Interessante anche la riesumazione (operata da Carlo Lanfossi) di una Fantasia Funebre di Giovanni Bottesini.

Chiusura da manuale, con il Va, pensiero. Altre ovazioni al Presidente, cui il vecchio compagno migliorista Luigi Corbani (oggi Direttore Generale de laVerdi) presenta Bignamini, la Erina Gambarini (che guida il valoroso coro) e il Konzertmeister Luca Santaniello.

Uscito Napolitano dalla sala, il pubblico pretende, ed ottiene, il bis del brano più bissato in assoluto nella storia della musica.

Poi tutti fuori, a far da ala festante al Presidente che si allontana.

W l'Italia!
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