affinità bombarole

rinsaldato il patto atlantico

19 marzo, 2010

E bravo Conlon!

La newyorkese milanesizzata blogger di Operachic ha intervistato di recente il maestro James Conlon (che ha diretto – per me assai bene – l'ultimo Rigoletto alla scala).

Un passo topico dell'intervista è questa considerazione di Conlon:

Our job as performers is to surrender our own egos and to completely open ourselves to the work itself and to transmit that work as if we're not there. This is on the one hand a very easy and simple thing to do. On the other hand, we're all crippled by our own egos. To me, I'm not interested in knowing what my interpretation is. When I was studying at The Juilliard School, the big movement was objectivism vs. subjectivism and the popular methodology was, "You have to find your own feelings, your own voice, and you have to find yourself. What's your take on this piece of music?" Well, I had an allergy to that type of conversation. I thought, "I know what my feelings are and I couldn't care less what my own feelings are. I want to know what the object is." Is that objectivism? Well, yes, that's objectivism. I want to know who Haydn is. I want to know who Beethoven is. I want to know how their music works. How does it fit? Why is it this? And why is it that? And to me, the beauty of that method is that you can devote yourself to the other, and a byproduct of that is that you find yourself. However if you go from the other point of view -- the "find yourself" subjectivism -- you don't find the other.

In sostanza, il Maestro sembra dire: io vorrei poter trasmettervi la quinta di Beethoven, non la Quinta di Conlon, da paragonare con quella di Abbado, di Furtwängler, di Kleiber o di HvK.

Personalmente: parole sante!

Stagione dell’OrchestraVerdi - 23

Interessante e impegnativo programma alla stagione dell'OrchestraVerdi, con pezzo forte la sinfonia Turangalila di Olivier Messiaen.

C'è anche un'insolita anteprima, chissà se e come legata alla presenza sul podio del basco Juanjo Mena e a festeggiamenti con cui il Consolato di Spagna a Milano celebra l'attuale turno di presidenza spagnola della UE: la città di Bilbao (presente il sindaco) si fa un po' di pubblicità, con la proiezione di un filmato che mostra le magnifiche sorti e progressive della famosa città del Paese Basco, passata in 30 anni da una profondissima depressione all'attuale prosperità. E fin qui, tutto bene. Peccato che il festeggiamento comporti anche l'esecuzione di una ouverture di uno sconosciuto musicista di Bilbao, Juan Crisóstomo de Arriaga (primi dell'800) una cosa a metà fra Paisiello e Rossini. Nulla di peggio da ascoltare subito prima di Preludio+Liebestod dal Tristano di Wagner. È come bere un bicchierone di vecchia spuma prima di un calice di amarone. Nobbuono.

E forse ciò è funesto anche sulla concentrazione dell'orchestra, che è tutt'altro che perfetta in Wagner, colpa anche di Mena, sicuramente: tempi piuttosto slentati, poco o nulla del pathos che caratterizza queste pagine, qualche evidente imprecisione negli attacchi. Inoltre – e qui nessuna colpa per maestro e orchestrali - l'esecuzione puramente strumentale del finale del dramma lascia sempre il sapore di un manicaretto che il cuoco abbia cucinato dimenticando un ingrediente fondamentale; che so, come mangiare una bagnacauda senza acciughe, o i tortelli di zucca senza… la zucca o addentare un panino al salame, cui qualcuno ha sottratto il salame. Nella Liebestod la voce ha una sua propria linea melodica autonoma, che l'orchestra sostiene e richiama, ma che mai raddoppia alla lettera. Quindi se si esegue il brano senza la voce, davvero non ci si raccapezza, si sente solo l'accompagnamento che, per quanto sia grande musica, è appunto solo un accompagnamento. Non ho mai capito perché Wagner per primo o qualche musicista avveduto non abbia pensato di far cantare, al posto della soprano, che so, una viola o un flauto, per darci almeno l'idea vaga di cosa sia il brano originale. Tanto per fare un esempio, quando una soprano esegue in concerto Sempre libera dalla Traviata e non si vuole scomodare un tenore solo per fargli cantare i versi fuori scena (sono poche parole, ma straordinariamente efficaci) lo si sostituisce con il canto di un violoncello, per non farci perdere quel bellissimo effetto. Pazienza, anche stavolta restiamo con un certo amaro in bocca, e buonanotte.

Nell'intervallo i simpatici ospiti baschi si fanno perdonare Arriaga, offrendo un assaggio del loro pregevole rosso della Rioja Alavesa.

Così ristorati, ci possiamo apprestare all'impresa – titanica invero – di ascoltare il clou della serata: Turangalila di Olivier Messiaen, questa strana e spuria sinfonia in dieci movimenti. In realtà una cosa che ha tratti del concerto per piano e onde martenot (complimenti ai solisti: il giovane Simone Pedroni e la veterana Valerie Hartmann-Claverie) o della cantata (senza voci); altri del poema sinfonico, altri ancora delle variazioni su alcuni temi, o addirittura di una messa sacro-profana, insomma un UMO (oggetto musicale non meglio identificato).

Messiaen ci ha raccontato assai dettagliatamente contenuti e tecnica costruttiva di questo monumentale inno all'amore (che non per nulla si ispira al Tristan): ma come sempre, se e quando una musica ha bisogno di troppe spiegazioni tecniche, è perché da sola fatica a far vibrare le corde interne dell'ascoltatore. Così in sala la prendono per la Leb'wohl di Haydn, nel senso che - ad ogni pausa - c'è gente che si alza e se ne va, alla spicciolata. Al termine del 5° movimento, che chiude con il fracasso di tutta l'orchestra in fortissimo, molti pensano sia finita, e qualcuno comincia ad applaudire. Ma siamo solo a metà! Lenny Bernstein (che diresse la prima del 1949 con la Boston Symphony) faceva a questo punto un intervallo in piena regola, come dargli torto!

Chi è stoicamente rimasto fino alla fine (erano ormai le 23!) ha comunque tributato il giusto riconoscimento a professori, solisti e maestro per l'abnegazione mostrata.

Il prossimo appuntamento prevede "la Patetica" introdotta proprio da Bernstein.

17 marzo, 2010

Tannhäuser a Torino

In attesa dell'arrivo di Zubin Mehta e dei saltimbanchi della Fura alla Scala, ieri sera un Tannhäuser di pura e semplice musica al Teatro Regio di Torino. Della serie: così non occorre chiudere gli occhi per godersi l'opera (smile!) L'anfiteatro del Regio non è proprio colmo-colmo (brutto segno) ma il peggio accadrà al secondo intervallo.

Tannhäuser è rimasta un'opera incompiuta: Wagner riconobbe, proprio a Venezia, poco prima di morire, di esserne ancora debitore al mondo (sì, al mondo, non a qualche appassionato d'opera… lui era un pochino, ma proprio poco, megalomane, si sa). Quindi la curiosità principale che nasce di fronte ad un'esecuzione è: quale versione o rivisitazione ci verrà propinata? La prima, del 1845? O la seconda, o la terza, del 1847, con Venere in bella vista nel finale? O quella del 1861 (del colossale tonfo parigino)? Ma proprio quella di Parigi-Francia, con l'intera Ouverture, o quella parigina-tedesca del 1872-1875, con l'ouverture castrata a due terzi per correre in fretta e furia al tristanizzato – ed anche un filino meisterizzato - bordello di Venere? O qualcosa di diverso ancora?

Bychkov è andato sul sicuro, offrendoci l'ultima versione messa a punto da Wagner, che è – con qualche buona ragione – quella statisticamente impiegata di più, anche se proprio a Bayreuth si ostinano – non sempre – a dare la versione ante-Parigi, forse per postuma ripicca contro quei simpaticoni del Jockey Club, ingrati, che fecero a pezzi l'opera rivisitata proprio per loro e preparata con più di 200 prove, a spese dell'Imperatore!

Quanto alla storia delle interpretazioni, qui c'è una vera enciclopedia!

Bychkov attacca l'Ouverture, e le primissime battute non sembrano molto felici (forse per colpa di un clarinetto?) poi però tutto fila per il giusto verso (tempi compresi). Il baccanale è davvero travolgente, quindi udiamo i dolcissimi richiami delle sirene da lontano (il coro femminile è fuori dalle quinte, sul palco solo i maschi, pronti per la terza scena). In proscenio Venere e Tannhäuser. Michaela Schuster (che in realtà ha un fisico da Giunone, e pure abbondante) mostra subito pregi e difetti, ottima espressività, con qualche urlo sforzato. Johan Botha (che ha la stazza dell'ultimo Lucianone, con la metà dei suoi anni) è esordiente nel ruolo, ma già interprete di altri importanti personaggi wagneriani: all'inizio sembra un pochino contratto, quasi timoroso sulla prima grande frase in RE bemolle (Dir töne Lob!) poi via via migliora, già dalla seconda (che sale al RE naturale) e sulla terza (che sale ancora, al MI bemolle) mostrando la sua voce chiara e squillante, ben adatta per una parte tutta spostata verso l'alto del pentagramma; espressioni efficaci, insomma, grande autorevolezza e padronanza del personaggio. Che non potrà che migliorare con la consuetudine al ruolo.

Brava Erika Grimaldi nelle vesti del pastorello: pur sistemandosi dietro l'orchestra (davanti al coro) la sua vocina passa benissimo, insieme alla struggente melodia del corno inglese (che non arriverà alle altezze del Tristan, ma poco ci manca) suonato da Alessandro Cammilli. Entrano poi, sistemandosi sul proscenio, il Landgravio, un sicurissimo Kwangchul Youn, che ha imparato il ruolo in quel di Bayreuth, e i cantori. Fra i quali spicca subito il Wolfram di Boaz Daniel, voce morbida, assai appropriata per il ruolo (ne avremo conferma i due atti successivi). Jörg Schneider era Walther, Jochen Schmeckenbecher Biterolf, Dominic Armstrong Heinrich e Lucas Harbour Reinmar. Tutti all'altezza dei rispettivi – non impossibili – ruoli. Wagner – megalomane, al solito – prescrive, fuori dall'orchestra, sulla scena, addirittura 12 corni! Bychkov ha la fortuna di disporre di esecutori eccellenti, e gli basta un quarto della dotazione (la stessa cosa accade nel secondo atto, dove Wagner prescrive 12 trombe sulla scena!)

Nel secondo atto vediamo subito la Elisabeth di Ricarda Merbeth. Ottima presenza e portamento, anche lei con luci ed ombre: benissimo finchè canta sul piano, poi, quando deve andare sul forte, e oltre il SOL acuto, mostra una certa tendenza all'urlo. La cosa migliore la farà nel terzo atto. Breve apparizione di Wolfram, che introduce il protagonista e qui abbiamo il duetto Gepriesen sei die Stunde, dove Botha spicca in modo particolare. Torna Hermann, ancora autorevole nel suo incontro con Elisabeth; poi i cori (maschi in alto, signore sotto) per una grande e per nulla enfatica scena della presentazione dei cantori e della tenzone. Dove Boaz Daniel ancora si mette in bella mostra con il suo inno all'amore, poi interrotto dall'esplosione di Botha, che canta per la quarta volta (salendo ancora, al MI naturale) la sua irresistibile attrazione verso Venere.

Poderosa la scena successiva, con cantori e coro ad aggredire il blasfemo, interrotti a tratti dalle irruzioni di Elisabeth (Haltet ein! Zurück, sempre con gli alti-e-bassi ricordati). Dopo il rinsavimento di Tannhäuser (la cui frase principiante con Zum Heil den Sündigen zu führen e fino a für sein Leben è giustamente lasciata al solo protagonista, senza il contrappunto di coro e cantori) si arriva al finale, ancora con il gigantesco concertato generale, culminante nella perentoria intimazione al reprobo: Nach Rom!

Ecco, qui un buon 5-10% di spettatori deve aver preso alla lettera l'invito e se l'è squagliata (correndo a Porta Nuova a prendere l'ultimo Frecciarossa per la capitale?) Desolante, a dir poco!

All'inizio del terzo atto vediamo finalmente sul palco tutti i coristi: in alto i ragazzini di Claudio Fenoglio, sotto le signore e più in basso ancora i maschi (per ragioni, penso, legate alla resa del coro iniziale dei pellegrini). Dopo l'introduzione strumentale, magistralmente diretta da Bychkov, è ancora Wolfram a presentarci Elisabeth, in perenne attesa del ritorno dell'amato. Strepitoso qui il coro di Roberto Gabbiani, un piano davvero religioso, che esplode poi nel fortissimo di Der Gnade Heil, una cosa da mozzare il fiato!

Nel successivo lamento di Elisabeth, la Merbeth dà il meglio di sé, sia come canto che come drammaticità di interpretazione. Come pure fa Boaz Daniel porgendoci con calore e gusto la sua canzone alla stella della sera, mentre la ragazza se ne esce, accompagnata stupendamente da Bychkov. Arriva Tannhäuser col suo lunghissimo racconto della penosa avventura romana, e poi torna sul palco Michaela Schuster per il suo ultimo disperato tentativo di riportare il peccatore al peccato.

Forse Bychkov lascia troppa corda all'orchestra (effettivamente deve fare un fortissimo) ma sta di fatto che lo stentoreo Elisabeth! di Wolfram (autentico momento topico) perde un pochino della sua drammaticità. Ora si chiude, con i ragazzini a cantare il loro parsifaliano Heil! Heil! Der Gnade Wunder Heil! Prima che tutti – in un colossale fortissimo – suggellino la redenzione del Nun geht er ein in der Seligen Frieden!

Un trionfo? È dir nulla! Schiamazzi e urla da stadio (o c'erano troppi interisti?) ad accogliere le sortite di cantanti e direttori e le alzate di professori e coristi. Una serata di quelle da incorniciare.

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Tornando alla Scala, proprio questa sera il Teatro più importante del pianeta (se lo dice Lissner…) offre la prima del suo nuovissimo allestimento. Che viene annunciato con un francamente inquietante giochetto di parole - Mehta-Fura - che lascia temere interpretazioni metaforiche, quindi di norma strampalate (trattandosi di Wagner e non del Rossini buffo). E pensare che Wagner già nel 1852 aveva sentito il bisogno di scrivere un autentico e dettagliatissimo trattato di messa-in-scena della sua (allora) penultima opera, con considerazioni sui tagli (fatti a Dresda per colpa di cantanti inadeguati) e consigli, anzi ordini in piena regola per Kapellmeister e Regisseur, oltre che per gli interpreti.

Chi, col regista, è ancora più severo dello stesso Wagner è il professor Quirino Principe (autore fra l'altro della pregevole traduzione del libretto, reperibile sul sito del Teatro). Trascrivo testualmente: Un regista che metta in scena Tannhäuser di Wagner deve conoscere la biografia e la poesia di Wolfram von Eschenbach e di Biterolf e di Reinmar von Zweter e di Heinrich der Schreiber, deve saper leggere e capire i testi in «mittelhochdeutsch», percorrere a menadito la storia e la geografia della Turingia, ed avere visitato la Wartburg. Altrimenti, è meglio che cambi mestiere, e si volga a professioni ugualmente onorevoli come il cancelliere di tribunale, l'idraulico, la guardia di finanza, l'impiegato dell'Agenzia delle Entrate.

Ora invece, Padrissa ci confida che lui – anziché nella ridente e linda, ma un po' noiosa Turingia - è andato a cercare ispirazione in India (in omaggio al Kapellmeister) e lì avrebbe trovato Venusberg e Wartburg quasi osmoticamente compenetrati …a Bollywood. La scena finale ci viene così anticipata: le lacrime di Elisabeth formano un lago, in cui Tannhäuser si purifica (e poi ci muore annegato? ndr) e in cui si specchia la luce di Venere, intesa qui non come tenutaria di casini, bensì come luminoso pianeta in cui Padrissa (non Wolfram) ha trasformato la suddetta Elisabeth. Povero Padrissa, come idraulico forse (data la tecnologia da acquari che la Fura impiega in questa occasione) posso anche vedercelo, ma come impiegato dell'Agenzia delle Entrate (?!) Che dio ce la mandi buona, viceversa converrà chiudere gli occhi e sperare almeno in Zubin e nelle voci…

12 marzo, 2010

Stagione dell’OrchestraVerdi - 22

L'atteso ritorno di Rudolf Barshai sul podio de laVerdi è – ahinoi – andato in fumo. Ragioni di salute lo hanno costretto al forfait (certo che quest'anno, Vedernikov escluso, le cose coi russi non stanno andando per il verso giusto!) A sostituirlo torna qui - dopo un mese o giù di lì - il Maestro Giuseppe Grazioli, con programma diverso da quanto riportato sul pieghevole a stampa originale (doverosamente ristampato per l'occasione!)

Si comincia con Shostakovich e la Sinfonia da camera, in realtà opera proprio di Barshai (peccato davvero che non fosse lì a dirigerla!) che vi trascrisse l'Ottavo Quartetto in DO minore op.110. Scritto in un momento non propriamente celestiale della sua vita (1960, idee persino di suicidio!) questo quartetto ha un carattere programmaticamente tragico, ma di una tragicità di cui lo stesso compositore quasi si vergognò successivamente: perché abbastanza affettata e quindi forse insincera, come la dedica propagandistica (imposta dal partito e francamente post-zdanoviana) alle vittime di fascismo e guerra.

Anche qui – come in innumerevoli altre sue opere - il compositore presenta subito la sua sigla DSCH (RE-MIb-DO-SI) che poi pervade l'intero quartetto. Una vera e propria manìa, questa del buon Dimitri, quasi fosse l'istinto del cagnolino che deve segnalare il suo passaggio in ogni dove, alzando la gambetta! Tutti i movimenti (escluso il quinto ed ultimo) terminano con l'indicazione attacca, quindi ciascuno sfocia nel successivo senza soluzione di continuità, dando al pezzo una connotazione quasi di fantasia.

Dopo il lugubre Largo iniziale, appena rischiarato da languide melodie del violino solo – qui Luca Santaniello ha avuto modo di mettersi in luce - l'Allegro molto è uno dei tipici moti perpetui di Shostakovich, dove un tema ossessionante e martellante viene contrappuntato, nel nostro caso, da quello della sigla DSCH, in diverse sezioni dell'orchestra. Si passa poi all'Allegretto (uno Scherzo con Trio, di fatto) che si apre con la solita sigla, poi sottoposta a diverse variazioni. Chiudono i due movimenti in Largo, che ci riportano all'atmosfera lugubre dell'inizio, con triplici colpi da destino che bussa alla porta e pochi squarci di luce, come nella parte centrale del quarto tempo. Finisce tutto in un progressivo spegnersi del suono, sul motivo (indovinate!) DSCH. Pregevole l'interpretazione di Grazioli, tenuto conto della (probabile) scarsa consuetudine con il pezzo.

Si continua con Franz Schubert e la sua Quinta Sinfonia. Se escludiamo la Grande (e magari l'Incompiuta) tutte le altre (e non solo la Piccola, che sentiremo prossimamente) sono in effetti delle sinfonie-cammeo (destinate ad esecuzioni quasi private, con complessi ridotti) rispetto alle quali anche l'altro Franz, il vecchio Haydn, che seguirà nel programma, pare un titano. In più, nel 1816 erano già sul mercato (e da 4 anni) ben otto delle nove sinfonie di Beethoven, per non parlare di Mozart! Tuttavia è innegabile che queste sinfoniette del Franz poco più che ragazzo abbiano tutte un fascino discreto… schubertiano, appunto!

Dopo l'Allegro iniziale, con introduzione brevissima e forma sonata piuttosto eterodossa, l'Andante con moto presenta un tema il cui incipit (dominante-mediante-dominante) ci ricorda quello del Largo della Sinfonia 88 di Haydn, che qualcuno sospetta addirittura scritto da Mozart (come si vede che tutti quanti respiravano la stessa aria…)

Il tema del menuetto poi è di chiara derivazione mozartiana (K550):



















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Il Finale è un Allegro vivace in forma-sonata, che Grazioli approccia con fiero cipiglio ma rispettando sempre la leggerezza e il carattere cameristico dell'opera.

Si chiude con la London di Haydn. Centoquattresima sinfonia (ma in tutto pare siano 106 o addirittura 108) di uno che, dopo averne scritte già 103 (o 105, o 107) ancora ne aveva voglia. Questa però è l'ultima, promesso! Poi, bontà sua (nel senso letterale del termine) si dedicherà, prima di togliere il disturbo, a cosucce come La Creazione e Le Stagioni, oltre che ad una messe di messe per i suoi mecenati di Esterhàza.

Essendo retrocessi nel '700, anche la disposizione dell'orchestra cambia: da moderna qual'era, adesso diventa alto-tedesca, con i primi violini davanti a destra e gli archi bassi al centro-sinistra.

Apertura che più haydniana non si può: Adagio in RE minore (17 battute) e poi Allegro in RE maggiore. Forma sonata con certificato di garanzia, sia pure con economicità di mezzi (il primo tema fa anche da secondo, semplicemente portato sulla dominante LA). Poi segue l'Andante (SOL maggiore, ci si poteva giurare!) e quindi il Menuetto ancora in RE maggiore, con scolastica modulazione al SIb del trio. Il Finale la dice lunga sullo spirito che animava il 63enne Josephus in quel di Londra, poco prima di tornarsene a casuccia:





Così Grazioli ha modo di regalarci, con l'Orchestra, uno squarcio di primavera, che fuori sembra ancora molto di là da venire. Di ciò ringraziamo lui, i musicanti e Haydn!

Il prossimo appuntamento – dopo un filtro wagneriano per introdurre l'atmosfera – sarà dedicato a Turangalîla di Messiaen.

11 marzo, 2010

Eurotrash revival

Divertente questa recensione, fatta da un musicista del Wiltshire, della Traviata ripresa quest'anno alla Komische Oper Berlin (si replica fino a maggio, per i patiti del genere).

Protagonista di questo trash (del 2008) il genialoide Hans Neuenfels, ovviamente osannato dalla critica (ma solo quella di cui si pubblicano estratti sul sito del teatro, toh!) per le sue geniali intuizioni.

Fra le quali il nostro Guy Edwards ci elenca la guardia del corpo di Violetta (per difenderla da se stessa, non dagli ammiratori) che Alfredo ammazza, e a cui poi strappa il cuore; Giorgio Germont che ha una zampa zoccolata di animale al posto del piede sinistro (in Provenza deve far comodo); Alfredo e Douphol che non giocano a carte, ma a chi meglio infilza un cuore (di Violetta?) messo su un vassoio.

Ma il meglio arriva alla fine, quando, durante il baccanale, la guardia del corpo di Violetta ricompare, provvisto di enormi coglioni gonfiabili, che poi infilza – prima di andarsene - con uno stiletto, facendoli così esplodere.

perdonami lo strazio recato al tuo bel core

10 marzo, 2010

Da una casa di morti alla Scala


Z mrtvého domu di Leoš Janáček è forse il fiore all'occhiello del cartellone scaligero 2009-2010: prima rappresentazione italiana in lingua originale, direttore-super (Esa-Pekka Salonen) e regista-super (Patrice Chéreau). Il fatto di arrivare buona ultima – tre anni dopo la prima di Vienna, e poi Aix e il Met - a mettere in scena questa co-produzione dovrebbe dare alla Scala qualche vantaggio legato all'esperienza, sul fronte registico, ma anche musicale. Prima di questa produzione - creata originariamente e già in DVD da Boulez, cui è subentrato, dal Met, Salonen – avevamo la fondamentale interpretazione dei Wiener con Charles Mackerras, autore della moderna edizione critica di quest'opera che Janáček non aveva fatto in tempo ad ultimare in tutti i dettagli, e che i suoi contemporanei – magari in buona fede - avevano inizialmente adulterato alla grande, particolarmente nel finale, dove l'originale era stato totalmente travisato. Agli interessati segnalo che sabato 20 marzo, ore 18, la Bayerischer Rundfunk trasmette una registrazione dell'opera dal Met, con Salonen.
Lo scorso 24 febbraio, presso il Ridotto Toscanini, il consueto incontro di Prima delle prime - meritoria iniziativa de Gli amici della Scala - aveva ospitato un'interessante presentazione di Angelo Foletto (che di questi incontri fu l'ideatore più di 10 anni fa) e del Prof. Fausto Malcovati, che si erano soffermati sul retroterra letterario (dostojevskiano, da esperienza diretta) dell'opera e sulla maestrìa con cui Janáček ha saputo tradurre in suoni – ma prima ancora in una solida struttura drammatica - questo allucinato e allucinante squarcio di vita vissuta dentro un campo di lavoro russo della prima metà del 1800.
Janáček resta ancorato saldamente alla tonalità (e alla modalità) anche se nelle ultime opere decide – ma sembrerebbe più che altro per vezzo? – di abolire le armature di chiave dai suoi pentagrammi (con ciò infarcendoli poi di bemolli, diesis e bequadri, a la dodecafonica…) Altra curiosità: il personaggio di Aljeja fu assegnato dal compositore ad una soprano, decisione rispettata da Mackerras a suo tempo (l'estensione va dal MIb grave al SIb acuto) ma in questo, come in altri allestimenti, è interpretato da un tenore, il che riduce ad una sola (e marginale) la voce femminile all'interno dell'opera.
Opera davvero quasi unica nel suo genere, sia dal punto di vista della trama, di fatto inesistente e ridotta ad una sequenza di flash di vita nel bagno penale (Janáček eveva personalmente fatto un cut&paste di spezzoni del testo russo) e conseguentemente dal punto di vista musicale: una sequenza di motivi, frasi e incisi che apparentemente sembra caotica e priva di qualunque narrativa. E forse non solo apparentemente, se dobbiamo credere a ciò che lo stesso compositore confidò del suo modo di procedere nella stesura della parte musicale. La stessa ouverture, scritta prima del resto, ha solo vaghissimi legami con il corpo dell'opera. Anche senza studiare la partitura, basterà leggere la minuziosa analisi di Harry Halbreich per rendersi conto di come siamo di fronte ad una musica che – con uso stupefacente del colore e del timbro – ci fa vedere con l'orecchio la condizione di vita di quello spicchio di società e lo stato esistenziale di ciascuno dei suoi componenti, ognuno dei quali ha una diversa personalità, una diversa storia e un diverso approccio al proprio futuro.
Finisce con l'invocazione alla libertà (questo il finale adulterato della prima edizione, che chiudeva con un maestoso SI maggiore):




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poi frustrata – nell'originale oggi per fortuna ripristinato - dal perentorio DO con cui la guardia urla il suo terzo Marrrš! Però un fondo di speranza rimane, se è vero che la marcia finale (a sipario velocemente calante) è un allegro che sfocia nel REb maggiore.
Ora, suonare e cantare un'opera siffatta credo sia un'impresa di per sé (questo ne spiega forse lo scarso numero di rappresentazioni) e quindi va dato merito a Salonen e ai cantanti di aver offerto una prova maiuscola, che gli ha meritato un grande tributo da parte del pubblico di una Scala che mostrava pochissimi vuoti, nonostante il nevischio imperversante là fuori.
Qualche considerazione sull'allestimento, che per un'opera siffatta è a dir poco cruciale.
Mentre le scene di Peduzzi (quanto poi imposte dal regista è da vedere) sono di una piattezza fino eccessiva (almeno all'inizio del secondo atto – siamo all'aperto ed è una giornata di sole, per quanto siberiano - un pochino di luce e di colore in più non dovrebbero mancare) devo dire che la regìa di Chéreau mi è sembrata di una fedeltà quasi assoluta al testo e alla musica di Janáček. Persino minuziose didascalie del libretto sono rispettate quasi alla lettera. Giustamente il regista aggiunge idee sue proprie, e geniali (come il particolare degli occhiali persi da Gorjancikov e recuperati da Aljeja, oltre che le movenze curatissime di ciascun personaggio). Ma chiunque abbia letto il libretto (non necessariamente anche Dostojevski) si immagina precisamente di vedere in scena ciò che Chéreau ci propina. Praticamente perfetto, e complimenti!
Ma allora viene spontanea la domanda (maliziosa) al grande regista: perché non ha seguito la stessa strada quando (35 anni fa ormai) inscenò il Ring del centenario a Bayreuth, o anche quando (2 anni fa o poco più) ci presentò il Tristan, qui alla Scala?
Non solo, ma lo Chéreau di questa Casa sembra anche avere sconfessato quello che, proprio a proposito del Ring, negava ogni cittadinanza alla Zeitlösigkeit dell'Opera, calando proditoriamente il mito wagneriano nell'attualità di oggi. Invece oggi abbiamo uno Chéreau che ci mostra – e lo dichiara apertamente nelle sue esternazioni – una vicenda che è fuori dal tempo, uguale a se stessa in tutte le epoche e sotto tutti gli orizzonti. Mah…
Chiudo prendendomi la soddisfazione – io dilettante-nessuno - di irridere al sommo Paolo Isotta, che sul Corriere ha scritto una recensione zeppa di sciocchezze e meritevole di querela da parte degli eredi del compositore. A cominciare dall'affermazione secondo cui il libro di Dostojevski sia ormai introvabile (giudicate voi). Poi, per lui nell'opera manca ogni barlume di quella commozione mistica onde Dostoevskij è pieno. Ma che opera ha visto? O che tasso alcolico aveva nel sangue? E ancora: Non narreremo delle vicende testuali dell'ultimo lavoro del compositore ceco, tanto complicate esse sono. Ma che libretto ha letto? Forse quello in ceco, dove anche lui – come la maggior parte di noi - non ci capisce nulla?
Ma la migliore è questa frase: E non ripeteremo nemmeno una sua colossale ingenuità, che porta gli occhi suoi propri a disprezzare il suo genio, essere la lingua ceca già musica, anzi la sola musica possibile, e i tentativi, paradossalmente a tratti riusciti, di scrivere musica ricalcante la lingua del suo Paese. Sì, era proprio ubriaco (Isotta, mica Janáček) adesso è sicuro!
Dopo aver dato del giovane a Salonen (essendo tutto relativo, il finlandese sarà magari giovane rispetto a Isotta, ma ha pur sempre 52 anni, o Isotta ha scoperto la sua esistenza solo oggi?) la chiusa dell'articolo è precisamente da gulag: Scrive Janáček in esergo alla partitura: «In ognuno di questi criminali c'è una scintilla divina». La sua Opera dimostra radicalmente il contrario. Intanto, se vogliamo stare all'ufficialità – il frontespizio della partitura, per l'appunto – Janáček vi scrive "In ogni creatura (tvor) una scintilla divina"; e poi, basta ascoltare la musica per convincersi che è proprio così. Ma Isotta lo pagano anche?

09 marzo, 2010

La nona di Mahler secondo Esa-Pekka

Esa-Pekka Salonen di questi tempi risiede a Milano: tra concerti e opera non ha davvero un minuto libero. Ieri sera ci ha proposto, alla Scala, in un concerto della Filarmonica, la sua vision dell'ultima sinfonia (completata) di Gustav Mahler. Teatro affollato, ma non proprio al completo, orchestra disposta alla moderna (rinforzata di un corno e un clarinetto) e puntualità quasi …finlandese!

È stato giustamente osservato come nelle 6 misure introduttive ci sia in realtà tutta la sinfonia: così come uno zigote, un'unica cellula, contiene i suoi 46 cromosomi, che determineranno infallibilmente la natura del futuro individuo.









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Salonen fa emergere mirabilmente arpa e secondo corno (che cita il Mahler diciannovenne di Das klagende Lied) prima di lanciare i secondi violini nell'esposizione del primo tema (che riprende il discorso da dove lo aveva lasciato Das Lied von der Erde - Abschied e Leb wohl…) Insomma, come ogni interprete che si rispetti, sa conquistare immediatamente il pubblico, catturandone l'attenzione e l'interesse, che poi non scenderanno più, fino alla fine.

Il primo movimento è un continuo alternarsi – una curva bioritmica, si direbbe – di serenità, allegrezza e sconforto, se non addirittura disperazione. Ci si sente lo stato d'animo di un uomo che ricorda, ma anche vive tuttora, momenti sublimi, di grandezza, di felicità, di gloria (basti pensare ai richiami del finale della prima sinfonia). E poi, immancabilmente, al culmine dell'ebbrezza, arriva la depressione, lo schianto repentino, il pessimismo più cupo, persino un mortorio! Allo stesso modo gli incantevoli giorni delle sue ultime estati Toblachiane venivano immancabilmente interrotti dal duro richiamo del dovere, dall'alienante città (Vienna o NewYork, fa lo stesso). Come nel finale della sesta? Sì, ma là c'era non poca affettazione, martellate in primis, qui invece l'anima è proprio nuda! Non sono un finlandese, e quindi posso solo sospettarlo: ma, secondo me, il finlandese Salonen di questi sbalzi improvvisi di umore deve saperne molto, a livello personale; e ciò gli consente di compenetrarsi come pochi altri in questa schizofrenica partitura. Da lasciare letteralmente senza fiato - dopo le reminiscenze dell'Abschied (Die Welt schläft ein…) - la stupefacente cadenza che conclude il movimento, sul primo tema (FA#-MI) dell'oboe, che si spegne sul RE di ottavino e violoncelli in armonici.

Poi arriva il goffo e grossolano secondo movimento, con quei fagotti ad introdurre una comoda danza popolare. Subito però i clarinetti, in modo impertinente, ci rimandano all'ewig del Lied von der Erde! Dopo la seconda sezione quasi diabolica torna, nel trio, quello che può essere definito il leit-motif dell'opera: la seconda discendente mediante-sopratonica, nei corni e primi violini. Fanno capolino anche atmosfere che rimandano al secondo tempo della quarta sinfonia. Poi ancora un selvaggio e ubriacante sviluppo che si arena per sfinimento, ancora sulla scala ascendente dei fagotti – prima – e di controfagotto e ottavino poi, a chiudere in pianissimo, col pizzicato degli archi alti. Salonen ha benissimo in mano l'orchestra, ha anche la partitura sul leggìo, che guarda di traverso, di tanto in tanto. Sempre perentori gli attacchi, gesto preciso e secco, senza inutili platealità.

Il Rondò-Burleske è davvero un capolavoro: di Mahler e di Salonen. Anche qui si capisce tutto dalle prime 7 battute, davvero fulminanti, sui righi del compositore, come nella resa dell'interprete! Poi è tutto una vera e propria ubriacatura, interrotta dalla sezione solenne, che ci rimanda alla chiusa della terza sinfonia, col gruppetto (che sarà il cardine del Finale) a farla da protagonista, dapprima presentandosi con portamento nobile, ma poi trasformandosi in autentico sberleffo, nel clarinetto in LA, ma più ancora in quello piccolo in MIb. Il tutto culmina nel più stretto e poi nel presto conclusivi, dove i pur bravissimi Trepper Philharmoniker sembrano faticare a stare alle calcagna del Maestro, ma chiudono comunque in modo più che degno.

Che dire dell'Adagio conclusivo? Pura metafisica. Un trattato di esistenzialismo trasferito dall'anima direttamente sul pentagramma. Bruckner (nona) l'ispiratore, certo, ma qui c'è riassunta tutta la parabola di Mahler, in termini squisitamente musicali, sia chiaro. Alla battuta 13, dove i primi violini entrano – più rigorosamente a tempo – per esporre la seconda strofa del primo tema, Salonen è così deciso nel gesto che… perde la bacchetta, finita tra i piedi di un violinista: per un po' di battute dirige a mani nude, finchè il professore gli recupera lo strumento di comando. Tutta l'orchestra è come una corda tesa; stupenda la resa che Salonen ottiene dell'Höhepunkt dei corni, uno dei passaggi più straordinari di tutta la musica mai scritta. Danilo Stagni qui si supera e la cosa – oltre al resto della sua maiuscola prestazione – gli merita un gesto inconsueto da parte del Direttore: alla fine, Salonen sale fin sul palchetto dove sono sistemati i cornisti, e si va a complimentare personalmente con la prima parte dei Filarmonici!

Tornando a bomba, l'Adagio finisce in sospeso, degradando di un semitono dal RE maggiore del primo tempo, con una lunghissima cadenza, le cui ultime 34 misure sono affidate ai soli archi, contrabbassi esclusi. Il violoncello solo – assai dolce ma espressivo – fa due discese cromatiche, prima LA-SOL#-SOL e poi ancora SI-SIb-LA-SOL#-SOL: quest'ultima a me richiama irresistibilmente alla memoria quel Seines Elendes jammerte mich (MI-MIb-RE-DO#-DO) con cui Isolde ricorda la pena da lei provata di fronte alla miseria di Tristan morente.

Quindi, dapprima adagissimo, poi lento (sul ricordo della giornata, che è bella su quell'altura) e infine con la massima lentezza, arriva la chiusa, un autentico approdo all'omega, un'ora e venti minuti dopo l'alfa dei violoncelli. Si appoggia sulla dominante, ma solo apparentemente, poiché alle viole che vi ondeggiano intorno si aggiunge la tonica nei violoncelli e la mediante nei secondi violini: quindi una perfetta triade di REb maggiore: crepuscolare redenzione? un altro modo di mormorare ewig, ewig? chissà…






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Esa-Pekka chiede l'impossibile agli archi, primi violini in pppp (!) e gli altri in ppp spegnendosi. La Scala è in apnea, come il Duomo al sollevarsi dell'ostia… un religioso silenzio, che poi sfocia in una liberatoria ovazione, anzi in un vero e proprio trionfo per Salonen e per tutti. Un'emozione davvero indimenticabile!

E questa sera, sempre Scala e sempre Pekka!

06 marzo, 2010

Peter Grimes al Regio di Torino

Ieri pomeriggio, al matinée del Teatro Regio di Torino (platea abbastanza affollata, fila di palchi invece deserta al 70%) un interessante Peter Grimes. Nei ruoli principali il secondo cast.

La regìa di Willy Decker ha delle buone intuizioni, affiancate da qualche caduta di stile, o da qualche banalità. Le scene (John Macfarlane) sono improntate ad un minimalismo non del tutto fuori luogo: soliti pannelli mobili, un paio di sfondi dai colori e disegni pallidi e indecifrabili, o che richiamano vagamente cieli striati da cirri e cumuli. I costumi (dello stesso Macfarlane) sono più da città che da borgo marinaro, ma forse una ragione c'è. È la stessa che spiega perché il mare non si vede mai, il che sembrerebbe idea strampalata, mentre tutto sommato ha buon diritto di cittadinanza.

Pare che lo stesso Britten si sia lamentato di una scenografia troppo esplicitamente marina in occasione di un allestimento londinese. E in effetti non c'è bisogno di vedere un mare di cartapesta, quando il mare lo si vede benissimo con l'orecchio! Grazie ai colori della splendida orchestrazione britteniana (a proposito, complimenti davvero ai professori addetti a flauto, ottavino e clarinetto, che hanno dato vita – con i corni e tutti gli altri - alle bellissime atmosfere acquatiche, non solo degli interludi). Secondo Britten (con cui si potrebbe magari filosoficamente ed antropologicamente dissentire) il Grimes non è una storia di gente di mare, ma di un certo tipo di gente, sempre uguale sotto qualunque orizzonte e latitudine. Una comunità che sfoga i suoi sensi di colpa sul primo individuo avvertito come diverso, il quale finisce quindi per divenire a sua volta diffidente di tutto e di tutti.

E il regista fa quindi benissimo a mostrarci Grimes sempre isolato dal resto del popolo, fin dalla prima scena dell'istruttoria processuale. Dove il pescatore appare recando una piccola bara, col corpo dell'apprendista morto, oggetto dell'istruttoria medesima. Bara che poi si porta via, proprio come un fardello di cui non si potrà mai liberare.

Il primo atto si apre – anziché sulla battigia, con barche e pescatori, e ragazzi che sguazzano – in un locale chiuso che pare proprio una chiesa, a giudicare dal fatto che è il reverendo Adams a dirigere il coro dei borgatari, tutti ordinatamente seduti su seggiole perfettamente allineate, e tutti con tanto di spartito in mano. Esattamente la stessa scena si vedrà alla conclusione dell'opera (dove del resto il coro canta quasi le stesse note, nella stessa tonalità di LA maggiore) prima che il sipario cali. Qui francamente l'intento didascalico di Decker – mostrarci una comunità integralista oltre ogni limite – mi è parso eccessivo. Oltretutto – massima contraddizione, certo voluta, ma altrettanto discutibile – allorquando (prima scena del secondo atto) il popolo è in chiesa per davvero, allora lo vediamo in totale disordine, in piedi, disattento e indisciplinato! Mah…

Nella scena della taverna, primo atto, durante la tempesta, c'è forse troppo andirivieni di comparse. La cosa è giustificata dalla presenza del coro, però Decker mescola troppo i personaggi principali con le masse, il che ne rende poco distinguibili, e udibili, gli interventi.

Altro discutibile aspetto della regìa è l'impiego della croce nelle due scene di caccia a Grimes (secondo e terzo atto): anche qui la metafora della crociata contro il diverso si poteva presentare in modo più efficace (almeno credo io).

Assai più efficace, appunto, l'impiego delle maschere di animali da branco (pecore, galline, conigli e maialini) nella scena della festa nella Sala Civica (inizio del terzo atto).

Un'ultima nota riguarda la fine dell'atto secondo, laddove, dopo essere scomparsi precipitando nel dirupo (cosa risultata fatale al ragazzino) Grimes e lo stesso riemergono nella loro casupola, dove il pescatore depone il corpicino morto – e senza maglione – sul letto. La cosa è inventata (nel libretto invece è Balstrode a calarsi a sua volta lungo la scogliera). L'unico valore aggiunto che questa trovata ci dà rispetto all'originale è di spiegarci meticolosamente come mai il maglioncino dell'apprendista sarà poi rinvenuto da Ellen in riva al mare.

Quanto alla caratterizzazione dei personaggi, direi che Decker abbia fatto centro. In particolare nelle macchiette come Swallow e Adams (dissacrante la scenetta con le nipotine all'inizio del terzo atto) Boles, efficacissimo nelle movenze e Mrs. Sedley, perfetta nel ruolo della benpensante fanatica. Grimes, Ellen e Balstrode: proprio come uno se li aspetterebbe.

Vengo alla parte musicale. Confermando subito il mio bravo incondizionato – già emesso dopo l'ascolto radiofonico della prima - al Kapellmeister Yutaka Sado. Che curiosamente abbandonava sul leggìo la bacchetta ad ogni attacco degli Interludi. E con lui all'orchestra del Regio, che evidentemente il mio concittadino Gianandrea Noseda sta curando con profitto. Mentre per radio mi era parsa spesso troppo invadente (colpa dei microfoni?) ieri non ha mai coperto le voci.

Grimes era Jon Ketilsson. Se dividiamo schematicamente gli interpreti del pescatore in due scuole (Pears e Vickers) il nostro è più della prima che della seconda (quindi sarebbe gradito a Britten!) A me è decisamente piaciuto di più del Shicoff ascoltato per radio alla prima. Voce non potentissima forse, ma canto assai pulito, mai impiccato, e buona espressività.

Janice Watson era nei panni di Ellen, ruolo da lei già altre volte sostenuto. Tecnicamente ed attorialmente bravissima, purtroppo ciò che a me personalmente non piace di lei è la voce che, appena deve superare il piano, diventa metallica, chioccia, quindi poco gradevole. Quindi non adatta ad un personaggio che ha un animo dolce e materno, ma forse più ad una bisbetica come Mrs.Sedley! Più di lei mi era piaciuta per radio la Gustafson, una voce più calda e morbida.

Mark S.Doss si è confermato un baritono coi fiocchi e un Balstrode quasi perfetto.

Bravi, anche come qualità mimiche, il Boles di Mark Milhofer, il Keene di George von Bergen, lo Swallow di David Wilson-Johnson e il reverendo Adams di Dominic Armstrong.

Su discreti standard gli altri: la zia di Cornelia Wulkopf, le nipotine Silvia Colombini / Daniela Schillaci, la Mrs.Sedley di Claudia Nicole Bandera e l'Hobson di Lucas Harbour (che se l'è cavata bene anche come tamburino).

Alla fine grandi applausi per tutti, compresi Sado e il coro con il suo Gabbiani. Doss e Watson i più gratificati. Per la verità abbiamo avuto anche un applauso a scena aperta – ahimè dovuto a crassa ignoranza, da parte di qualcuno che forse pensava essere quella la conclusione dell'opera – dopo il primo dei tre Peter Grimes! che tutti (Ellen e Balstrode esclusi) cantano a squarciagola in SIb subito prima del sesto interludio. Pazienza.

Appuntamento fra pochi giorni con Wagner.


05 marzo, 2010

Stagione dell’OrchestraVerdi - 21

Ancora un grande programma per laVerdi, in un affollatissimo Auditorium.

Il trentaseienne lionese di belle speranze Ludovic Morlot attacca la verdiana sinfonia da La forza del destino, con quei sei poderosi MI raddoppiati all'ottava, suonati da tutti gli ottoni (con tuba a sostituire il cimbasso, as usual) e dai fagotti.

Quando ascolto il tema di Leonora (Madre, pietosa vergine) non posso fare a meno di richiamare alla mente Wagner (Tristan, Atto I) e l'esternazione di Isolde:








Sarà pura coincidenza (in fondo abbiamo 12 note e le loro combinazioni possono ripetersi casualmente, e poi Wagner parte dalla sottodominante) e forse, nel 1862, Verdi ancora non aveva dato una scorsa alla partitura del Tristan, di cui si racconta che rimarrà poi meravigliato ed atterrito. Ma fra i due sommi autori non sono pochi i punti di contatto, pur dovendosi escludere esplicite citazioni.

Ecco ora il Concerto per Orchestra di Béla Bartók. Opera davvero affascinante di questo grande del novecento, che ha creato un pezzo per solisti dentro l'orchestra, forse per solleticare l'amor proprio dei professori della Boston Symphony, di fatto dedicatari e primi esecutori del pezzo, col loro Direttore e commissionante Serge Koussevitzky.

A volte contiene trovate francamente bizzarre, come le tre battute della seconda arpa, verso la fine dell'Introduzione, così notate:



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E dove all'esecutore è richiesto l'impiego di un mezzo ligneo o metallico con cui strofinare le corde. In questa ripresa di Pappano con la S.Cecilia si può vedere il particolare a 9'22" del filmato.

A dispetto dell'epoca moderna della composizione (1943) il concerto non ha mancato di creare equivoci e problemi di interpretazione (anche perché il suo autore scomparve pochi mesi dopo la creazione). Il principale riguarda il metronomo del secondo movimento (sottotitolato Giuoco delle coppie, o forse Presentando le coppie, dove compaiono appunto le cinque coppie di strumenti a fiato che presentano i rispettivi temi): sull'edizione stampata in origine, e impiegata per parecchio tempo da tutti i direttori, compariva il metronomo di 74 semiminime (il tempo è 2/4) e l'indicazione Allegretto scherzando. Poi fu Georg Solti a scoprire, quasi casualmente, che il manoscritto originale recava indicazioni diverse: Allegro scherzando e, soprattutto, metronomo di 94 semiminime! Una bella differenza, il 30% più veloce! Direi che Morlot si sia senz'altro attenuto all'edizione aggiornata (1997) di Boosey&Hawkes (Pappano è un poco più lento – 86 - come anche Boulez, con la Chicago Symphony).

A proposito di prestazioni solistiche dei vari strumenti, nell'Intermezzo interrotto c'è il famoso tema (calmo) presentato inizialmente dalle viole (sempre Pappano, qui a 5'29") che il timpano deve accompagnare percorrendo praticamente tutta la scala cromatica: SOL-DO-FA-SIb-MIb-LAb-DO-FA-MIb-REb-MI-RE#-SOL#-LA-RE-SOL:





Un'impresa non proprio facile, poiché il timpano non è certo un pianoforte, né un violino! Inutile dire che la bravissima Viviana Mologni lo ha eseguito in modo impeccabile, muovendo evidentemente alla perfezione anche i piedi, oltre che le braccia.

Nel Finale ascoltiamo un tema che richiama da vicino una rumba, El Cumbanchero, che il portoricano Rafael Hernandez Marìn aveva lanciato proprio nel 1943 e che faceva furore fra gli ispanici, e non solo, di New York, dove nacque il Concerto:




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Qui lo si sente esposto per primo dalla tromba, a 3'12" del filmato (sempre Pappano).

Meritatissimi applausi all'Orchestra, anzi ai singoli Professori, ma anche al maestro Morlot, che ha mostrato di avere grande dimestichezza con quest'opera assai difficile.

Dopo la pausa, ecco la Quinta di Beethoven, sesta in ordine di esecuzione stagionale dell'integrale, che si completerà fra fine maggio e primi di giugno (con prima, quarta e terza, tutte dirette da Xian Zhang).

Qui magari chi ha nelle orecchie Karajan o Kleiber o Abbado con orchestre come i Berliner, o i Wiener, sarà portato a fare confronti ingenerosi… ma oggi di grandi alternative ai CD di quei mostri non ce ne sono in giro poi molte, e una cosa è certa: Morlot e laVerdi non ci hanno fatto rimpiangere di non essercene rimasti a casa con le cuffie in testa!

Morlot la fa proprio lunga, eseguendo non solo il ritornello dell'iniziale Allegro con brio (cosa più che legittima e normale) ma anche quello del Finale (cosa invece assai discutibile, chè appesantisce inutilmente la narrativa di questo capolavoro). Comunque il pubblico gli tributa alla fine un gran trionfo, che il Maestro giustamente condivide con gli orchestrali, chiamati ad alzarsi quasi uno ad uno.

La prossima settimana torna all'Auditorium il venerabile Rudolf Barshai.

26 febbraio, 2010

Bach dal web

Fino a pochissimi anni fa era cosa avventurosamente concessa solo a qualche dotato radioamatore: sintonizzarsi su un'emittente aliena per ascoltare qualche interessante trasmissione. Oggi – grazie soprattutto al web, Marconi non ce ne voglia! – chiunque, dotato di ADSL, può sbizzarrirsi a cercare e trovare in giro per il pianeta tesori apparentemente nascosti.

Questa sera la Bayerischer Rundfunk ha trasmesso, dalla Herkulessaal della Residenz di Monaco, la bachiana Johannespassion (quella cruenta e realista) con l'esperto tulipano Ton Koopman alla guida della gloriosa Orchestra della Radio Bavarese.







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Fra prescrizioni e inquinamenti materiali e politici, non ci resta che Bach…