
ISTITVTIONI HARMONICHE DEL REV. M. GIOSEFFO ZARLINO DA CHIOGGIA,
Maestro di Capella della Serenissima Signoria DI VENETIA. Seconda Parte. Capitolo 9. (MDLVIII)
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Il decimo appuntamento della stagione ha un programma tutto russo. Una Russia (apparentemente?) minore, che ha tenuto parecchia gente lontana, a giudicare dagli evidenti vuoti in sala.
Sul podio Alex Vedernikov, ascoltato ed apprezzato in primavera alla Scala in un eccellente (in tutto, fuor che nella regìa) Onegin del Bolshoi.
Grande autorità, anche nel gesto, sempre ampio, a volte persino esagerato, con la bacchetta agitata nell'aria come un machete, o una scimitarra (il primi violoncelli devono averla sentita fischiare minacciosamente davanti al naso in più di un'occasione).
Con l'Orchestra disposta quindi alla moderna, si inizia con la Prima Sinfonia di Vasily Kalinnikov, un compositore che ha qualcosa (di spiacevole) in comune con Mozart, Schubert, Mendelssohn e il Bizet oggi d'attualità a Milano: la morte prematura. Per il resto, la sua produzione non è certo comparabile con quella degli altri musicisti scomparsi ancor giovani.
Più o meno contemporanea (tanto per orizzontarsi) della terza mahleriana, la sinfonia è però un tentativo di scimmiottatura di Ciajkovski (del quale il ritorno ciclico di temi richiama vagamente la quarta o la quinta). Francamente poverina di ispirazione e assai piatta nell'esposizione dei temi, è davvero difficile trovarvi molto di eccitante, al di là di qualche slancio velleitario, peraltro regolarmente ricoperto di spessi strati di enfasi e retorica. Qualche scorcio intimistico nell'Andante non salva l'opera da un livello di mediocrità. Assai scolastica anche la forma, dove mancano innovazione e fantasia. È davvero un mistero come Toscanini, che pervicacemente rifuggì da Mahler per tutta la sua esistenza, abbia invece voluto incidere questa sinfonia nel 1943. In ogni caso, un documento interessante, cui faccio riferimento qui sotto, a corredo di qualche riga di commento all'Opera.
1° Allegro Moderato: una rievocazione in sedicesimo dei sogni invernali di tale Ciajkovski. A cominciare dalla tonalità del primo tema, SOL minore, seguito poi dal secondo in un lontanissimo LA maggiore, quindi da un temino secondario, derivato dal primo, in SIb Maggiore, che chiude l'esposizione. Vedernikov, nel lodevole tentativo di farceli entrare bene in testa, esegue puntigliosamente il da-capo, ma è fatica degna di miglior causa. Lo sviluppo è volonteroso, ma non alza il livello generale, così come la ripresa, col secondo tema esposto in SIb maggiore, fino alla enfatica chiusa nella tonalità di impianto.
2° Andante commodamente: principia con arpa e violini che, in MIb maggiore, preparano l'entrata del corno inglese, doppiato dalle viole. Subito si passa alla sezione centrale e più movimentata, in SI maggiore, per poi tornare alla calma del MIb e del corno inglese, che prepara la chiusa in ppp. È probabilmente questo il momento migliore della sinfonia, una specie di notturno con qualche lontano lampo boreale.
3° Scherzo, Allegro non troppo: melodie e armonie di stampo ciajkovskiano, con qualche spruzzata di Borodin, impiantate su un canovaccio bruckneriano. Primo tema (3/4) in DO maggiore, tema secondario in SOL, poi il corno solo introduce il trio (2/4) in LA minore, anch'esso in due sezioni; infine torna lo scherzo, con i due temi che sconfinano in tonalità diverse, prima di tornare al DO maggiore che chiude il movimento. Di buona volontà, è il massimo complimento che gli si possa fare. Un bravo invece all'orchestra, che mostra compattezza e verve, oltre che al Maestro, che davvero fa di tutto per dare un po' di lustro a questo suo compatriota.
4° Allegro moderato – risoluto: in 4/4, inizia con il riciclo del tema iniziale del primo movimento (SOL minore) poi passa subito a SOL maggiore col tema principale di questa specie di rondò, che contempla anche una rievocazione del secondo tema del movimento iniziale. Ci si sente anche qualcosa che tornerà nella seconda di Rachmaninov (che gli fu vicino, nei mesi prima della morte) ma è sempre il grande Piotr Ilyic a fare da modello. La coda, in tempo ternario, enfatica e pesante (sul tipo della sinfonia polacca) è un'apoteosi di fracasso che impegna tutta l'orchestra allo spasimo.
Orchestra peraltro non sempre impeccabile qui: gli ottoni in particolare hanno faticato parecchio e qualche falsa acciaccatura si è sentita; ma in un generale contesto di buon livello, tenuto conto che trattasi di un pezzo fuori dal repertorio.
Alexander Kniazev, lunghe chiome lasciate libere a cadere sul collo e… sugli occhi, presenta poi un'opera quasi sconosciuta di un altro quasi sconosciuto compositore russo della prima metà del novecento: il Concerto per violoncello di Nicolaj Myaskovsky (autore di non meno di 27 sinfonie! E chi ne conosce anche solo una?) Opera pienamente diatonica, addirittura romantica, a dispetto dell'anno di composizione (1944). Due soli lunghi movimenti: il primo largo e sognante; il secondo che inizia infuocato e corrucciato, con reminiscenze del concerto dvorakiano, ma poi volge ancora verso il lento, per riprendere in tempo vivace, quindi passare attraverso una cadenza solistica assai complessa e difficile, e poi sfociare – dopo un intermezzo eroico (ed enfatico) – in un lungo finale ancora lento e sognante. Una cosa fra Grieg e Bloch, non saprei come meglio inquadrarla, che potrebbe essere impiegata – con tutto il rispetto - come sottofondo per qualche scena crepuscolare di sceneggiato televisivo. Grande virtuosismo sciorinato poi in un paio di bis.
Infine, Il Bullone di Shostakovich. Il nome è maschile, ma non si tratta di un gradasso, bensì del compagno della vite (quella col filetto, non quella nei filari, in collina). Quindi, ancora una volta, parliamo di fabbriche, lavoro, realismo socialista.
La trama del balletto è una satira e una condanna dei burocrati e dei fannulloni (ma chi è Brunetta?) e la conclusione vede nientemeno che l'arrivo dell'Armata Rossa a suggellare trionfalmente il ripristino della produttività. Ma ai censori staliniani (burocrati, guarda caso!) questa musica orecchiabilissima non piacque, fu tacciata di formalismo borghese e messa al bando.
Gli otto numeri della Suite 5, ieri presentata, sono invece di una coinvolgente brillantezza.
1. Overture: dopo l'introduzione in Adagio (3/4) con poderosi squilli di trombe, il pezzo è tutto in Allegro (4/4) e quasi esclusivamente caratterizzato da veloci semicrome (in archi e legni) sostenute dagli ottoni con classici ritmi ribattuti, da fabbrica metalmeccanica.
2. Danza del burocrate: un autentica perla! Un gioiellino inestimabile. Tutta in 2/4, principia in Allegretto con due ottavini, due clarinetti normali (SIb) e due fagotti, subito raggiunti da tromboni e tuba, con sfottenti glissando, autentiche pernacchie in musica. Non può qui non venire alla mente la seconda sezione della straussiana Ein Heldenleben, dove flauti, fagotti e tuba dipingono e caricatureggiano un altro tipo di burocrate: il critico musicale! Ma il meglio arriva poco dopo con un'autentica polka, degna del miglior Strauß (Johann figlio, in questo caso): una cosa strabiliante. Dopo un intermezzo dove il segno fff indica il volume minimo del suono (sì, perché agli ottoni è richiesto anche un ffff) torna la polka a chiudere il numero in modo davvero esilarante.
3. Danza dei barrocciai: perpetua l'ambientazione del numero precedente. Qui i glissando di tromboni e tuba probabilmente descrivono il ridicolo nitrire di qualche asino. Fa capolino anche il glockenspiel, a rappresentare i segnali suonati dai carrettieri.
4. Danza di Kozelkov: si tratta, come dice il sottotitolo, di un tango. Dopo l'introduttivo Allegretto, principia l'Andante con una chiara reminiscenza della bizetiana Habanera. Segue una sezione più mosso, da cui Nino Rota deve aver tratto ispirazione per molta sua musica felliniana. Poi i temi si rincorrono e si ripetono fino alla estroversa conclusione.
5. Distruttore (intermezzo): trombe e tromboni espongono il tema dell'allegretto, poi sviluppato dai legni, con gli archi assai diradati, in un brano che è proprio suonato come in punta di piedi.
6. Danza della schiava coloniale: tempo andante, intermezzato da un presto. Nel primo è il corno inglese a farla da padrone, con una triste melodia tutta costruita su lunghe sequenze di seconde (maggiori e minori, discendenti e ascendenti). Poi la sezione veloce ci riporta, per così dire, in fabbrica, con i suoi ritmi meccanici scanditi dagli ottoni e sui quali volano le semicrome degli archi. Al ritorno dell'Andante, è il fagotto in primo piano, poi sono archi e timpano a chiudere mestamente.
7. Il Conciliatore (yes-man): il clarinetto da banda (in Mib) introduce l'assolo dello xilofono, qua e là contrappuntato dal fagotto. Gli ottoni si fanno sentire nella parte centrale, col ritmo scandito dal tamburo, poi ancora lo xilofono guida alla conclusione, su un glissando (altra pernacchiona) dei tromboni.
8. Danza e apoteosi finale: qui entra dapprima il baritono, poi l'intera banda (su sette parti) che rappresenta l'arrivano i nostri dell'Armata Rossa. Qualcosa a metà fra le marce di Elgar e le cariche della cavalleria nei vecchi film western, o le travolgenti conclusioni dei film di guerra dei primi anni '50. Una cosa tremenda! Che immancabilmente scatena applausi e urla, proprio come quando la tremante scritta TheEnd compariva in quelle vecchie pellicole. Non fosse che per la fatica fisica loro imposta dalla partitura, bisogna davvero encomiare tutti gli strumentisti per la maiuscola prestazione!
Il concerto della prossima settimana sarà ancora e sempre dedicato alla Russia.
40 anni fa José Plácido Domingo Embil debuttava alla Scala, in Ernani. E questa sera l'evento è stato festeggiato con un Gala di quelli davvero impegnativi per il festeggiato. Al posto della classica kermesse, dove si presentano dei pout-pourri tipo musical, assemblando brani e personaggi disparati, e magari si raccontano storielle e aneddoti fra un acuto e un falsetto, qui si è davvero fatto sul serio: l'intero atto iniziale di Walküre! Che Domingo cantò per la prima volta nel 1992 a Vienna e poi in Scala nel 1994, con la Meier e Muti, proprio a SantAmbrogio.
Al suo fianco Nina Stemme (non vestita così, però…) un'altra delle nordiche tanto presenti in Wagner, e Kwangchul Youn, che da 13 anni è stabilmente sulle locandine di Bayreuth; tutti diretti da quello stregone wagneriano che risponde al nome di Daniel Barenboim. Che ha anteposto alla Walküre il Tristan (Preludio+Liebestod da concerto) forse per far scaldare i motori all'orchestra.
Per questa serata avranno fatto forse un'ora di prove, poi Domingo non canta Siegmund da tanto, la stessa Stemme era (come lui) prudentemente con lo spartito davanti. Insomma, sarebbe ingeneroso stare a far le pulci all'una e all'altro (come anche all'Orchestra, tutt'altro che irreprensibile). In più, doveva fare un caldo infernale, sul palco: credo che Barenboim abbia usato il braccio sinistro più per estrarre e rinfoderare il fazzoletto in tasca, che per dettare agogica e dinamica. Lo stesso Domingo si è attaccato alla bottiglietta d'acqua per evitare disidratazioni.
Il Topone ha poi sparato le sue cartucce: forse perché sarà stata l'ultima volta che lo cantava… chissà, ma il nostro ha voluto mostrare che lui ce l'ha lungo, ancora e sempre e più di prima. Non alludo ai suoi attributi nascosti, ma al SOLb e al SOL (di Wälse). Il secondo lo ha tenuto per non meno di 8 secondi, roba da infarto!
Barenboim conosce tutto Wagner a memoria, e questo è ancora il Wagner idolatrato anche da Nietzsche, dove lui ha pochi rivali al mondo. I Filarmonici invece devono avere negli strumenti troppa mediterranea Carmen e forse faticano a virare improvvisamente verso l'umidità del nord… ma insomma, accontentiamoci.
La parte più lunga del concerto è stato il trionfo finale: 30 minuti almeno di chiamate, ovazioni, boati e lanci di fiori, anche dopo che gli orchestrali se n'erano quasi tutti usciti.
Insomma, un riconoscimento per la carriera di quest'uomo straordinario, che adesso si meriterebbe proprio ciò che il personaggio da lui interpretato stasera rifiuta sdegnosamente: ascendere al Walhall!
E invece lui – If I rest, I rust, recita orgogliosamente il suo website - fa come Siegmund: a qualunque costo non vuole lasciare la sua amata. Così, pur degradato a baritono, a 69 anni suonati (anzi… cantati!) lo risentiremo su quel palco a primavera.
Auguri, Topone, e grazie per tutte le emozioni che ci hai dato, e che ci darai!
Il nono concerto della stagione è a beneficio di Telethon, ed anche questo è un segnale di attenzione de laVerdi per i problemi di tutti. Il programma è diviso a metà fra Russia e America, avendo come baricentro la Boemia.
Dopo la breve, ma intensa Ouverture di Guerra e Pace, che apre la serata nel nome di Prokofiev, arriva Kun Woo Paik per il Secondo Concerto per pianoforte. Paik è uno dei primi musicisti ad essere approdato ai lidi occidentali dalla lontana Corea. Ha 63 anni suonati, ma non li dimostra proprio, nel fisico e nella verve con la quale affronta il concerto che (1913) aveva provocato scandalo e che Prokofiev fu costretto a riscrivere nel 1923, essendo andato bruciato in una stufa il manoscritto originale. Sarà perché i nostri gusti sono più evoluti di quelli di 90 anni fa, o perché nel riscriverlo Prokofiev ammorbidì parecchio l'originale, ma oserei dire che, specialmente nell'atmosfera del primo movimento, questo sembra quasi un concerto tardoromantico, con ammiccamenti à la Rachmaninov, per intenderci, e irruzioni enfatiche dell'orchestra a rompere la sognante e liquida quiete del solista. Almeno fino alla poderosa cadenza, una sessantina di battute, quasi un vero e proprio movimento di sonata incastonato nell'Andantino iniziale, dove c'è davvero di tutto: molto espressivo, precipitato, pesante, con effetto, colossale, tumultuoso, con tutta forza sono le indicazioni dinamico-agogiche che si leggono sulla partitura.
Nel brevissimo Scherzo, una sorta di frenetico moto perpetuo, il solista la fa da padrone, pungolato da intrusioni di fiati e percussioni e col sostegno discreto degli archi. Si pensi che il pianista, in tempo vivace, deve suonare, con entrambe le mani, esattamente 1500 semicrome (più la croma finale). Il tutto in circa 2'30", quindi 10 tocchi di semicroma al secondo con ciascuna mano per 150 volte di fila, senza una sola presa di respiro! E Paik qui si butta davvero a tutta velocità, mettendo in risalto le sue eccellenti qualità virtuosistiche. L'Intermezzo è una cosa tendente alla marcia funebre, con pochi momenti di relax, ma l'agogica prevalente è il pesante, subito imposto da tromboni, trombe e corni in sequenza. Nel finale Allegro tempestoso emergono i ritmi da catena di montaggio, tipici di Prokofiev (e anche di Shostakovich) alternati a intervalli di relativo riposo. Trionfo per Paik, che mostra tutta la proverbiale gentilezza e finezza orientale, voltandosi ripetutamente a ringraziare tutti gli strumentisti che lo hanno accompagnato al meglio. Numerose chiamate, ma niente bis.
La Nona Sinfonia di Dvorak è un'altra di quelle opere talmente note, suonate ed ascoltate, che si corre il rischio di non seguirla con il dovuto rispetto e il giusto riguardo. Insomma, si tende a subirla un po' passivamente, forse perché è fin troppo orecchiabile e quindi impegna (relativamente) poco il cervello. È la sinfonia americana, ma vi si trova l'America di Spillville, non quella di Atlanta. Michael Schønwandt, che dirige con flessuose movenze fra il danzatore e il mimo, cerca di far emergere dettagli, di aumentare i chiaroscuri, prendendosi anche qualche libertà nei tempi. Forse lo fa lodevolmente, per togliere parte del dolciastro di cui la sinfonia è imbevuta. Ma è un po' come mettere il peperoncino nel cioccolato: si ottiene un sapore interessante, ma alla fine il cioccolato tende comunque a stomacare. Del che peraltro ci si accorge sempre dopo averlo divorato.
In ogni caso, esecuzione encomiabile da parte di un'Orchestra apparsa ieri in gran forma, in tutte le sezioni. Orchestra che la prossima settimana si dedicherà alla Russia minore (? o quasi).
Programma pesante (ma in senso buono) per la nuova apparizione di Damian Iorio sul podio de laVerdi (Orchestra disposta alla tedesca, come evidentemente preferisce il Maestro).
L'apertura è dedicata a Gian Francesco Malipiero, e alle sue prime (1917) sette Pause del silenzio. Sette – numero fatidico per il compositore – brani composti in piena Grande Guerra a descrivere atmosfere o stati d'animo. La composizione intercala regolarmente un tempo lento o andante a uno mosso, chiudendo poi con un altro Allegro vivace e marcato. Ha un segnale che si ripete, variato e proposto da strumenti diversi (fiati) all'inizio di ciascuna pausa. In ciò è labilissimamente legata alla sinfonia mahleriana, che apre con un altro squillo, quel celebre pa-pa-pa/pà in DO#, suonato dalla prima delle quattro trombe. Se posso muovere una critica, non è all'esecuzione ma alla logistica: fare un intervallo di 20' dopo un brano introduttivo di 13' mi è parso fuori luogo; si poteva omettere tranquillamente l'intervallo (spesso la Quinta di Mahler viene anche presentata da sola, senza preamboli, senza offesa per Malipiero, sia chiaro!)
Ecco quindi la Quinta Sinfonia di Gustav Mahler. Un'opera da tempo entrata stabilmente nei repertori di tutte le orchestre e di tutti i Direttori di questo mondo. Perché, almeno dall'ultimo dopoguerra, Mahler ha finalmente cessato di essere inattuale, e il suo tempo è finalmente venuto (come lui stesso profetizzava quando era in vita). Ma più di un secolo fa l'establishment musicale – che gli riconosceva indubbi meriti come Direttore – nutriva assai scarsa considerazione per le sue doti di compositore.
Ecco cosa scriveva Arturo Toscanini (fine 1904, quindi molto prima dell'incontro-scontro con Mahler a NY) proprio a proposito della Quinta, al cognato-violinista Enrico Polo, che gli aveva spedito una copia della partitura: "Non puoi immaginare con quanta gioia e curiosità ho ricevuto il tuo plico inatteso e come lo abbia subito letto, anzi divorato! Malauguratamente, gioia e curiosità sono sparite e si son mutate in triste, assai triste ilarità. Credimi, caro Enrico, Mahler non è un artista serio. La sua musica non possiede né personalità, né genio; è una mistura di Italianità alla Petrella e Leoncavallo accoppiata alla magniloquenza musicale e strumentale di Ciajkovski, e con la ricerca di bizzarrìe straussiane (anche se lui si vanta di avere tendenze opposte) ma senza l'originalità né dell'uno né dell'altro. Ad ogni piè sospinto cade non già nel clichè ma nel triviale. Guarda qui (8 misure iniziali del tema della Trauermarsch): Petrella e Leoncavallo proverebbero solo sdegno di fronte a questo piccolo motivo di marcia che Mahler non si vergogna di introdurre nel primo movimento di una sinfonia. E potresti immaginare una boiata più tremenda di quest'altro passaggio (le 13 battute dei corni dal numero 7 della partitura)? L'idea di un'esecuzione a Torino è da scartarsi."
Beh, come accoglienza, non è davvero male! E il grande Arturo aveva un occhio, oltre che un orecchio, infallibile: ad esempio non doveva essergli sfuggita – nel Trio del primo movimento - la chiara reminiscenza dello straussiano Zarathustra…
Positivo, ma con qualche frecciatina, l'amico-rivale Richard Strauss, che scrive a Mahler, dopo la prima di Berlino: "La sua Quinta sinfonia mi ha donato nuovamente un'immensa gioia, che si è velata solo un poco durante il breve Adagietto. (…) I primi due tempi sono veramente grandiosi; il geniale Scherzo è risultato forse un po' troppo lungo…"
Un altro ricordo assai curioso ci arriva dai Briefe di Alma: "La Quinta era stata la prima opera alla cui nascita avevo assistito e a cui avevo pienamente partecipato! Ne avevo copiato tutta la partitura, anzi più ancora: Mahler aveva lasciato in bianco dei righi interi, perché sapeva che conoscevo le parti, e si fidava ciecamente di me. In primavera ne aveva fatto una prova di lettura con l'Orchestra Filarmonica, a cui avevo assistito nascosta in galleria. Io che avevo sentito tutte le melodie nel copiarle, ora non riuscivo a sentirle, perché Mahler fece suonare la batteria col tamburo piccolo tutto il tempo tanto selvaggiamente che, al di fuori del ritmo, non si percepiva quasi nulla. Corsi a casa in lacrime. Mi seguì. Non volli parlargli per parecchio tempo. Finalmente dissi singhiozzando: <<Hai scritto una sinfonia per batteria!>> Egli rise, prese la partitura e cancellò con una matita rossa tutta la parte del tamburo piccolo e la metà della batteria."
Come è andata ieri sera? Purtroppo un'esecuzione che poteva essere più che dignitosa è stata macchiata da troppe imprecisioni degli strumentisti, in special modo delle parti semi-solistiche. La prima tromba, ad esempio, dopo aver eseguito in modo impeccabile l'esordio (strumento in SIb) ha invece steccato e storpiato totalmente (con lo strumento in FA) la frase che precede immediatamente la coda nel movimento iniziale. Nello Scherzo, il corno obligato (in FA) ha rovinato una performance che poteva essere ottima con più di un'imprecisione (l'abbiamo visto far ripetutamente ruotare lo strumento, come per …svuotarlo). Ma queste sono solo le più evidenti fra le pecche che si sono riscontrate qua e là nell'esecuzione. Peccato, poiché Iorio ha da parte sua staccato tempi sempre rispettosi della partitura, senza prendersi mai libertà né introdurre effetti personali.
A proposito del Maestro, non possiamo che augurargli di seguire le orme di un altro inglese di sangue italiano, che ha raggiunto i vertici assoluti.
Come sempre ben curato il programma di sala, in particolare la presentazione della sinfonia del professor Enrico Girardi, alla quale mi permetto di fare solo un piccolo appunto riguardo le autocitazioni di Mahler (di propri Lied) che non sono tre (Nun will die Sonn', Ich bin der Welt e Lob des hohen Verstandes) ma quattro: al numero 29 del rondò finale compare, in flauti, oboi e clarinetti, un inconfondibile inciso che viene direttamente da Revelge (un Lied la cui ispirazione Mahler candidamente confessò di aver avuto nel 1899 durante una seduta sul WC!)
La settimana prossima, come dice il titolo del concerto, si va dalla Russia all'America.