affinità bombarole

rinsaldato il patto atlantico

07 dicembre, 2009

Radioascolto di Carmen a SantAmbrogio


Premessa noiosa, scontata, ma doverosa. L'ascolto meccanico permette giudizi molto precisi su alcuni aspetti, mentre ne esclude categoricamente su altri dell'esecuzione.

Quindi, nessun commento sulla penetrazione delle voci, né sul dosaggio orchestra-canto. Menchemeno sulla regìa, che – a volte per fortuna – in radio non conta.
Detto ciò, mi dichiaro molto, ma molto (non estremizzo mai, per naturale costituzione) soddisfatto.
Barenboim ha diretto da par suo: in tre ore gli dovrei fare un piccolissimo appunto, riguardo a tempi ed agogica. E sul Kapellmeister non aggiungo altro.
Qualche dettaglio tecnico su ciò che è stato tagliato, rispetto alla partitura in versione Didion, che personalmente mi è parsa di gran lunga la migliore di quelle precedentemente in circolazione (Guiraud e Oeser).
Non cito le righe di dialogo, poiché i nostri gusti moderni ce lo rendono indigesto (ne avremo sentito forse il 10%). Invece il taglio – consueto, del resto – della Pantomime (N°2 dell'Atto I) rimane per me discutibile. La scusa che non sia grande musica non regge, chè allora sarebbe da tagliare anche la scena precedente. Invece il taglio rende ridicoli i tempi dell'azione: Micaëla si è appena allontanata, visto che manca ancora tempo per il cambio della guardia. Ecco, la Pantomime serve a far passare quel tempo. Senza di essa, abbiamo l'incongruenza del cambio della guardia che avviene mentre la ragazza sta ancora uscendo dietro le quinte.
Poi è eliminato l'intermezzo della scena dei bambini, dove c'è il dialogo Moralés-José (e questo non crea particolari problemi).
Nel secondo atto è tagliata l'uscita di Escamillo dalla taverna (indicata in partitura come N°14 bis): qui ci sarebbe da discutere, sono solo 20 battute, con una bella cadenza sul tema del toreador. Forse c'entra anche la regìa, chi lo sa.
Infine: espunte le 32 battute del preparativo del duello fra Escamillo e Josè (qui si potrebbe discutere sull'efficacia del taglio).
Le voci (sempre col beneficio d'inventario). Anitona davvero sorprendente, se in teatro si sente come in radio, direi superba: farà strada, la cenerentola georgiana! Kaufmann rende bene quando deve affrontare impervie difficoltà, forse è meno appariscente nella zona centrale, ma in complesso mi è parso un gran Josè. Meno entusiasmante Schrott, che forse ha esagerato nell'applicare le indicazioni di Bizet (cantare con fatuità…) La Damato non mi è dispiaciuta (salvo qualche tendenza ad urlettare in alto) in specie nel terzo atto. Gli altri han fatto la loro onesta parte, con una citazione per Frasquita-Losier e Mercédès-Kučerová nella scena delle carte.
Della regìa si son sentiti …i buuh, ma sarà oggetto di tomografia assiale computerizzata il 18 prossimo venturo.

06 dicembre, 2009

Aspettando Carmen a SantAmbrogio - 7


In attesa di scoprire l'acqua calda (il Kaufmann immaginario) continuiamo a girare attorno a questa Carmen che – oltre ai congeniti problemi legati alla sua gestazione, parto e svezzamento – presenta curiosità ed interrogativi più o meno rilevanti: soprattutto per la regìa e le scene. Parliamo dell'ambientazione, in particolare dell'atto iniziale.
Intanto, sappiamo per certo di essere a Siviglia, verso il 1820. Notare: l'opera viene rappresentata nel 1875, quindi narra fatti (autentici o inventati da Mérimée poco importa) abbastanza recenti, per l'epoca, ed ambientati in un posto perfettamente determinato e conosciuto. Insomma, non è la Siviglia di cartapesta di Rossini o di Mozart, è proprio la Siviglia reale, con i bastioni e il Guadalquivir; è come se oggi si presentasse una nuova opera che prende lo spunto, che so, dal giallo del caso Montesi. Orbene, sembrerebbe intelligente ambientarla (luoghi, personaggi, tipo di vita, società, usi-e-costumi) a Roma e dintorni, e non in Sicilia o in Africa.
In quale periodo dell'anno? Non si sa, né dal libretto, né da Mérimée. Possiamo immaginare, ma solo ipotizzare, che sia una stagione calda, dato l'abbigliamento di Carmen, ma soprattutto la dovizia di fiori con cui essa è acconciata. Peraltro, nel sud della Spagna anche l'inverno è relativamente mite…
Quanto dura, in tutto, la Carmen? Nel racconto di Mérimée dura presumibilmente parecchi mesi, come minimo, stando alla catena di fatti, imprese, crimini, incontri, omicidi e amori che vi sono descritti. Nell'Opera? Di sicuro passa un mesetto fra il primo ed il secondo atto (la prigionìa di José); un tempo indeterminato (la vita presso la base dei contrabbandieri, in montagna) separa secondo e terzo atto, quindi passa ancora un po' di tempo – sempre indeterminato - fra il terzo e il quarto (il soggiorno di Josè, latitante, presso la madre).
In quale ora della giornata si apre l'Opera? Non lo sappiamo, è un'ora in cui la piazza è affollata da ogni genere di persone più o meno indaffarate o bighellonanti; ma questo ci dice ancora assai poco: si potrebbe tranquillamente andare dalle 10 del mattino alle 10 di sera… Sappiamo poi che si è in prossimità di due eventi: il cambio della guardia e il rientro in fabbrica delle sigaraie, dopo la pausa-pranzo. Quando cambia la guardia? A mezzogiorno, alle tre del pomeriggio, alle sei di sera, a mezzanotte? Nessun indizio, salvo il fatto però che ci sono molti bambini per strada, il che lascerebbe escludere la tarda serata e la notte.
Quanto alla pausa-pranzo, stanti le usanze ispaniche, potremmo collocarla al massimo attorno alle 3-4 del pomeriggio. A proposito, sia nel libretto di Meilhac-Halévy, che nel racconto di Mérimée (o meglio, nel racconto che Josè fa allo scrittore, dove aggiunge un altro particolare, che ci aiuta poco, peraltro: si è di venerdì) leggiamo che le sigaraie tornano in fabbrica après leur dîner. Che oggi significherebbe dopo la loro cena, non dopo il pranzo (o colazione di mezzodì) che in francese sarebbe déjeuner. Fosse così, avremmo tutto il primo atto ambientato di notte. Ma non è così (basta avere un/a francesista in famiglia per arrivarci): la distinzione fra déjeuner e dîner è subentrata nella lingua dei simpatici gallinacei molto dopo il 1800; ai tempi di Mérimée, Meilhac-Halévy e Bizet, il sostantivo dîner era indifferentemente usato per indicare tutti i pasti della giornata).
Un altro (labile) indizio sull'ora ci viene anche da Micaëla, che dice a José che lei tornerà al paesello la sera stessa (ma non prima di aver fatto compere ed essere tornata al posto di guardia per raccogliere la risposta del – non ancora ex - brigadier Lizzarabengoa alla madre) il che farebbe escludere che sia molto tardi.
In ogni caso, se chiedessimo a 100 persone di leggere il libretto e poi suggerire l'ora dell'inizio dell'Opera, 99 direbbero che siamo in tarda mattinata, primo pomeriggio al massimo, in una bella giornata di sole.
Una sola, anzi due (Emma Dante e Richard Peduzzi) sono invece convinte che si sia in una giornata tetra e plumbea. I pochi secondi di prova generale messi in onda chèz-Fazio ci mostrano infatti una scena assai scura, ulteriormente rabbuiata dai pastrani made-in-DDR (a proposito di profondo sud) di Moralès&C. Giusto così, altrimenti non si spiegherebbe come mai la regìa e le scene siano affidate al duo Dante-Peduzzi, e non ad una qualunque delle altre 99 persone del sondaggio di cui sopra.
Why so? ci si chiede: forse perché noi dobbiamo convincerci che il mondo è brutto, tetro e soprattutto ingiusto; che la Spagna, calda e tutta joie-de-vivre, con annesse passioni ed accoltellamenti, è solo un'invenzione da cartolina (chiedere conferma agli aficionados di Ibiza&Formentera, please) e Carmen deve da subito portarsi la sua fatale croce, senza aspettare quasi tre ore facendo finta di nulla.
Domani sera il grande circo barnum (inclusi i protagonisti del parallelo caravanserraglio transitante nel foyer) si mette in moto sul serio, dopo improbabili anteprime. La (recente) tradizione prevede che qualcuno venga pesantemente contestato. Aspettiamo di sapere chi – su Radio3 - dalla seducente voce della simpatica Gaia.

05 dicembre, 2009

Aspettando Carmen a SantAmbrogio - 6


aperta parente
Se fossi un under-30, con cognizione di causa, oggi mi sentirei francamente preso per il culo. Dico, l'anno scorso il tenore titolare viene all'anteprima-giovani e canta come fosse sotto la doccia, così la sera stessa viene protestato e promosso a coprire il ruolo di buatore del suo sferico sostituto. Quest'anno il tenore titolare, forse un po' superstizioso, pensa bene di darsi malato mezz'ora prima della recita, e così viene sostituito da uno che questa Carmen non potrà mai ammazzarla, visto che ci va a letto una sera sì e l'altra pure.
Intendiamoci, a me monsieur Lissner piace assai, come tutti i francesi quando parlano italiano, inglese o tedesco (o qualunque altra lingua diversa dal loro chicchirichì) ma adesso mi sembra proprio troppo.
Ora, datosi che personalmente sono un under-30 moltiplicato per due virgola qualcosa, a me di tutto ciò, come dicono i miei amici su a Brixen, nun me ne po' ffregà dde meno. Mi accontenterò, modestissimamente, che il 18 corrente mese, quando mi scomoderò su una poltroncina di loggione, mi venga servito un menu appena commestibile. Né ho da rivendicare alcunché a nome delle figlie, loro sì – beate loro – under-30, ma che considerano una serata al Piermarini alla stregua della tortura cinese. Tutto OK!
Però, se qualcuno mi obiettasse che il biglietto per l'anteprima-giovani costava solo 10 euri, gli risponderei con una massima che un mio vecchio amico, autentico maestro di vita, era solito pronunciare 35-40 anni fa: "io, una Trabant, e anche una Skoda (la Trabant dal volto umano, ndr) non la voglio neanche regalata!"
chiusa parente

04 dicembre, 2009

Aspettando Carmen a SantAmbrogio - 5


Visto che la tecnologia moderna ci conferisce il dono dell'ubiquità – basta disporre di un video-recorder – posso fare anche qualche commento alla trasmissione di ieri sera di Fazio, andata in onda mentre mi godevo il concerto di Largo Mahler.
Sensazioni contrastanti, fra l'esultante e il tetro.

L'esultanza deriva dalla constatazione che si è trattato di una straordinaria trasmissione: dico, avere insieme Barenboim, Abbado e Pollini deve essere un record mondiale; poi ospitare la Filarmonica a pochi minuti dall'inizio della generale è comunque un'impresa storica; infine perché i contenuti – grazie all'abilità del conduttore ed all'amabilità degli ospiti (perdoneremo qualche proclama ideologico del grande Pollini…) – sono stati, credo io, dosati al punto giusto per la circostanza e rispetto all'audience.
Tristezza perché si è trattato, temo, di una trasmissione straordinaria, che ahinoi avrà un seguito, se tutto va bene, non prima di una ventina d'anni.
Commoventi le immagini del concerto di Ramallah della Divan (l'alternativa violino-violenza evocata da Barenboim è davvero fulminante) una cosa che si fatica a prendere per vera (non credo sia stata una coincidenza che il filmato si sia concluso sulle note di Nimrod, dalle Enigma di Elgar).
Più coinvolgenti ancora le immagini venezuelane dei bambini di Abreu che cantano, suonano e sollevano i violini in segno di giubilo, con Abbado in lacrime!
Barenboim, da uomo che non simula, né le manda a dire, ha fatto alcune semplici affermazioni: una sul concetto che siamo noi ad aver bisogno della musica e non viceversa; dietro c'era una frecciatina che anche un bambino avrebbe potuto cogliere: bersaglio uno che ha il cognome che comincia con Al e finisce con levi.
Baricco ha fatto pochi danni (ma lui non è quello che propone di azzerare i fondi FUS e di lasciar fare al mercato? Evidentemente non gli fa schifo mandare una parcella alla RAI per un intervento tutto interno e funzionale al sistema vigente).
Sui problemi della regìa, Barenboim ha usato molta realpolitik, mostrando di comprendere le necessità di modernizzare le rappresentazioni, ma stigmatizzando allo stesso tempo certe abitudini (tipiche del Regietheater) dove il regista estrapola dai contenuti originali dell'Opera un particolare e lo mette al centro del suo proprio Konzept, a cui poi asservire l'Opera medesima.
A proposito di regìa, le brevissime immagini che ci sono state mostrate della generale (l'incipit della prima scena) non sono troppo incoraggianti. Il brigadiere Morales e i suoi soldati stanno cazzeggiando, osservando la gente che, sulla piazza, viene e va. Persone aggettivate nel testo come drôles, strane, curiose, divertenti. Orbene, che fra queste ci sia chi porta in giro tappeti da sbattere con scope, chissà, può darsi sia un'usanza del profondo sud, e passi. Ma che subito ci venga mostrata una donna al nono mese di gravidanza (le immagini non sono chiare, ma è forse la stessa Carmen?) che si accascia per strada in preda alle doglie, soccorsa poi alla meglio da altri passanti, io - povero pirla - non riesco proprio a comprenderne il recondito significato. Che, non ho dubbi, deve pur esserci: spero nella compassione di qualche amico che me lo venga a spiegare… altrimenti mi sforzerò di arrivarci da solo in teatro, purtroppo non prima del 18 prossimo venturo.
Da ultimo, amici che hanno assistito alla generale mi assicurano di un livello di esecutori (maestro, orchestra, coro e – soprattutto – cantanti) di altissima qualità. Se è così, non c'è regìa che possa rovinare la Carmen.

Stagione dell’OrchestraVerdi - 9

Il nono concerto della stagione è a beneficio di Telethon, ed anche questo è un segnale di attenzione de laVerdi per i problemi di tutti. Il programma è diviso a metà fra Russia e America, avendo come baricentro la Boemia.

Dopo la breve, ma intensa Ouverture di Guerra e Pace, che apre la serata nel nome di Prokofiev, arriva Kun Woo Paik per il Secondo Concerto per pianoforte. Paik è uno dei primi musicisti ad essere approdato ai lidi occidentali dalla lontana Corea. Ha 63 anni suonati, ma non li dimostra proprio, nel fisico e nella verve con la quale affronta il concerto che (1913) aveva provocato scandalo e che Prokofiev fu costretto a riscrivere nel 1923, essendo andato bruciato in una stufa il manoscritto originale. Sarà perché i nostri gusti sono più evoluti di quelli di 90 anni fa, o perché nel riscriverlo Prokofiev ammorbidì parecchio l'originale, ma oserei dire che, specialmente nell'atmosfera del primo movimento, questo sembra quasi un concerto tardoromantico, con ammiccamenti à la Rachmaninov, per intenderci, e irruzioni enfatiche dell'orchestra a rompere la sognante e liquida quiete del solista. Almeno fino alla poderosa cadenza, una sessantina di battute, quasi un vero e proprio movimento di sonata incastonato nell'Andantino iniziale, dove c'è davvero di tutto: molto espressivo, precipitato, pesante, con effetto, colossale, tumultuoso, con tutta forza sono le indicazioni dinamico-agogiche che si leggono sulla partitura.

Nel brevissimo Scherzo, una sorta di frenetico moto perpetuo, il solista la fa da padrone, pungolato da intrusioni di fiati e percussioni e col sostegno discreto degli archi. Si pensi che il pianista, in tempo vivace, deve suonare, con entrambe le mani, esattamente 1500 semicrome (più la croma finale). Il tutto in circa 2'30", quindi 10 tocchi di semicroma al secondo con ciascuna mano per 150 volte di fila, senza una sola presa di respiro! E Paik qui si butta davvero a tutta velocità, mettendo in risalto le sue eccellenti qualità virtuosistiche. L'Intermezzo è una cosa tendente alla marcia funebre, con pochi momenti di relax, ma l'agogica prevalente è il pesante, subito imposto da tromboni, trombe e corni in sequenza. Nel finale Allegro tempestoso emergono i ritmi da catena di montaggio, tipici di Prokofiev (e anche di Shostakovich) alternati a intervalli di relativo riposo. Trionfo per Paik, che mostra tutta la proverbiale gentilezza e finezza orientale, voltandosi ripetutamente a ringraziare tutti gli strumentisti che lo hanno accompagnato al meglio. Numerose chiamate, ma niente bis.

La Nona Sinfonia di Dvorak è un'altra di quelle opere talmente note, suonate ed ascoltate, che si corre il rischio di non seguirla con il dovuto rispetto e il giusto riguardo. Insomma, si tende a subirla un po' passivamente, forse perché è fin troppo orecchiabile e quindi impegna (relativamente) poco il cervello. È la sinfonia americana, ma vi si trova l'America di Spillville, non quella di Atlanta. Michael Schønwandt, che dirige con flessuose movenze fra il danzatore e il mimo, cerca di far emergere dettagli, di aumentare i chiaroscuri, prendendosi anche qualche libertà nei tempi. Forse lo fa lodevolmente, per togliere parte del dolciastro di cui la sinfonia è imbevuta. Ma è un po' come mettere il peperoncino nel cioccolato: si ottiene un sapore interessante, ma alla fine il cioccolato tende comunque a stomacare. Del che peraltro ci si accorge sempre dopo averlo divorato.

In ogni caso, esecuzione encomiabile da parte di un'Orchestra apparsa ieri in gran forma, in tutte le sezioni. Orchestra che la prossima settimana si dedicherà alla Russia minore (? o quasi).

01 dicembre, 2009

Aspettando Carmen a SantAmbrogio - 4


Sulle possibili dissacrazioni o scandalose interpretazioni di cui potrebbe essere oggetto la prossima Carmen alla Scala si è scritto e letto parecchio. Va da sé che solo le rappresentazioni si potranno giudicare, nel bene e/o nel male.
Intanto però – a mo' di passatempo - è possibile stabilire che cosa non dovrebbe essere un'interpretazione dell'opera, che non voglia smaccatamente stravolgerne le caratteristiche fondanti. Vediamo quindi quali sono queste caratteristiche.
Intanto una considerazione generale: potrebbe sembrare un'ovvietà, ma va tenuto presente che la Carmen in cartellone è quella di Meilhac-Halévy (libretto) e di Bizet (musica). Non è quella di Mérimée, tanto per essere chiari. Anche se quest'ultima fornì l'ispirazione a Bizet e ai suoi librettisti e - paradossalmente – fu amatissima dal compositore. Ma quella che Meilhac-Halévy scrissero e che Bizet mise in musica è totalmente altro dalla novella di Mérimée. Per usare un linguaggio chimico, o gastronomico, la Carmen di Mérimée è composta per il 20% di leggerezza ed esteriorità e per l'80% di vicende della mala, drammi, psicopatie e tragedia; quella di Bizet ha ingredienti in proporzioni esattamente ribaltate: 80% commedia e 20% tragedia e dramma. E poco ci debbono interessare le ragioni di questa diversità; che risiedano nella sensibilità del musicista e dei suoi librettisti, o nella bigotteria e nel conformismo dei responsabili del Teatro che aveva commissionato l'opera, o nei divieti della censura, o in tutte queste cose messe insieme e in altre ancora, resta un fatto: la Carmen di Bizet è fatta così e non cosà. E al pubblico – o almeno a quella parte di esso che paga il biglietto per vedere e sentire la Carmen di Bizet – non dovrebbe essere propinata una sua versione adulterata, per quanto rifacentesi alle remote fonti che la ispirarono. Sarebbe come se, dovendo inscenare Die Walküre, invece dei testi e dell'intreccio di Wagner, si impiegassero quelli della Völsungasaga, alla quale Wagner pur vagamente si ispirò: sarebbe una stupidaggine, pura e semplice (ahinoi, la realtà ci dice che di simili stupidaggini se ne sono viste già fin troppe, e ciò dovrebbe essere un buon motivo per non perpetrarne di nuove).
A proposito di commedia, subito il primo atto dell'opera ci introduce nella vita di tutti i giorni di una città, con "gente che viene, gente che va", e persino con un siparietto (la Pantomime, sempre in bilico fra l'essere eseguita o espunta) una specie di gag, di scenetta davvero degna di Totò: un attempato signore che passeggia con una bella e giovane donna e si imbatte nell'amante di lei che lo buggera indicandogli l'uccellino, mentre lui passa furtivamente un biglietto d'amore alla donna. Essendo ambientato a Siviglia, potrebbe persino essere una specie di citazione rossiniana, protagonisti Bartolo, Rosina e Lindoro. Insomma, un fatto che nulla ha a che fare con la vita - menchemeno con il dramma – di Carmen, ma che rende bene l'idea della generale ambientazione leggera dell'Opera. La vita quotidiana continua a scorrervi, dall'inizio alla fine, senza che nulla cambi o mostri di cambiare, fra gente che fa il suo lavoro e si diverte e altra che sbarca il lunario con attività più o meno clandestine. È in questo quadro che si inserisce la storia a fine tragico di Carmen e José, come fosse una vicenda di cronaca nera, di quelle che occupano forse la prima pagina della locale gazzetta per un paio di giorni, dopodiché tutti riprendono le loro attività o – come i soldati - il loro passatempo di osservare la gente che viene e che va. Ciò ovviamente non significa che si debba inscenare un banale stereotipo di Spagna vista con occhi francesi; ma qualunque forzatura, in senso socio-politico, di questo quadro sarebbe del tutto ingiustificata e fuori luogo.
Mentre nel racconto di Mérimée la tragedia ci viene annunciata assai presto, e il seguito altro non è se non un lungo, dettagliato e mediamente tetro resoconto dei fatti, avvenimenti e sentimenti che l'hanno determinata, nella Carmen di Bizet il finale drammatico non è per nulla prevedibile fin dall'inizio: l'opera – e questa è la sua caratteristica peculiare, che ne fa un capolavoro - si muove attorno ad un progressivo cambiamento di atmosfera, che va dal fatuo clima da operetta (all'inizio ci sembra di essere al Paese dei campanelli…) che nulla di tragico lascia presagire, a quello equivoco, ma anche sanguignamente pomposo, che comunque comincia a preoccupare (Pastia) a quello notturno e tenebroso presso la base dei contrabbandieri, al presentimento di morte (le carte) di Carmen e finalmente sfocia nella catastrofe (anche questa peraltro incastonata in una festa di popolo). E questo è anche il percorso che - grazie alla musica di Bizet - lo stato d'animo dello spettatore dovrebbe seguire. Se invece – fin da subito – la scena fosse occupata da segnali, o simboli, o riferimenti al tragico finale cui Carmen e José sono predestinati, sarebbe come se – in un film poliziesco – già alla sua prima apparizione il colpevole venisse identificato e poi perennemente seguito da un simbolo, una freccia o una didascalia! Daremmo subito del matto a quel regista, credo!
Ora passiamo al paesaggio. Siviglia non è più vincolante per Carmen, José, Escamillo e Micaëla di quanto lo sia per Figaro, Rosina, Lindoro e Bartolo. Manifatture di tabacco, locande equivoche e contrabbandieri sono sparsi sull'intero pianeta; e ogni paesotto ha il suo presidio di militari, polizia o carabinieri. Attenzione però: uno dei personaggi di Carmen fa di professione il torero, tutti cantano a squarciagola Toreador, e il finale dell'opera è precisamente ambientato nei pressi di una plaza-de-toros. Allora, tanto per dirne una, domandiamoci quale senso avrebbe un'ambientazione messa in un impianto sportivo diverso (ad esempio un autodromo dove corresse un campione di Formula1 a nome Escamillo, oppure un palazzo dello sport dove si tengono incontri di pugilato) ma dal quale arrivassero le note del coro che canta: "Viva! è bella la gara! Viva! Sanguinante sulla sabbia, il toro si slancia! Guardate! Guardate! Il toro punzecchiato a balzi si slancia!" Ma anche la corrida ambientata in un posto tipo Ghardaia sarebbe difficile da giustificare, non meno di quella ambientata a Cinisello Balsamo. Insomma, da Siviglia si potrebbe anche traslocare, ma per ragioni che andrebbero ben dimostrate, e non per il solo gusto - preteso innovatore - di ambientare la vicenda da qualche altra parte, o in nessun luogo preciso. E poi comunque Carmen canta "Près des remparts de Séville"… o cambiamo anche il testo in "Près des remparts de Ciniselle"?
Veniamo ai personaggi. Le sigaraie entrano in scena facendo le civettuole con i ragazzi e cantando in uno spensierato MI maggiore, leggero come il fumo che espirano! Se hanno dei problemi, come si vedrà nella scena della lite, questi non sono certo di tipo sindacale né politico, ma trattasi solo di stupidi screzi basati su altrettanto futili sottintesi e doppisensi. Finchè sono in scena non fanno che mostrare allegria e gioia di vivere, nessuna si lamenta più di tanto per via del lavoro faticoso e alienante. Insomma, qui non c'è nemmeno l'ombra di problematiche socio-politico-rivendicative, non c'è ombra di femminismo; c'è solo femminilità - magari vuota e stupidella – ma null'altro! Infilarci dell'altro sarebbe operazione arbitraria, ingiustificata e, in fin dei conti, falsificatoria.
Carmen – basta leggere il libretto e ascoltare la musica – è un personaggio che non cambia mai. Lei è sempre la stessa: da quando la si vede entrare in scena – anzi da prima ancora, quando solo se ne avverte la presenza – a quando finisce ammazzata all'ultimo. Assolutamente nessun mutamento nel suo approccio esistenziale, nelle sue idee, nei suoi convincimenti. E nelle sue superstizioni. Lei è già – è stata da sempre – una donna libera ("Libera è nata, e libera morrà") ed è matura alla sua maniera, compresi gli aspetti patologici di questa sua maturità; dalla vita non ha nulla da imparare, nulla vuol imparare e nulla infatti impara. Anzi, è pervasa da un fatalismo che le impedisce di fermarsi un solo secondo a ragionare. Ecco: se ci venisse propinata una Carmen che, in qualche modo, fa tesoro di esperienze, matura convinzioni, insomma si emancipa, questo sarebbe un autentico tradimento del capolavoro di Bizet (e nemmeno sarebbe fedele a Mérimée, per la verità).
Qualcuno ha voluto fare paralleli fra Carmen e Violetta: forse epidermicamente ve ne possono essere, ma nella vera sostanza le due donne sono agli antipodi. Perché, a differenza di Carmen, Violetta cambia, matura, scopre che la vita le può offrire un'altra, insperata e meravigliosa alternativa. Carmen, di amore – vuoto, effimero? forse, ma certamente suo - ne ha quanto ne vuole, decide lei come prenderselo. Violetta l'amore non lo conosce, ma quando lo scopre quasi se ne stupisce e decide di mutare radicalmente la sua vita. Carmen non segue i contrabbandieri per amore della vita clandestina e della libertà (la sua libertà lei la vive da sempre) e menchemeno per amore di José, ma solo perché la gratifica il ruolo che lei sostiene nell'organizzazione della banda del Dancaïre, dove le viene affidato un compito che è pienamente affine alla sua natura: circuire con le sue moine qualche doganiere per distoglierne l'attenzione dal Dancaïre medesimo e dai suoi soci. Vissuta l'esperienza, torna subito in città, dove la aspetta la nuova, ennesima avventura, con Escamillo stavolta. Il trasferimento di Violetta in campagna, con Alfredo, è invece una decisione definitiva, esistenziale, duratura, che verrà vanificata solo dall'intervento prevaricatore del vecchio Germont. Carmen non esita a dire in faccia a Josè una verità nuda e cruda: lei non lo ama più (perchè il suo nuovo amore è il torero). Violetta invece, dopo il ritorno nella vita parigina, addirittura simula il suo comportamento leggero per indurre Alfredo a disprezzarla e quindi dimenticarla, e lo fa al solo scopo di compiacere il padre di quello stesso uomo che lei continua ancora e sempre ad amare.
Ora, ci venisse proposta una Carmen Violetta-like, ci sarebbe da sporgere denuncia…
Anche José, al contrario di Carmen, è uno che cambia, e parecchio! Ma come e perché cambia? Cambia perché è immaturo, debole e psicologicamente indifeso. Cambia perché si fa trascinare dalla pura e semplice (e per di più devastante) passione. E, attenzione, lui cambia, ma non matura! Se c'è qualcosa che manca totalmente nei suoi comportamenti, è la coscienza della sua situazione. Lui resterà fino alla fine un povero bamboccio ingenuo, in balìa di tempeste psichiche, col cervello atrofizzato. Quando decide di seguire i contrabbandieri, non lo fa certo per aver maturato convinzioni politiche rivoluzionarie, ma solo per sfuggire ad una punizione e – soprattutto – perché attirato dall'idea di poter stare – per tutta la vita, povero illuso! – con la bella gitana. Lui è vittima inconsapevole e beota del tranello (la libertà!) tesogli da Carmen, che sarà pure invaghita di lui – temporaneamente – ma che sta di fatto eseguendo gli ordini del Dancaïre, che ha bisogno di reclutare forza fresca per le sue criminose imprese. Ecco: se ci venisse proposto un Josè che matura, che scopre le ingiustizie e i mali del sistema, a cui decide di ribellarsi, questo sarebbe un disastro, una totale adulterazione dell'essenza del personaggio.
Escamillo è l'altra metà di Carmen. Anche lui si innamora della bella gitana, come Josè, ma lui, come Carmen, è maturo, è un uomo di mondo, abituato a giudicare ogni situazione con grande freddezza (come potrebbe altrimenti affrontare il toro nell'arena?) E sa infatti aspettare pazientemente il suo turno, fin dal primo approccio presso Pastia e anche dopo l'infruttuoso sopralluogo in montagna (dove del resto arriva quasi per caso) e dove canta sì (di Carmen) "io l'amo alla follia", ma senza alcun particolare pathos, con calma e sicurezza, in un tranquillo e per nulla passionale REb maggiore. Tant'è vero che subito se ne torna a Siviglia, dando appuntamento "a chi mi ama" per festeggiare, dopo la corrida. Insomma, è un Dominguin (che molti di noi ricorderanno, e di cui ancora vediamo i figli Bosè in giro): gloria e belle donne; un tipo che molti invidiano e altrettanti compatiscono, fine. È però dotato pure lui di cuore e di sentimenti, è un buono (altrimenti farebbe secco Josè come nulla, nel duello, mentre invece "Io ammazzo tori, non certo esseri umani" gli dice). Il suo tema suonato e cantato sguaiatamente nel secondo atto non tragga in inganno; basterà ascoltare come viene esposto – da violoncelli e clarinetti - nell'atto terzo. Ora, se Escamillo ci venisse invece presentato come un truce, un tipo volgare, becero, prepotente e assetato di sangue, significherebbe non aver capito proprio nulla di lui.
Infine, Micaëla. Lo stereotipo della donnicciola bigotta, tutta casa-e-chiesa, inesperta di mondo e con la mente obnubilata dall'ossessione di accasarsi con Josè, è quanto di più falso e bugiardo si potrebbe costruire attorno al personaggio. Anche qui, basta leggere il libretto e studiare la musica per convincersi che lei sarà sì poco più di una ragazzina, ma sa cavarsela benissimo nella vita (sulle montagne, è più coraggiosa lei della sua guida, e il fatto che il coraggio le venga dalla fede non ne intacca il valore); è insomma una persona matura, pur se con princìpi assai conservatori, ma assolutamente da rispettare. Che poi sia innamorata di Josè sarà pur vero, ma mai lei glielo fa pesare, nemmeno con una parola, perché sempre mette al centro delle sue azioni le cure per la vecchia madre dell'ex-brigadiere, cui deve perenne riconoscenza per essere stata allevata – lei orfanella - come una figlia.
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Ecco, ciò che uno spettatore normale – ma che ne conosce testo e musica - si attende è di godersi l'opera per quello che è, con pregi e difetti, ma con le sue peculiari caratteristiche. Non certo una cervellotica e intellettualoide interpretazione in chiave psico-socio-politico-tragico-esistenzial-verista, con dosatura di ingredienti selon Mérimée. Dateci semplicemente – e sarà già molto, moltissimo - la Carmen di Bizet.
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Visto che siamo in piena vigilia carmenense, mi fa piacere segnalare due blog che trattano dell'argomento in modo simpatico e distensivo: Amfortas, che ci guida nel mondo delle altre Carmen (in attesa di quella che interessa ai melomani) e Milady de Winter, che ha iniziato a proporci una travolgente sinossi dell'opera (c'è da stare davvero in ansia per il finale!)

27 novembre, 2009

Stagione dell'OrchestraVerdi - 8

Programma pesante (ma in senso buono) per la nuova apparizione di Damian Iorio sul podio de laVerdi (Orchestra disposta alla tedesca, come evidentemente preferisce il Maestro).

L'apertura è dedicata a Gian Francesco Malipiero, e alle sue prime (1917) sette Pause del silenzio. Sette – numero fatidico per il compositore – brani composti in piena Grande Guerra a descrivere atmosfere o stati d'animo. La composizione intercala regolarmente un tempo lento o andante a uno mosso, chiudendo poi con un altro Allegro vivace e marcato. Ha un segnale che si ripete, variato e proposto da strumenti diversi (fiati) all'inizio di ciascuna pausa. In ciò è labilissimamente legata alla sinfonia mahleriana, che apre con un altro squillo, quel celebre pa-pa-pa/pà in DO#, suonato dalla prima delle quattro trombe. Se posso muovere una critica, non è all'esecuzione ma alla logistica: fare un intervallo di 20' dopo un brano introduttivo di 13' mi è parso fuori luogo; si poteva omettere tranquillamente l'intervallo (spesso la Quinta di Mahler viene anche presentata da sola, senza preamboli, senza offesa per Malipiero, sia chiaro!)

Ecco quindi la Quinta Sinfonia di Gustav Mahler. Un'opera da tempo entrata stabilmente nei repertori di tutte le orchestre e di tutti i Direttori di questo mondo. Perché, almeno dall'ultimo dopoguerra, Mahler ha finalmente cessato di essere inattuale, e il suo tempo è finalmente venuto (come lui stesso profetizzava quando era in vita). Ma più di un secolo fa l'establishment musicale – che gli riconosceva indubbi meriti come Direttore – nutriva assai scarsa considerazione per le sue doti di compositore.

Ecco cosa scriveva Arturo Toscanini (fine 1904, quindi molto prima dell'incontro-scontro con Mahler a NY) proprio a proposito della Quinta, al cognato-violinista Enrico Polo, che gli aveva spedito una copia della partitura: "Non puoi immaginare con quanta gioia e curiosità ho ricevuto il tuo plico inatteso e come lo abbia subito letto, anzi divorato! Malauguratamente, gioia e curiosità sono sparite e si son mutate in triste, assai triste ilarità. Credimi, caro Enrico, Mahler non è un artista serio. La sua musica non possiede né personalità, né genio; è una mistura di Italianità alla Petrella e Leoncavallo accoppiata alla magniloquenza musicale e strumentale di Ciajkovski, e con la ricerca di bizzarrìe straussiane (anche se lui si vanta di avere tendenze opposte) ma senza l'originalità né dell'uno né dell'altro. Ad ogni piè sospinto cade non già nel clichè ma nel triviale. Guarda qui (8 misure iniziali del tema della Trauermarsch): Petrella e Leoncavallo proverebbero solo sdegno di fronte a questo piccolo motivo di marcia che Mahler non si vergogna di introdurre nel primo movimento di una sinfonia. E potresti immaginare una boiata più tremenda di quest'altro passaggio (le 13 battute dei corni dal numero 7 della partitura)? L'idea di un'esecuzione a Torino è da scartarsi."

Beh, come accoglienza, non è davvero male! E il grande Arturo aveva un occhio, oltre che un orecchio, infallibile: ad esempio non doveva essergli sfuggita – nel Trio del primo movimento - la chiara reminiscenza dello straussiano Zarathustra

Positivo, ma con qualche frecciatina, l'amico-rivale Richard Strauss, che scrive a Mahler, dopo la prima di Berlino: "La sua Quinta sinfonia mi ha donato nuovamente un'immensa gioia, che si è velata solo un poco durante il breve Adagietto. (…) I primi due tempi sono veramente grandiosi; il geniale Scherzo è risultato forse un po' troppo lungo…"

Un altro ricordo assai curioso ci arriva dai Briefe di Alma: "La Quinta era stata la prima opera alla cui nascita avevo assistito e a cui avevo pienamente partecipato! Ne avevo copiato tutta la partitura, anzi più ancora: Mahler aveva lasciato in bianco dei righi interi, perché sapeva che conoscevo le parti, e si fidava ciecamente di me. In primavera ne aveva fatto una prova di lettura con l'Orchestra Filarmonica, a cui avevo assistito nascosta in galleria. Io che avevo sentito tutte le melodie nel copiarle, ora non riuscivo a sentirle, perché Mahler fece suonare la batteria col tamburo piccolo tutto il tempo tanto selvaggiamente che, al di fuori del ritmo, non si percepiva quasi nulla. Corsi a casa in lacrime. Mi seguì. Non volli parlargli per parecchio tempo. Finalmente dissi singhiozzando: <<Hai scritto una sinfonia per batteria!>> Egli rise, prese la partitura e cancellò con una matita rossa tutta la parte del tamburo piccolo e la metà della batteria."

Come è andata ieri sera? Purtroppo un'esecuzione che poteva essere più che dignitosa è stata macchiata da troppe imprecisioni degli strumentisti, in special modo delle parti semi-solistiche. La prima tromba, ad esempio, dopo aver eseguito in modo impeccabile l'esordio (strumento in SIb) ha invece steccato e storpiato totalmente (con lo strumento in FA) la frase che precede immediatamente la coda nel movimento iniziale. Nello Scherzo, il corno obligato (in FA) ha rovinato una performance che poteva essere ottima con più di un'imprecisione (l'abbiamo visto far ripetutamente ruotare lo strumento, come per …svuotarlo). Ma queste sono solo le più evidenti fra le pecche che si sono riscontrate qua e là nell'esecuzione. Peccato, poiché Iorio ha da parte sua staccato tempi sempre rispettosi della partitura, senza prendersi mai libertà né introdurre effetti personali.

A proposito del Maestro, non possiamo che augurargli di seguire le orme di un altro inglese di sangue italiano, che ha raggiunto i vertici assoluti.

Come sempre ben curato il programma di sala, in particolare la presentazione della sinfonia del professor Enrico Girardi, alla quale mi permetto di fare solo un piccolo appunto riguardo le autocitazioni di Mahler (di propri Lied) che non sono tre (Nun will die Sonn', Ich bin der Welt e Lob des hohen Verstandes) ma quattro: al numero 29 del rondò finale compare, in flauti, oboi e clarinetti, un inconfondibile inciso che viene direttamente da Revelge (un Lied la cui ispirazione Mahler candidamente confessò di aver avuto nel 1899 durante una seduta sul WC!)

La settimana prossima, come dice il titolo del concerto, si va dalla Russia all'America.

24 novembre, 2009

Aspettando Carmen a SantAmbrogio - 3

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Due presentazioni intorno alla nuova Carmen si sono tenute ieri e oggi a Milano.

Lunedi, nell’ambito del programma di Conferenze Prima delle Prime, presso il Ridotto Toscanini del Teatro, Quirino Principe ha tenuto una concione dal titolo: “La Distruttrice distrutta, ovvero l'essenza drammatica e musicale di Carmen”.

Il professor Quirino è grande, lo sappiamo tutti, e certo non ci si può aspettare che lui accetti di fare una conferenza su Carmen per raccontarcene l’intreccio, o le fonti, o le versioni circolanti. Il nostro però la prende davvero alla lontana, partendo dall’ostilità di Solone per il teatro e dal disprezzo di Hegel per la musica; poi passa ai significati reconditi dei fiori, ricordandoci che Carmen ne offre uno a Josè (ma tacendo di dire che in realtà glielo tira violentemente in mezzo agli occhi, ndr); poi risale alla fonte-della-fonte di Bizet (la futura moglie di Napoleone III, ispiratrice di Merimée in quel di Granada); quindi passa per le opere dello zio del librettista Halévy (nonché suocero di Bizet); accenna ai tritoni (=diavoli, =inferno, =fuoco) che accompagnano Carmen; spazia sui tre piani dell’amore: libido, eros e agape (sempre visti dalla prospettiva di Josè, dove l’agape peraltro scarseggia). Visto che l’oggetto è Carmen, non tralascia di citare Leonore e lo squillo della trombetta liberatrice di Don Fernando (che in realtà sappiamo essere quella dello scherano di Pizarro, ndr). Chiude poi proponendo un ardito parallelo fra Carmencita e Violetta.

Insomma, un volo talmente alto e pindarico che si è totalmente perso di vista l’oggetto – concreto e immanente - del titolo della conferenza e di ciò che verrà rappresentato a SantAmbrogio. A noi, comuni mortali, sono cadute in testa un po’ di briciole, come quelle che si gettano ai piccioni della vicina piazza Duomo. Ma va bene lo stesso, è tutta cultura!

Un poco più stimolante, appunto in vista della prima, l’incontro tenutosi oggi pomeriggio presso l’Università Cattolica, che ha ospitato i due principali artefici della Carmen 2009, Daniel Barenboim ed Emma Dante. Annessa un’esposizione di documenti (per lo più… contabili!) relativi a due storiche rappresentazioni scaligere: Toscanini del 1906 e Serafin del 1913.

Si può cominciare a farsi un’idea di cosa ci aspetta? (le conclusioni e i giudizi matureranno dopo aver toccato con… occhio e orecchio). Direi di , nel senso che non abbiamo ascoltato clamorose rivelazioni o anticipazioni.

La parte del leone l’ha fatta il Maestro scaligero, che si è esibito, oltre che in un rapido esercizio di Habanera al pianoforte, anche in un meno riuscito numero da giocoliere con bottiglia e bicchiere, finito quest’ultimo a pezzi… A parte ciò, Barenboim ci ha spiegato che Carmen non è un’opera spagnoleggiante, perché contiene appunto la Habanera, ergo ha radici cubane, ergo africane: il triangolo africa-cuba-spagna visto da un francese. Speriamo non sia quello delle Bermude, dove ogni cosa finisce in vacca!
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Interessante la sua difesa dei dialoghi contro i recitativi (pochi saranno in disaccordo, penso): si legge che dirigerà (come già a Berlino) usando l’edizione di Robert Didion, e questo è assai confortante, poiché significa che ci possiamo aspettare una Carmen il più fedele possibile alle intenzioni di Bizet (per quanto il 100% sia escluso matematicamente, date le travagliate circostanze di cui l’Opera fu vittima).

In sostanza dovremmo sentire ciò che l’Autore aveva deciso di proporre al pubblico dopo le prove in vista della prima (e non ciò che altri, dopo la sua scomparsa, decisero di propinarci, per più di un secolo!) Dopodichè Barenboim ci metterà la sua sensibilità e il suo approccio interpretativo, e lo si giudicherà dal risultato, ma insomma, intanto la materia prima impiegata appare come la più genuina, o la meno adulterata. Ed è già un punto a favore del Kapellmeister. Che ha poi spiegato – ma era cosa risaputa - la circostanza in cui ha scelto la nuova Carmen, scherzosamente definendosi – a proposito di scoperte – come un tale del 1492. Rispondendo ad una domanda, ha spiegato che la differenza fra il suono di un clarinetto della Unter den Linden e un clarinetto della Scala dipende dal fatto che il berlinese suona Schwester, mentre il milanese suona sorella!
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Al termine, in riconoscimento della preziosa opera di civiltà che il Maestro porta avanti con la Divan, l’Università gli ha consegnato una nuova Borsa di Studio che permetterà ad un altro giovane di laggiù di emanciparsi.

Vengo ora alla più attesa protagonista dell’incontro: Emma Dante. Devo dire che, forse oscurata dall’esuberante personalità del Maestro, la bella sicula dalle bianche mèches ha parlato poco, e quel poco è stato piuttosto scontato, non dico banale: grande onore essere alla Scala, grande emozione alla prima visita al Teatro, Carmen grande opera, da interpretare guardando avanti (!?) ed altre frasi di circostanza. Per me però è stata sorprendente una sua promessa, fatta subito, di botto, quasi una excusatio-non-petita: nella mia Carmen non ci saranno né vare, né suore.

Ecco, per oggi è la notizia più confortante, poiché della Habanera cantata da una suora davvero non si sentiva la mancanza.
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21 novembre, 2009

Ein italienisches Requiem, alla Scala

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Dopo Parma e laVerdi, un terzo Requiem, alla Scala.

Un cast davvero di prim’ordine sotto la bacchetta di Barenboim&Casoni (che si ritroveranno col Kaufmann-Josè a dicembre per l’apertura della Stagione). Il programma di sala presenta sempre Youn e non Pape, almeno un fogliettino con errata corrige si poteva predisporre, credo…)

Sala non proprio esaurita: non vorrei sbagliare, me ho il sospetto che la pricing-policy del Teatro – forse dato il frangente di crisi generale e di tagli FUS – stia privilegiando la massimizzazione dell’incasso, e non quella delle presenze. Mi spiego: ad una media di 80€ a biglietto si attirano 1500 persone, per un incasso di 120.000€. Per attirare 2000 persone (cioè riempire il teatro) bisognerebbe abbassare la media a 50€, il che porterebbe un incasso di 100.000€. Quindi: meglio pochi, ma disposti a spendere, piuttosto che tanti con meno euri da cacciare. Forse bene per le casse scaligere; per la cultura, un disastro.

Note tecniche: orchestra con disposizione teutonica (anche questo è un segno…) ma con i corni a destra, sotto gli altri ottoni (con la tuba e non l’oficleide); trombette lontane disposte in due palchi del 3°ordine; solisti dislocati – scelta ragionevole - sul proscenio.

Mercoledì c’era stata l’altra rappresentazione, preceduta da quella di Parigi, in tournée, di cui erano giunte notizie ora esaltanti, ora preoccupanti. E anche il 18 qui a Milano le cose sembravano essere andate così-così, stando ai super-esperti di canto verdiano.

Che dire? Con una facile battuta si potrebbe sostenere che abbiamo ascoltato Ein italienisches Requiem… Brutto? Per me, direi proprio di no, forse perché vedo poca distanza fra l’ultimo Verdi e la tradizione teutonica. Mi ero portato la partitura, e così ho potuto controllare da vicino, almeno l’aspetto puramente tecnico. Barenboim è stato più svizzero che tedesco (come puntualità). A parte un paio di cambiamenti di tempo appena un pochino anticipati, ha spaccato il capello (la partitura di Verdi) in quattro. Pianissimi e fracassi sempre al posto giusto e della giusta intensità. Le uniche sue sbavature sono state le due discese dal podio: prima del Dies Irae, per sistemare il leggìo alla Ganassi e prima dell’Offertorium, per spostare, con l’aiuto di Kaufmann, la sua pedana di 30 cm. verso il proscenio (forse per meglio vedere o essere visto dai solisti). E sul Kapellmeister ho detto tutto, semplicemente strepitoso.

Come compito a casa, prima del concerto, ho riascoltato – riversata da un vecchio vinile – l’edizione di Serafin, Opera Roma 1939, con le sante Caniglia e Stignani, insieme ai beati Gigli e Pinza. Roba sopraffina, ed anche un po’ umoristica (a proposito di corretta pronuncia di cui facciamo menda a qualche straniero): la grande Stignani doveva farsi chiamare Aba e non Ebe, visto che per lei la e si pronunciava a (tipico side-effect, questo, del prezioso immascheramento della voce…) Come: Quidquid latat apparabit; o anche: Nil inultum ramanabit, e così via storpiando il povero latino. Certo, voci sontuose, da rimpiangere come …Coppi e Bartali o Meazza e Piola in altri campi delle umane arti.

I cantori moderni, invece, come se la sono cavata? A mio modestissimo avviso passabilmente bene, chi più, chi meno, come sempre accade. Ma sempre bene, intendiamoci. I due tedeschi, proprio perché tedeschi, erano i più sospettati di essere in combutta con il Maestro, oltretutto tedesco adottivo pure lui, per rovinare l’arte italica. Invece in quest’opera, che è italiana ma non è né Traviata, né Rigoletto (infatti piacque moltissimo a Brahms, che di Requiem se ne intendeva) un po’ di rigore teutonico non guasta. Kaufmann il meno appariscente direi, ma si merita ampiamente la sufficienza, di fronte ad una parte espressivamente assai difficile. Quanto alla sensibilità, se uno come Pape riesce a fare, come fa, il Wotan del terzo atto di Walküre, certo sarà difficile imputargli di non sapere cogliere le sottigliezze verdiane nascoste nel Confutatis. E infatti la sua prestazione è stata per me più che degna, se non proprio eccellente. Le due signore non saranno come la premiata coppia Caniglia-Stignani, ma ieri sera se la sono cavata dignitosamente. Frittoli bravissima in alto, anche se poco udibile in basso; la Ganassi ha forse poca voce, ma quella poca la sa valorizzare al meglio.

Quindi autentico e meritato trionfo per tutti alla fine, con ripetute chiamate per Barenboim, Casoni (ça-va-sans-dire, ormai il coro è una sicurezza matematica) e i solisti. Una gran serata di musica!

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PS: curiosità (mia) parlando di aspetti tecnico-filologici del Requiem.

Resta sempre un rebus, per me, l’Offertorium, in quanto alla dinamica. Io non possiedo tutte le edizioni di questo mondo, menchemeno il manoscritto verdiano. Guardo la tascabile Eulenburg-975, e anche un’edizione della Biblioteca Classica russa, oltre che una riduzione inglese per piano (accessibili in rete). Sempre compare il metronomo di 66 semiminime puntate. Nelle edizioni curate da Saladino, riduzioni per pianoforte, pure accessibili in rete, invece il metronomo è indicato a 66 semiminime e basta. Una differenza di un terzo! E pare che la prassi esecutiva si sia orientata – magari a ragione – su questa versione più lenta. Secondo la quale, in un minuto si devono percorrere 22 misure (6/8, quindi 3 semiminime a misura) e arrivare quindi alla fine della linea discendente del violoncello dopo il primo Christe di mezzosoprano e tenore. Ed è ciò che fanno – in tempi di 55-58 secondi - Serafin, nell’edizione citata, come anche Abbado, Karajan, Bernstein e Giulini. Viceversa Toscanini sembra avvicinarsi al metronomo più veloce (che in un minuto comporterebbe di raggiungere la fine del Libera animas del basso, 11 misure più avanti) e più veloce ancora va il compianto Jansug Kakhidze, che si avvicina moltissimo al metronomo più rapido. Barenboim? Ad orecchio, anche lui si è allineato alla prassi dei più (a Parma in ottobre Maazel mi era parso più veloce, diciamo almeno come Toscanini, mentre la Zhang con laVerdi a fine ottobre aveva tenuto l’approccio moderato).

È questa una questione filologica, che qualcuno avrà evidentemente affrontato, anche se non ho trovato in giro riferimenti puntuali. Poi ognuno può avere i propri gusti (io sono per la velocità…)
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20 novembre, 2009

Stagione dell’OrchestraVerdi - 7

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Concerto con impaginazione assai variegata, quello ascoltato ieri sera all’Auditorium di Largo Mahler, dove laVerdi tornava dopo tre settimane di peripatetico vagare attraverso la penisola (Palermo, con due concerti in un sol giorno, Messina, Palmi, Lamezia, Taranto, Bari, Teramo, Pescara, Campobasso e Sulmona).

È doveroso far notare questa caratteristica – quasi unica nel panorama italiano – di un’orchestra che si impegna, e non a livello episodico, ma in modo serio e strutturato, a portare il messaggio musicale in giro per l’Italia. In città dove non c’è un’Orchestra Sinfonica stabile e magari neanche un Auditorium, dove non ci sono stagioni sinfoniche e la gente è costretta a viaggiare, se vuole ascoltare buona musica. Una ragione di più perché le pubbliche Istituzioni non facciano mancare il loro sostegno alla Fondazione.

Chiudo il carosello pubblicitario segnalando un’altra lodevole iniziativa, fra le tante, rivolta agli studenti: Concerto a porte aperte all'Auditorium. Proprio questa sera, al Turno B, essi potranno gratuitamente accedere alla sala: è anche questo un segnale di attenzione e di sensibilità di cui dare atto alla Fondazione.

Ora, la musica. Come è costume per concerti multiformi, si parte con una coinvolgente Ouverture: nella fattispecie i Vespri verdiani. Un vero gioiello, cui il termine sinfonia si attaglia perfettamente (ne avesse avuto il tempo e la voglia, Verdi avrebbe tranquillamente potuto rivaleggiare con i contemporanei Dvorak e Ciajkovski nell’agone sinfonico).

Intanto: la disposizione dell’Orchestra è in stile tedesco (tutti i violini davanti, bassi a sinistra) e poi, in evidente omaggio a Verdi, c’è un bel cimbasso (al posto della moderna tuba). Visto che non c’è molto da inventare su questo pezzo, qualche curiosità sui tempi. A parte il prestissimo finale (introdotto dalla fanfara degli ottoni) Verdi indica minuziosamente il metronomo: 52 semiminime per il Largo introduttivo - 33 misure 4/4 - e poi 88 minime per il resto, in Allegro agitato – 185 misure, 4/4 alla breve. Essendoci un solo, brevissimo cambio di dinamica, su una sola battuta (più un paio di corone puntate) che può pesare al massimo 2” sul tempo totale, si può precisamente calcolare la durata teorica dell’ouverture, escluso il prestissimo: 2’32” + 4’12” = 6’44”. Tanto per fare due esempi, qui Abbado con i Berliner (Palermo, 2002) tiene 3’06” + 4’52” = 7’58”, quindi è molto, molto lento rispetto alla prescrizione verdiana. Tradotto in metronomo: 43 semiminime + 76 minime. Anche Mehta (Roma,1990) è più lento del Verdi teorico, ma solo nell’allegro, chè nel largo è più rapido: 2’20” + 5’03” = 7’23”, corrispondenti a metronomo 57 semiminime + 73 minime. Qui invece un riferimento fra il comico e il deprimente (è evidente che in Guatemala non hanno El Sistema…)

Damian Iorio come l’ha fatta? Beh, io non giro col cronometro, né tanto meno col metronomo in tasca, quindi devo fidarmi dell’impressione del momento. Direi complessivamente sopra i tempi verdiani, ma non di molto. Sul piano del suono, mi è parsa un’esecuzione ben curata, senza eccessi retorici nei momenti di maggior impeto. Certo, anche il fracasso è inevitabile, ma è di quelli d.o.c. e l’Orchestra lo ha reso al meglio. In particolare bravi i violoncellisti, nelle esposizioni del tema di Henry&Monfort.

Poi è di scena Massimo Quarta, violinista che sale a volte anche sul podio di direttore, per interpretare una composizione in prima assoluta, commissionata dall’Orchestra Verdi e scritta per lui da Silvia Colasanti, Il canto di Atropo. Qui una presentazione di Massimo Colombo. Un brano assai profondo e coinvolgente, anche se nella sezione centrale il solista si distingue poco dagli altri archi dell’orchestra. Successo di stima, ovviamente, per l’autrice, presente in sala e salita sul palco a raccogliere meritati applausi.

Poi ancora Quarta in un’opera celebre, la Tzigane di Ravel, in cui mette in risalto tutte le sue qualità virtuosistiche (ma anche l’arpa ha la sua parte di gran rilievo!) Credo che il suo problema – per il futuro – sia la necessità di scegliere fra la specializzazione concertistica (ha già inciso quasi tutto Paganini, per dire) e quella di Direttore d’Orchestra: si sa che entrambe le cose sono assai difficili da conciliare a livello altissimo.

Il piatto forte del concerto è la Quinta di Prokofiev. Che prevede, come peculiarità rispetto all’orchestra classica, la presenza del pianoforte, ovviamente solo con compiti di riempitivo (spesso di rinforzo o complemento all’arpa, che pure ha qui un impiego assai corposo) e non certo solistici. Robuste anche le percussioni, rinforzate da tamburo, tamburino, tamburo di legno e tam-tam.

Nell’Andante introduttivo, Iorio fa emergere molto bene il contrasto fra i due temi (che pure hanno una qualche parentela melodica). In particolare eccellenti gli ottoni (trombe in testa) nel grandioso sviluppo, dove sono attesi da impervie difficoltà.

Lo Scherzo (Allegro marcato) ha un incipit di cui si dev’essere ricordato Nino Rota, al momento di comporre le musiche per il felliniano . Poi nella partitura c’è un dettaglio francamente curioso, quasi maniacale: le due misure prima del segno 29, otto coppie di crome suonate in staccato ff dagli archi, contrabbassi esclusi, sono prescritte al tallone (la base dell’archetto) unica indicazione di questo tipo nell’intera sinfonia. Bravissimi qui gli archi a mantenere quel ritmo che ricorda una sbuffante locomotiva lanciata a gran velocità, o anche un maglio meccanico che – siamo in piena guerra! - modella lingotti d’acciaio per costruirci carri armati. Eccellenti nel trio gli strumentini, come anche arpa e pianoforte, che vi hanno un ruolo importante. Perfetta l’accelerazione che riporta il tema principale ad Allegro, con la conclusiva volata, tutta in staccato negli archi bassi e nel pianoforte, verso il tonfo finale, sull’accordo di RE minore di tutta l’Orchestra.

Nell’Adagio il rischio che corre il Direttore è quello di non riuscire a catturare l’attenzione del pubblico su un brano che è effettivamente ostico, e può facilmente trasformarsi in letale morfina. Siamo in un mondo espressionista, che ricorda vagamente certi passaggi dell’Adagio della decima mahleriana, con gli archi a disegnare contrappunti quasi dissonanti e gli strumentini che sovrappongono la melodia principale. La parte centrale è più mossa, e poi Prokofiev vi inserisce poderosi colpi di tam-tam, evidentemente per risvegliare gli assopiti, prima della chiusa, che il clarinetto conduce in un’atmosfera sempre più rarefatta.

Infine l’Allegro giocoso: è un Rondò, introdotto da richiami del tema principale del primo movimento, poi subito inizia il ritmo da treno in corsa che sostiene sempre il tema principale, che ricorrerà più volte, esposto via via – e variato - da diversi strumenti. I temi secondari sono per lo più a carico degli strumentini, davvero tutti bravi. All’ultima ripresa del tema principale c’è per le trombette (con sordina) un tour-de-force particolare, con velocissime semicrome puntate a sottolineare il generale trambusto, che porta alla conclusione, dove le stesse trombe, ora a voce spiegata, sembrano quasi imprigionare gli archi che - con pianoforte, arpa e percussioni - vorrebbero perpetuare il loro isterico moto. Smagliante la chiusa, repentina, sul tempo debole.

Un’esecuzione rimarchevole, e una bella serata nel suo complesso. Iorio torna sullo stesso podio fra una settimana, con un’altra Quinta, se possibile ancor più impegnativa, per lui e per i professori: quella di Gustav Mahler.

Intanto stasera ci aspetta un altro Requiem.
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