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da stellantis a stallantis

31 gennaio, 2024

Off-topic: Sinner e le tasse

Il trionfo del simpatico Jannik a Melbourne ha attizzato una prosaica diatriba da stadio (curva-nord vs curva-sud) riguardo la residenza fiscale (Montecarlo) del campione sud-tirolese (quindi di cittadinanza italiana, cosa che gli comporta l’onore-onere di difendere e illustrare - vedi la recente Coppa Davis – il tricolore).

Qui un (quasi) esaustivo compendio delle due curve posizioni. Che si escludono mutuamente: o Jannik è un angelo, oppure un demonio, tertium non datur.

Perché sollevo questo futile argomento in un blog che tratta di tutto fuorchè di tennis e sport? Solo per proporre un ardito parallelo: Richard Wagner!

Del quale nessuno (salvo qualche troglodita) osa mettere in dubbio la grandezza di Artista. Mentre parallelamente (quasi) tutti sottolineano l’abiezione morale (massimamente il feroce e scientifico antisemitismo) dell’Uomo.

Lampante dimostrazione che – in ogni essere umano, potenzialmente – possono benissimo coesistere l’angelo e il demonio!

Però, a differenza di Wagner, Jannik ha ancora la possibilità di liberarsi del fastidioso fardello.

30 gennaio, 2024

Un nuovo doge alla Scala: ripasso

In attesa di apprezzare (speriamo!) la nuova produzione di Simon Boccanegra che la Scala ha affidato alla coppia Viotti-Abbado, ho dato una ripassata al plot dell’opera, che è di certo fra i più contorti e indigesti fra quelli che popolano la sterminato terreno del melodramma. Ovviamente rinfrescando la memoria con l’aiuto di autorevoli addetti-ai-lavori (ne cito uno fra tutti: Julian Budden).  

Sappiamo che il libretto della prima versione (1857) dell’opera (di Francesco Maria Piave poi rinforzato da Giuseppe Montanelli) fu derivato con sufficiente fedeltà dal dramma di Antonio García-Gutiérrez (1843) un autore che Verdi già aveva sfruttato per il suo Trovatore. Poi arrivò Arrigo Boito (versione 1881) che apportò svariate e non banali variazioni al libretto di Piave.

Come detto, Piave mantenne quasi inalterata la macro-struttura dell’originale: un Prologo ambientato nella Genova del 1338 e tre Atti (contro i quattro di Gutièrrez) sempre nei pressi di, o in Genova, nel 1362 (Aristotele: ciaone!) Al proposito, e detto di passaggio: con quale realismo può uno stesso baritono impersonare uno stesso individuo a distanza di 25 anni, passando da giovane eroe/corsaro/conquistatore-di-mari (e di… ragazze di buona famiglia) ad austero e magnanimo rappresentante del Popolo, e padre premuroso quanto attempato? Ridendoci paradossalmente sopra: uno come il Topone (!) che poteva tornare quasi tenore nel Prologo e poi contrabbandarsi baritono per il resto dell’opera…

Ovviamente Piave fu costretto a sfrondare l’originale di Gutièrrez di tanti orpelli (personaggi e vicende di contorno) perfettamente ammissibili in un’opera da teatro di prosa ma che sarebbero stati deleteri per un melodramma. In questa sintetica tabella ho riassunto, su tre colonne, le differenze principali fra i testi di Gutièrrez, Piave e Boito (ho usato per tutti i nomi italiani). Che ora commento con qualche dettaglio.

Innanzitutto balza all’occhio come la costruzione del libretto di Piave già avesse comportato la cassazione dell’intero second’atto originale. E con esso quella di un personaggio, Lorenzino Buchetto, che nell’opera compare solo nel primo atto, senza mai cantare e del quale si sente solo parlare e quasi di sfuggita, mentre nel dramma occupa buona parte di quell’atto espunto. [Curioso come a questo meschino personaggio di contorno vengano riservate ben tre diverse uscite di scena: in Gutierrez dopo il second’atto di lui non si ha più traccia: in Piave e Boito scompare già dopo il primo atto: esiliato da Boccanegra (Piave); trucidato da Gabriele (Boito).]

In effetti, dopo il Prologo, non intatto, ma sostanzialmente rispettato, la prima significativa deviazione del libretto rispetto al dramma si presenta proprio alla fine del primo atto. Nel dramma di Gutièrrez esso si conclude con il rapimento di Amelia, dopodichè l’intero second’atto è occupato dalla lunga (e un po’ dispersiva…) trattazione delle complicate macchinazioni di Andrea-Gabriele e Pietro-Paolo-Lorenzino contro il Doge e ai danni della povera Amelia. Sta di fatto che, dopo l’agnizione Boccanegra-Maria (si veda più sotto qualche dettaglio) la ragazza, da povera vittima, rapita e sballottata qua e là, diventa invece – con la protezione del Doge, che ha di fatto già smascherato i colpevoli - il motore dell’azione, che si chiude con la resa di Paolo, Andrea e Gabriele e con Lorenzino che scorta personalmente Amelia al palazzo ducale! Sappiamo invece come Piave inventi l’ultima scena del prim’atto, con l’improvviso arrivo a palazzo di Gabriele che denuncia il rapimento accusandone il Doge, e poi di Amelia stessa; e come Boito ancora la modifichi con il potentissimo appello finale di Boccanegra e l’umiliazione di Paolo.        

Torniamo sull’importante differenza riguardo all’agnizione Boccanegra-Maria: Gutièrrez la spalma su due scene addirittura di due atti diversi (1 e 2) e limitando il numero di indizi. Piave invece la concentra mirabilmente in una sola scena del prim’atto, e con un crescendo davvero emozionante (e proprio melodrammatico!) di ricordi, scoperte e indizi.

Molto sommariamente ciò che accade negli atti 3 e 4 di Gutièrrez viene ripreso (con differenze non trascurabili, peraltro) negli atti 2 e 3 di Piave-Boito. Partiamo dal veleno che uccide il Doge. Piave segue diligentemente Gutièrrez, che solo nell’atto conclusivo ce ne notifica (parole di Pietro) la somministrazione al Doge in modo assai criptico e misterioso (l’ampolla palestinese in cui solo il Doge beve nelle grandi occasioni) limitandosi ad un unico verso (Fa cor, tutto disposi) col quale Pietro informa della messa in opera della trappola mortale il sodale Paolo, che a sua volta ne informerà Fiesco (Veleno ardente…)

Qui invece è Boito che cambia radicalmente le carte (e l’assassino materiale) in tavola: non è Pietro (che esce definitivamente di scena) ma proprio Paolo che, nel second’atto, versa personalmente il veleno nella caraffa dalla quale Simone sorseggia acqua prima di coricarsi. Quanto alla sua fine, in Gutièrrez verrà punito da… Fiesco, in Piave scompare prima della scena finale; in Boito viene trascinato in carcere.

Tutto sommato si deve riconoscere ai due librettisti italiani di aver fatto un lavoro più che positivo, nel sostanziale rispetto del soggetto originale. Poi sarà il Peppino a suggellare da par suo (in due tempi!) un’impresa che non sfigura affatto rispetto a più blasonati capolavori.

27 gennaio, 2024

Orchestra Sinfonica di Milano – Stagione 23-24.10

Dopo la parentesi dei due concerti dedicati a balletti russi si torna a cose più serie austere con un programma classico, proposto dal 65enne canguro Alexander Briger, che rimpiazza sul podio il Direttore Emerito Claus Peter Flor, originariamente titolare del concerto.

Insieme a lui entra subito in scena la 25enne albanese trapiantata in Francia Marie-Ange Nguci per offrirci l’ultimo concerto mozartiano, il K595. (Qui una mia personale… sinossi.)

La simpatica Mariangela (che entra ed esce sempre applaudendo l’orchestra e si tiene per sicurezza fogli di spartito nella cassa del pianoforte) ci ha davvero deliziato con questo Mozart sereno ed ottimistico, a dispetto delle sue quotidiane quanto premonitrici fissazioni sull’ineluttabilità della morte: leggerezza di tocco, piccole cadenze, perfetta intesa con l’orchestra… insomma, un bell’esordio qui da noi, in un Auditorium per la verità non proprio stipato. Ci lascia con un paio di encore (il secondo un Saint-Saëns… arrangiato).
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Dopo un ultimo Concerto, ecco un’ultima Sinfonia: la seriosa e cerebrale Quarta di Brahms, composta a poco più di 52 anni e che sarà il suo penultimo lavoro per grande orchestra, prima del Doppelkonzert del 1887. Dopodichè il nostro trascorrerà altri dieci anni rifugiandosi nel riservato ambiente della musica da camera, del Lied e della musica corale. Ambiente dove sfornerà peraltro autentici capolavori.

Briger dirige a memoria, chiaro segno di padronanza della… materia. Dato che anche l’Orchestra ormai potrebbe suonare questa partitura ad occhi chiusi, il risultato complessivo è stato più che dignitoso, tenuto conto delle circostanze (la chiamata del Maestro quasi all’ultimo minuto).

Segnalo infine l’interessante conferenza (dello scorso giovedi) di presentazione del nuovo Direttore Musicale. Direi che ci sono tutte le premesse per un futuro pieno di soddisfazioni per lui, l’Orchestra, la Fondazione e - ça va sans dire – per noi! 

25 gennaio, 2024

Beatrice Venezi: cosa non va

Il maestro (così si legge sul decreto di nomina) Beatrice Venezi è salitoa alla ribalta dei teatri della cronaca da quando (17/11/22) è statoa nominatoa Consigliere per la Musica dal Ministro Sangiuliano. Come è logico e giusto, la sua collaborazione viene remunerata con € 30.000 (come certificato dal Ministero). 

Da allora lui lei ha fatto parlare di sé, più che per le sue imprese artistiche, per le contestazioni che ha ricevuto a sfondo politico (il pubblico, a Nizza) e professionale (alcuni professori d’orchestra, a Palermo). Lei ovviamente si difende, esibendo il suo corposo C.V., considerandole pretestuose e motivate solo da volgari pregiudizi ideologici (precisamente come quelli che – ricordate? – portarono all’ostracismo della Scala a Gergiev…)

Segnalo qui un intervento assai equilibrato e condivisibile, da parte di un esperto che (come me, che non sono esperto…) non ha ancora avuto il piacere (o dispiacere) estetico di ascoltare e vedere dal vivo la bella Beatrice.

Ma allora, cos’è che non va? Beh, qualcosa su cui in Italia da sempre si tende a transigere e in futuro poi (con l’abolizione del reato di abuso d’ufficio) nemmeno più si indagherà. 

Si chiama: conflitto di interessi. 


23 gennaio, 2024

L’Orchestra Sinfonica di Milano ha un nuovo Direttore Musicale

Questa sera, in un’anteprima informale della conferenza stampa ufficiale di giovedi 25/1, la Presidente della Fondazione, Ambra Redaelli, ha presentato ai sostenitori dell’Orchestra il 29enne austriaco di ascendenze iranian-armene Emmanuel Tjeknavorian, che dal 1° luglio 2024 ne assume il ruolo di Direttore Musicale (e sta già lavorando alacremente alla preparazione del calendario 24-25). Nell’albo d’oro trentennale dell’Orchestra, nata poco prima di lui (!), il suo nome si aggiunge - dopo quello del leggendario fondatore Vladimir Delman – a quelli di Riccardo Chailly, Zhang Xian e Claus Peter Flor.   

Questo ragazzo ha già calcato il podio dell’Auditorium nel novembre del ’22 e vi tornerà nel prossimo febbraio. Si è impegnato a perfezionare il suo italiano (il che è già di per sé un ottimo inizio…) e sprizza entusiasmo da tutti i pori per il suo nuovo e sfidante incarico; e promette di darci grandi soddisfazioni. Una scelta davvero coraggiosa e – speriamo proprio – lungimirante!

20 gennaio, 2024

Orchestra Sinfonica di Milano – Stagione 23-24.9

Ancora musiche da balletto nel nono Concerto della stagione principale dell’Orchestra Sinfonica di Milano. Sul podio il redivivo Stanislav Kochanovsky, orami vecchio ospite dell’Auditorium. Quasi naturale che il programma sia monopolizzato da autori russi (o ukraini, nella fattispecie, ma di un’epoca dove fra i due popoli c’erano rapporti un filino meno tesi rispetto ad oggi...)

E come per il concerto precedente, anche qui si doveva aprire con il romantico per antonomasia (Ciajkovski) e chiudere con un moderno, Prokofiev. Ma il Direttore russo ha pensato (bene?) di servirci in tavola per primo il piatto… salato, e poi quello dolce (con brindisi finale…) 

E così ecco subito la Suite da un balletto (1915-20) dell’ukraino del Donbass (ma nato sotto lo Zar) Prokofiev, balletto e musica che non hanno francamente avuto molta fortuna negli anni: La storia del buffone (Chout). È basata su un racconto di Afanasiev che mescola ingredienti di fantastico, surreale, orrido, macabro e sarcastico (a dir poco…); quindi l’ideale per stimolare la fantasia di un musicista di belle speranze come Prokofiev, desideroso di mettersi in mostra e far carriera in Russia e nel mondo, partendo da Parigi.

La Suite consta di 12 numeri, è abbastanza corposa (circa 38’ contro i 55’ del balletto integrale in 6 Quadri e 5 Intermezzi, quindi quasi i 2/3) ed è ottenuta per parziale sfrondamento della partitura del balletto, più qualche ritocco, come il riutilizzo di parti di Entr’acte, o raccordi e cadenze. (Qui riporto una schematica ma dettagliata visione della struttura delle due opere, con le parti colorate a rappresentare il riutilizzo di brani del balletto nella suite.)

A differenza, per dire, di Romeo e Giulietta (arrivato peraltro quasi 20 anni dopo) la cui musica si può benissimo godere integralmente anche senza la coreografia, qui francamente le sole note lasciate a se stesse finiscono per creare più di qualche problema, come si può ad esempio verificare in questa registrazione di Gennadi Rozhdestvensky. Dove si avverte una certa ripetitività di stilemi che finisce – in assenza di immagini di danza, appunto – per diventare piuttosto stucchevole e persino noiosa.

Viceversa nella Suite (qui Neeme Järvi) la maggior concisione garantisce al brano scorrevolezza e varietà di accenti tale da migliorarne assai la godibilità.  

Certo, rispetto al Lago ciajkovskiano c’è un filino di differenza, come del resto è capitato una settimana fa con l’Uccello di Stravinski arrivato dopo lo Schiaccianoci…

Ma un’ottima esecuzione - come quella ascoltata ieri – può benissimo far apprezzare anche questo Prokofiev quanto Ciajkovski. Ed è proprio ciò che è successo in Auditorium, con convinti applausi per l’orchestra e ripetute chiamate per il Direttore.
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Si è quindi chiuso con una Suite dal Lago dei Cigni, opera di un russo che in Ukraina ci andava spesso e volentieri da turista, ed anche per prendere ispirazione per le sue musiche (si veda la Seconda Sinfonia, la Piccola Russia).

Perché una e non la Suite? Perché Kochanovsky (non è il primo né l’ultimo a farlo…) ha scelto una sequenza di numeri del balletto che differisce assai da quella che fu proposta dalla pubblicazione postuma di Jurgenson, e precisamente presenta questi 8 numeri:

Kochanovsky
Jurgenson
1. Introduzione
1. N.10 Scena (Atto II)
2. N. 1 Scena n.1 (Atto I)
2. N.  2 Valse (Atto I)
3. N. 5 Passo a Due parte I (Atto I)
3. N.13 Danza dei cigni parte IV (Atto II)
4. N.10 Scena (Atto II)
4. N.13 Scena (Danza dei cigni parte V - Atto II)
5. N.11 Scena (Atto II)
5. N.20 Danza ungherese. Czardas (Atto III)
6. N.13 Danza dei Cigni parte V (Atto II)
6. N.28 Scena (Atto IV)
7. N.28 Scena (Atto IV)
 
8. N.29 Scena Finale
 

Personalmente in questo collage sento la mancanza (rispetto alla versione Jurgenson) del grandioso n°2 del primo atto (Valse)… ma pazienza, ecco.

Esecuzione comunque trascinante e gran trionfo assicurato. Così Direttore e Orchestra ci congedano con un numero-extra del balletto, il n°21 del terz’atto, Danza Spagnola.

Si replica domani alle 16.  

15 gennaio, 2024

Médée est arrivée

Ecco quindi la Médée approdata ieri alla Scala. Trattasi (nel bene e nel male…) di un pastiche.

Emblematico al proposito un dettaglio non proprio insignificante: il testo del libretto come stampato sul programma di sala e messo in internet sul sito del teatro, che è  un autentico minestrone: la traduzione italiana a fronte del francese è quella di Zangarini, che ha sì fatto la fortuna dell’opera (Callas docet) ma che poco o nulla ha a che fare con il testo originale, essendo una versione ritmica adatta precisamente alle rappresentazioni in lingua italiana, ma fuorviante quando si mette in scena l’originale francese. Per fortuna qualche anima pia ha evitato che quella traduzione finisse anche sui display delle poltroncine, dove invece è stata proiettata una traduzione letterale (quindi fedele) del testo originale.

Sempre il libretto omette totalmente i parlati (tranne uno, il primo di Médée dell’atto terzo, comunque cassato come tutti gli altri) alcuni dei quali sono rimpiazzati dalla dicitura Dialogo, senza alcun dettaglio. Poi sui display compariranno i nuovi dialoghi del drammaturgo Mattia Palma, che ha collaborato con il regista Michieletto alla loro redazione. Dialoghi – in italiano, sia ben chiaro - messi in bocca ai due figli di Medea, ma diffusi dagli altoparlanti su sottofondo di carillon, e il cui contenuto a volte è un bigino delle avventure di Giasone, più spesso interpretazioni dei fanciulli di fatti che hanno una qualche attinenza con la vicenda. Dire che portino lo stesso risultato dei lunghi parlati originali sarebbe davvero esagerato.

Altre piacevolezze (e qui introduco l’idea portante di Michieletto): i protagonisti della vicenda sono appunto i due figli di Medea, più ancora che la madre. Quando Créon, nel primo atto, canta il mirabile Dieux et Déesses tutélaires, fa riferimento ai figli, che per lui sono Dircè e il futuro sposo Jason, per i quali chiede agli dèi protezione e benevolenza. Ma qui canta questo passaggio avendo accanto a sé i due pargoletti, ai quali dona dei nuovi vestitini-della-festa; così ognuno capisce che i figli suoi sono... i figli di Jason. Poi c’è Médée che nel duetto con Jason si rivolge all’ex-marito in francese dandogli del voi e parlando dei figli. In scena la vediamo cantare questo passo abbracciata ai figli, quindi capiamo che parla a loro, il che è abbastanza bizzarro, conveniamolo.

Insomma, questa idea di mettere al centro gli onnipresenti bambinelli sarà pure interessante e innovativa, ma presenta, insieme a qualche pregio, una serie di incongruenze (ed è pure di stucchevole ripetitività) che alla lunga finisce quasi per stancare, ecco.

Lo spettacolo di Michieletto è ovviamente di alto livello, per chi si lascia circonvenire dal fumo (inebriante, magari) trascurando l’arrosto, mi sento di dire… La gestione delle masse è uno dei punti di forza del regista, ma nella circostanza anche di debolezza, quando… non le fa vedere: la festa che chiude il secondo atto ne è testimone. L’originale prevede che il tempio sia sul fondo-scena, con processioni e canti festivi bene in evidenza, mentre al proscenio Médée e Néris commentano e Médée scaglia le sue maledizioni: un contrasto davvero lancinante. Invece noi vediamo solo la protagonista e la sua schiava in un ambiente degradato, mentre il tripudio (anche musicale) non solo non si vede proprio, ma anche si sente lontanissimo (la partitura prevede che dietro la scena ci sia solo la banda, non anche il tempio e il coro!)   

Idem per la recitazione dei personaggi, Médée in particolare, sempre curata e coinvolgente. Tuttavia è proprio la mancanza dei riferimenti che nell’originale sono presentati nelle omesse parti recitate a deformare non poco le personalità dei protagonisti (la stessa Médée ma anche Jason, per dire).

Il finale è anch’esso a due facce: sappiamo che Médée uccide i figli con un pugnale e proprio per questo la scena – troppo cruenta - non viene presentata al pubblico, che deve immaginarla - insieme con Jason - vedendo Médée arrivare con il pugnale insanguinato. Michieletto trova una soluzione ibrida, mostrandoci il momento dell’uccisione su uno schermo sovrastante la scena, dove si vede la madre che entra nella cameretta dei figli ai quali, prima di metterli a letto, somministra lo sciroppo per la tosse: noi possiamo immaginare che sia ovviamente avvelenato, sappiamo che Médée ha usato veleni anche per far secca Dircé, cosa che in questa produzione resta piuttosto inspiegata. Ma – in assenza del pugnale insanguinato - si fatica a comprendere la disperazione di Jason che vede sullo schermo una scena apparentemente innocente… 

Insomma: spettacolo in sé apprezzabile, ma piuttosto confuso e superficiale, in rapporto alla complessità del soggetto originale del dramma. Alla fine Michieletto si è preso la (prevedibile?) razione parallela di ovazioni e sonore contestazioni (questione di fumo e arrosto?)
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Sul fronte dei suoni notizie per fortuna discrete. A partire dalla concertazione di Michele Gamba, che restituisce tutta la severità della scrittura cherubiniana, senza cedimenti troppo romanticheggianti. L’Orchestra ha risposto da par suo, in tutte le sezioni come nelle parti squisitamente solistiche (flauto, oboe, fagotto…) Sempre ad alto livello il coro di Malazzi, un po’ sacrificato, come detto, nelle scene dove è stato relegato… fuori scena.

Rebeka più che dignitosa (di Callas non se ne sentono molte in giro, oggigiorno) e giustamente premiata alle chiamate finali. de Barbeyrac così e così (un Jason con qualche ingolatura di troppo). Idem il Créon di Di Pierro, voce dal timbro poco rotondo e scarsa proiezione. Bene la Rossomanno, una Dircè che si è fatta valere già dalla sua aria di esordio e nei concertati. Un gradino sotto la Néris della Brè, che non ha reso al meglio la sua grande aria, voce piccola e con qualche deficit di decibel. Doveri e Gaudenzi (ancelle) appena sufficienti.

Che dire, in definitiva? Intendiamoci, al problema-Médée non c’è una soluzione accettabile (perché rigorosa) al di fuori di quella indigeribile (Francia esclusa… forse) di eseguire precisamente ciò che fu messo in scena nel 1797. Ma allora, perso per perso, in Italia dovremmo fare di necessità virtù e restare sulla versione italiana (di Zangarini-Lachner) che è di gran lunga la meno-peggio di tutte (inclusa la recente versione francese di Alan Curtis…) Meglio di sicuro di questo ibrido francamente discutibile. Comunque il pubblico (a parte le divisioni su Michieletto) ha mostrato di apprezzare. E va bene così.  

14 gennaio, 2024

Orchestra Sinfonica di Milano – Blacher ristretto

Il secondo dei cosiddetti Concerti ristretti dell’Orchestra Sinfonica di Milano (60’ e non di più di durata) affidati alla bacchetta (e al violino) di Kolja Blacher ha presentato oggi pomeriggio due brani del classicismo viennese.

Dapprima Mozart e il suo Quinto Concerto per violino, dove Blacher si è ovviamente sdoppiato nei ruoli di interprete e direttore.

Concerto dalla struttura singolare, per non dire bizzarra, già a partire dall'Allegro iniziale. La cui introduzione è sorprendentemente interrotta da un Adagio, che ha solo vaghissimi legami tematici con il resto, prima che venga esposto il tema principale, in LA maggiore, di una cui sezione forse si ricorderà Beethoven nella sua Leonore. Il tema dell'introduzione (che include una vaga anticipazione dell'Allegro della celeberrima Sinfonia in SOL minore) ricompare poi come secondo tema (nella dominante MI) di questa strana forma-sonata, che presenta uno sviluppo comprendente un altro tema in minore e poi la ripresa, dove il secondo tema si riaccoda – nel rispetto dei sacri canoni - al LA di impianto, riprendendo quindi la forma con cui era comparso nell'introduzione. Dopo il languido e sognante Adagio, dalla purissima melodia, ecco l'anomalia più evidente del terzo movimento, che invece di un canonico Allegro conclusivo, presenta un Menuetto, certo più adatto ad un tempo di sinfonia che non ad un concerto (qualcuno lo indica come Rondò, ma con argomenti discutibili). Poiché però non siamo in una sinfonia, non ci può essere alcun Trio, al cui posto troviamo invece un Allegro in cui par di sentire anche un po' del futuro Paganini. Ma anche questo Allegro non diventa – come in un normale concerto o sinfonia – il finale, poiché è il Menuetto a ritornare per chiudere tutto, con un'esalazione piano, nel violino doppiato dai corni, della cadenza del solista, che riprende ciclicamente l'incipit del concerto. 

Sarà mica per tutte queste (mirabili!) stranezze che gli fu affibbiato l'epiteto di Turco?

Blacher lo ha porto con grazia, discrezione e rigore, raccogliendo meritati consensi da un pubblico non esorbitante me calorosissimo (fuori quasi si gela…) 
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L’altro brano era la Prima Sinfonia di Beethoven. Il finale della quale lo spocchioso Berlioz ebbe ad apostrofare come una fanciullaggine… Certo, il terremoto dell’Eroica doveva ancora arrivare, ma la pasta del genio di Bonn già stava proficuamente lievitando!

Blacher l’ha diretta con il consueto gesto asciutto ed essenziale, senza fronzoli né arbitrarie iniziative, meritandosi così altri generosi ed anche ritmati applausi. Che lo hanno indotto a condederci un bis, ripetendo, in  barba a Berlioz (ma senza ritornello..) la fanciullaggine!

Alla  Scala ci aspetta fra poco la Médée (sedicente) originale di Gamba-Michieletto. 

12 gennaio, 2024

Orchestra Sinfonica di Milano – Stagione 23-24.8

La stagione principale de laVerdi riprende nell’anno nuovo con un’appendice del vecchio: si torna un po’ all’atmosfera natalizia, con un programma che presenta come primo brano la Suite da Lo Schiaccianoci di Ciajkovski. 

Sul podio un gradito ritorno: quello di John Axelrod, che ha diretto gli 8 numeri della Suite (circa 25 minuti, rispetto a 1 ora e 45 minuti dell’intero balletto) con grazia e leggerezza settecentesca. Sugli scudi Carlotta Lusa alla celesta, il flauto di Nicolò Manachino, e l’arpa di Elena Piva, destinatari di speciali riconoscimenti da parte di un pubblico non più oceanico come nei concerti delle trascorse feste, ma sempre caloroso e prodigo di applausi per tutti.
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Ha poi chiuso la serata un altro famoso brano di musica russa da balletto: l’Uccello di Fuoco di Igor Stravinski. Di cui l’Orchestra ha eseguito, per la terza volta nella sua intera storia, la versione integrale (1909-10). A differenza di quelli classici di Ciajkovski, i balletti moderni di Stravinski normalmente non superano di molto la mezz’ora, e questo è forse il più lungo (45’) e può così trovar posto anche in un programma concertistico (le Suite predisposte dall’Autore non sono poi tanto più corte). E in effetti si può sempre discutere se sia musica proprio godibile al massimo grado anche in assenza della coreografia per la quale fu composta…    

Rispetto a Ciajkovski qui l’orchestra è a pieni ranghi, anche se solo a tratti (oltre che nell’abbagliante finale) viene impiegata in modo massiccio, anzi. In ogni caso la prestazione dei ragazzi è stata davvero eccellente, e il Direttore ha messo nel dovuto risalto i tratti infernali della partitura (che anticipa quelli davvero barbari del Sacre).

Esecuzione accolta da lunghi e reiterati applausi per tutti (e anche ritmati per Axelrod). Si replica solo questa sera.

11 gennaio, 2024

En attendant Médée

Sta finalmente arrivando alla Scala la Médée originale (o almeno così la si promette) del 1797 (la prima data a Parigi, Théâtre Feydeau, il 13 marzo) dopo che in passato (due sole volte, per la verità) al Piermarini era sempre stata eseguita la versione spuria in lingua italiana resa celebre dalla divina Maria Callas (1953 con Bernstein e 1961 con Schippers).

L’originale di Cherubini è in lingua francese (testi di François-Benoit Hoffmann) ed è un Singspiel (detto alla tedesca) in piena regola, cioè costituito da scene musicate alternate a dialoghi parlati (nella fattispecie in raffinato metro alessandrino, non in prosa usuale). Non per nulla tale Beethoven ne fu entusiasta, prendendolo a modello per il suo Fidelio!

Opera che si situa sullo spartiacque fra classicismo e romanticismo: vi si distinguono il lascito di Gluck e (fin dall’attacco dell’Ouverture) i prodromi di Weber.

Come succederà più tardi a Bizet e alla sua Carmen (originale in musica + parlato, come imposto obbligatoriamente dal capitolato tecnico di un’opéra-comique) che per l’esportazione verrà ritoccata da Guiroud (recitativi musicati a sostituire i dialoghi parlati) anche la Médée fu sottoposta a trattamento analogo per renderla meglio fruibile fuori di Francia.

Così nel 1855 in Germania, oltre alla traduzione del testo in lingua crucca, il Direttore Franz Lachner pensò bene di sostituire i dialoghi con recitativi da lui musicati (che con Cherubini c’entrano precisamente come i cavoli con la merenda…)

Nel 1909 l’intero pacchetto-Lachner venne poi tradotto in italiano da Carlo Zangarini: ed è in questa forma assolutamente spuria che ancor oggi si esegue la Medea nella nostra lingua. E così la cantò Callas, non solo alla Scala, ma anche in altre quattro occasioni (in teatri o sale di incisione).

Ed in effetti la cosa paradossale – vedi un po’ come va il mondo… - è che la versione inquinata è proprio quella che diventa celebre ovunque: vale per la Carmen adulterata da Guiraud, e vale per la Medea di Lachner, come anche per il Boris rimaneggiato da Rimski!

In anni (o decenni, ormai) recenti anche Médée ha goduto di un trattamento di rivitalizzazione, materializzatosi in esecuzioni della versione originale, come quella di Martinafranca del 1995 (Fournillier sul podio e Iano Tamar protagonista); oppure questa assai interessante (per lo sdoppiamento degli interpreti, fra cantante ed attore) messa in scena a Compiègne nel 1996 e poi portata in film (ahinoi di non eccelso livello e con qualche taglio di troppo…); e infine questa americana del 1997.

Più recentemente (2012) il compianto barocchista Alan Curtis ha realizzato (per l’edizione critica di Heiko Cullmann presso Simrock) una versione musicata dei dialoghi: questa versione fu presentata nel 2015 a Ulm e proprio poche settimane fa è stata ripresa con grande successo a Madrid.

Poi c’è chi – Krzysztof Warlikowski - ha sperimentato (2008 a Bruxelles, ripresa nel 2011 anche a Parigi) una soluzione ibrida, sostituendo i versi alessandrini dei dialoghi di F-B Hoffmann con testi in prosa moderna.

La Scala: cosa ci offrirà il trio Meyer-Gamba-Michieletto? Il numero di gennaio della Rivista del Teatro ci dà qualche importante anticipazione. Tanto per cominciare, è categoricamente escluso che si tratti proprio della versione francese del 1797: non ascolteremo infatti i dialoghi parlati originali (e ciò potrebbe già far tirare un sospiro di sollievo a molti…); al loro posto, Michieletto e il drammaturgo Mattia Palma (collaboratore editoriale del Teatro) ci hanno preparato interventi – parlati, c’è da giurarci, ma in francese? - dei due figlioletti di Médée. Di loro, nell’originale di Hoffmann si sente ovviamente parlare, ma compaiono (senza peraltro aprir bocca e menchèmeno il… cervello) soltanto alla fine del dramma; in Euripide pronunciano non più di due frasi smozzicate… Quindi ci rappresenteranno (come si dovrebbe immaginare) la loro visione di Michieletto-Palma della vicenda e del suo procedere (!?)

In ansiosa attesa di assistere (per giudicarlo) al prodotto finito scaligero, mi permetto di proporre, proprio a futura memoria, il testo del libretto (originale francese e traduzione italiana, non di Zangarini) che evidenzia chiaramente le parti parlate da quelle musicate. Da notare che l’aria di Jason del primo atto (Eloigné pour jamais d’une épouse cruelle) non era presente nel libretto stampato in origine, e fu evidentemente aggiunta in seguito. Un’altra curiosità riguarda la scena finale dell’opera: sulla partitura, dopo l’ultima esternazione di Medea, questa viene descritta librarsi in aria mentre dal tempio si alzano le fiamme. Nel libretto invece Medea sprofonda in un abisso dal quale si sprigiona poi l’incendio:

partitura
libretto
Medea

Più felice di te io me ne vado volando nell'aria!

(Con queste parole ella si invola nell’aria. Una esplosione di fuoco esce dal tempio e si diffonde dappertutto. Il popolo cerca di salvarsi in ogni dove.

Il temporale si fa sentire e continua fino alla fine.)

Médée

Plus heureuse que toi je m’en vais dans les airs!

(À ces mots, elle s’élève dans les airs. Un gouffre de feu sort du temple et se communique partout. Le peuple cherche à se sauver de toutes parts.


Le tonnerre se fait entendre et continue jusqu’à la fin.)
Medea

Più felice di te io me ne vado nell'Inferno!


(Con queste parole ella si inabissa con le tre Eumenidi che la trascinano. Fiamme escono dalla voragine dove essa è precipitata. Il fuoco si estende al tempio e al palazzo. Scoppia un temporale. Alla fine il tempio con la montagna stessa crolla e si inabissa. Il popolo afferra Giasone e lo trascina via. Il temporale si fa sentire e continua fino alla fine.)
Médée

Plus heureuse que toi je m’en vais dans les enfers!

(À ces mots, elle s’enfonce avec les trois Euménides qui la saisissent. Des flammes sortent du grouffe ou elle est descendue. Le feu se communique au temple  et au palais. La tonnèrre éclate. Enfin le temple, la montaigne meme s’écroule et s’abime. Le peuple soisit Jason et l’entraine. Le tonnerre se fait entendre et continue jusqu’à la fin.)

Infine, il libretto contiene un’ultimissima didascalia, assente nella partitura:

(Quando il coro e Giasone sono usciti di scena il palazzo crolla del tutto. L’intera scena è in fiamme e non si vedono che rovine e incendi.)
(Quand le choeur et Jason sont sorti de la scène, le palais achève s’écrouler. Tout le théatre est en feu, et n’offre plus que ruines et incendie.)
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Sempre per ricordare l’originale-originale (che non avremo il piacere-dispiacere di ascoltare alla Scala, e quindi per immaginare cosa ci saremo persi o guadagnati) segue ora - con riferimento alla citata registrazione americana, non esaltante me almeno completa in tutte le parti - una sommaria sinossi dell’opera. In rosso le sezioni principali (canto-parlato).

La corposa Ouverture è in forma sonata (con alcuna licenza…), nella tonalità d’impianto di FA minore. I due canonici temi hanno – appropriatamente, per richiamare i due aspetti (crudo e sentimentale) del soggetto – caratteristiche contrastanti: severo e drammatico il primo, più lirico il secondo (28”). Il primo tema, subito esposto a piena orchestra, anticipa l’atmosfera del weberiano Freischütz (la gola del lupo, pure ripresa nell’ouverture di quell’opera). La struttura, invero originale, prevede una seconda esposizione dei due temi (1’14”) nelle tonalità relative (FA maggiore e LAb maggiore) con il secondo riesposto (1’53”) in forma assai ampliata. Lo sviluppo (3’32”), relativamente breve, è incentrato sul primo tema, esposto in diverse tonalità (LAb maggiore, SIb minore, DO minore e infine FA minore). La ripresa (4’27”) ripete il secondo tema dalla seconda esposizione, ma in FA maggiore, quindi chiude con il primo tema (6’13”) nel canonico FA minore, con una melodrammatica cadenza finale.

Chiusa l’Ouverture, il sipario si alza sul palazzo di Créon, dove la figlia Dircé si esibisce (7’41”) in un pezzo d’insieme (Quoi? Lorsque tout s’empresse à remplir vos souhaits) in SIb maggiore, ma con inflessioni malinconiche, con le due confidenti ad altre ancelle. Invece di gioire per le imminenti nozze con il grande Jason, la principessa ha oscuri presentimenti sul suo futuro: lui ha già tradito la madre dei suoi figli, potrebbe riservare anche a lei lo stesso trattamento? Le ancelle cercano di rincuorarla e lei, dopo un recitativo accompagnato (16’01”, Je cède à ta voix consolante) che modula a DO maggiore, canta, fra svolazzi del flauto iniziati già durante il precedente recitativo, la sua moderatamente ottimistica aria Hymen! viens dissiper une vaine frayeur.

Classica aria tripartita, dove Dircè dapprima (17’01”) e sempre in DO maggiore, invoca la benedizione sul suo prossimo matrimonio; poi (18’03”) con passaggio alla dominante SOL maggiore e divagazioni (19’02”) a LAb e LA maggiore, si augura che il destino e gli dèi tengano lontana da lei la perfida e vendicativa Médée. L’aria si chiude (19’40”) con il ritorno a DO maggiore per la ripetizione dell’invocazione iniziale, qui abbellita da virtuosismi e colorature, e seguita dalla cadenza conclusiva. 

Ecco poi (22’30”) il primo passaggio parlato: Créon teme che i figli di Pélias, per vendicare il padre ucciso da Médée, la stiano inseguendo fin lì per uccidere lei e i suoi figli. Il Re promette a Jason di difendere i suoi piccoli e Jason prima che inizi la musica del corteo fa consegnare alla promessa sposa, come doni di nozze, il Vello d’oro e il resto del bottino degli Argonauti. Ed ecco appunto  (23’50”) la marcia con coro (RE maggiore e dominante LA) in onore di Dircè.

Ma durante la sfilata in suo onore (24’59”, Belle Dircé) la giovane principessa è nuovamente assalita da foschi presagi, espressi in un breve recitativo accompagnato (26’58”, ô funeste présage!) che induce anche Jason a preoccuparsi. In un nuovo passaggio parlato (27’12”) è Créon a chiedere ragione alla figlia della sua tristezza, al che lei confida a Jason tutti i suoi timori su Médée, mentre lui cerca di rassicurarla cantandole la sua aria Eloigné pour jamais d’une épouse cruelle, in LA maggiore. 

È in forma di rondò, aperta (29’08”) dal ritornello su cui Jason si felicita del nuovo corso della sua esistenza, dopo la parentesi dell’infelice matrimonio. Seguono le brevi strofe, dove Jason si dice certo che il nuovo legame con lei sarà imperituro e, sull’ultimo ritorno del motivo principale, le giura eterna fedeltà.

Senza soluzione di continuità, modulando provvisoriamente alla sottodominante RE, si passa (33’01”) ad un recitativo accompagnato di Créon (Ah! c’est trop s’occuper d’un présage funeste) che introduce (33’42”) il successivo concertato (Dieux et Déesses tutélaires) in FA maggiore, aperto da una nobile, commovente perorazione del Re, che invoca gli dèi perchè benedicano il matrimonio, garantendo felicità agli sposi e a se stesso. Il coro (36’03”) modulando alla dominante DO, ribadisce queste implorazioni e questi auspici. Ora, accompagnati da volute dell’oboe solo, in atmosfera di Re minore, sono Jason e Dircè (37’26”) a promettere di amarsi eternamente. Il coro (39’01”) torna al maestoso FA maggiore per invocare solennemente benedizione e felicità per gli sposi. 

Ma la serenità della corte di Corinto è solo momentanea, poichè – dando inizio (41’07”) ad un interminabile parlato che copre ben tre scene del primo atto - un corifeo (nel libretto: il comandante delle guardie) entra ad annunciare l’arrivo di una misteriosa donna, sedicente sacerdote di Apollo, che viene per benedire gli sposi. Trattasi (come non immaginarlo!) proprio di Médée, che ben presto si palesa, fra la costernazione generale. Abbiamo qui un primo drammatico confronto, fra la donna e Créon, che minaccia di cacciarla dal suo regno e poi (45’24”) in una nuova aria con pertichini di Dircé e del coro delle ancelle (C’est à vous à trembler, Femme impie et barbare!, un cupo e agitato SI minore, a distanza di tritono dal solenne FA della cerimonia) assicura la figlia che Médée sarà punita come si merita. Davvero imperiosa (45’48”) e spaventevole la minaccia di morte che il Re muove all’intrusa!

E un nuovo e ancor più drammatico scontro, ancora in parlato, ha ora luogo (48’27”) protagonisti Médée e Jason, che si rimpallano le accuse: di tradimento, lei; e di atrocità, lui. A questo punto Médée canta (51’25”) la sua prima grande aria Vous voyez de vos fils la mère infortunée, aria tripartita, con una prima parte in FA maggiore, una dolce melodia che mostra il lato sensibile della personalità della protagonista che ricorda tutto l’amore e tutto l’aiuto che lei gli ha dato per una vita, venendo poi, per tutta ricompensa, da lui abbandonata. La seconda parte (53'34”, in LAb maggiore, poi con alcune modulazioni) è occupata dai bei ricordi di gioventù, prima che l’incontro con Jason cambiasse radicalmente la sua vita. Infine (ritorno alla melodia iniziale in FA, 54’54”) Médée si inginocchia ai piedi dello sposo e lo implora di tornare con lei, restituendole la gioia dei figli.  

Il battibecco fra i due, ormai un muro-contro-muro, si chiude (56’50”) con un nuovo, duro passaggio parlato, cui segue (58’49”) il lungo, drammatico duetto (Perfides ennemis, qui conspirez ma peine). In tonalità di MI minore è Médée a portare la sua minaccia contro chi la sta offendendo con questo matrimonio, che lei non consentirà si faccia. Jason sembra impaurito e invoca gli dèi perché fermino quella furia. Modulando a DO maggiore (1h00’17”) ecco la comune imprecazione (cantata in contrappunto!) contro quel fatal Vello che fu causa di tutte le loro sventure. Da qui, tornando a MI minore, si sviluppa un agitato susseguirsi di reciproche minacce, dove i due alternano le rispettive imprecazioni ed invocazioni agli dèi alla comune maledizione del Vello. Una pesante cadenza a piena orchestra pone fine all’Atto primo.

ATTO II

L’Atto secondo si apre con una breve (sole 79 battute) ma drammatica introduzione strumentale. Nella cupa tonalità di DO minore evoca parossisticamente la tempesta che ormai alberga nel cuore di Médée, più che mai decisa ad andare fino in fondo al suo disegno di vendetta.

Siamo nel palazzo di Créon ed assistiamo inizialmente (1’47”a scene di solo parlato, la prima delle quali vede protagonista assoluta Médée, che sfoga tutto il suo amaro, feroce risentimento di moglie tradita contro Jason e contro chi (la rivale Dircé e suo padre Créon) ha distrutto la sua vita: invoca quindi tutte le divinità infernali perché la aiutino ad annientare i suoi nemici.

Arriva poi la fida Néris per annunciarle che il Re e tutto il suo popolo le stanno dando la caccia. E proprio allora sopraggiunge Créon, che le intima di lasciare il paese, per non subire il meritato castigo. Médée risponde che lei è una vittima, e chiede ragione dell’esilio che le viene imposto. Créon le confessa di temere i suoi poteri e la sua vendetta, conoscendo bene ciò di cui è stata capace in passato. Ma lei ribatte che senza i suoi crimini oggi Jason non sarebbe lì come il benvenuto, a chiedere la mano di Dircé e ad offrirle in dono il bottino delle sue imprese.

Torna ora finalmente la musica (7’59”), con un lungo concertato in MIb (Ah! Du moins à Médée accordez un asile) protagonisti Médée, Créon, Néris e le guardie del Re. Una convulsa figurazione (ascendente-discendente) apre il concertato, anticipando le secche risposte negative di Créon alle suppliche di Médée. La quale cerca in tutti i modi (9’00”) di convincere il Re a consentirle di rimanere lì a fianco dei suoi figlioletti. Ma Créon sembra irremovibile, spalleggiato dalle sue guardie. Nel frattempo la tonalità è stata oggetto di divagazioni (RE e LAb maggiore). Néris (10’52”) cerca di placare l’ira di Médée, che passa alla tattica dell’implorazione (12’48”) supplicando Créon di concederle almeno un solo giorno di vicinanza con i figli, prima di andarsene per sempre. Dapprima titubante, il Re poi (14’56”) acconsente a malincuore, mentre Médée (tornando al MIb) già pregusta la vendetta.

Adesso è Néris a prendere la scena, manifestando tutta la sua pena per la triste sorte che aspetta la sua padrona, dapprima (18’52”) con un breve parlato, poi con la sua grande aria (19’40”, Ah! nos peines seront communes). La apre uno stupefacente recitativo di 27 battute del fagotto solo, che insedia la tonalità di impianto di SOL minore. Néris dichiara la sua totale fedeltà alla padrona. Poi (21’47”) modulando alla relativa SIb maggiore, le assicura che la seguirà fino alla morte. Torna a SOL minore (22’42”) per constatare lo stato di prostrazione di Médée, poi da qui vira fugacemente a RE maggiore, chiedendosi chi potrebbe trattenere il pianto di fronte al suo destino. Finalmente riprende il SOL minore (23’09”) con la reiterazione dell’impegno della schiava a seguire la padrona fino alla morte.

A questo punto (26’46”) abbiamo un altro corposo parlato, che inizia con Médée che medita la sua vendetta e Néris che la osserva sempre più angosciata. Poi Médée esplode nella sua folle idea: uccidere insieme Jason, Dircé e Créon! Proprio allora compare Jason e assistiamo al duro scontro con la moglie abbandonata: lui cerca di ammansirla, ma alla richiesta di lei di avere con sé i figli, oppone un deciso diniego 

Qui Médée pone in atto il suo diabolico disegno (32’59”): in un duetto con Jason (Chers enfants, il faut donc que je vous abandonne!) in tonalità di RE minore, tutto caratterizzato dalla di lei subdola ipocrisia, finge di accettare il suo infausto destino. Con un canto tutto spezzato, come singhiozzante, ricorda i bei tempi andati, provocando in Jason un misto di pietà, di rimpianto e di strazio, e così aprendo un varco nel cuore di lui, che le concede (34’35”) di rivedere i figli prima di andare in esilio. A parole lo ringrazia del favore, ma dentro di sé già prefigura il dolore che ha deciso di infliggergli. Jason sembra addirittura preoccuparsi del di lei futuro, le promette persino (37’05”) di pregare per lei, durante il rito che Créon si appresta a celebrare nel tempio. Lui è sinceramente addolorato, mentre lei dentro di sé gli giura che pagherà caro il suo tradimento.

Partito Jason (40’00”) riprende ora il parlato e Mèdée rivela a Néris il suo piano: donerà a Dircé un preziosissimo abbigliamento nuziale, impregnato di velenosi profumi che la uccideranno.

Eccoci ora al solenne finale dell’Atto secondo (41’54”). Il fondo della scena è occupato dal tempio e una banda dietro le quinte accompagna il corteo nuziale; al proscenio, Médée e Néris commentano (parlando) la scena. La marcia con coro (Fils de Bacchus, descend des Cieux) che anticipa quasi il Lohengrin, si apre in FA maggiore, con invocazioni a Bacco, mentre Médée sarcasticamente se ne compiace. Attacca ora (44’38”) una sezione in LA maggiore, con il coro che benedice le nozze, interrotto dall’imprecazione di Médée, che si auto-benedice. Riprende il coro, poi un subitaneo passaggio a DO maggiore (46’56”) introduce Créon e Dircé, che implorano felicità agli dèi (Médée interviene per offrire un diadema alla sposa). Si aggiunge a loro anche Jason, che chiede agli dèi protezione per i suoi figli (Médée commenta con una maledizione). Il coro riprende (48’15”) in FA maggiore e ancora Médée (in DO) si interpone per reclamare la fede di Jason. Infine il coro inneggia ai giuramenti degli sposi e Médée vi aggiunge il suo: la tremenda vendetta! 

Con ciò, come un’invasata, mentre l’orchestra chiude con una melodrammatica cadenza, si slancia sull’altare, afferra un tizzone ardente ed esce dal tempio agitandolo nell’aria.

ATTO III

L’Atto terzo è aperto da un’introduzione strumentale, in tonalità di RE minore, con squarci nella relativa FA maggiore. Come avvertono la didascalia del libretto e le note in partitura, siamo sulla montagna che sovrasta il palazzo di Créon e il tempio. È ancora notte, atmosfera da tregenda: dopo una cupa introduzione, che evoca sordi e lontani brontolii, ecco scatenarsi gli elementi: è l’ottavino a gettare i primi sinistri lampi del temporale. Si tratta di una tempesta materiale ed allo stesso tempo della tempesta psicologica che si agita nella mente di Médée, che si vede scendere dalla montagna e dirigersi verso il palazzo dove sono nel frattempo entrati Néris e i suoi due figlioletti per consegnare l’abbigliamento nuziale (avvelenato) per Dircé.

Médée arriva sul posto impugnando un pugnale e in parlato (6’25”) si prepara ad attendere i due figli, per ucciderli come castigo per Jason e i suoi protettori. Mentre albeggia sopraggiunge appunto Néris con i bambini, che incita ad abbracciare la madre. La quale si invece schermisce, poi li stringe a sé, lasciandosi sfuggire di mano il pugnale: Néris comprende le sue intenzioni e ne rimane inorridita.

Ora Médée ha come un ripensamento e lo esprime (9’01”) nella sua aria (Du trouble affreux qui me dévore) in MIb maggiore con parte centrale nella dominante SIb. Nella prima parte dell’aria – assai accorata - Médée sembra pentirsi della sua decisione. Poi il tempo si agita, si passa a SIb (10’40”) e Médée chiede agli dèi di aiutarla ad evitarle quell’insano gesto che meditava. Ma ben presto il pensiero cade su Jason, il fedifrago, e così ritorna in lei la decisione più drastica e orribile, confermata nella terza parte dell’aria (12’25”), ancora in MIb.

Inizia qui (13’36”) un nuovo parlato: Néris cerca di convincere la padrona ad accontentarsi della vendetta verso Jason: Dircè ha appena indossato l’abito nuziale che l’avvelenerà! Médée non è più padrona delle sue azioni, così prega Néris di portare i bambini nel tempio.

Siamo ormai giunti al finale dell’opera. Rimasta sola (15’42”) in un lungo recitativo accompagnato (Eh quoi, je suis Médée et je les laisse vivre!) in RE minore (FA maggiore) Médée si pente di aver allontanato i figli; poi (modulando di un tritono, a LAb maggiore) si vergogna di provare sentimenti materni, abbandonando però i figli alla mercè di un padre fedifrago. La tonalità passa a RE maggiore e il recitativo sfuma direttamente (18’38”) nella grande aria O Tisiphone! Implacable Déesse!

Dapprima Médée chiede alla dèa di soffocare i suoi sentimenti di umanità e di farle ritrovare il pugnale; poi, modulando a LA minore/maggiore, si ridà animo per compiere il fatale gesto verso i figli. Chiude in RE maggiore ripetendo l’appello iniziale a Tisifone.

Dal tempio (21’30”) arrivano grida e lamenti: è Dircé che sta morendo, in preda agli effetti del veleno. Jason (22’41”) si dispera per la sorte della sposa, ma Médée in un recitativo accompagnato (23’42”) gli ricorda che i figli sono ancora in suo potere e corre nel tempio per ucciderli.

Jason e il popolo la seguono per impedirle il delitto, ma Néris (26’27”) arriva inorridita e annuncia che Médée sta ormai per sopprimere i bambini. Jason si slancia nel tempio per fermarla, ma la donna (26’50”) esce, circondata dalle Eumenidi, impugnando ancora il pugnale insanguinato: i bambini sono stati sacrificati come vendetta per il suo tradimento! Jason, distrutto, la implora di lasciarle almeno vedere le piccole salme, ma Médée lo maledice, gli indica la sua meritata pena: vagare disperato nel mondo, mentre lei si librerà nell’aria per poi attenderlo negli Inferi.

Detto ciò si invola, mentre lingue di fuoco escono dal tempio (29’35”). Tutti fuggono per portarsi in salvo e l’opera si chiude con un generale sentimento di orrore. L’orchestra suggella il dramma con pesanti accordi di RE minore.