intime gioje

chiuder la prigione e buttar la chiave

16 novembre, 2024

Orchestra Sinfonica di Milano - 24-25.7

Finalmente Emmanuel Tjeknavorian arriva sul podio dell'Auditorium da Direttore Musicale! Dopo aver diretto (15 settembre scorso) il Concerto inaugurale alla Scala, si cimenta oggi con un programma di impaginazione tradizionale.

Pubblico foltissimo e con nutrita rappresentanza di teen-agers, il che fa sempre bene al morale, ecco!

Concerto aperto da un brevissimo, ma notissimo, brano di Hector Berlioz, la Marche hongroise, nota anche come Marcia di Rákóczi, valoroso nobile magiaro che capeggiò, all’inizio del 1700, i moti di ribellione contro gli Asburgo.

La storia della composizione è abbastanza bizzarra, come lo stesso Autore ebbe a ricordare assai coloritamente nelle sue Mémoirs (secondo volume, Terza lettera a Humbert Ferrand). Vi troviamo un riferimento dettagliatissimo a questo brano: esso viene composto in un battibaleno a Vienna, nel febbraio del 1846, alla vigilia della partenza per la tappa ungherese del tour del compositore nei territori dell’Impero asburgico.

Dunque, arrivato dopo incredibili peripezie (esondazioni del Danubio, avventuroso viaggio in carrozza e rischi di annegamento) nella capitale magiara (Pest, ai tempi non ancora gemellata con Buda...) il compositore ha in programma un concerto al locale Teatro, e non gli par vero di infilarci, come bis di chiusura (fa sempre le cose in grande, il nostro!) la sua freschissima trascrizione del motivo musicale più popolare laggiù (come poteva essere in Francia la Marsigliese…) 

Alla vigilia però emergono serie preoccupazioni: il timore che l’iniziativa possa essere fraintesa e contestata dal pubblico perché accusata di lesa-maestà… Il caporedattore di un influente giornale di Pest si fa consegnare la partitura e ne trae un giudizio non proprio lusinghiero, criticando in particolare l’assenza di passaggi in fortissimo, come si attenderebbe il pubblico ungherese, patriottico come pochi.

Berlioz non si perde d’animo, rinforza l’orchestrina del Teatro con strumentisti della Filarmonica e chiude il concerto con la Rákóczi. Miracolo! La marcia ha un successo di portata storica, il pubblico va addirittura in delirio, la interrompe più volte con manifestazioni di giubilo, in un fracasso da stadio! Berlioz deve ripeterla e alla fine viene letteralmente portato in trionfo, promosso sul campo eroe nazionale. Persino un vecchio e malandato patriota corre ad abbracciarlo, lodando la Francia e i suoi sentimenti rivoluzionari!

E non per nulla la Rácóczy, ricordo di una sua grandiosa impresa, venne poi infilata da Berlioz alla fine della Prima Parte de La damnation de Faust, appositamente ri-ambientata in Ungheria!

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Il vulcanico Tjek la dirige con piglio davvero garibaldino, meritandosi applausi calorosi. L’unico appunto che mi sento di fare non ha nulla di musicale, ma di… logistico: quando il concerto è aperto da un breve brano orchestrale seguito da uno con il pianoforte, di norma la tastiera è già messa in posizione, con il coperchio ovviamente abbassato, così da evitare un intervallo supplementare. Purtroppo, ieri ciò non è avvenuto (sono certo che si poteva trovare comunque il modo di non sacrificare due violini e due celli). 

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Un poco più che ragazzino (22 anni) che però è già affermatissimo in giro per il mondo, il viennese (come Tjeknavorian, con il quale fa regolarmente coppia anche in concerti cameristici) Kiron Atom Telian, si siede alla tastiera per suonarci un altro celebre brano, il Primo Concerto di Chopin.

La sua è stata una prestazione davvero stupefacente: dopo aver pazientemente atteso che l’Orchestra sciorinasse i temi dell’Allegro maestoso, lui ha attaccato lo strumento quasi con ferocia, scolpendone mirabilmente le prime due battute; poi è stato tutto un crescendo di passione e ispirazione. Nella centrale Romance ci ha dato una lezione di puro rubato chopiniano, portandoci come in un sogno metafisico. Nel Rondo finale poi ha tirato fuori tutta la sua tecnica trascendentale, sempre ben assecondato dall’Orchestra, che il Tjek ha gestito con discrezione, scatenandola solo nei tutti dove la tastiera tace.

Grande entusiasmo per questa coppia cinquantenne (28+22) di musicisti e in particolare per il mingherlino Kiron, che non ci ha lasciato senza un bis, e già che c’era ne ha fatti due, completandoci così una salutare indigestione di Chopin: Studio oceanico e Mazurka in SI minore! 

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La serata si è chiusa nel nome di Brahms-il-progressivo. Così ebbe a definirlo un compositore – Arnold Schönberg - che dai primi anni del ‘900 aveva, a detta di tutti, preso strade letteralmente agli antipodi di quelle percorse dall’ottocentesco, burbero amburghese.

Nel 1935 Schönberg, di cui ricorrono i 150 anni dalla nascita, forse per prendersi un po’ di… vacanze dai suoi viaggi musicali piuttosto, ehm, faticosi… si divertì ad orchestrare il Primo Quartetto con pianoforte di Brahms.

Togliendo di mezzo, per prima cosa, proprio il pianoforte!

A parte gli scherzi, la scelta di Schönberg ha un senso ben preciso, proprio relativamente all’attributo di progressista da lui affibbiato a Brahms. Poiché il Quartetto in questione è un’opera nella quale un Brahms ancora giovane (28 anni) introduce elementi di grande modernità e innovazioni al limite del… consentito, quanto a rispetto delle forme codificate.

Così nel primo movimento la forma-sonata è interpretata con libertà al limite della dissacrazione: tre temi, ardite concatenazioni tonali, sezioni assai poco equilibrate (esposizione pletorica, sviluppo e coda finale limitati quasi al solo primo tema…); l’Intermezzo è una specie di Scherzo-con-Trio, dove il da-capo dello Scherzo viene seguito da una reminiscenza del Trio per concludere il movimento; nell’Andante con moto, dopo le dolci melodie che lo aprono e lo chiuderanno, ecco un’imprevedibile irruzione di un motivo in ritmo puntato, dal piglio maschio e militaresco; e anche lo scatenato Rondo finale è di struttura assai eterodossa.

E poi, Brahms comincia qui ad impiegare quella che diventerà una caratteristica peculiare delle sue composizioni: la perenne rielaborazione di micro-strutture sonore, sottoposte ad una specie di continua variazione, per creare figurazioni nuove ma allo stesso tempo richiamanti quelle originali: insomma, un continuo sviluppo!

Schönberg non cambia una sola nota di Brahms, ma si permette invece di intervenire su agogica e dinamica, oltre ovviamente (avendo a disposizione un’intera compagine tardoromantica) a distribuire alle diverse sezioni dell’orchestra le frasi musicali e l’accompagnamento in modo assai libero.

In questa fulminante presentazione dell’originale e della sua… copia il Direttore e violinista Joshua Weilerstein arriva a definire il risultato ottenuto da Schönberg come la Sinfonia n°0 di Brahms! E in effetti anche chi ha dimestichezza con il Quartetto fatica quasi a riconoscerlo, in questa lussureggiante veste di cui lo ricopre l’orchestratore!

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Il Tjek ha tutta la partitura in testa e l’ha diretta con il suo gesto signorile (proprio viennese verrebbe da dire…) trascinando l’Orchestra, evidentemente sempre più in sintonia con lui, ad una prestazione davvero maiuscola, accolta da ripetute chiamate con battimani ritmati. E venerdi prossino il nostro torna con un programma che più romantico non si può!

09 novembre, 2024

Orchestra Sinfonica di Milano - 24-25.6

Dopo il Requiem verdiano, ecco un’altra specie di requiem occupare l’intero programma del concerto dell’Orchestra Sinfonica di Milano. Trattasi della cupa e funerea Sinfonia n° 11 (1957) di Dmitry Shostakovich.

Sul podio dell’Auditorium esordisce uno yankee dal cognome italico, Case Scaglione, 42enne texano (da Houston, dove per combinazione la Sinfonia fu eseguita in prima americana da Stokowski nel 1958). Dopo aver fatto gavetta in USA (fra l’altro è stato Direttore assistente alla prestigiosa NY Philharmonic) è approdato in Europa, dove è attualmente Direttore – dal 2019 - dell’Orchestre Nationale de l’Ile de FranceIl suo nome si aggiunge così a quelli di Xian, Axelrod, Treviño e de la Parra, la pattuglia di Direttori di scuola americana che negli ultimi anni hanno calcato con successo il podio di Largo Mahler.

Il lavoro fu sollecitato a Shostakovich dalle Autorità sovietiche per rievocare i 40 anni della Rivoluzione d’Ottobre, ma il compositore (che in gioventù già vi aveva dedicato la Seconda Sinfonia… e solo più tardi le dedicherà la 12ma) preferì mutarlo nel ricordo di quella che va sotto il nome di prima Rivoluzione russa, quella del 1905, come recita il sottotitolo dell’opera.

Rivoluzione che in realtà altro non fu se non la brutale e sanguinosa repressione di una pacifica dimostrazione di proletari (operai e contadini) rei soltanto di voler presentare allo Zar Nicola II una petizione dove si chiedeva al sovrano di alleviare le sofferenze del popolo, legate a guerre e perduranti carestie. Repressione che certo aprì la strada al formarsi del movimento propriamente rivoluzionario che portò all’Ottobre 1917. Ecco, di questo antefatto e delle prospettive da esso create tratta programmaticamente il lavoro.

Come altre composizioni di Shostakovich, anche questa ha sollevato dubbi, discussioni e controversie a causa di presunti suoi reconditi significati, soprattutto a livello politico. Si tenga presente che il padre del compositore, Dmitry Boleslavich, nel 1905 si trovava proprio in mezzo alla folla di pacifici dimostranti caricata dai cosacchi dello Zar Nicola II, scampando miracolosamente al massacro. E al figlio, nato l’anno seguente, non mancò di fare dettagliati resoconti di quei luttuosi fatti.

Ecco perché il lavoro - venuto alla luce quando ancora non si era spenta l’eco dello sferragliare dei cingoli dei tank sovietici nelle vie di Budapest - con i suoi espliciti riferimenti alle violenze dell’esercito zarista contro i manifestanti del 1905 fu (ed è ancor oggi) inevitabilmente interpretato anche come sotterranea condanna dei fatti di Ungheria. Ma il regime sovietico del disgelo fece finta di nulla (o di non capire…) e insignì il compositore del Premio Lenin!

I quattro classici movimenti (da eseguire sempre con… attacca) in cui si articola la Sinfonia recano altrettanti sottotitoli, tali da farli assimilare quasi a tappe di un poema sinfonico, che evocano precisamente, come da sottotitoli apposti dall’Autore, il prima, il durante, e il dopo di quella sanguinosa giornata.

Vi compaiono, citati più o meno alla lettera, molti (almeno nove) canti popolari russi di fine ’800 – inizio ‘900, riferibili a rivolte e speranze delle masse proletarie. Certo, a noi non russi che ne ignoriamo l’esistenza e il significato possono anche dire poco, ma la maestria con cui Shostakovich li impiega produce sempre un effetto musicale straordinario.

1. La Piazza del Palazzo (…d’Inverno, SanPietroburgo; Adagio): siamo in un’atmosfera algida e spettrale, in cui pare di avvertire il disagio e il malcontento del popolo che, affamato da guerre e carestie, si è dato appuntamento quel fatale 9 gennaio (22 per il nostro calendario) divenuto famoso come Domenica di sangue, per implorare lo Zar ad ascoltare il suo lamento.

Inframmezzati da squilli di trombe e corni che evocano il sopraggiungere delle forze dell’ordine, abbiamo la citazione di tre canti popolari russi dell’epoca pre-bolscevica: Ascoltate, Il prigioniero, e Signore, abbi misericordia di noi.     

2. Il 9 Gennaio (Allegro): rievoca lo sviluppo di quella giornata, citando nella prima parte brani dai Poemi su canti rivoluzionari, già musicati da Shostakovich anni addietro: O Zar, nostro piccolo padre, e poi Scopritevi il capo

Il suono cresce progressivamente, quasi a descrivere l’ammassarsi (a ondate successive e sempre più esaltate) nella piazza della folla che aspetta invano un riscontro dallo Zar, che invece aveva già abbandonato il Palazzo, temendo il peggio, e ordinando ai servizi di guardia di disperdere la manifestazione. È un’ondata musicalmente evocata da un tempo ternario, che ben rappresenta l’ondeggiare di questa eterogenea massa di poveracci.   

Dopo un ritorno del tema che aveva aperto la Sinfonia, eccoci quindi all’evocazione del massacro perpetrato dai cosacchi sugli inermi dimostranti, presi vigliaccamente a fucilate, inclusi bambini saliti sugli alberi e ammazzati come piccioni (!)

Su un tempo binario, tipicamente marziale, i tamburi militari sottolineano l’arrivo dei soldati; poi si odono i colpi secchi delle armi da fuoco, ma anche suoni martellanti, che ricordano lo spaventevole procedere di mezzi corazzati (il che fa effettivamente pensare alla Budapest del 1956…) Finita la carneficina, restano sulla neve i corpi e il sangue di morti e feriti e il tema di apertura della Sinfonia suggella mestamente l’uscita di scena dei militari, accompagnati dai rulli dei tamburini e da due ultimi, spettrali squilli di tromba. . 

3. Memoria eterna (Adagio): è un nobile Requiem, che rende onore agli innocenti caduti (Voi cadeste da vittime, tratto da una marcia funebre per gli operai) sotto i colpi di un potere assoluto e affamatore; un altro inno, Ah, la parola Libertà, occupa la parte centrale del movimento e la marcia funebre ritorna per concluderlo.

È abbastanza chiaro che si tratti di un omaggio a tutte le vittime della violenza di regimi autoritari, monarchie assolute che siano, o… repubbliche socialiste (e non).   

4. Segnale d’allarme (Allegro non troppo): squilli di ottoni prefigurano l’avvento della futura Rivoluzione del 1917! Dopo un ritorno di O Zar, nostro piccolo padre si incontrano qui il canto Vendetta, tiranni e un altro canto anti-zarista, significativamente di origine polacca (Canto di Varsavia)…  Infine torna, dapprima dolente nel corno inglese, Scopritevi il capo. Che poi, immenso ma per nulla trionfalistico, chiude la Sinfonia.

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Il simpatico Scaglione ne ha tratto un risultato entusiasmante. Il suo gesto è essenziale e preciso, i tempi scanditi con chiarezza ed appropriatezza, mantenendo sempre un perfetto equilibrio fra le varie sezioni, cosa affatto semplice in una partitura come questa, dove fiati (ottoni in particolare) e soprattutto percussioni e timpani la fanno da padroni.

E a proposito di timpani, che sono impegnati per l’80% del tempo, la mitica Viviana non li ha proprio risparmiati, mettendone a dura prova la resistenza e l'integrità: forse perché sa che, anche grazie ad un sostanzioso e generoso contributo di amici dell’Orchestra, già dal prossimo concerto potrà inaugurare le cinque caldaie nuove di zecca appena arrivate in Largo Mahler!

Ma davvero tutti si sono superati e il pubblico è andato letteralmente in delirio, come non capitava da parecchio tempo.

 

01 novembre, 2024

Orchestra Sinfonica di Milano - 24-25.5

Questa settimana l’Orchestra Sinfonica e Coro Sinfonico di Milano propongono, come in ogni stagione che Dio ci manda, uno dei loro (tanti) cavalli di battaglia: il Requiem di Verdi! Per l’occasione Auditorium finalmente affollatissimo.

Concerto dedicato doverosamente alla memoria di Romano Gandolfi, mitico Direttore del Coro della Scala e co-fondatore, proprio 5 lustri orsono, della compagine corale de laVerdi, con la quale un paio di volte guidò il Requiem anche dal podio!

Quartetto vocale (per me) oltre le aspettative, con il soprano Maria Teresa Leva sugli scudi, una prestazione chiusa davvero in bellezza con un Libera me da incorniciare, nelle accorate invocazioni, come negli impervi passaggi della fuga, superati di slancio.

La turca germanizzata Deniz Uzun ha mostrato voce solida e ben proiettata: pregevoli le sue Liber Scriptus e Recordare (con la Leva) e il Lux aeterna (con Corrado).

A dispetto della chiamata all’ultima ora, il tenore Francesco Demuro ha benissimo meritato: da ricordare il suo Ingemisco.

Last-but-not-least, Adolfo Corrado, trentenne basso, di cui sono da apprezzare le due parti solistiche (Mors stupebit e Confutatis) in aggiunta ai passaggi di insieme.

Il Coro di Massimo Fiocchi Malaspina ha festeggiato come meglio non si poteva le sue nozze d’argento con l’Orchestra.

Lascio da ultimo Michele Gamba. Dopo lunga gavetta, a 41 anni si sta ora imponendo sia nel teatro musicale che nel sinfonico come un personaggio di grande spessore: ieri lo ha confermato con l’autorevolezza con cui ha domato questa impervia e multiforme partitura, nella gestione delle proterve irruzioni del Dies Irae, come nell’approccio al complesso Offertorium. Data la sua consuetudine con la musica del ‘900 mi è parso che abbia dato dell’opera un’interpretazione asciutta e severa, evitando facili eccessi melodrammatici. L’Orchestra, che del Requiem ha maturato esperienze fin dagli anni di Chailly e Gandolfi, da parte sua lo ha assecondato alla grande.

Alla fine, entusiastica accoglienza per tutti i Musikanten, con applausi ritmati e diverse chiamate: il pubblico non ne voleva proprio sapere di alzarsi e così Gamba ha dovuto prender per mano la spalla Dellingshausen e portarselo via come un bambinello…


29 ottobre, 2024

Das Rheingold alla Scala.

Ieri sera alla Scala è andata in scena l’opera che contemporaneamente chiude la stagione 23-24 e apre una stagione virtuale, dedicata al Ring wagneriano, che si chiuderà a marzo 2026. Prima di allora i quattro drammi verranno rappresentati in solitaria: dopo il Rheingold di oggi, Walküre e Siegfried nella stagione entrante e Götterdämmerung a ridosso dei due cicli completi.

Abbiamo quindi vissuto la Vigilia, la cui preparazione è stata caratterizzata da uno degli incidenti che purtroppo accadono spesso nell’ambiente teatrale: il default improvviso (e improvvido?) del Direttore designato (Thielemann) che la Scala ha dovuto rimpiazzare con ben due sostituti (battutaccia: che valgono ciascuno la metà dello schizzinoso Christian?)

Ma insomma, la Young ieri non ha poi demeritato. Del resto quest’estate ha diretto l’intero Ring a Bayreuth ed è già ingaggiata (sempre in coppia con Soddy) anche per le prime due giornate del ciclo scaligero, previste nella prossima primavera.

Orchestra in discreta forma ma con qualche defaillance: l’attacco degli otto corni – di per sé sempre problematico – non è stato proprio entusiasmante (un informe ribollire) e anche le tubette hanno avuto qualche problema nella prima esposizione del Walhall. Da mettere a punto anche il grandioso finale.

Cast vocale bene assortito, con molti interpreti che in Wagner sono di casa.

A partire dai tre che hanno contribuito al recente successo dei Gurre Lieder: Michael Volle, un Wotan all’altezza del ruolo: gli anni si fanno sentire, ma i suoi problemi sembrano più di… deambulazione che non di voce, sempre rotonda, ben impostata e proiettata. Poi il Loge di Norbert Ernst, voce acuta e penetrante, come si addice al guizzante consigliere del re. E poi la convincente Fricka di Okka von der Damerau, la moglie volta a volta preoccupata, petulante, ansiosa, felice e pure un po’… ipocrita.

Degli altri, da promuovere il gineceo: la Freia di Olga Bezsmertna, la Erda di Christa Mayer (qui la parte è ristretta, anche se drammaturgicamente fondamentale, sarà ben più impegnata in Siegfried…) e le tre ondine in blocco (Virginie Verrez, Flosshilde, Svetlina Stoyanova, Wellgunde e Andrea Carroll, Woglinde) un po’ penalizzate dal regista nell’esternazione finale, che arrivava da dietro le quinte.

Così-così gli altri maschietti: Ólafur Sigurdarson è un Alberich piuttosto caricaturale, mentre dovrebbe far emergere la grandezza (pure in negativo) del ruolo. Così ho udito qualche dissenso per lui alla fine. Caricatura che invece si addice al Mime di Wolfgang Ablinger-Sperrhacke. I due giganti (Fasolt, Jongmin Park e Fafner, Ain Anger) nella onesta routine (forse i… trampoli li hanno messi in difficoltà…).

I due dèi residuali, Froh (Siyabonga Maqungo) e Donner (Andrè Schuen) meritano pure una larga sufficienza, in particolare il secondo, voce ben impostata e passante; un po’ meno il primo, non proprio brillante e poco penetrante nei suoi interventi (un Wie liebliche Luft piuttosto anonimo).
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Vengo a David McVicar. Dalla sua intervista con Mellace poco si era capito del suo Konzept e in effetti è difficile afferrarne (ammesso ci sia) un profondo significato. Mi pare che il regista albionico abbia furbescamente cercato di evitare sia l’attualizzazione del dramma ai giorni nostri, sia la sua pedestre rappresentazione letterale, optando per un’ambientazione astratta da spazio e tempo, supportata da scene spoglie (scimmiottando Wieland?) e da costumi abbastanza strampalati (lunghi e larghi variopinti vestaglioni, al posto dei cappottoni DDR). Il che potrebbe essere condivisibile, ma qui il regista ha un po’ troppo ecceduto in sovrastrutture francamente eccessive, caricando lo spettacolo di troppi aspetti da… avanspettacolo, magari realizzati con intelligenza e raffinatezza.

Sul sipario che separa le quattro scene compare un gran cerchio dentro il quale campeggia una mano: che significa? La mano che accoglie – su un dito - l’anello? O la mano di chi vuol mettere le mani sull’anello? Nella prima scena di manone ne vediamo tre (quante le Figlie?): due destre e una sinistra (?) adagiate sul fondo (del Reno). Poi vediamo una manina protendersi in alto allorchè l’Oro, un danzatore, emerge dal pavimento con il capo coperto da un cappuccio dorato (che gli verrà strappato da Alberich) per poi tornare alla fine ai piedi dello scalone che porta al Walhall (?castello comprato con l’oro?) Poi, ciascuno dei due giganti, che camminano su trampoli (perché, appunto, sono giganti!) ha due manone enormi (come no!) Insomma, simboli di dubbia interpretazione.

Giù a Nibelheim campeggia un enorme teschio dorato, che si apre in due alla bisogna, e qui Alberich fa le sue tre magìe, indossando il Tarnhelm costituito da una maglia metallica (questa idea viene direttamente dalle saghe nordiche): efficace la prima, quando il nano scompare in un paff! con esplosione di lapilli; più banale il secondo (lo scheletro di un serpentone che si protende verso il proscenio e poi se ne torna via); fuori luogo il terzo, dove il rospetto è rimpiazzato da uno… scheletrino che se ne vola via mentre Wotan immobilizza Alberich, rimastosene sempre lì.

La scena della consegna dell’oro ai giganti è reinventata dal regista, facendo accucciare Freia all’interno di una enorme maschera, composta da pezzi del bottino, poi disfatta dai giganti quando Wotan rifiuta di consegnare l’anello. Forse ricorda (a rovescio) quanto narrato nelle saghe, dove il tesoro deve riempire completamente la carcassa di una lontra ammazzata da Loge…

Altra idea portante della messinscena: figuranti/danzatori che accompagnano alcuni personaggi e dei quali dispongono: l’Oro, come detto; poi i giganti (anche perché dai trampoli faticherebbero a interagire con oggetti/persone che stanno due metri al di sotto…); e soprattutto Loge, che è sempre accompagnato (alle terga) da due figure che ne imitano gli spiritati gesti, quando il dio del fuoco espone i suoi pretenziosi e filosofici racconti e concetti.

Insomma, tante idee che forse mascherano l’assenza di un’idea! E dal secondo loggione alla fine sono piovuti sonori e reiterati buh al team registico (che non sto a nominare uno per uno)!

Per tutti gli altri, applausi più o meno convinti e qualche bravo! In tutto sì e no cinque minuti.

Quindi, che dire? Un inizio così-così (c’è l’attenuante Thielemann, daccordo…) 

27 ottobre, 2024

Das Rheingold inaugura un nuovo Ring alla Scala.

Siamo ormai alla vigilia di una nuova, lunghissima avventura scaligera in terra wagneriana: la produzione del Ring (affidata a David McVicar) che spazierà su ben tre stagioni, con la seguente agenda:

Ottobre 2024: Das Rheingold
Febbraio 2025 Die Walküre 
Giugno 2025: Siegfried
Febbraio 2026: Götterdämmerung 
Marzo 2026 (150 anni dalla prima di Bayreuth): due interi cicli del Ring.

L’impresa è purtroppo iniziata con un intoppo non da poco: Christian Thielemann, somma autorità in merito e originariamente ingaggiato per il podio per l’intera impresa, ha dovuto dare forfait – causa degenza ospedaliera e successiva riabilitazione - per il primo passo, il Rheingold (in scena da domani, 28 ottobre).  

Subito il Teatro si è attivato di conseguenza, ingaggiando per la Vigilia l'esperta Simone Young (prime tre recite) e Alexander Soddy (le altre tre).

Ma nel frattempo, abbastanza discutibilmente, Thielemann ha deciso di rinunciare all’intero percorso!

Così le prime due giornate del dramma nibelungico (2025) sono state appaltate – con identiche modalità - alla stessa coppia Young-Soddy, mentre ancora non si conosce il nome di chi salirà sul podio per le successive, fondamentali tappe dell’avventura. 

E pazienza… auguriamoci almeno che la Scala sia abbastanza seducente da poter adescare il mitico Cirillo!  
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Venerdi scorso, nel foyer Toscanini del teatro, si è tenuto un convegno introduttivo a questa nuova produzione, moderato da Raffaele Mellace, che ha indirizzato l’evento su due filoni di indagine: la presenza del Ring alla Scala e i problemi legati alla messinscena di questo cosmico dramma.

Dapprima ha preso la parola Maurizio Giani per commentare e giudicare alcune interpretazioni di Maestri che dal dopoguerra alla fine del ‘900 hanno diretto l’intera Tetralogia alla Scala: Furtwängler (1950), Cluytens (1963) e Muti (1994-6-7-8). La prova d’esame consistendo per tutti nella celebre Siegfrieds Trauermarsch, dalla quale è uscito di gran lunga vincitore il sommo Wilhelm.

Poi Marco Targa ha elencato e commentato gli allestimenti succedutitisi alla Scala dall’inizio del secolo scorso, da quelli che – per contratto – replicavano Bayreuth, ai successivi. Fra questi un certo rilievo ha tuttora quello ideato nel 1975 da Luca Ronconi, assai innovativo, che fu però limitato a Walküre e Siegfried, perché contestato dallo stesso Kapellmeister (Sawallisch).

Per trattare dei problemi di messinscena, Anna Maria Monteverdi ha illustrato e magnificato quella del Metropolitan di 14 anni fa, inventata da Robert Lepage. Con la scena occupata e animata da un autentico mostro tecnologico del peso di 45 tonnellate (battezzato The Machine) che muove montagne, fiumi, caverne, arcobaleni e rocche, insieme ai poveri interpreti che spesso vengono sostituiti da controfigure per evitare spiacevoli incidenti. Una cosa proprio all’americana (o canadese se si preferisce) che lascia a bocca aperta. Ed ha però (ma questo non è stato sottolineato…) un trascurabile difetto: è costata al MET 16 milioni di dollari!

E a proposito di messinscena, ecco arrivare David McVicar, incaricato di questa nuova produzione scaligera. Intervistato da Mellace, ha raccontato molte cose interessanti (insieme a qualche ovvietà) sul Ring e non ha per la verità detto molto sul suo allestimento, salvo che non vedremo corna vichinghe o foreste di cartapesta.

Quindi con interesse aspettiamo domani l’inizio di quest’avventura con Das Rheingold.

26 ottobre, 2024

Orchestra Sinfonica di Milano - 24-25.4

Ancora un programma dall’impaginazione tradizionale per il settimanale appuntamento in Auditorium, dove ha esordito sul podio Pablo González, assai noto in Spagna (Madrid, Barcellona in particolare) ed esperto (come laVerdi del resto) del repertorio romantico.  

Ha aperto la serata l’Ouverture Coriolan di Beethoven. Che trasse l’ispirazione per questo brano dalla vicenda, narrata in un dramma di Heinrich Joseph von Collin, di questo guerriero romano ribellatosi alla Città eterna e passato a guidare l’armata dei nemici Volsci con l’intenzione di fare una… marcia su Roma. Dissuaso dalla patriottica madre, se la cavò togliendosi la vita (mah).

La breve composizione distilla tutto in due temi musicali, adatti ad essere messi sinfonicamente in contrasto: uno maschio e duro (DO minore), l’altro implorante (la relativa MIb maggiore), cioè figlio e madre.

I diversamente giovani ricorderanno forse l’incipit del brano, impiegato lustri orsono per pubblicizzare un prodotto dello… spirito!

González, ben coadiuvato dall’Orchestra, ne ha messo in risalto proprio le due opposte facce, eroica e romantica, aggressiva e contemplativa. E il pubblico (ieri abbastanza folto)  non ha lesinato applausi.

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Ecco poi arrivare il cornista Martin Owen (prima parte dell’Orchestra BBC) per interpretare il Secondo concerto per corno di Richard Strauss. Concerto composto a Vienna nel 1942, a distanza di ben 60 anni dal primo!

Strauss aveva chiuso da pochissimo la sua produzione di opere, con Capriccio (Monaco, 28/10/1942) ed ebbe a dire che quella era stata l’ultima sua composizione impegnata: di lì in avanti avrebbe scritto musica solo per suo proprio diletto, nulla di degno di essere ricordato.

Beh, di musica da ricordare (e addirittura passata alla storia!) ne scrisse ancora parecchia (tanto per citare: Metamorphosen, Concerto per oboe, Vier letzte Lieder…) ma la prima sua composizione dopo Capriccio fu proprio questo Concerto, che già pare smentire la minimizzante confessione dell’Autore, pur non potendo certo considerarsi una pietra miliare nella storia della musica.

Ma che sia Strauss lo si sente da lontano, come ci conferma la presenza di motivi, atmosfere e stilemi che vengono dagli ottocenteschi Tondichtungen o da quel sommo capolavoro che risponde al nome di Rosenkavalier… Rimando all’Appendice una breve sinossi del brano.


Insomma, non proprio una cosuccia da niente, che Martin Owen ha mostrato di padroneggiare alla grande. In questo video (da 11’14” a 15’12”) ci parla (e suona…) proprio dei due concerti (ma poi anche del micidiale attacco del Till) di Strauss.

Ieri sera gli perdoneremo un paio di… acciaccature di troppo, ma la sua prestazione è stata davvero encomiabile. E così non ci ha fatto mancare, come bis, questo strabiliante pezzo di bravura! Dove dal corno escono suoni davvero impensabili...

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È ancora Strauss a chiudere la serata con il Poema sinfonico Tod und Verklärung del 1889. Una sinossi del quale ho proposto tempo addietro.

L’Orchestra era (stando alle statistiche) al terzo incontro con questo brano (il precedente nel 2014) ed ha risposto alla grande alle sollecitazioni di González, che da parte sua deve conoscere questa partitura come le sue tasche, se la dirige senza la… carta sotto gli occhi.

Mirabile la resa della colossale Verklärung che chiude il poema, riprendendo e sublimando il tema dell’Ideale già comparso, ma sempre rimasto incompiuto, nella prima parte (quella della vita terrena): splendida allegoria delle straordinarie capacità della musica di – appunto – trasfigurarsi!

Insomma, una bella serata di musica, buona per contrastare l’uggia indotta dalla pioggerella autunnale che cade su Milano. 

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Appendice.  

Dietro l’apparente struttura classica (Allegro – Andante con moto – Rondo) il lavoro presenta interessanti caratteristiche di innovazione, in specie nel primo movimento, che ignora lo scolastico impiego della forma-sonata in favore di un approccio che richiama una fantasia, in realtà un perenne sviluppo di alcune cellule tematiche esposte dal corno solista nelle primissime battute del Concerto e successivamente condivise dall’orchestra in un serrato dialogo con il corno. E poi diverse divagazioni tonali, dove si passa dal MIb a REb, poi SOL e SIb prima del ritorno a casa.

Il piglio brillante, a tratti virtuosistico (e pure scanzonato) dell’Allegro si spegne lentamente e una dolce modulazione (Tranquillo) alla sottodominante LAb introduce il sognante cullarsi del movimento centrale (Andante con moto, 6/8) di semplice struttura A-B-A’, il cui incipit nell’oboe non può non ricordarci il… Cavaliere.

Nella prima sezione sembra proprio che Strauss si voglia crogiolare nelle sue più facili melodie che si muovono su percorsi ancorati alla triade della tonalità di impianto.

Bizzarra forse la concatenazione tonale delle tre sezioni, che percorre un tritono (LAb-RE-LAb). Nella seconda sezione Strauss intende creare un certo contrasto con la prima, come conferma anche l’agogica (Più mosso) che caratterizza questo breve (16 battute) intermezzo.

Ne sono protagonisti gli archi, che intonano una melodia in RE maggiore con maggior tasso di cromatismo rispetto alla precedente, sulla quale il corno interviene con due perentori richiami che offuscano l’atmosfera, che poi si rasserena con il ritorno al LAb maggiore.

La terza sezione riprende nel corno solista la tranquilla melodia iniziale, ma qui contrappuntata negli archi da quella della seconda sezione, opportunamente trasposta nella tonalità della prima.

Il conclusivo Rondo (Allegro molto, 6/8 in MIb maggiore) si articola in 7 sezioni, quindi con struttura A-B-A’-C-A’’-D(B’)-A’’’ più una Coda. Come si nota, il ritornello A viene riesposto sempre variato e con riferimenti anche a incisi del movimento iniziale. La tonalità, dal MIb di impianto (sezioni A e B) passa a Sib maggiore nella sezione C e a LAb maggiore nella sezione D.

La sezione A impegna subito il solista nella presentazione del tema del ritornello, assai brillante e spigliato, imitato poi dagli archi. Dal MIb la tonalità si muove ripetutamente: a SOL minore, SIb, MI, SOL, RE minore per poi ritornare a casa.

Nella sezione B, che permane in MIb, il corno espone un nobile motivo, più disteso ma sempre sostenuto da veloci terzine dei primi violini che tengono viva l’atmosfera.

Il ritornello A’ vede il tema (soprattutto l’incipit, la cui cellula viene continuamente riproposta e sviluppata) relegato principalmente in orchestra, salvo brevi interventi del corno all’inizio, ed è seguito dalla complessa sezione C, in Sib maggiore, poi virando a SI e RE maggiore, prima del ritorno al MIb.

Essa è aperta da un nuovo tema nel corno e poi costruita su un lungo, vero e proprio sviluppo sinfonico, protagonista l’orchestra, raggiunta verso la fine dal solista che prepara la nuova apparizione (A’’) del ritornello.

Si arriva alla sezione D(B’) caratterizzata da una melodia in LAb del corno che forma un lungo arco ascendente-discendente, un vago richiamo al tema della sezione B. È la sola orchestra a concluderlo, preparando l’ultima ricorrenza del ritornello (A’’’).  

La Coda si apre sulla riproposta del tema della sezione C, poi tutti i motivi vengono sapientemente ricapitolati fino all’esilarante conclusione.


19 ottobre, 2024

Orchestra Sinfonica di Milano - 24-25.3

Tutta Italia nel settimanale appuntamento in Auditorium, con il programma ancora una volta tripartito. Sul podio avrebbe dovuto salire Giuseppe Grazioli, un autentico specialista della musica italiana del ‘900 (fra l’altro ha eseguito più volte e inciso con laVerdi molte musiche di Nino Rota) che ha dovuto dare forfait ed è quindi sostituito dal valente Andrea Oddone, che ha un rapporto di lunga data con l’Orchestra.

Purtroppo, l’Auditorium era assai scarsamente popolato… verrebbe da pensare che il nostro sovranismo non sia poi così granitico come si vuol far credere.  

Dei tre brani in programma (di Tommasini, Casella e Respighi) solo il terzo è già stato eseguito (in due precedenti occasioni, 2001 e 2010) dall’Orchestra, che invece affronta per la prima volta gli altri due. Tutti e tre si ispirano o evocano musiche di due autori del ‘700-‘800, Domenico Scarlatti e Gioachino Rossini; il primo e terzo furono composti specificamente per essere rappresentati come balletti dalla compagnia di Sergej Djagilev, ma anche il secondo, di Casella, fu sporadicamente messo in scena.

I tre lavori si differenziano anche per i diversi approcci seguiti dagli Autori rispetto all’impiego delle fonti originali (Scarlatti e Rossini). Si va da una rigorosa rigidità (Tommasini, dove ciascuno dei 23 numeri del balletto si riferisce ad una scena ispirata a Goldoni e ad una singola Sonata scarlattiana); ad un più libero approccio (Respighi, dove ognuna delle 8 sezioni principali del balletto accorpa – e rielabora - riferimenti a diversi brani rossiniani); e infine ad un ancor più complesso approccio, quello di Casella, il cui lavoro ha una struttura classicamente rigida, con 5 movimenti chiaramente individuati, ma dove ciascuno di essi è costruito con una libera rielaborazione di motivi (gli studiosi ne hanno individuati non meno di 88!) degli originali scarlattiani.

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Si apre quindi con Vincenzo Tommasini (1878-1950) e la sua Suite dal balletto Le donne di buon umore (da Goldoni). Balletto che vide la luce nel 1917 a Roma.

I numeri del balletto furono suggeriti dallo stesso Djagilev a partire dallo sterminato catalogo delle Sonate di Domenico Scarlatti, e orchestrati da Tommasini per il balletto; successivamente il compositore ne ricavò la Suite che raccoglie 6 dei 23 numeri del balletto (si veda la tabella in Appendice A.)

Per derivare la Suite, Tommasini ha evidentemente scelto i numeri del balletto che reputava più interessanti, avendo anche cura delle loro concatenazioni tonali: tutta la Suite ha come tonalità di impianto SOL maggiore (i primi due brani); poi seguono la dominante RE maggiore e la sua relativa SI minore; quindi si riparte da SIb maggiore, seguito dalla sua relativa SOL minore, che apre la strada al ritorno conclusivo del SOL maggiore (il che ha costretto l’Autore a trasporlo dal FA di Scarlatti…)

Per l’esecuzione in questo concerto il programma di sala invece riporta semplicemente il titolo Cinque sonate, con i soli riferimenti all’agogica: Presto, Allegro, Andante, Non presto, in tempo di ballo, Presto. In pratica sono i numeri della Suite ad esclusione dell’Ouverture e della Fuga che precede il finale.

In ogni caso si tratta di un brano assolutamente gradevole, che testimonia della qualità della scuola di musicisti italiani del primo ‘900. E che Oddone e l’Orchestra hanno ampiamente valorizzato!

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Valore che ovviamente va riconosciuto ad Alfredo Casella (1883-1947) di cui si è eseguito ScarlattianaDivertimento su musiche di Domenico Scarlatti per pianoforte e piccola orchestra op. 44.

Il brano si articola in 5 numeri, così intitolati:

1.   Sinfonia: Lento, grave - Allegro molto vivace

2.   Minuetto: Allegretto ben moderato e grazioso

3.   Capriccio: Allegro vivacissimo ed impetuoso

4.   Pastorale: Andantino dolcemente mosso

5.   Finale: Lento molto e grave - Presto vivacissimo

Come detto, Casella non trasferisce puntualmente i contenuti scarlattiani nella sua opera, ma ci si ispira assai liberamente. Nell’insieme il brano mostra un notevole grado di originalità ed è questo che lo rende da sempre (con la successiva Paganiniana) uno dei più famosi ed eseguiti del compositore torinese.

Ad interpretarlo alla tastiera è arrivata la giovane (27enne) pianista Martina Consonni, che ha affrontato la sua parte non certo massacrante (a dispetto della fama di gran solista dell’Autore, è basata su un continuo alternarsi di interventi del pianoforte nel tessuto orchestrale e non indulge mai a mirabolanti virtuosismi) con grande (proprio scarlattiana!) leggerezza.

Risultato: convinti e reiterati applausi per lei che ci ricambia con questo sognante (/corrucciato) Mendelssohn.

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La serata si è chiusa con Ottorino Respighi (1879-1936) e la Suite dalle musiche del balletto La Boutique fantasque, costruite a partire da brani tratti dai Péchés de vieillesse e dalle Soirées musicales, che Rossini compose (per il pianoforte e la voce) negli anni successivi all’abbandono della produzione operistica (si veda la tabella in Appendice B.)

Il balletto ha una trama lontanamente parente di Coppelia di Delibes, essendo ambientato in un negozio di bambole e giocattoli che si animano: una storia a lieto fine di bambola-e-bambolotto (ballerini di can-can) innamorati e poi separati dal negoziante che intende venderli disgiunti, infine riuniti dal provvidenziale e solidale intervento degli altri consimili giocattoli.

Come già osservato per Tommasini, anche Respighi impiega i motivi rossiniani con sostanziale fedeltà all’originale, limitandosi a qualche taglio o integrazione. In compenso, matte in campo tutta la propria capacità inventiva e la sua proverbiale maestria di orchestratore.

Tornando alla Suite, in sostanza in essa si eseguono i numeri che fanno da radice alle otto macro-sezioni del balletto.

Oddone si è fatto apprezzare in tutta la serata per la compostezza e sobrietà del gesto, coniugata con la cura nell’interpretazione di agogiche e dinamiche. L’Orchestra lo ha assecondato da par suo, e così la serata si è chiusa in gloria. I tanti assenti forse non sanno ciò che si son persi… ma hanno tempo domani pomeriggio per rimediare!

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Appendice A.

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Appendice B.