La
Petite Messe Solennelle è quindi tornata, dopo un’eternità, al
Piermarini con la sua veste più ricca, quella che Rossini le regalò sotto forma
di orchestrazione, completata negli ultimi anni di vita e che purtroppo il
Maestro non ebbe nemmeno il piacere di ascoltare.
A proposito di strumentazione, Rossini ne aveva riduttivamente parlato come di un’aggiunta, alle 12 voci e alle tre tastiere della versione primigenia, di un modesto pacchetto di archi e di qualche fiato, proprio per dare all’opera quel minimo di robustezza, necessaria ad affrontare esecuzioni in… campo aperto. La partitura in realtà è quella tipica di un complesso non inferiore a quelli impiegati da Rossini, per dire, nel teatro musicale.
Da
qui però i vessilliferi delle grandiosità romantiche (e poi tardo-) hanno preso
lo spunto per… esagerare, impiegando organici strumentali e corali e approcci
esecutivi enfatici e retorici, che Rossini non aveva mai perso l’occasione di
criticare nelle produzioni musicali moderne (ai suoi tempi). E così
ancor oggi la Petite messe rossiniana viene spesso eseguita neanche
fosse la Grande symphonie funèbre et triomphale di Berlioz…
Ecco,
questa interpretazione di Gatti forse non è stata così… esagerata,
tuttavia si è mossa nel solco di questo tradizionale approccio piuttosto romantico:
diciamo che forse non era proprio Berlioz, ma magari il Brahms del Requiem…
Ora però – anche per spiegare l’aggettivo che ho usato nel titolo del post - va detto qualcosa relativamente a quello che si potrebbe definire – con una battuta fin troppo… equivoca – la funzione dell’organo (!?!)
Ecco: Rossini prescrive lo strumento a canne nella partitura orchestrale con un duplice compito: il primo è accessorio – e come tale quasi sempre ignorato nelle moderne esecuzioni – perché di puro riempitivo (nella versione cameristica è riservato al pianoforte-2); il secondo invece è obbligato perché lo strumento è solista nel Preludio religioso (nella versione cameristica affidato al pianoforte-1).
Gatti
si misurò per la prima volta con la versione orchestrata della Messe al ROF
del 1999 e vi impiegò necessariamente l’organo (qui a 54’25” l’introduzione
dei fiati al Preludio e a 55’29” l’attacco dell’organo). Poi però il
compianto Alberto Zedda produsse la sua (discutibile) orchestrazione del
brano, che porterà in giro per il mondo (Russia, Spagna) e presenterà al ROF
nel 2014; la quale di fatto esclude tout-court l’impiego dell’organo, affidando
all’orchestra l’intera parte, che comprende il corpo, un ritornello e la
ripetizione del ritornello dopo che i fiati hanno ripetuto l’introduzione. E
così Gatti, nel 2013 con la sua ONF a Vienna (dove pure disponeva, al
Musikverein, di una selva di canne di prim’ordine) fece eseguire il Preludio zeddiano
all’orchestra (qui a 1h00’22”
l’introduzione e a 1h01’33” l’attacco del clarinetto basso).
Orbene, come si è regolato il Direttore per questa esecuzione scaligera?
Ha
inventato una nuova soluzione! Intanto ha tenuto in orchestra l’organo come
riempitivo, rispettando fin troppo alla lettera Rossini, dato che con quel po’
po’ di orchestra e coro di riempitivo ulteriore si può fare anche a meno… Ma
poi, al momento del Preludio, che ti fa? Fa suonare (come a Vienna 2013)
quello orchestrato da Zedda! Ma con una sottile variante: il ritornello finale
(9 battute) invece che all’orchestra come prevede Zedda, lo fa suonare all’organo,
quasi a volergli dare un contentino!
Insomma, una scelta francamente assurda e persino offensiva: oltre che nei confronti dell’organista, anche in quelli di Zedda (che oggi non può nemmeno far valere il suo copyright) ma anche nei confronti del pubblico e persino di… Rossini! Sì, perché dell’impiego del lavoro di Zedda nulla viene scritto: locandina, sito web, programma di sala, rivista del teatro… mai viene citata questa scelta! [Almeno nel 2013, forse perché Zedda era ancora vivo e vegeto, il pubblico era informato di quella scelta, come dimostra anche la sovrimpressione nel citato video di ARTE all’attacco del Preludio.]
Un’altra tipica (pur se stucchevole) domanda riguarda il… carico di lavoro dei quattro solisti SATB: Rossini, nella versione cameristica, prescrive che cantino, oltre alle proprie parti solistiche, anche quelle delle otto voci del coro. Meno chiara e inoppugnabile è invece la medesima prescrizione apposta sulla partitura della versione orchestrata, e nel dubbio ormai tutti i solisti si risparmiano questo lavoro straordinario e anche poco… appariscente, visto che le loro voci rischiano facilmente di annegare nel fracasso di quelle dei pletorici cori oggi impiegati. E così è stato immancabilmente anche questa volta, ma qui senza che nessuno abbia troppo a che ridire.
Mariangela Sicilia ha ormai una consolidata esperienza in quest’opera: mirabile ed emozionante soprattutto è stato il suo O salutaris hostia, che invoca l’aiuto divino, mai così necessario come in questi tempi di guerre dilaganti… Ma eccellente anche il Crucifixus, come il Qui tollis con la Vasilisa Berzhanskaya, che da parte sua ha chiuso in bellezza con un accorato ed emozionante Agnus Dei.
Yijie Shi ha messo in mostra la sua bella voce squillante, distinguendosi con piglio marziale nel Domine Deus e dando un valido contributo al Gratias, con Berzhanskaya e Michele Pertusi. Il quale che ha posto tutta l’autorevolezza del suo canto al servizio del lungo e nobile Quoniam.
Insieme ai quattro solisti, come non restare ammirati dal superbo Coro di Alberto Malazzi, sempre impeccabile e poi addirittura strepitoso nelle entusiasmanti fughe del Cum Sancto Spiritu e del Resurrexit.
Tuttavia è meglio non fare gli schizzinosi e rendere doverosamente merito, come ha fatto con calore ed entusiasmo il pubblico di un Piermarini letteralmente in stato d’assedio, a tutti coloro che a qualunque titolo hanno reso possibile e godibile questa serata pre-natalizia.