Per
un wagnerite che si rispetti è quasi un dovere ineludibile leggere
l’immenso tomo (900 pagine, escluse note varie!) del grande Alex Ross. Così mi son
messo di buzzo buono all’impresa, in attesa di tornare all’attualità con la
ripresa delle stagioni musicali (la Scala e laVerdi, in particolare).
Il
testo è articolato in 15 macro-capitoli (quasi delle monografie, verosimilmente
rielaborazioni di articoli scritti negli anni da Ross per il NewYorker,
il che comporta qualche problema – vedi ripetizioni - riguardo l’organicità del
contenuto) più un Preludio e un Postludio. Come suggerisce il
titolo, non solo e non tanto si tratta di Wagner come fanno la maggior parte
dei lavori che ormai da un secolo e mezzo si sono occupati del fenomeno più
straordinario che ha caratterizzato lo sviluppo della nostra civiltà musicale
(certo, troviamo dispersi nel libro riferimenti biografici e commenti o esegesi
di opere e drammi) ma si esplorano alcune delle principali problematiche
sollevate dalla figura del compositore e i riflessi che le sue opere (ma
anche i suoi scritti filosofici) hanno
avuto sulla nostra società, e non solamente nell’ambito strettamente artistico.
Preludio. La morte a
Venezia.
Contiene
una minuziosa raccolta delle più svariate reazioni seguite nel mondo alla
notizia della scomparsa del tanto famoso e idolatrato quanto contestato
compositore.
1. Rheingold. Wagner, Nietzsche e il Ring.
Sommaria
esegesi del Ring, delle sue implicazioni filosofiche (Feuerbach > Schopenhauer)
e del processo che portò alla costruzione del Festspielhaus a Bayreuth; intersecata
con una dettagliata analisi degli sviluppi del rapporto fra il filosofo-discepolo
e il musicista: dall’adorazione/adesione alla conflittualità/distacco (e
riconciliazione post-mortem?)
2. L’accordo del Tristan. Baudelaire e i simbolisti.
A
dispetto del titolo, ma coerentemente con il sottotitolo, il capitolo tratta
diffusamente dei rapporti di amore-odio tra Wagner e la cultura francese in
generale. A partire dal piano musicale, ovviamente, con ampi squarci sulla
disastrosa esperienza del Tannhäuser (1861). Baudelaire vi ha un posto
privilegiato, così come Mallarmé, ma largo spazio è dedicato al
semi-sconosciuto Jean-Marie-Mathias-Philippe-Auguste, Comte de Villiers de
l’Isle-Adam (!) E poi ai veri e propri pellegrinaggi, prima a Tribschen e
poi a Bayreuth, di letterati francesi letteralmente fradici (Stabreim!)
di wagnerismo! Ma un posto di rilievo occupa poi la pittura francese, in
specie l’impressionismo: Cézanne, Monet, Gauguin, Manet,
ma anche il parigino-di-passaggio VanGogh! Infine, la Révue
wagnérienne e il simbolismo.
3. Il cavaliere del cigno. L’Inghilterra vittoriana e
l’America della Gilded Age.
Dopo
la Francia, che per Wagner ebbe amore (di pochi intellettuali) e odio
dall’establishment, ecco l’Inghilterra, terreno di conquista di Wagner,
gratificato nientemeno che da incontri del compositore con la Regina Vittoria.
Pretesto per il titolo del capitolo è la cosiddetta Marcia nuziale dal Lohengrin,
che divenne ben presto lo standard da suonare ai matrimoni reali britannici e
poi anche a quelli (persino in America) di gente pretenziosa o altolocata. Ampio
spazio viene dato ai rapporti fra la scrittrice George Eliot e il mondo
dell’estetica wagneriana, vicina per certi aspetti a quella dei preraffaelliti
d’Oltremanica. E dotte divagazioni riguardano lo scrittore-poeta Algernon
Charles Swinburne, che modellò su Tannhäuser la sua (scandalosa) Laus
Veneris; e William Morris, studioso dei miti norreni e quindi vicino
al mondo del Ring, avendo scritto un poema epico su Sigurd(=Siegfried); e
infine Matthew Arnold, autore di un poema su Tristano e Isotta. Da
buon americano ben informato, Alex Ross si dilunga infine in una corposa
analisi dell’esplosione del wagnerismo negli USA. Esplosione spiegabile con
ragioni di business (ça va sans dire) oltre che di gusto e di
propensione yankee per l’avventura, la grandiosità, il liberismo
sfrenato e selvaggio (Siegfried!) E i vaneggiamenti di Wagner su un suo
possibile trasferimento in USA (Minnesota, considerato alla stregua di un Eden!)
non facevano che alimentare l’interesse per le opere del genio di Lipsia. La
parte finale del capitolo è dedicata alla Gilded Age (l’Età dell’oro,
gli ultimi 30 anni dell’800) e ad autori come Mark Twain, piuttosto
sarcastici sull’idolatria per Wagner, ma alla fine conquistati dalla sua
musica.
4. Il Tempio del Graal. Il Wagner esoterico, decadente,
satanico.
Questo
capitolo, dopo una sommaria esegesi dell’ultimo dramma wagneriano che ne mette
in evidenza i (supposti) aspetti di natura esoterica, è dedicato all’influenza
che esso (Parsifal, ma non solo… vedi Tristan) ebbe sull’ambiente
artistico fra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo. Ross premette che tale
influenza fu determinata fondamentalmente dal diffondersi – a dispetto delle
intenzioni di Wagner ed equivocando sull’interesse di quest’ultimo per
filosofie e tradizioni orientali - della gratuita e banalizzante definizione di
Parsifal come di una messa nera. È questa fasulla definizione che ha
portato artisti di diversi orientamenti ad impiegare Parsifal (e Tristan) come
materia prima nelle loro opere imbevute di esoterismo, spiritismo. occultismo,
satanismo, etc. Seguono alcuni esempi, presentati sempre con gran dovizia di
particolari. Altre due sezioni del capitolo sono riservate ai rapporti fra (le
opere di) Wagner e la teosofia, e all’influenza di Wagner sugli
irlandesi, difensori delle tradizioni celtiche, che individuavano nel
Tristan.
5. Sacra arte tedesca. Il Kaiserreich e la Vienna fin
de siècle.
La
premessa del capitolo è – ovviamente – una concisa esegesi dei Meistersinger
e degli effetti perversi (pur se indesiderati?) che lo sciovinista appello
finale di Sachs ebbe molto più tardi sull’ambiente proto-nazista e sullo
stesso Hitler. Si passa poi ad esaminare la complessa relazione fra Wagner e Re
Ludwig di Baviera, relazione funzionale ad entrambi: al giovanissimo Re il
mondo mito-fiabesco che alimentava le sue fantasie; a Wagner… illimitate
risorse finanziarie! Ma non scevra da reciproche diffidenze ed incomprensioni:
Wagner giudicava assurdo il progetto della costruzione di Neuschwanstein,
il Re altrettanto pensava delle idee antisemite del compositore. Si passa poi
ad esaminare gli effetti delle opere di Wagner nel periodo imperiale
guglielmino (il Kaiserreich): effetti multiformi, che andavano dall’uso
spregiudicato dell’arte wagneriana da parte dell’establishment, ai
coloriti sbeffeggiamenti di buona parte degli intellettuali, come lo scrittore
e romanziere Theodor Fontane. Seguono due sezioni del capitolo, dedicate
all’ambiente di Monaco di Baviera, in prevalenza recalcitrante nei confronti di
Wagner, e a quello di Vienna, dove invece Wagner acquistò ulteriore prestigio
grazie anche alle innovazioni degli artisti della Secessione e di pittori-scenografi
come Alfred Roller, oltre che di adepti musicisti, primo fra tutti Mahler.
Si passa ora all’Italia, in una sezione tutta incentrata su D’Annunzio e
sulle sue opere infarcite di riferimenti wagneriani (Tristan, soprattutto). Il
capitolo non poteva chiudersi se non nel nome Mann: dei due fratelli, Heinrich
e il minore Thomas. E di Thomas ovviamente viene analizzato il Buddenbrook,
un vero e proprio Ring rivisitato, poi arricchito da riferimenti a
Meistersinger, Tristan, Tannhäuser… ma anche lavori successivi, carichi di
tematiche mutuate da Wagner.
6. Nibelheim. Il Wagner ebreo e nero.
È
il capitolo che tratta del nodo più controverso riguardante Wagner:
l’antisemitismo. Dopo un flash iniziale (ripreso alla fine) in un ambito
assai familiare a Ross (il problema razziale americano) si comincia ad entrare
nel vivo con i riferimenti alle due versioni del famigerato libello Das
Judenthum in der Musik, un autentico manifesto antisemita di Wagner. Che
nella versione definitiva (1869) addirittura sembra prefigurare (o meglio: non
escludere a priori) una soluzione violenta della reazione popolare alla
progressiva giudaizzazione de mondo germanico. Seguono riferimenti ai
personaggi di opere di Wagner che furono (e sono) comunemente descritti come
rappresentanti (da esecrare!) dello stereotipo dell’ebreo: i Nibelunghi,
Beckmesser, Kundry (ma non Klingsor…?) Segue una sezione che ricorda Houston
Stewart Chamberlain, antisemita eterodosso che riuscì ad entrare nel cerchio
magico di Bayreuth sposando Eva - figlia del Maestro e di Cosima - ed
assumendo poi un ruolo centrale nel supporto alla soluzione finale per
gli ebrei. Poi Ross ricorda come tanti ebrei diventarono invece estimatori di
Wagner: a partire da Hermann Levi, scelto per dirigere nientemeno che la
prima di Parsifal. E poi Theodor Herzl, uno dei padri del sionismo,
che ebbe un ruolo decisivo nella prefigurazione dello Stato ebraico e
che fu un grande estimatore di Wagner, soprattutto della figura di Tannhäuser.
[Ndr: i detrattori di Wagner che ancor oggi ne vietano la musica in
Israele evidentemente fingono di dimenticare queste ascendenze.] Il capitolo si
chiude con alcuni interessanti riferimenti al wagnerismo afro-americano (l’influenza
di Wagner su artisti – cantanti e scrittori - di colore).
7. Venusberg. Il Wagner femminista e gay.
Dopo
un’introduzione che ricorda gli esperimenti e gli studi psicologici sugli
effetti della musica di Wagner sulla sfera erotica, Ross si occupa dei rapporti
del compositore con il sesso debole. Nei drammi wagneriani troviamo Brünnhilde
e Isolde (fiere ed emancipate) e Ortrud (più strega che donna) e per il resto
(Senta, Elsa, Elisabeth, Kundry) femmine in qualche modo relegate al ruolo
passivo (fino alla morte…) di strumenti di salvezza per l’uomo. Ross
analizza poi i riflessi che i ruoli delle donne wagneriane hanno avuto
sull’arte (narrativa e figurativa) a cavallo del secolo e persino la spinta
all’emancipazione indotta nelle interpreti di quei personaggi. Il capitolo
tratta poi copiosamente anche delle fissazioni del compositore per vesti e
tendaggi di seta e biancheria intima… ehm… equivoca e delle supposte tendenze
androgine e misogine di Wagner; e persino [Ndr: qui Ross deve avere
anche un personale interesse…] di quagli aspetti che vennero raccolti e
sfruttati dai movimenti gay. E qui, ancora, ecco i riferimenti a Thomas
Mann e in particolare a Morte a Venezia. Il capitolo chiude con lunghe
considerazioni sulle capacità di psicanalisi di Wagner, che anticiparono
di mezzo secolo almeno gli studi e i lavori di Freud&C.
8. La
roccia di Brünnhilde.
Willa Cather e il romanzo della diva.
Questo
lungo capitolo è decisamente difficile da digerire e metabolizzare per
noi, data la sua totale ambientazione americana. Cionondimeno ci fornisce un
quadro quasi insospettabile, per noi europei, di quanto Wagner avesse già ai
suoi tempi penetrato il mercato yankee. La scrittrice Willa Cather
(1873, Virginia, poi trasferita in Nebraska, quindi in Pennsylvania e infine a
NYC) divenne famosa per il suo romanzo (1915) intitolato Canto dell’allodola,
di cui è protagonista una giovane cantante wagneriana, che si appresta ad
interpretare il ruolo di Fricka. Ciò dà lo spunto a Ross per una
sommaria esegesi della Walküre (second’atto in particolare).
Interessante la chiusa del capitolo, dove Ross cita un altro romanzo della
Cather (La casa del professore) che fa esplicito – e assolutamente
wagneriano - riferimento al ruolo di Religione e Arte come strumenti di
elevazione spirituale per l’Uomo.
9. Fuoco
magico.
Modernismo, 1900-1914.
Altro
capitolo assai ostico, che prende spunto dallo spezzarsi del filo del destino
nel Prologo di Götterdämmerung per paragonarlo ai movimenti
artistici che nei primi 20 anni del XX secolo costituirono l’ondata modernista,
che rompeva con la tradizione romantica (quindi paradossalmente anche con…
Wagner, del quale si strumentalizzava soprattutto la famosa esortazione Kinder!
macht Neues!) anche sotto la spinta delle innovazioni tecnologiche che
mettevano a disposizione dell’artista nuovi strumenti espressivi e nuovi canali
di divulgazione di massa del suo prodotto artistico. Wagner rimase tuttavia ben
presente sulle scene, ad esempio contribuendo con la sua musica ad alimentare
nuove forme di spettacolo (di danza, soprattutto) e allo stesso tempo ricevendo
da queste nuove forme contributi per la rappresentazione dei suoi drammi
(Isadora Duncan, dopo aver offerto spettacoli di danza su musiche di Wagner fu
chiamata a Bayreuth per le coreografie di Tannhäuser). Il teatro di Wagner fu
pesantemente toccato dal modernismo, tanto che la figura del Regisseur
cominciò ad acquistare importanza crescente, grazie anche all’impiego di nuove
tecnologie, soprattutto della luce, come teorizzò e praticò, facendo scuola, Adolphe
Appia. Parimenti influenzata da Wagner (dalla sua concezione dell’Arte come
strumento di elevazione spirituale) fu la pittura di quegli anni, di cui
Kandinski fu esponente di spicco. Ross passa poi a trattare l’influenza
wagneriana sulla letteratura modernista anglo-americana, dilungandosi in
particolare sulle figure di Joseph Conrad, Ford Madox Ford, David
Herbert Lawrence ed E.M.Forster, tutti in qualche modo debitori
(magari senza esserne adepti) dei drammi di Wagner. Non manca una sezione
dedicata alle scrittrici-femmine, e qui è Virginia Woolf ad occupare il
centro della scena. Il capitolo si chiude con un doveroso e significativo
omaggio a Marcel Proust.
10. Notung. La prima guerra mondiale e il
giovane Hitler.
Il
capitolo si apre con il Capodanno 1914, alle ore 00:00:00 del quale scadevano i
diritti sulle opere di Wagner e sull’esclusiva di Bayreuth per Parsifal. Al Gran
Liceu di Barcellona il dramma sacro fu programmato per le ore 23:00
(corrispondenti alla mezzanotte in Germania) ma effettivamente iniziò alle
22:30, in modo tale che attorno alla mezzanotte (di Barcellona) suonassero le
campane che accolgono Gurnemanz e il puro folle nel tempio del Gral! La
predilezione dei catalani per Parsifal ovviamente derivava dalla convinzione
che Monsalvat sia in realtà Montserrat, sulle montagne sopra Barcellona. In
quel 1914 nacquero i primi dissapori nella famiglia Wagner, con l’allontanamento
di Isolde: il Festival programmò solo due recite di Parsifal [più due Holländer
e un ciclo del Ring, ndr] dopodichè chiuse i battenti per esattamente
dieci anni. Ross tratta ora dell’atteggiamento delle opinioni pubbliche
riguardo alla guerra (e riguardo a Wagner): in Germania e nel mondo tedesco ai supporter
del conflitto non parve vero di poter usare termini wagneriani per
descrivere la missione della virtuosa e religiosa Germania contro le depravate
e secolari nazioni nemiche. Ciò spiega l’uso di nomi wagneriani per definire
azioni belliche, linee del fronte o armi letali. Altrove, come in Francia e in
Italia, non si esitò a boicottare Wagner, ritenuto l’ispiratore del militarismo
e del bellicismo tedesco. In USA si passò da una debole difesa dell’artista
Wagner ad una messa al bando di tutto (e tutti) ciò che sapeva di germanico. In
altri casi, come la Gran Bretagna, gli intellettuali furono meno drastici, anzi
riconoscendo che opere wagneriane, come il Ring, in effetti prefiguravano l’ascesa
e la caduta del Reich, come quella di Wotan&C. Ross ricorda anche
personaggi del mondo dell’arte che continuarono a ispirarsi a Wagner durante e
dopo il conflitto, come il volante D’Annunzio e come Proust. Una sezione
del capitolo è riservata al movimento futurista e dadaista: vi spicca anche Filippo
Tommaso Marinetti, wagneriano fino all’osso e poi divenuto uno dei più
feroci critici dei drammi del Maestro, primo fra tutti il Parsifal; insieme a
futuristi che invece continuarono a inneggiare a Wagner. Il capitolo si chiude,
insieme alla guerra, con riferimenti wagneriani (Siegfried) alla pugnalata
alla schiena (in sostanza, tradimenti) che avrebbe inopinatamente determinato
la sconfitta del Reich. Peccato che il traditore (Hagen) avesse poco prima
dato il suo nome proprio all’operazione militare che avrebbe dovuto celebrare
la vittoria di Siegfried! Il vittimismo legato al sospetto della pugnalata
diventerà il motore del nazismo, e quindi ecco apparire sulla scena Adolf
Hitler, del quale vengono ricordati i primi incontri con i drammi wagneriani
ed anche leggende metropolitane fiorite attorno ad essi.
11. L’anello
del potere.
Russia e Rivoluzione.
L’apertura
del capitolo tratta dei rapporti fra il wagnerismo e il marxismo, rapporti
assai multiformi, quante furono le interpretazioni politiche delle opere di
Wagner e le sfaccettature del movimento socialista. Un’attenzione specifica è
riservata ad uno dei più famosi e controversi socialisti-wagneriani: George
Bernard Shaw e alla sua interpretazione del Ring in chiave squisitamente
anti-capitalista. Successivamente Ross passa ad occuparsi della ricezione di
Wagner nella Russia pre-rivoluzionaria. Dopo aver trattato della scarsa
considerazione per Wagner di importanti letterati russi (Dostoevski e Tolstoi,
in particolare) Ross rievoca i successi parigini di Sergej Djagilev e
dei suoi Ballet russes, che si proponevano dio realizzare ciò che Wagner
aveva prefigurato nell’opera: un sostanziale Gesamtkunstwerk, unione
armoniosa di musica, danza e pittura. E i tre protagonisti della produzione del
Sacre erano tutti in qualche modo debitori a Wagner: Stravinski
per la musica, il danzatore Nijimsky per aver danzato nel Venusberg del Tannhäuser
e lo scenografo-pittore Roerinch che ammirava tanto Wagner da aver
disegnato – per suo piacere privato – bozzetti della Walküre e poi quelli per
un Tristan. Dopo aver ricordato i legami dei simbolisti russi con il mondo
wagneriano, Ross esamina il trattamento riservato a Wagner dai bolscevichi all’indomani
della Rivoluzione. Trattamento positivamente condizionato dalla pace separata
di Brest-Litovsk, alla quale seguirono numerose rappresentazioni wagneriane a Mosca
e Pietrogrado. Naturalmente erano i tratti rivoluzionari di Wagner (drammi e
anche scritti filosofici) che vennero fatti propri dal regime per proletarizzare
la cultura. Uno spazio importante è riservato alla figura di Vseviolod Mejerchol’d,
il regista che aveva introdotto grandi innovazioni nella produzione teatrale
(storico un suo Tristan del 1909) e al quale purtroppo il regime bolscevico,
dopo la prima parentesi di apertura alla creatività seguita alla
rivoluzione, tarpò le ali reintroducendo rigide regole dall’alto. E anche
Wagner ne fece le spese, praticamente messo al bando fino alla morte di Stalin,
con la breve parentesi (‘39-‘41) del Patto di non aggressione URSS-Germania.
Il capitolo si chiude tornando appunto in Germania, al periodo di Weimar. Dove
Wagner rimase in uno stato di sospensione, fra detrattori e ammiratori
trasversalmente dislocati a destra e sinistra. Fra gli altri personaggi citati
da Ross, troviamo i due mariti della vedova di Mahler: l’architetto Walter
Gropius, fautore della wagneriana unione delle arti in architettura; e lo
scrittore Franz Werfel, che svaluta Wagner a favore del rivale
italiano Verdi. Non mancano infine riferimenti a Bertold Brecht e Ernest
Bloch, che ebbero rapporti altalenanti con l’eredità di Wagner.
12. L’Olandese
volante.
Ulisse, La terra desolata, Le onde.
Altro
capitolo assai impegnativo per chi legge, poiché Ross, occupandosi di tre letterati
(del mondo anglo-americano) e di loro rispettive opere, si dilunga in citazioni
e riferimenti quasi enciclopedici, che a volte finiscono per far perdere il
filo del discorso e l’essenza stessa delle argomentazioni presentate. In
sostanza, si tratta sempre dell’influenza (diretta o spesso indiretta e
mediata) del pensiero e dei testi wagneriani su opere letterarie, qui di James
Joyce, Thomas Stearns Eliot e Virginia Woolf. Dell’irlandese
errante Joyce viene commentato Ulisse, il romanzo che ha chiari
riferimenti nel mitologico Odisseo e nell’Ebreo errante, entrambi
indicati esplicitamente da Wagner come ispiratori del Fliegende Holländer.
Il romanzo ha due protagonisti, Stephen e Bloom, che schematicamente
rappresentano il contro e il pro rispetto a Wagner, quindi la
parallela attrazione-repulsione dell’autore di fronte all’illustre modello.
Dell’americano Eliot (che non nascose le sue convinzioni antisemite) trapiantato
in Europa si analizza La terra desolata, vagamente ispirata dal Tristan ma
anche da Parsifal. Le onde di Virginia Woolf presenta chiari riflessi
wagneriani, a partire dall’apertura che richiama scopertamente Rheingold, per
poi proporre una chiusura parsifaliana. Ma è ancora Joyce a chiudere il
capitolo con il wagneriano (Tristan e Ring soprattutto) Finnegans Wake.
13. La
morte di Siegfried.
La Germania nazista e Thomas Mann.
La
figura di Mann appare in questo capitolo a più riprese e nelle sue diverse
sfaccettature riguardo la politica e il giudizio sul rapporto Wagner-Hitler: negli
anni 15-18 Mann sostenne apertamente la guerra, tifando ovviamente per la Germania;
poi, con La montagna incantata, tornò a prefigurare una società
tollerante e basata sull’amore. Ebbe la presunzione di poter impedire la
strumentalizzazione nazista del Maestro da parte del futuro Führer (anni 20);
quindi arrivò la presa d’atto che era meglio starsene lontano da quel tipaccio
(traslocando in USA, per dire, anni 30); e infine tentando di recuperare la
reputazione di Wagner (anni 40) distrutta dal suddetto Hitler e dai suoi
epigoni. Buona parte del capitolo è ovviamente riservata ai rapporti di
Bayreuth con il nazismo (e con Hitler): l’arrivo di Winifred Williams (accanita
sostenitrice del nazismo e di Hitler personalmente) e il suo matrimonio con
Siegfried Wagner favorirono la progressiva deriva del Festival verso un sempre
più chiaro fiancheggiamento del regime. Contemporaneamente l’apparato nazista (del
quale facevano parte wagneriani incalliti) impiegava sempre di più la mitologia
wagneriana per esaltare il ruolo e la missione storica della Germania. Si
diffondevano discutibili e gratuite teorie che stabilivano la diretta influenza
delle idee di Wagner (antisemitismo incluso) su Hitler, sfruttando l’enorme
popolarità ed autorevolezza del sommo artista per portare acqua al mulino
nazista. Siegfried Wagner cercò blandamente di correggere l’immagine razzista
che stava acquisendo Bayreuth, con l’appello (che verrà ripreso dai figli nel
1951) Qui si fa solo arte. Hitler visitò Bayreuth per la prima volta nel
1923, subito prima del tentato Putsch della birreria; vi ritornò nel 1925, dopo
la prigionia durante la quale i pezzi grossi del Festival (Chamberlain, Winifred…)
gli diedero continuo supporto materiale e morale. Si fece amico di Wieland
e Wolfgang, nipoti di Wagner e futuri direttori del Festival dal 1951,
che lo chiamavano amichevolmente zio Wolfe (zio lupo!) Nel 1933 tornò da
capo del governo! La protezione di Hitler portò a Bayreuth vantaggi e
svantaggi: l’indipendenza artistica dalle idee dei gerarchi nazisti più
reazionari; ma anche difficoltà finanziarie, legate alla progressiva
evaporazione di gran parte del pubblico. In compenso Wagner divenne lo standard
ai raduni del Partito a Norimberga, dove regolarmente veniva rappresentato Die
Meistersinger, vero e proprio monumento musicale del nazismo. Ross ritorna
ancora su Thomas Mann per trattare di Giuseppe e i suoi fratelli, una
vera e propria tetralogia basata non sui miti ma sulla Bibbia; e infine sul Doktor
Faustus, che Ross così battezza: un’allegoria della crisi spirituale
della Germania. L’ultima sezione del capitolo elenca due diversi
trattamenti riservati a Wagner prima e dopo la Seconda guerra mondiale: a
differenza di quanto era avvenuto nel 14-18 la cultura tedesca (e Wagner in
particolare) non venne demonizzata: Ross cita ad esempio Toscanini che rifiutò
di dirigere a Bayreuth ma portò Wagner in giro per il mondo e persino fra gli
ebrei di Palestina! Dall’altra parte, nacque una corrente di pensiero ancor
oggi viva e vegeta che invertiva il nesso causa-effetto fra Wagner e il
nazismo: Wagner era diventato la causa e il nazismo l’effetto! Il
capitolo si chiude con una miscellanea di notizie su Wagner e i campi di sterminio
e l’Olocausto.
14. La
Cavalcata delle Valchirie.
Il cinema, da Nascita di una nuova nazione ad Apocalypse Now.
Pensando
ai rapporti fra la musica e il cinematografo ai tempi dello sviluppo di
quest’ultimo, viene sempre alla mente il classico pianista (da strapazzo o… Shostakovich!)
che solo soletto strimpella motivi più o meno pertinenti con le immagini
proiettate sullo schermo. Ross invece ci ricorda che già nel 1915 a LosAngeles
il film muto americano Nascita di una nuova nazione (smaccatamente
pro-confederati) veniva accompagnato da vere e proprie orchestre sinfoniche, di
40-50 elementi! E va da sé che molte colonne sonore, a partire da quella,
saccheggiarono anche la musica sinfonica per supportare le più svariate
situazioni. E ovviamente Wagner era una fonte inesauribile di materia prima da
utilizzare all’uopo: nel citato film, Rienzi e la Cavalcata delle
Valchirie la facevano da padroni, ma Ross ci notifica che da allora almeno
mille pellicole si sono servite di Wagner! E se ne sono servite in varie forme,
anche contraddittorie, un po’ come era accaduto per la letteratura o la
pittura: adozione entusiastica delle innovazioni wagneriane o parodia-condanna
delle stesse. Allo stesso modo con cui aveva esaminato nei precedenti capitoli
l’influenza di Wagner sulle arti prima dell’avvento del cinematografo, ora Ross
si dilunga in dotte e documentatissime (a volte perfino eccessivamente
dettagliate) osservazioni sull’influenza del Maestro sul mondo del cinema,
vista in ottica artistica e in ottica geografica. Quindi si parla di USA, di
Francia, di GranBretagna, Germania, Russia (Eisenstein) e anche Italia
(massimamente e ovviamente Visconti, ma anche Fellini e Lina
Wertmüller). Dopo aver analizzato l’impiego (sui due fronti contrapposti)
di Wagner durante la WWII, Ross chiude in bellezza – per così dire – con Apocalypse
now dove la Walkürenritt accompagna (appropriatamente?) le allegre
scampagnate degli elicotteri yankee, così diligentemente impegnati a inondare i
Vietcong di… democrazia al napalm.
15. La
ferita. Il
wagnerismo dopo il 1945.
Il
capitolo finale del lavoro di Ross ci porta nel gran mare della
contemporaneità, un autentico vortice di immagini, apparizioni, sorprese,
illusioni e delusioni che personalmente fatico a sintetizzare in poche righe.
Mi limito a citarne la conclusione, che Ross affida alle Figlie del Reno: Traulich
und treu ist’s nur in der Tiefe…
Postludio
Ross
chiude con una ricostruzione del percorso – dalle stalle alle stelle – da lui compiuto
nel suo approccio a Wagner. Con una conclusione (personalmente la condivido al
100%) che perfettamente si attaglia a quella – indecifrabile - del Ring:
La visione svanisce, il sipario cala,
e ci trasciniamo di nuovo in silenzio nel mondo così com’è.