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29 settembre, 2023

Orchestra Sinfonica di Milano – Stagione 23-24.1

Dopo il brillante esordio alla Scala, l’Orchestra Sinfonica di Milano è tornata in Auditorium per il 1° Concerto in abbonamento della stagione 23-24. Concerto dai contenuti ultra-tradizionali, interamente dedicato alla Russia, dell’800 e del ‘900. Sul podio torna, dopo il suo debutto di un anno fa, il giovin albionico Joel Sandelson, che ancora deve fare 30 primavere ed è già lanciato nel gran mondo della direzione.

Ma è un ancor più giovane violinista, il 22enne Giuseppe Gibboni (buon sangue non mente…) ad aprire la serata, interpretando il Concerto Op.35 di Ciajkovski. Qui ecco Giuseppe nella primavera del 2021 in una delle ormai tante sue interpretazioni dei questo brano, che pochi mesi dopo suonerà a Genova nella prima giornata del Premio Paganini, da lui poi trionfalmente vinto.

In questo mio vecchio commento potete leggere invece ciò che di questa composizione pensava il purista Eduard Hanslick, che qualche decennio dopo venne preso proprio sul serio dallo… spirito santo del business!

Beh, con buona pace dello schizzinoso critico boemo-viennese, devo dire che dal violino di Gibboni sono usciti solo profluvi di suoni profumatissimi e inebrianti! Ad una tecnica stupefacente il giovane campano unisce una grande sensibilità interpretativa, evidentemente frutto di studio e di scavo della partitura: con impiego sempre appropriato di rubato e di sottili variazioni agogiche e dinamiche (purtroppo queste ultime a volte sopraffatte da eccessi di volume dell’orchestra… ma Sandelson ha ancora due occasioni per rimediare). Insomma, una prestazione veramente da incorniciare. 

Così il trionfo è assicurato, e ripagato con due encore: dapprima il trascendentale Quinto Capriccio dell’Op.1 di Paganini; poi l’Adagio dalla Prima Sonata per violino in SOL minore, BWV1001 di Bach.
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La seconda parte della serata è dedicata alla Quinta di Shostakovich. Qui alcune mie considerazioni sulle circostanze che ne caratterizzarono la composizione e sugli equivoci che essa ha da sempre generato. 

Ad ogni ascolto mi convinco sempre di più che va gustata proprio come pura musica, dimenticando le circostanze extra-musicali che ne caratterizzarono la nascita e pure la fruizione da parte del pubblico. E anche ieri, grazie alla forma strepitosa dell’Orchestra e alla direzione equilibrata di Sandelson (che merita davvero la popolarità che sta conquistando in tutta Europa, dopo la rivelazione in patria) la Sinfonia ci è apparsa in tutta la sua immanenza formale (copyright Adorno sulla Sesta mahleriana) che ne fa, proprio insieme alla Quarta di cui doveva essere… il contraltare, il punto più alto della parabola sinfonica del compositore russo.

Inutile dire del successo pieno dell’esecuzione, con ripetute chiamate, applausi ritmati e ovazioni per tutte le sezioni dell’Orchestra. Si replica oggi e domenica.

14 settembre, 2023

Il Barbiere di Muscato-Pidò con la Scala accademica

O.T. Lissner reintegrato al SanCarlo: ogni tanto l’arroganza-ipocrisia non paga. 

Ieri sera alla Scala penultima delle sei recite del rossiniano Barbiere, la fortunata ed apprezzata produzione del 2021 (epoca di riapertura post-Covid) allestita da Leo Muscato e diretta da Riccardo Chailly, ora trasformata in palestra per gli accademici (o ex-) scaligeri presi per mano dal navigato Evelino Pidò.

Allestimento piacevole e intelligente, del genere teatro-nel-teatro, dove i ruoli-chiave del libretto diventano: Lindoro autore-direttore; Rosina la star dello spettacolo; DonBartolo l’impresario teatrale; Don Basilio maestro di musica e Figaro il suggeritore e jolly di scena. Poi anche i personaggi minori (Berta e Fiorello) hanno le loro brave mansioni più o meno nobili.

L’idea portante di Muscato nasce dalla constatazione che tutti i personaggi sono poco o tanto legati al mondo della musica, il che spiega e giustifica l’ambientazione scelta dal regista e perfettamente supportata dalla scenografa Federica Parolini, coadiuvata da Silvia Aymonino per i costumi e da Alessandro Verazzi alle luci (francamente banalotta invece la scelta di infilare nell’avanspettacolo un bizzarro balletto di maschietti en-travesti, coreografato da Nicole Hehrberger).   

[In realtà sappiamo che il libretto dello Sterbini – ispirato a Beaumarchais – potrebbe benissimo essere interpretato come un chiaro riferimento ai macro-fenomeni storico-sociologico-politici che stavano prendendo forma da qualche decennio ai tempi della composizione della commedia rossiniana. Dove i cinque protagonisti principali e i rispettivi comportamenti potrebbero splendidamente rappresentare nientemeno che le classi della società del tempo e i loro rapporti conflittuali o cooperativi. Così DonBartolo impersonerebbe la nobiltà retriva e parassitaria, tutta intenta a perpetuare i propri privilegi e a considerare la donna come essere inferiore e schiava del potere maschilista; in questo supportata da un clero (DonBasilio) ipocritamente asservito al potere; mentre Almaviva sarebbe l’alfiere di una nobiltà dalle vedute aperte, progressista e ben disposta – per garantirsi un futuro - ad allearsi con l’emergente e rampante borghesia produttiva, splendidamente vestita dei panni di Figaro, l’instancabile factotum. Quanto alla protagonista femminile, Rosina rappresenterebbe la figura della femminista ante-litteram, che testardamente fronteggia la protervia maschilista dei potenti, rifiutandone la facile ma gretta prospettiva esistenziale per privilegiare la disinteressata genuinità dei sentimenti.]

Anche ieri lo spettacolo è stato accolto con grande calore, in un Piermarini abbastanza popolato, ma non certo al tutto-esaurito come proclamava il sito internet, da un pubblico che ha accomunato tutti i protagonisti in un chiaro apprezzamento. Un trionfo meritato, che testimonia dell’efficacia della politica del Teatro volta a promuovere la sua fucina di artisti: l’Orchestra innanzitutto, che ha risposto in modo convincente alle sollecitazioni di Pidò; poi il coro (maschile) di Salvo Sgrò e infine le voci degli accademici (Huanhung Livio Li, Giuseppe De Luca e Greta Doveri).

Personalmente mi associo agli elogi, il che non significa dare a tutti lo stesso voto (il famoso 18-politico di buona memoria) ma mi limito a citare per tutti la mascotte Greta Doveri, che mi ha impressionato – in particolare nella sua arietta Il vecchiotto cerca moglie - per la bella voce dal timbro morbido e vellutato che penso la porterà lontano.

In definitiva, una simpatica e godibilissima serata… chi può ha ancora una chance di godersela il 18!  

11 settembre, 2023

Orchestra Sinfonica di Milano – Trionfale apertura di stagione 23-24 alla Scala

Come ormai da lunga tradizione, l’Orchestra Sinfonica di Milano è stata ospite alla Scala – non proprio al completo… - per l’inaugurazione della nuova stagione 23-24, che ricorre nel 30° anniversario dalla nascita de laVerdi, come ancora i suoi simpatizzanti continuano a chiamarla. La Presidente della Fondazione, Ambra Redaelli, e il Direttore generale-musicale Ruben Jais hanno significativamente deciso di dedicare il concerto alla memoria del giovane cornista Giovanbattista Cutolo, barbaramente ammazzato pochi giorni orsono a Napoli.

È stato il Direttore in Residenza - Andrey Boreyko - a salire sul podio per il secondo anno consecutivo, presentando un programma assai impegnativo, che affiancava uno degli ultimi lavori di Gustav Mahler alla più rivoluzionaria delle Sinfonie beethoveniane.

Programma aperto con una (mezza) novità: Das Lied von der Erde interpretato da due voci maschili, contrariamente alla tradizione (e in parte anche alle preferenze dell’Autore) che alterna al tenore (canti 1-3-5) il contralto (2-4-6) e non il baritono. Ma devo dire che la coppia formata da Tuomas Katajala e Georg Nigl ha brillantemente superato la prova. Katajala lo avevamo apprezzato in Auditorium lo scorso dicembre in Parsifal e recentemente come protagonista di Oedipus Rex di Stravinski; Nigl lo ricordo alla Scala quando era giovanissimo e interpretò con successo Wozzeck nel 2008 con Gatti e Orfeo nel 2009 con Alessandrini.

Pienamente meritati quindi i lunghi applausi e le diverse chiamate, così come da elogiare è l’Orchestra che Boreyko ha guidato con grande sensibilità e minuzioso scavo nei dettagli di questa partitura tanto complessa quanto affascinante.

Poi chiusura alla grandissima con la Quinta per antonomasia, accolta con un uragano di ovazioni e applausi ritmati. Insomma, un eccellente e promettente inizio di stagione!

08 settembre, 2023

Orchestra Sinfonica di Milano – Domenica alla Scala apre la stagione 23-24.

Come ormai da lunga tradizione, l’Orchestra Sinfonica di Milano sarà ospite alla Scala per l’inaugurazione della nuova stagione 23-24.

Sarà il Direttore in Residenza - Andrey Boreyko - a salire sul podio per il secondo anno consecutivo, presentando un programma assai impegnativo, che affianca uno degli ultimi lavori di Gustav Mahler alla più rivoluzionaria delle Sinfonie beethoveniane
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Ecco quindi dapprima la cosiddetta Sinfonia-di-LiederDas Lied von der Erde – interpretato qui da due voci maschili, cosa piuttosto insolita, chè tradizionalmente al tenore (Tuomas Katajala) si affianca un contralto/mezzosoprano, anziché un baritono (Georg Nigl). L’esempio più famoso di esecuzione con due voci maschili riporta a Lenny Bernstein che incise il Lied con James King e Dietrich Fischer-Dieskau.  

Sul Lied si sono scritti fiumi d’inchiostro, ma forse la cosa più curiosa è quanto raccontò – in un’intervista radiofonica nel 1970 – William Steinberg, direttore d’orchestra americano che era stato assistente di Toscanini. Di quest’ultimo è ben nota l’avversione rispetto alla musica di Mahler (la cui Quinta fu da lui definita una boiata pazzesca!) Ma un giorno, proprio a Milano, mentre Steinberg provava il Lied, Toscanini entrò in sala e chiese di chi fosse quella musica. E, saputo che era di Mahler, si lasciò sfuggire un: “Mio dio, non pensavo che potesse scrivere così bene… 

Negli anni che vanno dal 1907 fino al 1909, anno di completamento dell’opera, a causa di varie disavventure - il licenziamento in tronco da Generalmusikdirektor della Hofoper di Vienna; la prematura perdita della maggiore delle due figliolette, Putzi; la diagnosi di una sia pur blanda disfunzione cardiaca; e soprattutto i tradimenti a sfondo prettamente sessuale della moglie Alma - Mahler avvertiva ormai come incombente e non più ignorabile il problema capitale dell’esistenza di ciascuno di noi, cosa che aveva abitato in qualche modo la sua mente fin dai tempi della giovinezza, ispirandogli anche tantissima musica, ma che lui ora incontrava direttamente, in prima persona.

Il Lied, praticamente una sinfonia - nell’accezione che questo termine aveva assunto nell’estetica mahleriana - insieme alla Nona e al torso della Decima rappresenta quindi l’autentico testamento spirituale di Mahler.

I sei testi dell’opera furono scelti da una collezione di poesie cinesi dei tempi della dinastia T’ang, secoli VII-IX (quando noi eravamo ancora sprofondati nel più cupo medioevo e il Rinascimento era lontano… secoli) tradotti da Hans Bethge (e prima di lui da altri letterati francesi).

Quando si dice… la globalizzazione culturale dello spazio-tempo. Qui vediamo gli ideogrammi (pseudo) originali delle due poesie da cui Mahler trasse l’ultimo Lied del ciclo, Der Abschied, e la prima pagina della partitura manoscritta del compositore: fra di essi ci sono nientemeno che 8.000 Km e 1.000 anni di distanza!

Va subito premesso che Mahler si permise (e con ottime ragioni…) di apportare personali modifiche/aggiunte ai testi cinesi, in particolare attenuando il loro pessimismo si fondo, addolcito da una visione meno negativa e più laicamente serena. In effetti va sottolineato come il primo impulso del compositore fosse stato di adesione acritica all’atmosfera quasi nichilista dei testi cinesi (il titolo dell’intera opera doveva essere Il canto dei dolori della terra, sopravvissuto solo nel titolo del primo Lied) ma come successivamente Mahler decise di addolcire il pessimismo orientale per introdurvi qualche sprazzo di serenità. Non certo un trionfo dell’ottimismo, ma perlomeno l’individuazione di elementi confortanti per l’individuo.

Come detto, i sei Lieder sono labilmente apparentabili ad altrettanti movimenti di Sinfonia, strutturati appunto secondo i criteri da Mahler impiegati per lavori di quel genere: i primi due (allegro e lento) di atmosfera piuttosto cupa o rassegnata, i successivi tre più (apparentemente) leggeri, in funzione di intermezzo, e l’ultimo, il più lungo ed articolato, decisamente lento, notturno, riflessivo, intimistico e quasi religioso.

Musica piena di moti ascendenti e discendenti che si alternano, ma anche si sovrappongono, perché l’esistenza è spesso gioia e dolore allo stesso tempo, come ben si vede, subito prima della coda, nel secondo Lied (dove peraltro la scala discendente (negativa?) va apertamente verso il forte, mentre quella ascendente (positiva?) va a morire in ppp:

Così nel primo Lied troviamo uno dei diversi, poetici riferimenti inseriti di suo pugno da Mahler (tornerà ciclicamente nell’ultimo Lied) alla terra che sempre rifiorirà a primavera (meraviglioso l’inciso del corno inglese…) seguito da una drammatica presa di coscienza della caducità umana:

Nel secondo ecco un rassegnato ripiegarsi di chi ha il cuore stanco e cerca riposo (anche questo scenario ricomparirà nell’ultimo Lied); e poi un’accorata implorazione, al sole dell’amore:

Infine qui, nell’ultimo Lied, un autentico ponte sonoro che sembra richiamarsi al famoso arco melodico che accompagna l’ammonimento Alles was ist, endet di Erda:

E, a proposito di Wagner, non manca una minuscola, ma chiara citazione, questo brevissimo inciso del quinto Lied, che viene proprio da lontano!

Ma anche la frase successiva (…sei kommen über Nacht) nelle parole richiama alla mente un altro dramma wagneriano (Walküre, primo atto, la notte dell’agnizione di Siegmund e Sieglinde): la ventata che fa sbattere violentemente la porta della stamberga di Hunding annuncia l’improvviso irrompere della Primavera (e la successiva romanza… Winter Stürme).

E Mahler ancora ricorre a Wagner nell’ultimo Lied, dove troviamo, nella melodia che torna due volte, prima in SIb e poi in DO maggiore, una chiara reminiscenza parsifaliana: la discesa da mediante a tonica che precede il lavaggio dei piedi di Kundry al puro folle (là in FA# maggiore):

Poi, troviamo sottili e quasi subliminali rimandi tematici. Ad esempio questo inciso dell’oboe che nel primo Lied sottolinea la morte, è ripreso significativamente dal canto che nell’Abschied (ancora un legame fra i due Lied estremi dell’opera) prefigura l’anelito alla pace per il cuore solitario:

Un richiamo fra il secondo e l’ultimo Lied riguarda l’affaticamento del cuore e degli uomini, due volte espresso nel secondo e ripreso nell’ultimo Lied (un semitono sotto, dove poi peraltro c’è speranza di consolazione):

Ma l’impronta determinante della vision esistenziale mahleriana resta impressa nell’ultimo Lied, Der Abschied. Esso merita particolare attenzione poiché nella sua conclusione, a dispetto del confuciano, assoluto pessimismo esistenziale dell’originale cinese (di Wang Wei), Mahler infuse un atteggiamento, per così dire, di laica e serena rassegnazione. E per far questo modificò appunto il testo, introducendo (mutuandolo precisamente da quello da lui già manipolato del primo Lied) molto azzurro nei cieli sconsolatamente bigi del poeta T’ang.

Laddove quest’ultimo chiudeva con due versi di disincantato e rinunciatario pessimismo:

La terra è uguale dappertutto –

E sempre sono bianche le nuvole!

Mahler scrive invece di suo pugno, riprendendo la sua variazione del primo Lied:

L’amata terra dappertutto –

Rifiorisce a primavera e verdeggia di nuovo!

Dappertutto e sempre, sempre –

Azzurri risplendono gli orizzonti!

Sempre… sempre… sempre…

Ecco, innanzitutto la Natura, di cui Mahler – nelle modifiche al testo originale e coerentemente con il suo rapporto d’amore per essa - rivaluta la benigna funzione materna e i caratteri consolanti: le nuvole bigie cinesi magari restano, ma all’orizzonte ecco aprirsi l’azzurro del cielo e il paesaggio illuminarsi, colpito obliquamente dai raggi del sole. E poi l’eterno verdeggiare a primavera, a testimonianza della vitalità del creato, di cui l’Uomo è in fin dei conti parte integrante.    

Ma è ancora una volta la musica a mirabilmente rappresentare questo insieme di presa di coscienza dell’inevitabilità della fine e di speranza nell’infinita ed eterna misericordia della madre terra, sempre pronta ad accogliere fra le sue braccia questo uomo, piccolo e infelice. Ecco come testo e musica mahleriani, correggendo il desolato originale orientale, evocano la serena contemplazione della madre-natura:

Sull’ultimo ewig il canto non si adagia più sulla tonica, ma si sospende sulla sopratonica RE; e nelle restanti 6 misure l’orchestra esala un DO maggiore orientalizzato dal LA di flauto ed oboe e dalle cinesizzanti volute della celesta, proprio a lasciare una sensazione di indeterminatezza, di qualcosa che si perde lontano.

Morendo completamente, si legge sulle ultime battute del Lied. Più semplicemente, Morendo recita l’ultima indicazione agogica sulla partitura della Nona. Sull’abbozzo manoscritto della Decima l’ultima indicazione è un La, che i musicologi decifrano come Langsam: adagio.

Così le ultime opere di Mahler chiudono sommessamente un’esistenza, e con lei anche una grande (non l’ultima…) stagione del sinfonismo.
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Sinfonismo che ebbe in Beethoven il suo grande alfiere, e la Quinta una delle sue punte di diamante, sulla quale non è certo il caso qui di spendere altre parole.

Non resta dunque che aspettare domenica per goderci questa nuova partenza di stagione.

02 settembre, 2023

Lettura estiva: Ross su Wagner

Per un wagnerite che si rispetti è quasi un dovere ineludibile leggere l’immenso tomo (900 pagine, escluse note varie!) del grande Alex Ross. Così mi son messo di buzzo buono all’impresa, in attesa di tornare all’attualità con la ripresa delle stagioni musicali (la Scala e laVerdi, in particolare).

Il testo è articolato in 15 macro-capitoli (quasi delle monografie, verosimilmente rielaborazioni di articoli scritti negli anni da Ross per il NewYorker, il che comporta qualche problema – vedi ripetizioni - riguardo l’organicità del contenuto) più un Preludio e un Postludio. Come suggerisce il titolo, non solo e non tanto si tratta di Wagner come fanno la maggior parte dei lavori che ormai da un secolo e mezzo si sono occupati del fenomeno più straordinario che ha caratterizzato lo sviluppo della nostra civiltà musicale (certo, troviamo dispersi nel libro riferimenti biografici e commenti o esegesi di opere e drammi) ma si esplorano alcune delle principali problematiche sollevate dalla figura del compositore e i riflessi che le sue opere (ma anche i suoi scritti filosoficihanno avuto sulla nostra società, e non solamente nell’ambito strettamente artistico. 

Preludio. La morte a Venezia.

Contiene una minuziosa raccolta delle più svariate reazioni seguite nel mondo alla notizia della scomparsa del tanto famoso e idolatrato quanto contestato compositore.

1. Rheingold. Wagner, Nietzsche e il Ring.

Sommaria esegesi del Ring, delle sue implicazioni filosofiche (Feuerbach > Schopenhauer) e del processo che portò alla costruzione del Festspielhaus a Bayreuth; intersecata con una dettagliata analisi degli sviluppi del rapporto fra il filosofo-discepolo e il musicista: dall’adorazione/adesione alla conflittualità/distacco (e riconciliazione post-mortem?)   

2. L’accordo del Tristan. Baudelaire e i simbolisti.  

A dispetto del titolo, ma coerentemente con il sottotitolo, il capitolo tratta diffusamente dei rapporti di amore-odio tra Wagner e la cultura francese in generale. A partire dal piano musicale, ovviamente, con ampi squarci sulla disastrosa esperienza del Tannhäuser (1861). Baudelaire vi ha un posto privilegiato, così come Mallarmé, ma largo spazio è dedicato al semi-sconosciuto Jean-Marie-Mathias-Philippe-Auguste, Comte de Villiers de l’Isle-Adam (!) E poi ai veri e propri pellegrinaggi, prima a Tribschen e poi a Bayreuth, di letterati francesi letteralmente fradici (Stabreim!) di wagnerismo! Ma un posto di rilievo occupa poi la pittura francese, in specie l’impressionismo: Cézanne, Monet, Gauguin, Manet, ma anche il parigino-di-passaggio VanGogh! Infine, la Révue wagnérienne e il simbolismo.   

3. Il cavaliere del cigno. L’Inghilterra vittoriana e l’America della Gilded Age.  

Dopo la Francia, che per Wagner ebbe amore (di pochi intellettuali) e odio dall’establishment, ecco l’Inghilterra, terreno di conquista di Wagner, gratificato nientemeno che da incontri del compositore con la Regina Vittoria. Pretesto per il titolo del capitolo è la cosiddetta Marcia nuziale dal Lohengrin, che divenne ben presto lo standard da suonare ai matrimoni reali britannici e poi anche a quelli (persino in America) di gente pretenziosa o altolocata. Ampio spazio viene dato ai rapporti fra la scrittrice George Eliot e il mondo dell’estetica wagneriana, vicina per certi aspetti a quella dei preraffaelliti d’Oltremanica. E dotte divagazioni riguardano lo scrittore-poeta Algernon Charles Swinburne, che modellò su Tannhäuser la sua (scandalosa) Laus Veneris; e William Morris, studioso dei miti norreni e quindi vicino al mondo del Ring, avendo scritto un poema epico su Sigurd(=Siegfried); e infine Matthew Arnold, autore di un poema su Tristano e Isotta. Da buon americano ben informato, Alex Ross si dilunga infine in una corposa analisi dell’esplosione del wagnerismo negli USA. Esplosione spiegabile con ragioni di business (ça va sans dire) oltre che di gusto e di propensione yankee per l’avventura, la grandiosità, il liberismo sfrenato e selvaggio (Siegfried!) E i vaneggiamenti di Wagner su un suo possibile trasferimento in USA (Minnesota, considerato alla stregua di un Eden!) non facevano che alimentare l’interesse per le opere del genio di Lipsia. La parte finale del capitolo è dedicata alla Gilded Age (l’Età dell’oro, gli ultimi 30 anni dell’800) e ad autori come Mark Twain, piuttosto sarcastici sull’idolatria per Wagner, ma alla fine conquistati dalla sua musica.

4. Il Tempio del Graal. Il Wagner esoterico, decadente, satanico.

Questo capitolo, dopo una sommaria esegesi dell’ultimo dramma wagneriano che ne mette in evidenza i (supposti) aspetti di natura esoterica, è dedicato all’influenza che esso (Parsifal, ma non solo… vedi Tristan) ebbe sull’ambiente artistico fra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo. Ross premette che tale influenza fu determinata fondamentalmente dal diffondersi – a dispetto delle intenzioni di Wagner ed equivocando sull’interesse di quest’ultimo per filosofie e tradizioni orientali - della gratuita e banalizzante definizione di Parsifal come di una messa nera. È questa fasulla definizione che ha portato artisti di diversi orientamenti ad impiegare Parsifal (e Tristan) come materia prima nelle loro opere imbevute di esoterismo, spiritismo. occultismo, satanismo, etc. Seguono alcuni esempi, presentati sempre con gran dovizia di particolari. Altre due sezioni del capitolo sono riservate ai rapporti fra (le opere di) Wagner e la teosofia, e all’influenza di Wagner sugli irlandesi, difensori delle tradizioni celtiche, che individuavano nel Tristan.

5. Sacra arte tedesca. Il Kaiserreich e la Vienna fin de siècle.

La premessa del capitolo è – ovviamente – una concisa esegesi dei Meistersinger e degli effetti perversi (pur se indesiderati?) che lo sciovinista appello finale di Sachs ebbe molto più tardi sull’ambiente proto-nazista e sullo stesso Hitler. Si passa poi ad esaminare la complessa relazione fra Wagner e Re Ludwig di Baviera, relazione funzionale ad entrambi: al giovanissimo Re il mondo mito-fiabesco che alimentava le sue fantasie; a Wagner… illimitate risorse finanziarie! Ma non scevra da reciproche diffidenze ed incomprensioni: Wagner giudicava assurdo il progetto della costruzione di Neuschwanstein, il Re altrettanto pensava delle idee antisemite del compositore. Si passa poi ad esaminare gli effetti delle opere di Wagner nel periodo imperiale guglielmino (il Kaiserreich): effetti multiformi, che andavano dall’uso spregiudicato dell’arte wagneriana da parte dell’establishment, ai coloriti sbeffeggiamenti di buona parte degli intellettuali, come lo scrittore e romanziere Theodor Fontane. Seguono due sezioni del capitolo, dedicate all’ambiente di Monaco di Baviera, in prevalenza recalcitrante nei confronti di Wagner, e a quello di Vienna, dove invece Wagner acquistò ulteriore prestigio grazie anche alle innovazioni degli artisti della Secessione e di pittori-scenografi come Alfred Roller, oltre che di adepti musicisti, primo fra tutti Mahler. Si passa ora all’Italia, in una sezione tutta incentrata su D’Annunzio e sulle sue opere infarcite di riferimenti wagneriani (Tristan, soprattutto). Il capitolo non poteva chiudersi se non nel nome Mann: dei due fratelli, Heinrich e il minore Thomas. E di Thomas ovviamente viene analizzato il Buddenbrook, un vero e proprio Ring rivisitato, poi arricchito da riferimenti a Meistersinger, Tristan, Tannhäuser… ma anche lavori successivi, carichi di tematiche mutuate da Wagner.    

6. Nibelheim. Il Wagner ebreo e nero.

È il capitolo che tratta del nodo più controverso riguardante Wagner: l’antisemitismo. Dopo un flash iniziale (ripreso alla fine) in un ambito assai familiare a Ross (il problema razziale americano) si comincia ad entrare nel vivo con i riferimenti alle due versioni del famigerato libello Das Judenthum in der Musik, un autentico manifesto antisemita di Wagner. Che nella versione definitiva (1869) addirittura sembra prefigurare (o meglio: non escludere a priori) una soluzione violenta della reazione popolare alla progressiva giudaizzazione de mondo germanico. Seguono riferimenti ai personaggi di opere di Wagner che furono (e sono) comunemente descritti come rappresentanti (da esecrare!) dello stereotipo dell’ebreo: i Nibelunghi, Beckmesser, Kundry (ma non Klingsor…?) Segue una sezione che ricorda Houston Stewart Chamberlain, antisemita eterodosso che riuscì ad entrare nel cerchio magico di Bayreuth sposando Eva - figlia del Maestro e di Cosima - ed assumendo poi un ruolo centrale nel supporto alla soluzione finale per gli ebrei. Poi Ross ricorda come tanti ebrei diventarono invece estimatori di Wagner: a partire da Hermann Levi, scelto per dirigere nientemeno che la prima di Parsifal. E poi Theodor Herzl, uno dei padri del sionismo, che ebbe un ruolo decisivo nella prefigurazione dello Stato ebraico e che fu un grande estimatore di Wagner, soprattutto della figura di Tannhäuser. [Ndr: i detrattori di Wagner che ancor oggi ne vietano la musica in Israele evidentemente fingono di dimenticare queste ascendenze.] Il capitolo si chiude con alcuni interessanti riferimenti al wagnerismo afro-americano (l’influenza di Wagner su artisti – cantanti e scrittori - di colore).

7. Venusberg. Il Wagner femminista e gay.

Dopo un’introduzione che ricorda gli esperimenti e gli studi psicologici sugli effetti della musica di Wagner sulla sfera erotica, Ross si occupa dei rapporti del compositore con il sesso debole. Nei drammi wagneriani troviamo Brünnhilde e Isolde (fiere ed emancipate) e Ortrud (più strega che donna) e per il resto (Senta, Elsa, Elisabeth, Kundry) femmine in qualche modo relegate al ruolo passivo (fino alla morte…) di strumenti di salvezza per l’uomo. Ross analizza poi i riflessi che i ruoli delle donne wagneriane hanno avuto sull’arte (narrativa e figurativa) a cavallo del secolo e persino la spinta all’emancipazione indotta nelle interpreti di quei personaggi. Il capitolo tratta poi copiosamente anche delle fissazioni del compositore per vesti e tendaggi di seta e biancheria intima… ehm… equivoca e delle supposte tendenze androgine e misogine di Wagner; e persino [Ndr: qui Ross deve avere anche un personale interesse…] di quagli aspetti che vennero raccolti e sfruttati dai movimenti gay. E qui, ancora, ecco i riferimenti a Thomas Mann e in particolare a Morte a Venezia. Il capitolo chiude con lunghe considerazioni sulle capacità di psicanalisi di Wagner, che anticiparono di mezzo secolo almeno gli studi e i lavori di Freud&C.

8. La roccia di Brünnhilde. Willa Cather e il romanzo della diva.

Questo lungo capitolo è decisamente difficile da digerire e metabolizzare per noi, data la sua totale ambientazione americana. Cionondimeno ci fornisce un quadro quasi insospettabile, per noi europei, di quanto Wagner avesse già ai suoi tempi penetrato il mercato yankee. La scrittrice Willa Cather (1873, Virginia, poi trasferita in Nebraska, quindi in Pennsylvania e infine a NYC) divenne famosa per il suo romanzo (1915) intitolato Canto dell’allodola, di cui è protagonista una giovane cantante wagneriana, che si appresta ad interpretare il ruolo di Fricka. Ciò dà lo spunto a Ross per una sommaria esegesi della Walküre (second’atto in particolare). Interessante la chiusa del capitolo, dove Ross cita un altro romanzo della Cather (La casa del professore) che fa esplicito – e assolutamente wagneriano - riferimento al ruolo di Religione e Arte come strumenti di elevazione spirituale per l’Uomo.

9. Fuoco magico. Modernismo, 1900-1914.

Altro capitolo assai ostico, che prende spunto dallo spezzarsi del filo del destino nel Prologo di Götterdämmerung per paragonarlo ai movimenti artistici che nei primi 20 anni del XX secolo costituirono l’ondata modernista, che rompeva con la tradizione romantica (quindi paradossalmente anche con… Wagner, del quale si strumentalizzava soprattutto la famosa esortazione Kinder! macht Neues!) anche sotto la spinta delle innovazioni tecnologiche che mettevano a disposizione dell’artista nuovi strumenti espressivi e nuovi canali di divulgazione di massa del suo prodotto artistico. Wagner rimase tuttavia ben presente sulle scene, ad esempio contribuendo con la sua musica ad alimentare nuove forme di spettacolo (di danza, soprattutto) e allo stesso tempo ricevendo da queste nuove forme contributi per la rappresentazione dei suoi drammi (Isadora Duncan, dopo aver offerto spettacoli di danza su musiche di Wagner fu chiamata a Bayreuth per le coreografie di Tannhäuser). Il teatro di Wagner fu pesantemente toccato dal modernismo, tanto che la figura del Regisseur cominciò ad acquistare importanza crescente, grazie anche all’impiego di nuove tecnologie, soprattutto della luce, come teorizzò e praticò, facendo scuola, Adolphe Appia. Parimenti influenzata da Wagner (dalla sua concezione dell’Arte come strumento di elevazione spirituale) fu la pittura di quegli anni, di cui Kandinski fu esponente di spicco. Ross passa poi a trattare l’influenza wagneriana sulla letteratura modernista anglo-americana, dilungandosi in particolare sulle figure di Joseph Conrad, Ford Madox Ford, David Herbert Lawrence ed E.M.Forster, tutti in qualche modo debitori (magari senza esserne adepti) dei drammi di Wagner. Non manca una sezione dedicata alle scrittrici-femmine, e qui è Virginia Woolf ad occupare il centro della scena. Il capitolo si chiude con un doveroso e significativo omaggio a Marcel Proust.

10. Notung. La prima guerra mondiale e il giovane Hitler.  

Il capitolo si apre con il Capodanno 1914, alle ore 00:00:00 del quale scadevano i diritti sulle opere di Wagner e sull’esclusiva di Bayreuth per Parsifal. Al Gran Liceu di Barcellona il dramma sacro fu programmato per le ore 23:00 (corrispondenti alla mezzanotte in Germania) ma effettivamente iniziò alle 22:30, in modo tale che attorno alla mezzanotte (di Barcellona) suonassero le campane che accolgono Gurnemanz e il puro folle nel tempio del Gral! La predilezione dei catalani per Parsifal ovviamente derivava dalla convinzione che Monsalvat sia in realtà Montserrat, sulle montagne sopra Barcellona. In quel 1914 nacquero i primi dissapori nella famiglia Wagner, con l’allontanamento di Isolde: il Festival programmò solo due recite di Parsifal [più due Holländer e un ciclo del Ring, ndr] dopodichè chiuse i battenti per esattamente dieci anni. Ross tratta ora dell’atteggiamento delle opinioni pubbliche riguardo alla guerra (e riguardo a Wagner): in Germania e nel mondo tedesco ai supporter del conflitto non parve vero di poter usare termini wagneriani per descrivere la missione della virtuosa e religiosa Germania contro le depravate e secolari nazioni nemiche. Ciò spiega l’uso di nomi wagneriani per definire azioni belliche, linee del fronte o armi letali. Altrove, come in Francia e in Italia, non si esitò a boicottare Wagner, ritenuto l’ispiratore del militarismo e del bellicismo tedesco. In USA si passò da una debole difesa dell’artista Wagner ad una messa al bando di tutto (e tutti) ciò che sapeva di germanico. In altri casi, come la Gran Bretagna, gli intellettuali furono meno drastici, anzi riconoscendo che opere wagneriane, come il Ring, in effetti prefiguravano l’ascesa e la caduta del Reich, come quella di Wotan&C. Ross ricorda anche personaggi del mondo dell’arte che continuarono a ispirarsi a Wagner durante e dopo il conflitto, come il volante D’Annunzio e come Proust. Una sezione del capitolo è riservata al movimento futurista e dadaista: vi spicca anche Filippo Tommaso Marinetti, wagneriano fino all’osso e poi divenuto uno dei più feroci critici dei drammi del Maestro, primo fra tutti il Parsifal; insieme a futuristi che invece continuarono a inneggiare a Wagner. Il capitolo si chiude, insieme alla guerra, con riferimenti wagneriani (Siegfried) alla pugnalata alla schiena (in sostanza, tradimenti) che avrebbe inopinatamente determinato la sconfitta del Reich. Peccato che il traditore (Hagen) avesse poco prima dato il suo nome proprio all’operazione militare che avrebbe dovuto celebrare la vittoria di Siegfried! Il vittimismo legato al sospetto della pugnalata diventerà il motore del nazismo, e quindi ecco apparire sulla scena Adolf Hitler, del quale vengono ricordati i primi incontri con i drammi wagneriani ed anche leggende metropolitane fiorite attorno ad essi.

11. L’anello del potere. Russia e Rivoluzione.  

L’apertura del capitolo tratta dei rapporti fra il wagnerismo e il marxismo, rapporti assai multiformi, quante furono le interpretazioni politiche delle opere di Wagner e le sfaccettature del movimento socialista. Un’attenzione specifica è riservata ad uno dei più famosi e controversi socialisti-wagneriani: George Bernard Shaw e alla sua interpretazione del Ring in chiave squisitamente anti-capitalista. Successivamente Ross passa ad occuparsi della ricezione di Wagner nella Russia pre-rivoluzionaria. Dopo aver trattato della scarsa considerazione per Wagner di importanti letterati russi (Dostoevski e Tolstoi, in particolare) Ross rievoca i successi parigini di Sergej Djagilev e dei suoi Ballet russes, che si proponevano dio realizzare ciò che Wagner aveva prefigurato nell’opera: un sostanziale Gesamtkunstwerk, unione armoniosa di musica, danza e pittura. E i tre protagonisti della produzione del Sacre erano tutti in qualche modo debitori a Wagner: Stravinski per la musica, il danzatore Nijimsky per aver danzato nel Venusberg del Tannhäuser e lo scenografo-pittore Roerinch che ammirava tanto Wagner da aver disegnato – per suo piacere privato – bozzetti della Walküre e poi quelli per un Tristan. Dopo aver ricordato i legami dei simbolisti russi con il mondo wagneriano, Ross esamina il trattamento riservato a Wagner dai bolscevichi all’indomani della Rivoluzione. Trattamento positivamente condizionato dalla pace separata di Brest-Litovsk, alla quale seguirono numerose rappresentazioni wagneriane a Mosca e Pietrogrado. Naturalmente erano i tratti rivoluzionari di Wagner (drammi e anche scritti filosofici) che vennero fatti propri dal regime per proletarizzare la cultura. Uno spazio importante è riservato alla figura di Vseviolod Mejerchol’d, il regista che aveva introdotto grandi innovazioni nella produzione teatrale (storico un suo Tristan del 1909) e al quale purtroppo il regime bolscevico, dopo la prima parentesi di apertura alla creatività seguita alla rivoluzione, tarpò le ali reintroducendo rigide regole dall’alto. E anche Wagner ne fece le spese, praticamente messo al bando fino alla morte di Stalin, con la breve parentesi (‘39-‘41) del Patto di non aggressione URSS-Germania. Il capitolo si chiude tornando appunto in Germania, al periodo di Weimar. Dove Wagner rimase in uno stato di sospensione, fra detrattori e ammiratori trasversalmente dislocati a destra e sinistra. Fra gli altri personaggi citati da Ross, troviamo i due mariti della vedova di Mahler: l’architetto Walter Gropius, fautore della wagneriana unione delle arti in architettura; e lo scrittore Franz Werfel, che svaluta Wagner a favore del rivale italiano Verdi. Non mancano infine riferimenti a Bertold Brecht e Ernest Bloch, che ebbero rapporti altalenanti con l’eredità di Wagner.

12. L’Olandese volante. Ulisse, La terra desolata, Le onde.

Altro capitolo assai impegnativo per chi legge, poiché Ross, occupandosi di tre letterati (del mondo anglo-americano) e di loro rispettive opere, si dilunga in citazioni e riferimenti quasi enciclopedici, che a volte finiscono per far perdere il filo del discorso e l’essenza stessa delle argomentazioni presentate. In sostanza, si tratta sempre dell’influenza (diretta o spesso indiretta e mediata) del pensiero e dei testi wagneriani su opere letterarie, qui di James Joyce, Thomas Stearns Eliot e Virginia Woolf. Dell’irlandese errante Joyce viene commentato Ulisse, il romanzo che ha chiari riferimenti nel mitologico Odisseo e nell’Ebreo errante, entrambi indicati esplicitamente da Wagner come ispiratori del Fliegende Holländer. Il romanzo ha due protagonisti, Stephen e Bloom, che schematicamente rappresentano il contro e il pro rispetto a Wagner, quindi la parallela attrazione-repulsione dell’autore di fronte all’illustre modello. Dell’americano Eliot (che non nascose le sue convinzioni antisemite) trapiantato in Europa si analizza La terra desolata, vagamente ispirata dal Tristan ma anche da Parsifal. Le onde di Virginia Woolf presenta chiari riflessi wagneriani, a partire dall’apertura che richiama scopertamente Rheingold, per poi proporre una chiusura parsifaliana. Ma è ancora Joyce a chiudere il capitolo con il wagneriano (Tristan e Ring soprattutto) Finnegans Wake.

13. La morte di Siegfried. La Germania nazista e Thomas Mann.  

La figura di Mann appare in questo capitolo a più riprese e nelle sue diverse sfaccettature riguardo la politica e il giudizio sul rapporto Wagner-Hitler: negli anni 15-18 Mann sostenne apertamente la guerra, tifando ovviamente per la Germania; poi, con La montagna incantata, tornò a prefigurare una società tollerante e basata sull’amore. Ebbe la presunzione di poter impedire la strumentalizzazione nazista del Maestro da parte del futuro Führer (anni 20); quindi arrivò la presa d’atto che era meglio starsene lontano da quel tipaccio (traslocando in USA, per dire, anni 30); e infine tentando di recuperare la reputazione di Wagner (anni 40) distrutta dal suddetto Hitler e dai suoi epigoni. Buona parte del capitolo è ovviamente riservata ai rapporti di Bayreuth con il nazismo (e con Hitler): l’arrivo di Winifred Williams (accanita sostenitrice del nazismo e di Hitler personalmente) e il suo matrimonio con Siegfried Wagner favorirono la progressiva deriva del Festival verso un sempre più chiaro fiancheggiamento del regime. Contemporaneamente l’apparato nazista (del quale facevano parte wagneriani incalliti) impiegava sempre di più la mitologia wagneriana per esaltare il ruolo e la missione storica della Germania. Si diffondevano discutibili e gratuite teorie che stabilivano la diretta influenza delle idee di Wagner (antisemitismo incluso) su Hitler, sfruttando l’enorme popolarità ed autorevolezza del sommo artista per portare acqua al mulino nazista. Siegfried Wagner cercò blandamente di correggere l’immagine razzista che stava acquisendo Bayreuth, con l’appello (che verrà ripreso dai figli nel 1951) Qui si fa solo arte. Hitler visitò Bayreuth per la prima volta nel 1923, subito prima del tentato Putsch della birreria; vi ritornò nel 1925, dopo la prigionia durante la quale i pezzi grossi del Festival (Chamberlain, Winifred…) gli diedero continuo supporto materiale e morale. Si fece amico di Wieland e Wolfgang, nipoti di Wagner e futuri direttori del Festival dal 1951, che lo chiamavano amichevolmente zio Wolfe (zio lupo!) Nel 1933 tornò da capo del governo! La protezione di Hitler portò a Bayreuth vantaggi e svantaggi: l’indipendenza artistica dalle idee dei gerarchi nazisti più reazionari; ma anche difficoltà finanziarie, legate alla progressiva evaporazione di gran parte del pubblico. In compenso Wagner divenne lo standard ai raduni del Partito a Norimberga, dove regolarmente veniva rappresentato Die Meistersinger, vero e proprio monumento musicale del nazismo. Ross ritorna ancora su Thomas Mann per trattare di Giuseppe e i suoi fratelli, una vera e propria tetralogia basata non sui miti ma sulla Bibbia; e infine sul Doktor Faustus, che Ross così battezza: un’allegoria della crisi spirituale della Germania. L’ultima sezione del capitolo elenca due diversi trattamenti riservati a Wagner prima e dopo la Seconda guerra mondiale: a differenza di quanto era avvenuto nel 14-18 la cultura tedesca (e Wagner in particolare) non venne demonizzata: Ross cita ad esempio Toscanini che rifiutò di dirigere a Bayreuth ma portò Wagner in giro per il mondo e persino fra gli ebrei di Palestina! Dall’altra parte, nacque una corrente di pensiero ancor oggi viva e vegeta che invertiva il nesso causa-effetto fra Wagner e il nazismo: Wagner era diventato la causa e il nazismo l’effetto! Il capitolo si chiude con una miscellanea di notizie su Wagner e i campi di sterminio e l’Olocausto.  

14. La Cavalcata delle Valchirie. Il cinema, da Nascita di una nuova nazione ad Apocalypse Now.  

Pensando ai rapporti fra la musica e il cinematografo ai tempi dello sviluppo di quest’ultimo, viene sempre alla mente il classico pianista (da strapazzo o… Shostakovich!) che solo soletto strimpella motivi più o meno pertinenti con le immagini proiettate sullo schermo. Ross invece ci ricorda che già nel 1915 a LosAngeles il film muto americano Nascita di una nuova nazione (smaccatamente pro-confederati) veniva accompagnato da vere e proprie orchestre sinfoniche, di 40-50 elementi! E va da sé che molte colonne sonore, a partire da quella, saccheggiarono anche la musica sinfonica per supportare le più svariate situazioni. E ovviamente Wagner era una fonte inesauribile di materia prima da utilizzare all’uopo: nel citato film, Rienzi e la Cavalcata delle Valchirie la facevano da padroni, ma Ross ci notifica che da allora almeno mille pellicole si sono servite di Wagner! E se ne sono servite in varie forme, anche contraddittorie, un po’ come era accaduto per la letteratura o la pittura: adozione entusiastica delle innovazioni wagneriane o parodia-condanna delle stesse. Allo stesso modo con cui aveva esaminato nei precedenti capitoli l’influenza di Wagner sulle arti prima dell’avvento del cinematografo, ora Ross si dilunga in dotte e documentatissime (a volte perfino eccessivamente dettagliate) osservazioni sull’influenza del Maestro sul mondo del cinema, vista in ottica artistica e in ottica geografica. Quindi si parla di USA, di Francia, di GranBretagna, Germania, Russia (Eisenstein) e anche Italia (massimamente e ovviamente Visconti, ma anche Fellini e Lina Wertmüller). Dopo aver analizzato l’impiego (sui due fronti contrapposti) di Wagner durante la WWII, Ross chiude in bellezza – per così dire – con Apocalypse now dove la Walkürenritt accompagna (appropriatamente?) le allegre scampagnate degli elicotteri yankee, così diligentemente impegnati a inondare i Vietcong di… democrazia al napalm.

15. La ferita. Il wagnerismo dopo il 1945.

Il capitolo finale del lavoro di Ross ci porta nel gran mare della contemporaneità, un autentico vortice di immagini, apparizioni, sorprese, illusioni e delusioni che personalmente fatico a sintetizzare in poche righe. Mi limito a citarne la conclusione, che Ross affida alle Figlie del Reno: Traulich und treu ist’s nur in der Tiefe… 

Postludio

Ross chiude con una ricostruzione del percorso – dalle stalle alle stelle – da lui compiuto nel suo approccio a Wagner. Con una conclusione (personalmente la condivido al 100%) che perfettamente si attaglia a quella – indecifrabile - del Ring

La visione svanisce, il sipario cala, e ci trasciniamo di nuovo in silenzio nel mondo così com’è.